Luigi Speranza -- Grice e Fracastoro: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’anima – scuola di Verone –
filosofia veronese – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Verona). Filosofo veronese. Filosofo veneto. Filosofo
italiano. Verona, Veneto. Grice: “I love Fracastoro; for one, I love a
physician, since I came to know quite a few – at Richmond!” “Grice: “I love Fracastoro;
he philosophised on mainly three topics: the ‘soul’ – in a philosophical
dialogue entitled after him, Fracastoro; on poetics, in a dialogue which he
named after his poet friend Navagero; and third, on ‘intellezione,’ in a dialogue
which he named after another friend, one Torre, “Torrius,” – Grice: “The fact
that Gerolamo, or Girolamo, is still at Verona, is fascinatingly charming!” Considerato uno dei più grandi filosofi di tutti i
tempi. Insegna logica a Padova. Fu archiatra di Paolo III, al quale dedica
“Homocentrica”. A lui è dedicato il cratere F. presente sulla Luna. Fondatori
della patologia (teoria del patire). È il primo ad ipotizzare e verificare che
una infezione e dovuta a un germe portatore di una malattia, con la capacità di
moltiplicarsi nel corpo dell’organismo e di contagiare altri attraverso la
respirazione o altre forme di contatto. “Sifilide, ossia sul “mal francese,” sotto
forma di poemetto in esametri e il trattato "Sul contagio e sulle malattie
contagiose.” Il trattato è all'origine della patologia, o teoria del patire. Fu
il primo a scoprire che le code cometarie si presentano sempre lungo la
direzione del Sole, ma in verso opposto ad esso. Descrisse uno strumento in
funzione astronomica, poi realizzato da Galilei: il cannocchiale. Scrive III
dialoghi filosofici: Naugerius sive de Poetica (dialogo di estetica), Turrius
sive de Intellectione e l'incompiuto Fracastorius sive de Anima. F., con il nome di Giroldano, viene
incontrato da Dago, personaggio di un fumetto argentino creato da Robin Wood e
Alberto Salinas, in una delle sue avventure, per la precisione nel n. 10 anno
XIV del mensile, proprio mentre Girolamo interroga una prostituta in cerca di
informazioni per il suo poema sulla sifilide.
Una leggenda sul Fracastoro fa parte della storia popolare veronese. Una
sua statua è posta su un arco alla fine di via Fogge, che da nord si innesta in
Piazza dei Signori (comunemente detta anche Piazza Dante). La statua
rappresenta la sua figura intera con in mano il mondo, che il popolo del tempo
ha ribattezzato la bala de F., dove bala è il termine dialettale che indica
palla. In quella strada vi era il passaggio per il vecchio tribunale da parte
di giudici e avvocati ed era vicina a tutti i palazzi del potere di quel tempo.
La bala è legata ad una profezia: cadrà sulla testa del primo galantuomo che
passerà sotto. Finora non è mai successo. Il popolo di Verona usa questa storia
per sbeffeggiare gli uomini del potere. Enrico Peruzzi, Dizionario Biografico
degli Italiani, Ettore Bonora, Il "Naugerius" del F.,
Milano,Garzanti, Storia della Letteratura italiana, Dal Piaz Giorgio, Padova e
la Scuola Veneta nello sviluppo e nel progresso delle Scienze geologiche. Mem.
R. Ist. Geologia Univ. Padova, Dal Piaz Giorgio, Cenni sulla vita e le opere di
carattere geologico di Valleri senior. In: “Il metodo sperimentale in Biologia
da Valleri ad oggi”, Simposio nel III Centenario della nascita di Valleri,
Univ. Studi Padova e Acc. Patavina Sci. Lett. Arti, Questo testo proviene in
parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera
del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze, F., Patavii,
excudebat Josephus Cominus, Opere, Venetiis, apud Iuntas, Homocentrica,
Venetiis, Sifilide Tiziano, Ritratto di Girolamo Fracastoro. Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enrico Peruzzi, F.,
Girolamo», in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Vita condizione propria della materia vivente Lingua Segui
Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri
significati, vedi Vita (disambigua). La vita è l'insieme delle caratteristiche
degli esseri viventi che manifestano processi biologici come l'omeostasi, il
metabolismo, la riproduzione e l'evoluzione. Alberi in una foresta (Muir Woods
National Monument, California, USA). La biologia, ovvero la scienza che studia
la vita, ha portato a riconoscerla come proprietà emergente di un sistema
complesso che è l'organismo vivente. L'idea che essa sia supportata da una
«forza vitale» è stato argomento di dibattito filosofico, che ha visto contrapporsi
i sostenitori del meccanicismo da un lato e dell'olismo dall'altro, circa
l'esistenza di un principio metafisico in grado di organizzare e strutturare la
materia inanimata. La comunità scientifica non concorda ancora su una
definizione di vita universalmente accettata, evitando ad esempio di
qualificare come organismo vivente i sistemi come virus o viroidi.
Gli scienziati concordano comunque sul fatto che ogni essere vivente ha
un proprio ciclo vitale durante il quale si riproduce, adattandosi all'ambiente
mediante un processo di evoluzione, ma ciò non implica la vita perché qualunque
caratteristica che hanno i viventi può essere ritrovata in altre situazioni non
considerate viventi, ad esempio alcuni virus software che hanno un ciclo vitale
e di riproduzione nel loro ambiente informatico ma non sono vivi, o alcuni
cristalli che crescono e si riproducono, e molti altri esempi. Una più basica
serie di caratteristiche della Vita sono state avanzate, come ad esempio un
sistema composto da molecole omochirali che si mantiene in omeostasi e capace
di reazioni autocatalitiche (Tour). Le forme di vita che sono o sono
state presenti sulla Terra vengono classificate in animali, cromisti, piante,
funghi, protisti, archaea e batteri. Definizione Mayr Riguardo alla definizione
di cosa sia la vita c'è ancora dibattito tra scienziati e tra filosofi. Secondo
il biologo Mayr sarebbe sufficiente individuare le caratteristiche fondamentali
della vita da un punto di vista materiale: «Il definire la natura
dell'entità chiamata vita è stato uno dei maggiori obiettivi della biologia. La
questione è che vita suggerisce qualcosa come una sostanza o forza, e per
secoli filosofi e biologi hanno provato ad identificare questa sostanza o forza
vitale senza alcun risultato. In realtà, il termine vita, è puramente la
reificazione del processo vitale. Non esiste come realtà indipendente»
(Mayr) Il biologo Driesch sosteneva invece che la vita non potesse essere
compresa con gli strumenti delle scienze meccaniche, come la fisica, le quali
si occupano esclusivamente dei fenomeni non biologici, ragion per cui la
biologia andrebbe separata da queste discipline:[5] «La vita non è [...]
una connessione speciale di eventi inorganici; la biologia, pertanto, non è
un'applicazione della chimica e della fisica. La vita è qualcosa di diverso, e
la biologia è una scienza indipendente.» (Hans Driesch, The science and
philosophy of the organism, trad. ingl., Londra) Uno studio approfondito in
merito è stato fatto dal fisico Erwin Schrödinger. Nella sua dissertazione
Schrödinger nota per prima cosa la contrapposizione tra la tendenza dei sistemi
microscopici a comportarsi in maniera "disordinata", e la capacità
dei sistemi viventi di conservare e trasmettere grandi quantità di informazione
utilizzando un piccolo numero di molecole, come dimostrato da Mendel, che
richiede necessariamente una struttura ordinata. In natura una disposizione
molecolare ordinata si trova nei cristalli, ma queste formazioni ripetono
sempre la stessa struttura, e sono quindi inadatte a contenere grandi quantità
di informazione. Schrödinger postulò quindi che l'unico modo in cui il gene può
mantenere l'informazione è una molecola di un "cristallo aperiodico"
cioè una molecola di grandi dimensioni con una struttura non ripetitiva, capace
quindi di sufficiente stabilità strutturale e sufficiente capacità di contenere
informazioni. In seguito questo darà l'avvio alla scoperta della struttura del
DNA da parte di Franklin, Watson e Crick; oggi sappiamo che il DNA è proprio
quel cristallo aperiodico teorizzato da Schrödinger. Seguendo questo
ragionamento Schrödinger arrivò ad un apparente paradosso: tutti i fenomeni
fisici seguono il secondo principio della termodinamica, quindi tutti i sistemi
vanno incontro ad una distribuzione omogenea dell'energia, verso lo stato
energetico più basso, cioè subiscono un costante aumento di entropia. Questo
apparentemente non corrisponde ai sistemi viventi, i quali si trovano sempre in
uno stato ad alta energia (quindi un disequilibrio). Il disequilibrio è
stazionario, perché i sistemi viventi mantengono il loro ordine interno fino
alla morte. Questo, secondo Schrödinger, significa che i sistemi viventi
contrastano l'aumento di entropia interno nutrendosi di entropia negativa, cioè
aumentando a loro favore l'entropia dell'ambiente esterno. In altre parole gli
organismi viventi devono essere in grado di prelevare energia dall'ambiente per
ricompensare l'energia che perdono, e quindi mantenere il disequilibrio
stazionario. Questo è ciò che in biologia è stato riconosciuto nei fenomeni di
metabolismo e omeostasi. Secondo Mayr, è un'entità viva, quindi con
peculiarità che la distinguono dalle entità non viventi, l'organismo vivente,
soggetto alle leggi naturali, le stesse che controllano il resto del mondo
fisico. Ma ogni organismo vivente e le sue parti viene controllato anche da una
seconda fonte di causalità, i programmi genetici. L'assenza o la presenza di
programmi genetici indica il confine netto tra l'inanimato e il mondo vivente.
Unendo il concetto del disequilibrio con quello della riproduzione (cioè della
trasmissione ordinata delle informazioni), come espressi da Schrödinger, si
ottiene quello che può essere definito vivente: un sistema termodinamico
aperto, in grado di mantenersi autonomamente in uno stato energetico di
disequilibrio stazionario e in grado di dirigere una serie di reazioni chimiche
verso la sintesi di sé stesso. Questa definizione è largamente accettata
nell'ambito della biologia, nonostante ci sia ancora dibattito in merito.
Basandosi su questa definizione un virus non sarebbe un organismo vivente,
perché può arrivare a riprodursi ma non può farlo autonomamente, in quanto si
deve appoggiare al metabolismo di una cellula ospite, così come non sono esseri
viventi le semplici molecole autoreplicanti, in quanto sottoposte all'entropia
come tutti i sistemi non viventi. La ricerca sui Grandi virus
nucleo-citoplasmatici a DNA, ed in particolare la scoperte dei mimivirus,
quindi l'eventualità che costituiscano anello di congiunzione tra i virus,
definiti qui non viventi, e i più semplici viventi comunemente accettati, ha
contribuito ad estendere il dibattito e a rendere più sfumata la linea di
confine tra viventi e non, ed alcune ipotesi minoritarie, suggeriscono che i
domini Archaea, Bacteria, ed Eukarya possano originare da tre differenti ceppi
virali e i plasmidi possono essere visti come forme di transizione tra virus a
DNA e cromosomi cellulari. Oltre la definizione di Schrödinger, vari studiosi
hanno proposto diverse caratteristiche che nel loro insieme dovrebbero essere
considerate sinonimo di vita: Omeostasi: regolazione dell'ambiente interno al
fine di mantenerlo costante anche a fronte di cambiamenti dell'ambiente
esterno. Metabolismo: conversione di materiali chimici in energia da sfruttare,
trasformazione di diverse forme di energia e sfruttamento dell'energia per il
funzionamento dell'organismo o per la produzione di suoi componenti. Crescita:
mantenimento di un tasso di anabolismopiù alto del catabolismo, sfruttando energia
e materiali per la biosintesi e non solo accumulando. Interazione con
l'ambiente: risposta appropriata agli stimoli provenienti dall'esterno.
Riproduzione: l'abilità di produrre nuovi esseri simili a sé stesso.
Adattamento: applicato lungo le generazioni costituisce il fondamento
dell'evoluzione. Queste caratteristiche sono, per la loro peculiarità, comunque
passibili di critiche e di parzialità. Un ibrido non riproducentesi non può
considerarsi come non vivo, così pure un organismo che ne abbia perduto la
capacità nel corso del tempo. Parimenti un'ipotetica situazione che obblighi la
dipendenza da strutture estranee per mantenere l'omeostasi, un organismo
strutturalmente non in grado di adattarsi ulteriormente all'ambiente e altre
singole deficienze, difficilmente, se prese singolarmente, possono far
escludere di avere a che fare con un vivente. Organismi viventi Magnifying
glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Organismo vivente. La
vita è caratteristica degli organismi viventi. In generale la vita si considera
una proprietà emergentedegli esseri viventi. Questo significa che si tratta di
una caratteristica posseduta dal sistema, ma non posseduta dai suoi singoli
componenti. Un organismo vivente, quindi, è vivo, mentre non sono vive le sue
singole parti. Condizioni necessarie alla vitaModifica L'esistenza della vita,
così come la conosciamo,necessita di particolari condizioni ambientali. I primi
organismi comparsi sulla Terra si sono per necessità sviluppati in base alle
condizioni preesistenti, ma in seguito a volte sono stati gli organismi stessi
a modificare l'ambiente, a vantaggio proprio o di altri organismi. È il caso
della produzione di ossigeno da parte dei cianobatteri, che ha modificato
profondamente l'atmosfera terrestre causando un'estinzione di massa (detta
catastrofe dell'ossigeno) e rendendo possibile la colonizzazione dell'ambiente
terrestre. Inoltre col tempo si sono determinate sempre più interazioni
complesse tra i diversi organismi, facendo sì che nella maggior parte degli
ambienti la vita di determinate specie sia possibile grazie alla presenza di
altri organismi che creano le condizioni necessarie (spesso si tratta di
microorganismi, come nel caso dei batteri azotofissatori, che trasformano
l'azoto molecolare presente nell'aria in molecole utilizzabili per le
piante). Ogni essere vivente può sopravvivere all'interno di determinati
limiti relativi ai fattori fisici dell'ambiente (temperatura, umidità,
radiazione solare, ecc.). Al di fuori di questi limiti la vita è possibile solo
per brevi periodi, se non impossibile del tutto. Queste condizioni, che sono
diverse per ogni specie, sono definite range di tolleranza. Per esempio una
cellula batterica ad una temperatura troppo alta subirà la denaturazione delle
sue proteine, mentre ad una temperatura troppo bassa subirà il
congelamentodell'acqua che contiene. In entrambi i casi morirà. Anche le
caratteristiche chimiche costituiscono fattore limitante; pH, concentrazioni
estreme di forti ossidanti, elementi chimici in concentrazione tossiche,
eccetera, costituiscono spesso un muro quasi invalicabile allo sviluppo della
vita. Lo studio di organismi estremofili, ha contribuito enormemente
all'individuazione delle condizioni ritenute minime per lo sviluppo della vita,
nonostante risulti chiaro che la definizione di ambiente "estremo" è
comunque relativa e diversa per ogni organismo. Determinate esigenze sono
comuni a tutti gli organismi viventi. Affinché ci sia vita è necessario che si
disponga di energia, al fine di mantenere il disequilibrio energetico del
sistema (vedi sopra). La maggior parte degli organismi autotrofi sfrutta
l'energia solare, attraverso la quale compie la fotosintesi, ottenendo i
nutrienti dalla materia inorganica. Questi organismi, che comprendono piante,
alghe e cianobatteri, si dicono fotoautotrofi. Altri autotrofi più rari
sfruttano invece l'energia derivante da processi chimici, e si definiscono
chemioautotrofi. Le altre specie, dette eterotrofi, sfruttano l'energia chimica
dai composti organici prodotti da altri organismi, nutrendosi dell'organismo
stesso, di una sua parte o dei suoi scarti. È necessario inoltre affinché
ci sia vita che ci sia disponibilità dei principali costituenti biologici, cioè
carbonio, idrogeno, azoto, ossigeno, fosforo, e zolfo, nell'insieme detti anche
CHNOPS. Gli organismi autotrofi li ricavano principalmente in forma inorganica
dall'ambiente, mentre quelli eterotrofi sfruttano principalmente i composti
organici di cui si nutrono. Tutte le forme di vita conosciute, infine,
necessitano di abbondanza d'acqua, anche se alcuni organismi hanno sviluppato
adattamenti che permettono loro di conservare le proprie riserve di liquidi a
lungo, così da potersi allontanare notevolmente dalle fonti d'acqua.
Queste condizioni sono condivise dalla quasi totalità delle forme di vita
conosciute, tuttavia non è possibile escludere l'esistenza, sulla terra o su
altri pianeti, di organismi in grado di vivere in condizioni completamente
diverse. Per esempio è stato trovato nel Mono Lake in California un batterio,
Halomonas sp., ceppo GFAJ-1, in grado di sostituire il fosforo nelle proprie
molecole con l'arsenico, che proprio per la sua similitudine col fosforo e per
la sua tendenza a sostituirlo nelle molecole biologiche, è tossico per la
maggior parte degli organismi conosciuti, escludendo quelli che lo utilizzano
come ossidante nella respirazione, al pari di numerosi composti utilizzati a
tale scopo da differenti organismi. In seguito questa scoperta è stata messa in
dubbio, e sono in corso verifiche per accertare l'eventuale eccezionalità della
scoperta. Gli esobiologi ipotizzano una vita basata sulla chimica del silicio
anziché del carbonio. Origine della vita Magnifying glass icon mgx2.svgLo
stesso argomento in dettaglio: Origine della vita ed Evoluzione della vita.
Secondo i modelli attualmente accettati la vita sulla terra è comparsa grazie
alle condizioni presenti tra 4,4 e 2,7 miliardi di anni fa, che hanno permesso
lo sviluppo di macromolecole come gli amminoacidi e gli acidi nucleici, come
dimostrato dall'esperimento di Miller-Urey, dalle quali in seguito si sono
originati polimeri come i peptidi e i ribozimi. Il passaggio dalle
macromolecole alle protocellule è l'aspetto più controverso della questione,
sul quale sono state avanzate diverse ipotesi, come quella del mondo ad RNA,
quella del mondo a ferro-zolfo e la teoria delle bolle. A partire dalle
protocellule gli organismi hanno poi raggiunto lo stadio attuale in cui li
conosciamo tramite processi, spiegati dalla teoria dell'evoluzione, lungo un
ramificato processo di evoluzione della vita. Vita extraterrestr glass
icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Esobiologia ed Extraterrestre.
Qualunque forma di vita non propria del pianeta Terra viene detta
"extraterrestre". Questo termine può riferirsi, in maniera più ampia,
a qualunque oggetto al di fuori della stessa realtà terrestre. Tutt'oggi l'uomo
non conosce alcun esempio di essere vivente extraterrestre e il dibattito tra
scettici e sostenitori della probabile esistenza di forme di vita aliene a
quelle terrestri è molto acceso. Nella cultura umanisticaModifica
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Vita
(filosofia) e Filosofia della vita. Prima che la scienza fornisse spiegazioni
scientifiche sulla vita, l'uomo tentò di fornire risposte riguardo ai fenomeni
dei viventi tramite la mitologia, la religione e la filosofia. Nella
cultura letteraria e filosofica, l'esistenza umana è stata associata alle
emozioni, alle passioni e in generale alla storia di ciascuna persona. Poeti,
letterati, filosofi e pensatori hanno associato alla vita significati diversi e
presentando una personale concezione di vita umana. Alcune posizioni hanno dato
vita a vere e proprie correnti di pensiero, come il vitalismo, il pessimismo, o
il nichilismo. Diritto e questioni etiche sulla vita umana Magnifying
glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Diritti umani e
Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Nelle società organizzate, la
vita umana rappresenta un valore che richiede attenzione in termini di diritto.
Questioni di tipo etico determinano le scelte circa la difesa e la salvaguardia
della vita, quando questa è messa in discussione da altri tipi di scelte, come
la pena di morte, l'aborto o l'eutanasia. Secondo attente analisi e ricerche la
maggior parte delle persone possiede una vita infelice per cause di tipo
affettive, morali, sociali, personali e cause derivate dalle relazioni amorose,
da ciò le persone possono evidenziare idee suicide o entrare in fasi depressive.
A titolo esemplificativo può essere appropriato riportare le seguenti
riflessioni che bene descrivono lo stato d'animo della Bovary, travolta dalle
devastanti vicende passionali, che la indurranno infatti al suicidio: Da che
dipendeva quella insufficienza della vita, quell'istantaneo imputridirsi delle
cose alle quali essa si appoggiava? Ogni sorriso nascondeva uno sbadiglio di
noia, ogni gioia una maledizione, ogni piacere il suo disgusto. Vita sintetica Dalla
ricerca delle proprietà oggettive che definiscano il concetto di vita si è
sviluppato un ramo della biologia chiamato biologia sintetica che utilizza
conoscenze di biologia molecolare, biologia dei sistemi, biologia
evoluzionistica e biotecnologie con l'idea di progettare sistemi biologici in
maniera artificiale in laboratorio. NASA Life's Working Definition: Does It Work?, su nasa.gov.Biase,
I saperi della vita: biologia, analogia e sapere storico, Giannini Five Kingdom
Classification System, su ruf.rice Mayr, What is tha meaning of
"life" The nature of life, Cleland, University of Colorado, Cambridge
University press, Driesch, Philosophie des Organischen, Leipzig, Engelmann, Ed.
originale: Philosophie des Organischen, Engelmann, Leipzig Schrödinger, What is
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correlate Biologia Evoluzione Biodiversità Morte AWikizionario contiene il
lemma di dizionario «vita» vita, su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. vita, in Dizionario di filosofia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, Vita, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Modifica su Wikidata Origine della vita, su minerva.unito.it.
La vita e l'evoluzione, su vita-morte-evoluzione.bravehost.com. Vita, in
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Portale Biologia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di Biologia
Biologia scienza che studia la vita Organismo vivente entità dotata di
vita Che cos'è la vita? Wikipedia Il contenuto Vita (filosofia). Il
concetto di vita in senso biologico non coincide con quello filosofico.
Genericamente possiamo riferirci alla biologia nel definire la vita come la
condizione di esseri che, caratterizzati da una forma precisa e da una
struttura chimica particolare, hanno la capacità di conservare, sviluppare e
trasmettere forma e costituzione chimica ad altri organismi. In filosofia
la definizione del concetto di vita è diversa e più complessa poiché risente
della scarsità lessicale presente nella lingua italiana che usa un unico
termine per una diversità di significati: in senso generale si adopera il lemma
"vita" per indicare la vita animale, quella umana, quella oltreumana
e, nei riguardi dell'uomo in particolare: la vita corporea, quella psichica,
quella spirituale. Pensiero antico Nel pensiero greco antico vengono usati
invece tre termini a seconda del loro specifico significato: ζωή: il
principio, l'essenza della vita che appartiene in comune, indistintamente,
all'universalità di tutti gli esseri viventi e che ha come concetto contrario
la non-vita e non, come si potrebbe pensare, la morte poiché questa riguarda il
singolo essere che cessa, lui e soltanto lui, di vivere; βίος: indica le
condizioni, i modi in cui si svolge la nostra vita. Zoé è dunque la vita che è
in noi e per mezzo della quale viviamo (qua vivimus), bios allude al modo in
cui viviamo (quam vivimus), cioè le modalità che caratterizzano ad esempio la
vita contemplativa, la vita politica ecc. per le quali la lingua greca usa
appunto il termine bios accompagnato da un aggettivo qualificante; ψυχή: nella
lingua greca del Nuovo Testamento ricorre nel significato di anima-respiro, il
soffio" vitale: ὁ φιλῶν τὴν ψυχὴν αὐτοῦ ἀπολλύει αὐτήν, καὶ ὁ μισῶν τὴν
ψυχὴν αὐτοῦ ἐν τῷ κόσμῳ τούτῳ εἰς ζωὴν αἰώνιον φυλάξει αὐτήν. Chi ama la sua
vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo la conserverà per la vita
eterna» Nella filosofia greca antica tutto il reale è concepito come
vivente secondo la teoria dell'ilozoismo che nella ricerca del principio
introduce considerazioni di argomento biologico per cui: Diogene di
Apolloniaconsidera l'aria come vita, Empedocle fa risultare la vita dalla
armonica fusione dei quattro elementi primigeni, Anassagora intuisce l'origine
di tutti gli esseri viventi nell'aggregazione dei σπέρματα. Tutti questi sono
elementi materiali viventi che vengono connessi con il concetto di psyché, come
nel Timeo di Platone dove l'intero mondo è un organismo vivente. Un concetto di
anima del mondo, che risale probabilmente a tradizioni orientali, orfichee
pitagoriche. Secondo Platone il mondo è infatti una sorta di grande animale, la
cui vitalità generale è supportata da quest'anima, infusagli dal demiurgo, che
lo plasma a partire dai quattro elementifondamentali: fuoco, terra, aria,
acqua. Pertanto, secondo una tesi probabile, occorre dire che questo mondo
nacque come un essere vivente davvero dotato di anima e intelligenza grazie
alla Provvidenza divina. Anche per Aristotele la vita s'identifica con l'anima,
ἐντελέχεια, sia essa vegetativa, sensitiva o intellettiva, che è nel sinolo
causa e principio del corpo vivente. Con Aristotele il primato della forma
sulla materia porta alla contrapposizione del βίος ϑεωρητικός al βίος
πρακτικός, al primato della vita contemplativa sulla vita attiva, come diranno
i filosofi medioevali, vale a dire la superiorità della conoscenza teoretica,
che permette all'uomo di cogliere la verità di per se stessa mentre quella
pratica cerca anch'essa la verità ma come mezzo in vista dell'azione, al fine
di cambiare la realtà: è giusto anche chiamare la filosofia scienza della
verità. Infatti della filosofia teoretica è fine la verità, di quella pratica
l'opera, poiché i filosofi pratici, anche se indagano il modo in cui stanno le
cose, non studiano la causa di per se stessa, ma in relazione a qualcosa ed
ora. La visione aristotelica sarà fatta propria anche dal neoplatonismo, che
nella sua dottrina emanatistica e nella concezione dell'anima come psiche
cosmica, stabilirà la connessione tra il mondo ideale, della generazione delle
diverse dimensioni della realtà appartenenti alla stessa sostanza divina, e
quello materiale delle realtà empiriche. Il pensiero cristiano e
medioevaleModifica Nella concezione cristiana nel Vecchio Testamento la vita
umana è strettamente collegata alla volontà benefica di Dio mentre la morte è
rapportata al peccato. Nel Nuovo Testamento la connessione vita-divino si
consolida nel messaggio di Gesù che assicura la resurrezione, una vita futura a
chi crede in lui. Ego sum resurrectio et vita: qui credit in me, etiam si
mortuus fuerit, vivet: et omnis qui vivit et credit in me, non morietur in
aeternum. Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore,
vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. La filosofia
medioevale accoglie l'eredità neoplatonica dell'importanza del βίος ϑεωρητικός
per una vita vissuta religiosamente e misticamente come strumento per giungere
alla vita oltremondana e riprende la concezione aristotelica della vita
biologica adattando la sua definizione dell'anima come l'atto puro di un corpo
che ha la vita in potenza alla teoria dell'immortalità dell'anima:
Filosofia moderna La vita viene concepita come appartenente a un essere vivente
che deve essere studiato come se fosse una macchina distinguendo nettamente ciò
che riguarda gli elementi fisici da quelli psichici. Questa tesi, dove si
cimentano in particolare Cartesio e Hobbes viene contrastata da Leibniz che
definendo la monade la riferisce al principio aristotelico dell’ἐντελέχεια intesa
come la tensione di un organismo che mira a realizzare se stesso secondo leggi
proprie, passando dalla potenza all'atto. Queste concezioni vengono superate
dal vitalismo che eredita dal 1600 i motivi neoplatonici e magici-alchemici dei
filosofi rinascimentali FICINO (si veda) e PICO (si veda). I pensatori
dell'età romantica, Herder, Hölderlin, Schiller, Jacobi, nel filone segnato
dalla Critica della ragion pratica e dalla Critica del giudizio kantiane,
concepiscono la vita inserendola nella nuova visione della filosofia della
natura sviluppata da Goethe, Schelling e Hegel il quale in particolare vuole contrastare
sia la teoria intellettualistica che vede la vita come qualcosa di
incomprensibile sia quella romantica che contrappone l'energia della vita al
freddo sapere, riportando la vita nell'ambito dello sviluppo dialettico
dell'Idea (tesi) che si oggettiva come natura (antitesi) per approdare alla
sintesi dell'Idea che torna su se stessa colma di realtà. Si costituisce
la Lebensphilosophie, la filosofia della vita che rifacendosi all'opera di
Lukács La distruzione della ragione, si esprime in una varietà di autori che
elaborano una dottrina variegata e non unitaria tenuta assieme dall'antinomia
vita-ragione. Così Dilthey, Rickert, Simmel, Scheler, Klages, e specialmente
Unamuno, Gasset, Eugeni d'Ors e altri, si rifanno a elementi del romanticismo,
di Arthur Schopenhauer, di Nietzsche oppure riconducono la razionalità a
qualcosa di immanentealle stesse strutture materiali della vita. Una
«vitalizzazione della ragione» che porta all'irrazionalismo, al misticismo,
all'amoralismo: La ragione tende a razionalizzare la vita, nemica della
ragione; qualora essa conseguisse il suo intento, si avrebbe la morte e la
negazione della vita. Nello stesso tempo la vita tende a vitalizzare la
ragione. Su queste basi speculative la filosofia francese con Deleuze ha
sviluppato una filosofia della vita che in questo autore, attingendo agli studi
storico-epistemologici di Canguilhem, porta alla fondazione di una visione
immanentistica della vita che ha come fulcro il concetto di
differenza-ripetizione tutte le identità non sono che simulate, prodotte
come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della
differenza e della ripetizione. Sulla scia del pensiero di Nietzsche, la
differenza è concepita come affermazione pura, come atto creativo e l'identità
come un che di selettivo, che torna solo per affermare la
differenza. Attingendo alla filosofia della vita Foucault avanza la teoria
del "biopotere" cioè le pratiche con le quali la rete di poteri
gestisce la gestione del corpo umano nella società dell'economia e
finanza capitalista, la sua utilizzazione e il suo controllo la gestione del
corpo umano come specie, base dei processi biologici da controllare per una
biopoliticadelle popolazioni. Ove non indicato diversamente, le informazioni
contenute nel testo della voce hanno come fonte: Dizionario di filosofia
Treccani alla voce corrispondente Possenti, La questione della vita Internet
Archive. Heidegger, Concetti fondamentali della filosofia aristotelica, Milano,
Adelphi, Possenti, Internet Archive. ^ Richard Broxton Onians, The Origins of European
Thought, Cambridge, N. T. Gv. Platone,
Timeo, Aristotele, De anima, Aristotele,
II libro della Metafisica, Gv. Lunardi, Attualità di Unamuno, Padova : Liviana
Deleuze, Differenza e ripetizione, Il Mulino; Foucault, La volontà di sapere,
Feltrinelli, Voci correlate Modifica Esistenza Naturalismo (filosofia)
Filosofia della natura Vitalismo Portale Filosofia: Psiche termine
della psicologia Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita
Panpsichismo teoria Vitalismo corrente di pensiero che esalta la vita. Il
vitalismo è una corrente di pensiero che esalta la vita intesa principalmente
come forza vitaleenergetica e fenomeno spirituale, al di là del suo aspetto
biologico materiale. Raffigurazione di Venere, principio della vita e
della fertilità che nasce dall'acqua PrincipiModifica Il vitalismo ritiene che
i fenomeni della vita, costituiti da una "forza" particolare, non
siano riconducibili interamente a fenomeni chimici, ed in particolare che vi è
una netta demarcazione tra l'organico e l'inorganico, che la vita sulla terra
ha avuto un'origine divina e non solo da un'evoluzione risalente a circa 3800
milioni di anni fa, come sostengono i biologicontemporanei. Il vitalismo
può essere anche inteso, nell'ottica nietzschiana e dannunziana, come
l'esaltazione della vita senza limiti né freni ideologici o morali, come la
ricerca del godimento (dionisiaco), come la celebrazione dell'istinto e di
quella volontà di potenzache apparterrebbe solo a pochi eletti, i quali sanno
imporre il proprio comando sui più deboli. Questa forza può così rigenerare un
mondo che Nietzsche e D'Annunzio ritengono esausto. In una tale ottica
l'evoluzionismo non sarebbe in contrasto col vitalismo, ma darebbe anzi la
conferma che la natura si serve della selezione naturale al fine di perpetuare
la propria volontà di vivere attraverso la sopravvivenza dei migliori. A
differenza del vitalismo dannunziano, che nelle sue manifestazioni racchiude
molti degli elementi tipici dell'estetismo decadente, il vitalismo nietzschiano
va considerato anche nella sua accezione dionisiaca di accettazione tragica
della vita, di un'accettazione tout court della vita, finanche nei suoi aspetti
più truci e sofferenti. StoriaModifica Bambino nel grembo materno
disegnato da Vinci. Pur con radici antiche, il vitalismo si è sviluppato come
sistema teorico tra la metà del Settecento e la metà dell'Ottocento. Si tratta
di una concezione ereditata in gran parte dal neoplatonismo e dalla filosofia
rinascimentale, secondo cui le idee platoniche, oltre a trascendere il mondo,
sono anche immanenti alla natura, diventando la ragione costitutiva dei singoli
organismi e di tutto ciò che esiste. Il cosmo, in quest'ottica, risulta animato
da un principio intelligente, veicolato in esso da una comune e universale
Anima del mondo. Se Leibniz proseguì sulla stessa lunghezza d'onda, attribuendo
vita e capacità di pensiero anche alla materia inerte, e schierandosi contro il
meccanicismo di Cartesio e degli empiristi,[4] Schelling vedeva invece nel
vitalismo una concezione irrazionale e perciò da scartare, in quanto affine al
noumeno kantiano, preferendo piuttosto parlare di evoluzionismo finalistico:
questo era da lui concepito agli antipodi sia del vitalismo, ma anche del
determinismo meccanico, che è incapace di cogliere la profonda unità che
pervade la natura, riducendola ad un assemblaggio di singole parti. Dopo aver
trovato espressione anche nella poetica di Giacomo Leopardi,[6] il vitalismo
riemerse nel Novecento con Bergson, il quale, in una rinnovata polemica contro
il determinismo e il materialismo, torna ad affermare che la vita biologica,
come del resto la coscienza, non è un semplice aggregato di elementi composti
che si riproduce in maniera sempre uguale a se stessa. La vita invece è una
continua e incessante creazione che nasce da un principio assolutamente
semplice, non rieseguibile deliberatamente, né componibile a partire da
nient'altro. Tentativi di spiegazione in laboratorio Wer will was Lebendiges
erkennen und beschreiben, Sucht erst den Geist heraus zu treiben, Dann hat er
die Teile in seiner Hand, Fehlt, leider! nur das geistige Band. Encheiresin naturaenennt's
die Chemie, Spottet ihrer selbst und weiß nicht wie. Per capire e descrivere una realtà vivente, si cerca sempre
innanzitutto di cavarne la vita; allora si ha la mano piena di frammenti
inerti, a cui manca solo - purtroppo - il nesso della vita. La chimica le dà il
nome di encheiresin naturae. Si burla di se stessa e nemmeno se ne avvede. Mefistofele
rivolto a una giovane matricola universitaria, nel Faust di Goethe. Figure di
omuncoli disegnate da Vallisnieri, ritenuti i semi in grado di operare la
generazione dell'uomo Dal punto di vista biologico ci sono stati diversi
tentativi di costruire la vita in laboratorio partendo da basi il più possibile
scientifiche, per cercare di ridurre gli aspetti maggiormente irrazionali della
concezione della vita, o per poterne dare delle spiegazioni quantomeno
plausibili. I più importanti sviluppi della biochimica e dell'ingegneria
genetica sono stati i seguenti: il chimico tedesco Wöhler, in
collaborazione con Liebig, effettua la prima sintesi organica, la sintesi
dell'urea. Viene pubblicata la teoria dell'evoluzione di Darwin. Buchner
dimostra che la fermentazione può avvenire anche senza cellule di lievito vive
ma solo con loro estratti. Stanley cristallizza il primo virus, il virus del
mosaico del tabacco. Urey prepara i primi composti organici deuterati. Miller
ottiene per sintesi le prime molecole organiche. Si tratta però, allo stato, di
procedimenti meramente meccanici, che nulla dicono sul perché un certo composto
dovrebbe dare la vita a differenza di un altro. Tali esperimenti si limitano a
rieseguire in laboratorio i procedimenti naturali di generazione della vita, senza
che questi siano compresi a fondo; proprio perché ne sono un'imitazione, tali
procedimenti sembrano non differire qualitativamente da quelli operanti in
natura. Secondo il paleontologo Teilhard de Chardin, che studiando la
storia dell'evoluzione della Terra elaborò la cosiddetta legge di complessità e
coscienza, esiste all'interno della materia una tendenza a diventare
maggiormente complessa e al tempo stesso ad accrescere una propria coscienza,
passando dallo stato inanimato a quello via via più evoluto. La coscienza
sarebbe dunque il fine nascosto a cui tendono le leggi della natura, e che
potrebbe essere in grado di spiegarle. Il biologo e filosofo Driesch ricorse al
termine del LIZIO entelechia per designare questa forza vitale in grado di
strutturare la materia organica secondo leggi immateriali. Il desiderio di
costruire la vita totalmente al di fuori delle vie naturali ricorre invece
soprattutto nella fantascienza; a questo filone appartiene ad esempio il
romanzo Frankenstein di Wollstonecraft. L'esaltazione della vita
nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, cit. in bibliografia. Dettaglio dal codice Windsor sugli studi
sugli embrioni. ^ Concetto già espresso da Platone, il quale, richiamandosi
alla tradizione dell'ilozoismoarcaico, sosteneva che il mondo è una sorta di
grande animale, supportato da una «Grande Anima» infusagli dal Demiurgo, che
impregna il cosmo e gli dà vitalità generale (Timeo). Leibniz, Monadologia, Schelling,
BRUNO (si veda), ovvero il principio divino e naturale delle cose, dove egli
recupera il concetto neoplatonico di Weltseele o «Anima del mondo». Macchiaroli, Leopardi, Napoli, Biblioteca
Nazionale, Bergson, L'Evolution créatrice. Espressione composta da un termine
greco all'accusativo, encheiresin, ed uno latino, che significa letteralmente
«manipolazione della natura», con cui in ambito accademico si indica
l'assemblaggio di componenti biologiche nel tentativo di formare un organismo
vivente (Hofmannsthal, The Whole Difference: Selected Writings, a cur. McClatchy, Princeton). ^ Chardin,
L'avvenire dell'uomo, Il Saggiatore, Milano; Dizionario di filosofia Treccani.
BibliografiaModifica Luigino Zarmati, Il vitalismo. L'esaltazione della vita
nell'opera di Nietzsche ed Annunzio, Vinci editore, Hvidberg-hansen, The Spirit
of Vitalism, Intl Specialized Book Service Inc, Amico, Medicina e metafisica,
Nuovi Autori, Marabini, La singolarità dei sistemi animati. Riflessioni e
confutazioni sul problema del neovitalismo, Il Pavone, Canguilhem, La
conoscenza della vita, prefazione di Antonio Santucci, Il Mulino; Scott Lash,
Life (Vitalism), Theory, Culture and Society. Voci correlate Modifica Animismo
Evoluzionismo (scienze etno-antropologiche) Bergson Collegamenti esterni vitalismo,
in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, vitalìsmo, su
sapere.it, De Agostini. Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di filosofia Ultima modifica 1 anno fa di Trottapiano Chardin gesuita,
filosofo e paleontologo francese Pensiero di Teilhard de Chardin Dannunzianes
l'anima. L' ultimo libretto del nostro filosofo, che dal suo
stesso nome ci pervenne intitolato Fracastorius sive de Anima, dovrebbe essere
quasi la sintesi de' precedenti ragionamenti da lui tenuti intorno
all'intellezione. Ed invero fu a suo luogo notato come intendimento del
nostro Autore era di risalire daile estrinsecazioni del pensiero alla sua
stessa sorgente, e dalle facoltà dell'anima, prima fra le quali la
intellettiva, e dagli atti loro, alla stessa propria natura dell'anima
razionale. Cammino inverso a quello che si era tenuto e si tiene
comunemente nelle scuole, dove, da definizioni astratte
dell'anima. come dall' entelecheia d'Aristotele, si fa discendere e si
credeva di potere spiegare i singoli fenomeni. Ma appunto perciò abbiamo
annoverato F. fra i primi filosofi del rinascimento, avendo egli
avuto chiara coscienza della necessità di procedere a posteriori anche
ne' più ardui problemi della filosofia, della quale in tal guisa
preannunziò il rinnovamento . Nel suo libro dell' Anima adunque si
dovevano raccogliere i supremi sforzi dell'acume filosofico di F., e
tuttavia per talune ragioni che or verremo esponendo, questo libretto rimane
inferiore all' aspettazione del lettore, e forse al concetto stesso
che aveva guidato l'autore nel comporlo. In primo luogo il dialogo è
rimasto incompiuto perchè l’autore, che da tanti anni vi medita sopra, è
prevenuto dalla morte. E per quanto si possa credere che in confronto dell’ampio
svolgimento dato al libro dell' Intellezione questo sull' Anima avrebbe dovuto
avere un corrispondente e proporzionato sviluppo, in ragione della
più alta gravità e difficoltà della materia, è tuttavia un libretto di
non molte pagine quello clie ci è pervenuto, e che si trova
impresso nella raccolta delle opere Fracastoriane. In secondo luogo la
dottrina dell'anima è in questo dialogo trattata limitatamente, e
quasi esclusivamente rispetto alla controversia dell' immortalità. E' ben
vero che F. cerca sin dal principio di sollevarsi sino ad afferrare la quiddità
dell' anima, però assai brevemente, e di leggieri si scorge che non
è questo, almeno in tal luogo, il fine principale a cui mira.
Notissima è la contesa suscitata a quel tempo dal POMPONAZZI intorno alla
immortalità, da lui filosoficamente negata, cristianamente creduta, non diremmo
tanto per la consapevolezza del pericolo, quanto per quello strano
contrasto che accompagna le più ardite ribellioni di uomini usciti allora
dal dominio della teologia. Il che tuttavia non tolse che al
Pomponazzi stesso da taluno si facesse intendere eh' egli, ammessa per
buona la sua credenza come cristiano,, poteva essere arso soltanto
come filosofo. La dottrina del maestro ebbe contradditori fra i suoi
stessi discepoli. Primo fra questi il Contarini, uomo di chiesa, la
confutò, dicendola sospetta di ateismo; nè alcuno si attenderebbe
che F., uomo religioso, e medico del Concilio di Trento, avesse a
difenderla. Ciò non ostcante è errata l'opinione di coloro i quali
credettero, come riferisce pure l'anonimo scrittore della vita di F., che
questi componesse il suo dialogo adversus insana non minufi quam impia
Pomponatii praeceptoris placita. Queste parole ci fanno sentire r
acrimonia dell' animo nei contradditori del Pomponazzi, ma tale non è
verso di lui l'animo di F., il quale si sforza bensì di confermare
l'immortalità, ma senza parola di ran- core contro di alcuno, anzi senza
mai nominare il Pomponazzi, e senza quasi mostrar di cono- scere le
obiezioni da esso addotte. Il dialogo poi fu pubblicato soltanto molti
anni dopo la morte del filosofo mantovano, onde anche per questo
rimane del tutto escluso che 1' opera fracastoriana potesse avere un fine
personale e polemico. Con tutto ciò egli è certo che il fine apologetico
della difesa del dogma la vince, nel nostro autore, sulla discussione
schiettamente filosofica; e l'aver egli ristretto un argomento sì
vasto pressoché a questa sola questione, toglie oggi naturalmente al dialogo
originalità ed efficacia. In terzo luogo, ed è logica e necessaria
conseguenza di quanto finora si è osservato, la forma stessa del dialogo
diviene piuttosto letterapia che filosofica e si abbandona a poetiche
concezioni, invece di conservarsi strettamente raziocinativa e
dialettica, quale appariva nel dialogo dell’intellezione.Sente il
nostro autore che la quistione dell' immortalità sfugge
propriamente all'indagine della ragione, ond' egli vi sostituisce la poesia e
il sentimento, per quanto siano questi pure lati assai ragguar-
devoli dell' animo e del pensiero umano. Nondimeno quello che nel caso nostro
più importa notare, si è che ciò facendo F. non pretende ancora
assoggettare la ragione al dogma, siccome era avvenuto per tutto il medio
evo, ma francamente riconosce che in quistioni di tal natura non si
può procedere col rigore del ragionamento filosofico, in guisa che non
s'abbia ad accettare se non quello che sia stato rigoro- samente
dimostrato, come volevano le antiche scuole degli stoici e dei
peripatetici: Deinde et duritiem severitatemque illam vel stoicam vel
etiam peripateticam exuamus, ut nihil velimus admittere nisi quod iis
rationihus assertum comprohatumque fuerit quas comprobativas consuevimus
appellare. In omnibus enim illas expetere iniustum profecto est. Queste
parole ci sembrano per vero molto notevoli. Se le prendiamo alla lettera,
in esse F. ci apparisce, come FILOSOFO, inferiore a sè stesso, e
verrà il Descartes a ristabilire come legge essenziale del metodo quel
medesimo rigore dimostrativo che stoici e peripapetici avevano
voluto. Tuttavia conviene ben rilevare come anche in cotesto il nostro
Autore, pur soste- nendo una tesi opposta a quella del Pomponazzi, sa ben
distinguere, come questi aveva insegnato a fare, ciò che può esser
soggetto di razionali dimostrazioni, e ciò che, non potendo
esserlo, va piuttosto confidato al sentimento ed alla fede. Non v' è più
qui la formula medioevale intellectus quaerens fidem; e nemmeno Taltra «
/ides quaerens intellectum, ed in cotesta distinzione che assegna un campo
separato alla filosofia e alla fede, pur entrambe necessarie a soddisfare
un'imperiosa esigenza psicologica, tutti sanno che fu il principio di un
salutare rinnovamento oltreché scientifico, altresì morale e civile. Del
rimanente non è a dimenticare che al tempo di F. quasi tutte le
speculazioni e discussioni che si fanno intorno all' anima, aggiravansi
principalmente intorno all'immortalità. Ogni secolo discute quei problemi
che più lo interessano, e non è a meravigliarsi che in un' epoca in cui
ridestavansi i nomi e i ricordi gloriosi di antiche scuole
filosofiche, in cui si rinnovellavano le forme letterarie ed artistiche
dell' antica civiltà greca e romana, si cercasse con ansia profonda
in quei ricordi, presso quei letterati, nei libri di quei filosofi,
la conferma o la liberazione da quei dogmi che per secoli avevano
occupato le menti di ognuno. Così avviene che di tutta la
psicologia di Aristotele, la sua dottrina intorno alla doppia
natura del Noo, da cui sembrava potersi conchiudere, rispetto all'anima, ora
che ella è, ora che non è mortale, era stata fra le altre parti
della sua dottrina la più dibattuta da commentatori e filosofi; è i nomi stessi
di aristotelismo e di platonismo si prendeno ormai come insegne di
guerra, secondochè si mirava ad oppugnare o a difendere i dogmi del LIZIO. Indi
le guerre tra aristotelici ed antiaristotelici; e tra gli
aristotelici stessi gli uni si sforzavano ancora di tirare le dottrine del
maestro, come avea fatto la scolastica, a razionale dimostrazione di
rispettate credenze, gli altri invece francamente vi si ribellavano, ma
tutti facevano segno de' loro studi più assidui quei luoghi d'Aristotele
che più da presso si riferivano alle supreme quistioni del loro tempo. Ed
ecco perchè anche la psicologia del POMPONAZZI si svolge
principalissimamente intorno all'immortalità, come pure intorno alla stessa
quistione si agitano, pressoché esclusivamente, tutti i suoi
contraddittori o sostenitori, come NIFO (si veda), CONTARINI (si veda), F.,
ACHILLINI, PORZIO, ZABARELLA, infìno a CREMONINI e a CESALPINO; e in
generale tutti coloro che più o meno partecipando al moto impresso da
Pomponazzi, svolsero o rifecero, sulle tracce d' Aristotele, la
psicologia del rinascimento. Premesse le quali cose, veniamo ora a
più particolareggiato esame di questo dialogo di F. Sono i medesimi
personaggi che avevano si dottamente ragionato dell'intellezione, i
quali ora prendono parte alia nuova discussione intorno all' anima, ed
incomincia a parlare F., protagonista del dialogo. Pel cui svolgimento, quasi
dramma intellettivo, l'autore non IS manca in prima di tratteggiare la
mirabile scena naturale ove egli e i su oi compagni si trovano, al
cospetto di tante bellezze naturali di acque, di monti, di luoghi
boscosi; e tutto ciò risuscita in loro l' immagine degli antichi filosofi
greci, che contemplando la viva natura s'ispirano alle sublimi loro
speculazioni. Talché pieno dei ricordi e delle idee greche, F. che sin dal
principio cita Teofrasto per la somiglianza del luogo ove egli ed i suol
amici erano radunati con altro luogo da quello de- scritto
nell'Arcadia, così soggiunge. De anima nostra cum sinais haUturi sermonem in
qiiam videtur musica latentem nescio quam vim et consensum habere,
apte quidem fiet si aliquantis per nunc ecccitetur in noUs. Ed alcuni
carmi cantati dal solito garzonetto, accompagnati dal suono della
cetra, danno l’ispirazione e l'intonazione del dialogo. Perocché in tali
versi si canta del felice giovine che rapito da Giove e dato per
compagno ad Ebe, cambia la terrena dimora con l’eterna giovinezza dell'
Olimpo. Questo congiungere insieme la poesia e la filosofia (pur
tenuto fermo quanto sopra abbiam detto sulle diverse e talora opposte
ragioni della scienza e dell ' arte ) è uno dei fenomeni a mio giudizio più
ragguardevoli che si manifestano in taluni dei più grandi inge- gni
dei Rinascimento, compreso BRUNO (si veda) stesso che sì altamente e
filosoficamente poetava. In vero r Italia era allora tutto un popolo di
artisti ; e dell' arte si facevano ben sovente ispiratori e maestri i
filosofi. Tal fenomeno merita un più lungo studio, che qui non è il luogo
nemmen di accennare, perchè troppo ci allontanerebbe dal nostro fine
principale; però piacemi almeno di riferire un saggio della poesia
filosofica di F., osservando che se allora ì' arte e l' ispirazione del
sentimento tenevano il luogo delle dimostrazioni filosofiche, ben
potremmo augurarci che oggi all'inverso, di tanto mutati i tempi, la filosofia
e la scienza valessero a dar vita ad un' arte e ad una poesia
nuova, quando tutti oggi sono concordi a lamen- tare la decadenza della
poesia e dell'arte. Eceo ora la poetica finzione di F. Ne timeas, Troiane
fiier, quod in ardua tantum Tolleris a terra: quod rostro atque unguihus
uncis Te complexa ferox volncris per inania portai. Audisti ne
unquam sublimis nomen Olympi? Audisti ne Jovis, tonitru, qui fulmina
torquet? nie ego sum, non haee te volucris, sed Juppiter est, qui Haud
praeda captus, diari sed amore nepotis In summum amplexu innocuo te
portai Oìympum. Astra ubi tot spedare soìes, uhi pulcher oUt Sol
Oitusque occasusque siios, ubi candida noctes Currit Luna nitens, auroram
Lucifer anteit. Hic ego te in numero superum domibusque Deorum, Ver
ubi perpetuum, felix ubi degitur aetas Aeterna et semper viridis
floreìisriiie iuventa, Consistam, aequalemque annis pubcntibus
ITeben Officioque dabo comitem. Pone metum, dilecte Jovi, melioraque
longe Frospiciens, charam pucr obliviscere Troiani; Neve Deim te
iam et divorum regna petentem lilla canum, aut Idae nemorosae cum
sequatur. Tale dunque è la poetica introduzione al trattato dell'
anima. Ma l' autore entra subito in materia, e ricerca intorno all'anima due
cose -- quale ella sia qualis nam sit, cioè s' ella sia eterna ed
immortale o no; e che cosa sia « quid sit, » cioè la stessa sua natura.
Con rapida analisi egli raccoglie tutti gli elementi che la
riflessione filosofica scorge nel concetto che tutti possiedono dell'
anima, intesa come principio della vita, e che da Aristotele erano stati
cosi ampiamente dibattuti e ventilati. Percorre tutti i gradi della vita, e
non si ferma all' antica distinzione delle specie di anime che
corrispondono alle celebri facoltà aristoteliche di nutrizione, sensibilità,
locomozione, intelligenza, pur fra loro concatenate in modo che non sia
possibile la funzione superiore se non siano state prima attuate le
funzioni inferiori; ma sviluppa inoltre il principio stesso della vita,
separandolo, più distintamente forse che non avesse fatto lo stesso
Aristotele, dalle varie operazioni, procedenti da altre cause, che
concorrono a manifestarlo. In ciò la sua esperienza di medico e 1’erudizione
eh' egli possede delle dottrine vitalistiche e animistiche emesse da
fisici e medici insigni, come Andronico e Galeno, ch'egli ricorda, lo pongono
in grado di meglio determinare il principio stesso della vita,
procedendo per eliminazione di tutto quanto apparisca insufficiente a
spiegare una forza o potenza di tanto mirabile efficacia. Così egli
esclude che bastino a dar ragione della vita la naturai complessione
delle parti d'un corpo organico, considerando quelle piuttosto come
strumenti indispensabili che come vera ed intima causa; esclude quella
temperatura o mescolanza di umori e queir armonia o consenso delle membra
su cui pur tanto si erano fermati gli antichi, scorgendo in tutto ciò
piuttosto un rapporto da cosa a cosa, che un principio unico ed attivo
delle operazioni esclude infine quegli Spiriti che eia altri fiiron
cliiamati vitali, o il calor naturale, parendogli questi cosa ben
differente da ciò che è propriamente forza vivente e pensante. Ma allora
che cosa è 1'anima, come principio della vita, sia vegetativa, sia sensitiva
sia intellettiva? E qui F. torna esattamente ad Aristotele, la cui celebre
definizione dell' anima, fu ripetuta per tutto il medio evo, ed in
tutto il periodo del rinascimento, nè ancora, al dire di FIORENTINO (si veda),
se n' è potuta escogitare una migliore
(Pomponazzi). A dir vero, quella stessa definizione aristotelica,
essere cioè l’anima l’entelechia prima di un corpo fisico, organico, che
ha la vita in potenza, non era forse la più persuasiva, a cagione dell'
oscurità di queir entelecheia che ha dato luogo a tante discussioni e
interpretazioni ; tuttavia il Fracastoro si adopera per illustrarla, e la
esplica coi concetti di forma sostanziale e di atto motore, e poi di
forza organizzatrice; dei quali i primi due erano il risultato delle
teorie aristoteliche, il terzo dovea essere il punto di partenza delle
nuove speculazioni che si vennero svolgendo per tutta la filosofia
moderna, dallo spirito puro cartesiano sino alla monade leibniziana. Aristoteles
quidem volens animae naturam et rationem eocplicare entelechiam vocavit,
quam alii agitationem continuam, alii actum transtulere est ennn anima
propria forma corporis organici, naturalis, viventis sed QUATENUS
INFLUIT VIM ET AGITATIONEM IN TOTUM prìmuin enim tum esse dat, tum
conservationem continuam; per ipsam deinde fiunt
attractiones similiiim, aggenerationes, et alimenta qualitates in
virtute illius alterant, miscent, collocante formant, figttrant et tandem
progressiones animalium, generationes semìnum, et demum similium
organizationes : quae omnia fiunt in virtute animae et formae per eam vim
quam a mundi anima ed a Beo certam et nunquam errantem recepit. Non
si poteva concepire in una forma più elevata e universale questa forza effettrice
della vita, qualunque essa siasi (dacché la sua essenza ci sfugge,
come ci sfuggono tutte le ultime ragioni delle cose); ne la dottrina di
Aristotele poteva avere un più chiaro e sincero interprete. Ancora
è da notare come F., da buon naturalista eh' egli era, presente qui l'
unità della vita nell' universo, ma riferendo 1’anima dell' uomo all' anima del mondo ed a Dio,
non conclude in favore di un assoluto panteismo, ideale o materiale, eh'
era pure stato il retaggio di alcune scuole antiche, ne partecipa a
quelle fantastiche animazioni che si riscontrano, come altrove
notammo, in alcuni filosofi del rinascimento; bensì la stessa sua sobrietà e
temperanza che anche altrove abbiamo avuto occasione di porre in rilievo
lo trattiene dal trascendere ad affermare quanto non fosse il semplice
bisogno di concepire la natura come un tutto organizzato e vivente.
Il quale bisogno fu pure altamente sentito in tutto il rinascimento. Ma
se si con- fronti questa semplicità e diremmo quasi buon senso di
F., con le stravaganze che intorno all'anima del mondo ebbe
dichiarato Agrippa nei libri De Occulta Philosophia; con le cose astruse e
sottili che sì leggono nella Pampsychia del Patrizzi, nel De SuUitilite; CARDANO
(si veda, nel Messaggero di TASSO (si veda); e in fine con le idee
trascendenti enunciate nei libri De Causa
e nella Cena delle Ceneri del BRUNO (si veda) e nel De sensu rerum
et Magia di CAMPANELLA (si veda), si vedrà quanto l'azione moderatrice di
F. fosse opportuna per volgere senza scosse la filosofia del suo tempo
dal formalismo d'Aristotele al naturalismo de'nuovi tempi. Però la
definizione aristotelica dell'anima abbracciata di F. non risolve una difficoltà,
anzi una contraddizione sostanziale che qui sorge improvvisa. L'anima,
essendo per Aristotele forma sostanziale del corpo è indisgiungibile
da questo, come egli ebbe risolutamente affermato in più luoghi, e
segnatamente in quello notissimo del De Anima. Ne perciò Aristotele ebbe
anco il pensiero di voler indagare la possibilità di un' esistenza
separata dell' anima. In tutto il suo sistema materia e forma
costituiscono nella realtà una sola cosa, entrambe sono egualmente
necessarie ed inse- parabili, essendo la materia la potenza della
forma, e la forma atto della materia, talché dove è materia è forma, e
dove è forma è altresì materia. Tuttavia questa unione e
compattezza della materia e della forma, che costituisce uno dei
cardini del sistema aristotelico, vien rotta allorché dalla realtà
applicata al conoscimento, deve la teorica d' Aristotele adattarsi a
spiegare il modo con cui si effettua in noi la cognizione, mediante
la stessa materia e la stessa forma. Invero la materia, secondo la
teoria ereditata dall’ACCADEMIA, e che non pertanto torna meno
sostenibile nel sistema aristotelico, è indefinita 0 indeterminatissima, perciò
ella è inconoscibile in sè stessa, come vlen dichiarato nella
metafisica. La cognizione invece è data dalla forma; vi è però in questo
una intrinseca difiìcoltà, perchè la forma educendosi dalla potenza della
materia, parrebbe che la inconoscibilità di questa dovesse rendere
meno accettevole la conoscibilità di questa. La difficoltà si aggrava
quando la materia e la forma si considerino in quei due termini estremi
di tutta la nostra conoscenza che sono l' individuo e r universale.
Questi due termini rimangono inconciliabili nel sistema d' Aristotele, e
dì qua la prima sorgente di tutte le opposte direzioni date alle
varie parti della sua dottrina, alle quali questo primo principio, per la
stessa compattezza del sistema, generalmente si distende. Invero l'
individuo è sensibile, l’universale è intelligibile, secondo la teorica
fondamentale d'Aristotele che pure altrove abbiamo richiamata ; intanto
l'individuo che dovrebbe partecipare della inconoscibilità della materia,
è tuttavia per lui il sinolo di una materia e di una forma, ma
partecipa di più della inconoscibilità della materia a cui è più vicino;
l'universale invece nella sua massima forma rimane assoluta conoscenza,
ossia pura forma, senza mistione alcuna di materia, cioè Dio. Li
tal guisa si viene a separare per la prima volta la materia dalla
forma, dappoiché è manifesto che mentre tutte le altre forme^ eccetto la
massima si compenetrano nella materia, rispetto alla nostra conoscenza si
ammette una forma pura che viene ad essere per così dire divorziata
dalla materia. E' questa veramente una contraddizione del sistema del
LIZIO, la quale chi ben consideri non va attribuita a difetto del genio
smisurato di lui, ma accusa piuttosto una di quelle intime
ripugnanze che si ritrovano in fondo a tutte le analisi più profonde del
pensiero metafisico, e che avrebbe dato luogo più tardi alla negazione
del principio di causa per parte dell'Hume, e al riconoscimento di quelle
intrinseche antinomie le quali dovevano essere messe in evidenza dall'
acutissima mente del Kant nella critica della ragion pura. Ora questa
stessa cotraddizione trasportata per necessaria conseguenza di sistema nella
investigazione della natura dell'anima, dà luogo alla strana ambiguità del
LIZIO intorno alla immortalità ed alle controversie infinite che ne
derivarono. Perocché mentre dalla definizione sopra riferita dell'anima
dovea dedursi che questa non essendo disgiungibile dal corpo non potesse
avere una esistenza separata, e perciò dovesse dileguarsi e perire,
clie dir si voglia, al morire o disfarsi del corpo, ecco invece che vien
dicliiarata ad un tratto capace di separata esistenza, e perciò
immortale. Ciò è chiaramente detto dal LIZIO in altro luogo pur celeberrimo del
IT. libro De Anima ove è detto che
/' intelletto e la potenza pensante senibra essere un altro genere
di aniìna e questa sola potersi dare che sia separata, come l’eterno dal
perituro. Adunque, stando alla antecedente definizione dell' anima
(che pare dovea comprendere tutti i generi di anime) anche l'intellettiva
avrebbe dovuto concludersi mortale; ma giunto a questo il LIZIO si
arresta, e ripigliando il cammino dalla teorica della conoscenza e dalla
forma pura, come sovra V abbiamo esposta, che si può concepire
separata dalla materia, conclude che si può dare, èvSéxexat, anche
un'intelligenza separata, e perciò immortale. Questa conclusione sembra
tanto più inaspettata inquantochè egli aveva fatto scaturire 1' anima
intellettiva dalle potenze inferiori; allo stesso modo che tutte le
forme erano implicate nella materia; e tuttavia non ostante l'antinomia
delle parti, egli è in fondo coerente all' insieme del suo sistema,
perchè l'intelletto che si dice ora separato vien fuori in forza di quel
medesimo ragionamento che, nel processo conoscitivo dall' individuo
all'universale, gli avea fatto concepire la possibilità di una forma pura
separata da ogni materia che spiegasse 1' universale. Tale per sommi
capi è la teorica di Aristotele che qui ci siamo sforzati di ridurre alla
suprema possibile chiarezza traendola fuori dal viluppo delle ragioni
opposte, specialmente de' commentatori, e mostrandola come un
prodotto logico del suo sistema. Nè bisogna dimenticare inoltre che in
tutta cotesta controversia Aristotele stesso non è
abbastanza esplicito, e ciò diede luogo ai commenti infiniti degli
espositori. IL LIZIO ha dunque un bel dibattersi fra queste due opposte
conclusioni. Il problema è insolubile. Invero tanto potevano aver
ragione coloro che avrebbero voluto sforzare Aristotele ad esser logico fino in
fondo, traendo dall' inseparabilità dell' anima dal corpo la prova
della mortalità della medesima, tanto coloro che dalla forma e dall'
intelletto separato concludevano per l' immortalità. Ed è cosa nota
nella storia che mentre i Dottori delle scuole stavano per questa
sentenza, quasi tutti i commentatori non scolastici, e Alessandristi e
Averroisti, conchiudevano per la prima opinione, anche prescindendo dalla
dottrina dell'intelletto separato come contraria alla definizione
generale dell' anima. Il vero si è che cotesti erano soltanto
ragionamenti a priori nè la natura dell'argomento ammetteva la possibilità di
quella esperienza che ormai da tante parti, e da F. stesso, si
contrapponeva alle astratte speculazioni. Bisognava dunque contentarsi
di queste o abbandonare la controversia. Tuttavia notammo già che
il problema s' impone, alla umana coscienza e non è di quelli che
specialmente in un tempo in cui sì gran parte dell'edificio morale e
civile e religioso riposava su di esso, avrebbero potuto evitarsi. Se il
sistema del LIZIO è impotente a risolvere un siffatto problema bisognava
sciogliersi dal sistema, ed allora a che affidarsi? La quistione, come
altrove notammo, era stata ben posta da POMPONAZZI, la cui dottrina
ci piace qui riassumere con le cospicue parole del Ferri nella altre
volte citata sua Opera. Se volete, dice essa, una dimostrazione
dell' immortalità, la filosofia non ve la dà, nè ve la può dare ; ammessa
invece la verità rivelata, la religione ve la fornisce, domane! alela ad
essa. Ora, F. come si comporta ? Egli è, a nostro avviso seguace
giudizioso del suo Maestro, perchè è ben vero che egli difende l’immortalità
la quale POMPONAZZI fllosoflcamente impugna, ma sentendo r insufiScenza
de' ragionamenti filosofici, francamente ricorre a quella religione stessa che
pure POMPONAZZI (si veda) addita. Infatti, oltre a quanto fu già
rilevato in principio, ch'egli non prometteva dimostrazioni
filosoficamente rigorose; qui, dopo percorse e ripetute le ragi oni
d'Aristotele secondo la interpretazione scolastica, assai modestamente e
quasi dubitativamente conchiude esser là tutto quella che
sembravagli potersi addurre in favore della sua tesi: atque haec
quidem sicnt quae de perìpateticorwn penu ediici posse videntur. Di più confessa ancora per bocca del suo
interlocutore, che non poche cose potrebbero tuttavia revocarsi in
dubbio. Non panca certe sunt quae si contentiosi esse velimus possint adirne in
diihium verti. Ond' egli da questo punto abbandona addirittura il
campo della filosofia per entrare in quello della teologia, e
quando viene a parlare, pur tentando di risolvere quei dubbi, di Dio
e dei fini della creazione, così dell' uomo, come di questa meravigliosa
macchina mondana; e di poi della beatitudine degli angeli, della
generazione del Cristo, della vita e dello spirito dei santiegli
manifestamente non parla più come filosofo ma soltanto secondo religione,
e non fa nè può far altro che ripetere le argomentazioni dei
teologanti; nelle quali, come è giusto, noi incompetenti non lo seguiremo.
Non di meno l' interpretazione che Fracastoro dà alle dottrine del LIZIO, ci
porge argomento di esaminare alcun' altra cosa che non è senza
importanza per rispetto alla storia della filosofia e in particolare
dell'Aristotelismo nel rinascimento. L'ENTELECHEIA del LIZIO, oltre
alle altre discussioni, aveva dato luogo a dubbi intorno all'unità
dell'anima e del corpo umano ; perocché, si diceva, se 1' anima è 1' atto
e la forma del corpo organico, naturale, vivente, secondo le parole
del LIZIO, essendo cotesto corpo organico non vera unità, riunione di più
membra tanto diverse quanto sono le ossa dai muscoli, dai nervi, dalle
vene, e così di seguito, come può l'anima essere una forma unica
applicandosi a forme tanto diverse? E qui l'acume de'commentatori del
LIZIO si era assai ingegnato di trar fuori 1' unità dell' anima,
incolume, e quale è attestata dalla coscienza, dalla molteplice varietà
delle forme corporee di cui doveva essere l'atto e la vita. Gli uni
avean detto che l' unità dell' anima dee intendersi soltanto w
genere, pur differendo le membra nelle specie; come più animali, ad
esempio r uomo, il cavallo, il bue, costituiscono un ge- nere
unico, differenti ssimi rimanendo nella specie : dove ognun vede che, se così
fosse, l'unità dell' anima sarebbe fondata soltanto sopra un
concetto mentale; ma realmente nient' altro sarebbe che un' astrazione
eduna chimera. Altri poi dicevano che in ogni corpo organico vi è
sempre una parte che è principale rispetto alle altre, anzi queste son
fatte per quella e governate da quella, onde 1' anima non è necessario
che si intenda esser una rispetto a tutte le parti del corpo, ma soltanto
rispetto a quella che è la principale, e così 1' anima è unico atto
od unica forma di un' unica organica potenza, la quale ha virtù di
dare la vita al tutto. Questa risoluzione sembra a F. più vicina
alla verità del nesso fisiologico che è fra le membrane Clelia loro
subordinazione: tuttavia non lo ai) paga compiutamente e ci sembra
notevole ii principio che egli ora introduce per definire la
controversia. Anche le parti principali, die' egli con profonda dottrina
e con acuto spirito di osservazione, sono parecchie, onde 1' unità
non può risultare dal solo fatto che una di esse è la principale.
Ma da che cosa risulterà dunque? Balla loro continuità, egli rlice,
perchè ogni xmità non sì può altrimenti intendere che come
continuità. Principale» siquidem
partes, quamquam plures sint, fiuntper continuationem unum: OMNE
ENIM CONTINUUM EST UNUM. Questo
principio ci pare notevole perchè fa presentire V analisi profonda che
del concetto di unità fu fatto da filosofi posteriori sino allo
Spencer, il quale ne'primi principi sviluppando il concetto che è già cosi
chiaro nel F., dimostra che (.gni unità è continuità di parti, perchè
1'assolutamente uno è impensabile. E se F. ha sostituito alla continuità
delle parti del corpo organico la continuità degli stati di coscienza (e ognun
sente il nesso . logico che dovea condurre da quella a questa) avrebbe
posto una delle pietre angolari della psicologia moderna. La quale,
come ognun sa, si è costituito per proprio oggetto appunto r esame
della successione di quegli stati, di cui il processo cerebrale e le
parti organiche sono la causa occasionale, mentre la coscienza n'è il legame
indispensabile; e dall'analisi descrittiva di tali stati di coscienza,
dal più semplice al più complesso, fa scaturire quella grande unità
che è la nota più caratteristica nella natura e nella vita dello
spirito. Altro punto importante della psicologia fra- eastoriana ci
sembra quello ove, pur mantenendo assoluta la diversità dell'intelletto
dalla materia, riaccosta tuttavia l'uno all'altra, per dimostrare come l'
incorruttibilità del primo non dee intendersi altrimenti che quale
conservazione di una energia sostanziale, allo stesso titolo per
cmì si ammette indistruttibile ed eterna la materia. Nulla si crea e nulla si
distrugge, è il prin- cipio antico, cui ritorna F., dopo le
negazioni alle quali per il falso concetto dell'atto creativo erano
venute la scolastica e la teologia medioevale. Ma tale principio rimesso
in Qnore anche da altri filosofi e scienziati del rinascimento,
manifestamente segna un grande progresso, e già accenna a quella legge
univer- sale e feconda della conservazione e trasforma- zione dell'
energia, che tanta importanza ha assunto nell'indirizzo e nelle scoperte
della scienza moderna. Non diremo che nelle dottrine di F. si
giunga sino a questo, e che ciò possa avere virtù risolutiva rispetto
alla quistione dell' immortalità; nondimeno ci par nuovo, bello e
fllosoflco il pensiero da cui egli è guidato, e ci piace rilevarlo. Procul dubio, die' egli,
idem de intellectu dicendum erit quod de materia, et utrumque
incorruptibile et aeternum esse. E
ripete poco stante. Quare et incorruptibilem ponere intellectum debemus,
et parem habere cum materia conditionem. Ed infine ci pare manifesto
che rispetto alla tesi ultima che F. voleva sostenere, vale a dire l’immortalità,
egli abbia inteso come non dall' astrazione o separazione
dell'intelletto dalla materia, (su cui si fondavano quasi tutti gli altri
aristotelici sostenitori dell'immortalità stessa) ma dal loro accomunamento
era lecito dedurre quanto di più filosofico si poteva dire suir
argomento. Onde anche in ciò F. da prova così di grande acume d'ingegno come di
retto criterio filosofico; ed è forse questo il solo punto in cui egli,
contrapponendosi alla dottrina del Pomponazzi, ben si appone,
perocché se non riesce a dare una dimostrazione della immortalità, che
egli stesso abbastanza esplicitamente ha confessato la filosofia non
pòter dare; toglie almeno quella rude contraddizione che non avea dubitato di
accogliere Pomponazzi, ammettendo potersi credere cristianamente quello che
filosoficamente avea negato. Questa massima strana, è tanto
inconcepibile, che fra gli stessi storici della filosofia vi fu chi
stimò non sincero Pomponazzi come cristiano, ad esempio il Brucker, il
quale scriveva che ha una fede eroica chi crede sincero l' osse-
quio onde fa mostra POMPONAZZI (si veda) verso la religione cristiana;
mentre altri invece, come Bitter, stima Pomponazzi non sincero o
almeno non coerente o non convinto come filosofo. Tale incoerenza non
sarebbe stata pos- sibile a F., la cui temperanza e il retto
criterio filosofico aveano fatto scorgere il giusto punto fin dove
filosofia e religione sarebbero andate d'accordo, e al di là del
quale alla religione, non alla filosofia, sarebbe stato lecito
procedere sola. Sola ma non avversa; perchè quello che la filosofia
avesse dimostrato assurdo, ninna religione potrebbe mai dare
a credere, e ciò che si stima verità religiosa (leve non poter esser
dimostrato falso in filosofia. Ecco perchè BONAIUTI (si veda) Galilei,
impigliato egli pure in quistioni religiose, doveva affermare più
tardi che « due verità non possono mai contrariarsi ; intendendo per tali
la verità filosofica e la religiosa ; e fii pure BONAIUTI (si veda) Galilei
quegli che riuscì a rivendicare totalmente alla filosofia ed alla scienza
la sua autonomia contro le antiche invasioni religiose e teologiche. F.
adunque, seguace del Pomponazzi nello sceverare il criterio filosofico
dal religioso, è più logico e più accorto di lui nel non mettere in
contraddizione F uno coir altro, ma piuttosto nel segnare il
confine d’ambedue. E poiché in filosofia come in religione e in morale e
in politica, tutte le quistioni più gravi sono principalmente qui-
stioni dì confini, così ci pare notevole che F. Ha colto precisamente
quei punto, in cui trovandosi la religione non contraddetta dalla
filosofia, e offrendo questa ben largo campo ad altre ricerche, potevasi
attendere ben altro sviluppo da un concetto alta- mente filosofico, quale
era quello dell' energia sostanziale e della forza, il quale sviluppo
si ebbe di fatto in tutta la filosofia posteriore fino a Spinoza e
a Kant ed a Hegel. Senza caddentrarci più oltre in questo speciale
iirgomento, che eccederebbe i limiti del nostro studio ed il nostro bisogno,
stimiamo opportuno confortare la nostra opinione con le belle
parole del Ferri, da lui poste come conclusione del suo sapiente
esame intorno alle dottrine psicologiche del Pomponazzi, e che a noi pare
convengano pienamente anche a quelle du F. Accomunati nella energia,
manifestazione della forza, r anima e il corpo, l' interno e 1'
esterno non sono più estranei 1' uno all' altro. Intesa secondo
questo rapporto la materia, può essere sede e condizione perpetua della
vita e dello spirito senza contraddizione, e 1' anima umana può
aspirare all' immortalità senza che il fenomeno sensibile, falsamente
trasformato in cosa sostanziale ed esistente per sè, opponga a questa
aspirazione un ostacolo insuperabile. La Psicologia di Pomponazzi.
Molte altre cose avremmo ad aggiungere intorno a questo Dialogo di F. se
volessimo per disteso riferirne tutto il contenuto; ma avvertimmo già che
nell' esame degli autori ed in argonìento come quello che stiamo
trat- tando, è da cogliere la sostanza delle dottrine, e in quella
parte soltanto che, vivificata da studi posteriori, poteva esser cagione
di nuovi avvia- menti, e render ragione dei progressi ulte- riori
della scienza. Tutto il resto può essere abbandonato all' oblio. In F.,
se non ci inganniamo, è manifesta ormai abbastanza, per quanto si è
detto fin qui, la somma delle sue dottrine sull’anima. L'intelletto
umano, come complesso di tutta quella varietà di operazioni che sono state
da lui dichiarate nel dialogo precedente, è qui raccolto e
sintetizzato, per così dire, in un'entità separata, che ha qualche
cosa di divino, perchè fornita di quella virtù di pensare che è la
suprema manifestazione della vita e dell'ordine dell'universo. Talché in
certo modo tutto è intelletto e tutto si compendia neir intelletto: intellectus
omnia quodammodo fieri potest Si igitur omnia fieri dehet intelledus,
et in potentia esse ad omnia susceptiUlia, separatimi et aUtractum
necesse est. Tale intelletto separato, che è come l' essenza stessa dell'
anima umana a cui è peculiare, a differenza delle anime belluine o
semplicemente vegetative che ne sono sfornite, fa sì che la stessa anima
umana sia dotata delle virtù che a quello som proprie, onde L’ANIMA, come
l'intelletto, può essere concepita qual forma separata dal corpo, ed
essere pertanto una, non ostante la moltiplicità delle sue
funzioni, ed immortale non ostante il suo legame col corpo corruttibile.
Belle sono inoltre le parole e le imagini che in F. qua e là
ricorrono per armonizzare in un tutto questi elementi discrepanti che
convergono a spiegare r intelletto e l’anima umana; e quando, ad
esempio, esamina, secondo un paragone allora divulgato, se l’animo si
congiunga col corpo come il nocchiero colla sua nave. Ovvero se sia
tal parte di noi che solo da esso dipenda tutto r esser nostro: utrum
ille assistat nohis, quemadmodum nauta, ut aiunt, navi; an magis nostri
sit ita pars, ut esse illud, quod quisque hahet ab ilio detur. Quando discute
in che modo possano stare insieme e formare un tutto solo, un atto o forma
indi- visibile quale è l'intelletto, e una materia divisibile quale è il
corpo: quiomodo unum fieri posse ex indivisibili actii et divisibili
materia verso Quando ricerca con grande sottigliezza il moto proprio
dell'anima, e se questo a lei sia sostanziale o accidentale
secondo le distinzioni aristoteliche, collegando il moto di essa e di
tutte le cose, coll’immagine della catena omerica che tutto abiuracela e
stringe al primo motore. In tutto ciò, dico, il nostro autore dà
prova di grande vigore speculativo, e se non tutte nuove sono le
cose ch'ei dice, tutte però rivelano in lui una mente analizzatrice
e ricostruttrice, tale da poter stare al confronto cogl' ingegni più
acuti e coi filosofi metafisici più profondi del rinascimento. Da ultimo
singolarmente importante dovea essere quella parte del suo dialogo in cui
dalle altezze sin qui contemplate dell' anima e dell'intelletto umano,
partecipazione dell’intelligenza divina, e attività originata dal primo
motore, egli intende discendere a dimostrare il naturai principio di tutte
le cose, la loro produzione, origine e perfezione. Ancorcliè involto nel
preconcetto antropomorfico che pone l'uomo quasi centro di tutte le cose
cuius grafia, egli dice, reliqua alia facta et ordinata fiiere non può
disconoscersi che con mirabile sintesi filosofica egli si prova a
riannoda- re in un solo ordine tutte le cause dei fenomeni
naturali, e descrive la formazione delle cose. Argomento bellissimo che tentò
sempre l’intelligenza e la fantasia de'più grandi naturalisti e
filosofi. Certo, non abbracceremmo oggi le idee di F. su tutte le
formazioni naturali; ma, quello che è per noi più importante a notare,
qui di nuovo vediamo come accanto al filosofo risorge in lui lo
scienziato. Invero F. intraprende a descrivere la formazione del
sistema celeste, il numero e la distribuzione delle sfere, il soffio
divino che animò il tutto, e poi man mano le generazioni e le varietà
delle piante degli animali, e da ultimo degli uomini, per mezzo degli
elementi naturali, quali il caldo il freddo, le attrazioni e ripulsioni
delle cose. In tutto ciò F., per quanto pare a noi, non ragiona come
que’filosofi che avevano più volte architettato a priori, e secondo certe
loro idee preconcette, il sistema della natura, ma sebbene non
alieno egli pure dalle tradizioni bibliche, fa chiaramente sentire che l’ordine
dell’universo da lui intuito è semplicemente il risultato delle
cognizioni eh' egli mercè F esperienza e con lo studio e l’osservazione
di tutta la sua vita, si era formato in astronomia, in matematica,
in fisica; ed egli in ciò procede come filosofo. Dalle quali cose si ha
ancora una volta confermato come nel rinascimento la parte vitale
delle speculazioni e dei sistemi filosofici fu quella eh' ebbe a sostegno
lo studio (lei fatti sperimentati nella natura, dai quali soltanto gl’ingegni
più illuminati credevano oramai esser possibile tentar di spiegare il
passaggio dalla materia informe alle più alte manifestazioni della vita e
dello spirito. Problema immenso, tanto alto e tanto complesso clie nemmeno
ai dì nostri si può dire di esser vicini al suo scioglimento; non
pertanto se fu almeno, fin dal Rinascimento, dimostrato qual dovesse
essere la via vera per incamminarvisi, questo è dovuto a coloro
che vollero ritemprata la filosofìa nelle scienze. Ma questa parte del
Dialogo del F., che promette essere la sintesi sublime delle
sue cognizioni e delle sue idee filosofiche intorno alla natura,
all'intelletto ed all’anima, non può se non accendere in noi un desiderio
il quale non può essere soddisfatto, percliè a questo punto il dialogo
stesso è rimasto tronco e interrotto per la morte dell' autore. Keywords:
dialogo sull’anima, ovvero, il Fracastoro, di Fracastoro. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Fracastoro” – The Swimming-Pool Library. Girolamo
Fracastoro. Fracastoro.
Luigi Speranza -- Grice e Francesco: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dei corpi – la scuola di Diano
Marina – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diano Marina). Filosofo dianese. Filosofo ligure. Filosofo
italiano. Diano Marina, Imperia, Liguria. Grice: “I like Francesco; for one, he philosoophised,
like I do, on “I” and “We” – ‘first person’, ‘personal identity,’ and so on!” Insegna a Milano e Pavia. Collabora alla pagina
culturale del Sole 24 Ore, è stato presidente della società italiana di filosofia
analitica e presidente della European Society for Analytic Philosophy. Altre
opere: “La mente” (Mondadori, Milano. Che fine ha fatto l'io?” (San Raffaele,
Milano); “La mente” (Carocci, Roma); “La coscienza” (Laterza, Roma Bar); “L'io
e i suoi sé: identità della persona e smente” (Cortina, Milano); “La mente” (Nuova
Italia, Roma); “Il realismo analitico” (Guerini, Milano); “Russell” (Laterza,
RomaBari); “Il soggeto communica al altro soggeto di un oggetto: senso e
riferimento” (Edizioni Unicopli, Milano); “Sgnificato e riferimento” (Edizioni
Unicopli, Milano). Rettore dello Iuss di Pavia. Corpo (filosofia) concetto
filosofico. Il termine corpo in filosofia ripropone il significato del
linguaggio comune intendendo per corpo ogni essere esteso nello spazio e
percepibile attraverso i sensi. Le caratteristiche fisiche, biologiche,
meccaniche del corpo di cui si è interessata la filosofia ai suoi inizi, sono
state poi oggetto dello specifico pensiero scientifico, mentre la storia della
filosofia nella sua totalità si è occupata in particolare del rapporto tra
anima e corpo. Nella filosofia antica e medioevale possiamo rintracciare due
concezioni di questa relazione anima-corpo: la prima risale alla
interpretazione orfico-pitagorica secondo la quale il corpo è un'entità di
natura completamente diversa e separata rispetto all'anima; teoria questa
ripresa da Platone che afferma che il corpo è la "tomba" dell'anima. L'anima,
infatti, decaduta dalla sua condizione iniziale di perfezione ideale ed
eternità si trova prigioniera in un'entità corruttibile e mortale. Al
pensiero platonico si connettono sia la patristica sia la prima fase della
scolastica. La seconda concezione del rapporto anima-corpo si ritrova in
Aristotele che sostiene che le due entità non sono separate ma costituiscono
elementi separabili di un'unica sostanza: il corpo è la materia intesa come
potenzialità, quella che offre possibilità di sviluppo, l'anima è la forma, la
realizzazione di quelle possibilità materiali tramutatesi in attuali. L'anima è
la vita che possiede in potenza un corpo. Il corpo cioè è un puro e semplice
strumento dell'anima: ma non uno strumento inerte ma tale che possiede «in se
stesso il principio del movimento e della quiete. Filosofia medioevale Il corpo
inteso come strumento dell'anima si ritrova nello stoicismo, nell'epicureismo e
nella scolastica: per Aquino il corpo si dirige a realizzare l'anima e le sue
attività razionali allo stesso modo che la materia aspira a realizzare la
forma.[5], fino a tendere a diventare parte del Corpo Mistico[6]. Questa
concezione del corpo come strumento rispetto all'anima non fu condivisa,
nell'ambito della scolastica, dall'agostinismo che vede nel corpo la forma
corporeitatis per cui in questo, indipendente dall'anima, vi è sia potenza che
atto e l'anima è un'ulteriore sostanza che si aggiunge ad esso. La
filosofia modernaModifica La dipendenza strumentale del corpo rispetto
all'anima finisce con Cartesio per il quale corpo e anima sono due sostanze, il
primo res extensa, sostanza estesa e non pensante, la seconda, res cogitans,
sostanza pensante e non estesa. Tra le due sostanze non vi è alcun nesso
causale: il corpo è «come un orologio, o un altro automa (ossia una macchina
che si muove da sé).» La separazione del corpo dall'anima diede origine a
dottrine dualistiche e monistiche che cercavano di risolvere il problema del
rapporto tra eventi incorporei e corporei. Tra le concezioni dualistiche
la prima è quella cartesiana dell'interazionismo che teorizza uno stretto
scambio di azioni tra le due sostanze riducendo così la diversità tra fatti
corporei e incorporei fin quasi ad annullarla. In opposizione a questo
dualismo per le dottrine dell'occasionalismo di Malebranche e di Arnold
Geulincx l'anima e il corpo sono unite dalla esistenza di Dio.
Nell'ambito del monismo va inserita la soluzione di Leibniz che vide un
parallelismo tra eventi corporei e incorporei connessi non da un rapporto
causale ma da un regolare e continuo legame per cui ad ogni evento materiale ne
corrisponde uno immateriale secondo un'"armonia prestabilita" tale
per cui «i corpi agiscono come se, per impossibile, non esistessero anime; le
anime agiscono come se non esistessero i corpi; ed entrambi agiscono come se le
une influissero sugli altri. Tra monismo e pluralismo si colloca la filosofia
di Spinoza che concepisce «la mente e il corpo come un solo identico individuo,
che è concepito ora sotto l'attributo del pensiero, ora sotto quello
dell'estensione. Nell'unica sostanza divina infatti coincidono corpo e anima
ossia i due attributi dell'estensione e del pensiero che mantengono però la
loro diversità in quanto coincidenti solo in Dio. Un rigoroso monismo
caratterizza invece la filosofia illuministica con le teorie materialiste
dell'uomo-macchina di Julien Offray de La Mettrie e Paul Henri Thiry d'Holbach
secondo le quali le attività mentali dell'uomo dipendono meccanicamente dal
corpo. Collegato al materialismo settecentesco è in parte la filosofia di
Karl Marx secondo il quale i pensieri e i sentimenti dell'uomo scaturiscono dai
suoi comportamenti corporei. Intendendo il materialismo in senso diverso
da quello marxiano, Friedrich Nietzsche imposta una dottrina esaltante la
corporeità in contrapposizione alla metafisica idealistica La concezione
monistica che intende il corpo in senso idealistico annovera: George Berkeley
che vede il corpo e ogni realtà materiale come una produzione mentale poiché
solo la mente e le sue percezioni sono reali; Schopenhauer, per cui il corpo è
nella sua essenza "volontà di vivere" e gli oggetti materiali
semplici oggettivazioni della volontà; Bergson che considera il corpo un
semplice strumento dell'azione pratica di una coscienza spirituale.
Filosofia contemporanea Da Schopenhauer e Bergson derivano le concezioni del
corpo della fenomenologia e dell'esistenzialismo: per Edmund Husserl attraverso
una molteplicità di riduzioni fenomenologiche il corpo viene isolato come
esperienza vivente. Concezione condivisa secondo diversi modi da Sartre e
Merleau-Ponty. Platone, Fedone Origene, De principiis Scoto Eriugena, De
divisione naturae, Aristotele LIZIO, L'anima, AQUINO, Summa Theologiae, Summa
Theologiae, nei tre possibili gradi della fede, carita' sulla terra e
beatitudine del Cielo. Cartesio, Meditazioni metafisiche, Cartesio, Le passioni
dell'anima, Malebranche, Dialoghi sulla metafisica e sulla religione, Leibniz,
Monadologia, Spinoza, Ethica, Marx, Ideologia tedesca Nietzsche, Così parlò
Zarathustra, I, «Gli odiatori del corpo» Berkeley, Trattato sui principi della
conoscenza umana, Schopenhauer, Mondo, Bergson, Materia e memoria, Husserl,
Meditazioni cartesiane, Sartre, L'essere e il nulla, Merleau-Ponty, Fenomenologia
della percezione, Abbagnano Fornero, Protagonisti e testi della filosofia,
Paravia, Torino F. Cioffi et al.,
Diàlogos, Mondadori, Torino Dolci / L. Piana, Da Talete all'esistenzialismo,
Trevisini, Milano (Gabbiadini Manzoni, La biblioteca dei filosofi, Marietti Scuola, Milano, Moravia, Sommario di
storia della filosofia, Le Monnier, Firenze Reale / D. Antiseri, Storia della
filosofia, Brescia Sini, I filosofi e le opere, Principato, Milano Brezzi,
Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton Compton, Roma Centro
Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze Centro
Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario delle idee, Sansoni, Firenze Enciclopedia
Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano Lamanna ADORNO (si veda), DIZIONARIO
DEI TERMINI FILOSOFICI, Monnier, Firenze. Filippini, Plebani, Scattigno Corpi e
storia. Donne e uomini dal mondo antico all'età contemporanea,Viella, Roma
Pelizzari, Il corpo e il suo doppio.
Storia e cultura, Rubbettino, Soveria Mannelli Zaltieri, L'invenzione del
corpo. Dalle membra disperse all'organismo, Negretto Editore, Mantova Il corpo
offeso tra piaga e piega, in Figure dell'immaginario, rivista on line di
filosofia, storia e letteratura, su figure dellimmaginario. altervista
Portale Filosofia: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di
Filosofia Monismo (religione) Unità psicofisica Monismo; Alsmith, “Mental
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and Self-awareness. A Phenomenological Critique of Representational Theory”,
Journal of Consciousness Studies. Keywords: corpi, unicorno, unicornis, adj.
later noun, nome sustantivo, nome aggetivo, nome proprio, nome commune –
unicorn – Meinong, Grice, “Vacuous Names”, vacuous descriptions, Priest, Read, persona,
an Etruscan concept, the grammar of ‘referring’ – the grammar of ‘senso’, the
grammar of ‘significato’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Francesco” – The
Swimming-Pool Library. Michele Di Francesco.
Francesco.
Luigi Speranza -- Grice e Franchini: l’arguzia della ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale nell’età degl’eroi -- la gloria
d’Enea– la scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano.
Grice: “I like Franchini; for one, he wrote on the ‘metaphysics of love;’ for
another, he wrote on ‘historical reason’: I collect reasons, pure reason,
practical reason, communicative reason, historical reason…” Figlio di Vincenzo e Anna Scalera, si laurea sotto le
armi. Vive una drammatica esperienza bellica che lascia un segno per la vita.
Studia all’istituto italiano di studi storici, fondato da Croce a Napoli, dove
tenne in seguito conferenze e lezioni. Insegna a Messina e Napoli. Fonda la
Hegel-Internationale Vereinigung, è stato socio dell’accademie napoletane nella
Società nazionale di Scienze, Lettere e Arti e dell’istituto lombardo di
Milano. Intensa è la sua attività di pubblicista e di scrittore. Collabora
nell’immediato dopoguerra a giornali come “La Voce”, “L’Azione”, “Il Giornale”,
e in seguito al “Mattino” di Napoli, al “Tempo” di Roma e alla “Gazzetta di
Parma”. Scrive sul “Mondo” di PANNUNZIO (si veda), contribuì assiduamente alla rivista
di studi crociani. Dirige la nuova serie filosofica della rivista “Criterio”,
fondata a Firenze da RAGGHIANTI (si veda). Frequenta la casa di Croce,
scoprendone via via la lezione di alta umanità e di profondo significato
etico-politico. Une alla vocazione filosofica la militanza politica in nome dei
valori della liberal-democrazia. Partecipa attivamente a “Nord e Sud” di Compagna
e alla “Realtà del Mezzogiorno” di Macera. Cultore delle arti visive, di cinema
e di teatro, di musica e di poesia, si cimenta tra l’altro nella scrittura di
Aforismi, antologizzati nel volume degli “Scrittori italiani d’aforismi”. Redatta
nel preziose “Note biografiche di Croce”, raccolte dalla viva voce del
filosofo, che sono oggetto di alcune trasmissioni radio-foniche. La sua vasta
biblioteca è a Napoli. Il nocciolo della sua filosofia sta nel tema del
giudizio, storico, politico, prospettico. Alla lezione di Croce, che considera
un classico della storia delle idee, si e costantemente ispirato,
riconoscendogli il merito, per lo più sottaciuto, di aver calato il pensiero
nel vivo dell’esperienza storica. In “Esperienza dello storicismo” distingue,
in continuità ideale con gli studi d’ANTONI (si veda), lo storicismo di matrice
vichiano-crociana dal “Historismus” tedesco, prevalentemente filologico, nella
convinzione peraltro che la filosofia dello spirito non è una pura e semplice
ripresa dell’idealismo hegeliano. Indaga il nucleo logico della filosofia di
Croce individuando, nel nesso delle categorie conoscitive (teoretica, aletica) e
pratiche (buletica, volitiva), l’*uni*-cità or ‘aequi-vocalita’ della
dialettica, di opposti e distinti. È tra i primi a confrontarsi con le correnti
della fenomenologia, dell’esistenzialismo, del neo-positivismo e la filosofia
analica del linguaggio ordinario, segnalando nel tema del nulla lo scacco
definitivo del sistema, insieme con il bisogno di qualificare l’irrazionale (il
pre-razionale), che è il vasto mondo della non filosofia. Elabora una esaustiva
storia del concetto di “dia-lettica” dai greco-romani ai contemporanei (Le origini
della dialettica – DA LEONZIO A NOI), approdando infine alla forma moderna
della filosofia nel passaggio dalla metafisica teologica alla metodologia della
storia. Apprende da Hegel che la dialettica *è* la logica della filosofia,
distinta dalla scienza. Alla tradizione del criticismo kantiano collega il
concetto di giudizio, in special modo nella forma della riflessione
estetico-teleologica della terza Critica. Gli si aprirono nel frattempo squarci
significativi sul fattore esistenziale e storico del non essere ancora (il
potenziale, l’attuale, il divenire) che lo induce ad analizare il concetto di progresso
tra la crisi del ideale dell’illuminismo e la dimensione etico-politica del
giudizio prospettico – il pre-spettico, lo spettico, il prospettico -- tra
passato, divenire, e avvenire. Il futuro è in qualche modo pre-vedibile nella
prospettiva individuale di chi è chiamato ad agire in una situazione in
sviluppo. Altra cosa sono l’astratta profezia, l’oracolo, le prassi
scientifica, la scommessa (the bet), il “caso” -- che sono forme di pre-visioni
utili, finanche necessarie, ma non trascendentale (pre-visione). Proclama il
diritto alla filosofia, la lotta per il diritto all’esercizio della ragione
contro il sofisma che limita la libertà, per ridare dignità alla ri-vendicazione
dei diritti umani (Il diritto alla filosofia). Tratta sul rapporto di filosofia
e scienza, riconoscendo a ogni sapere una funzione paritaria nella differenza
della materia e della forma. Non ha punti di partenza né approdi finali, ma
poggia sulla spontaneità creatrice del vitale nel quale Croce, in perenne confronto
critico con Hegel, indica l’origine della dialettica e una scoperta di alta eticità.
Nell’utile, da Croce elevato al livello dello spirito, indaga gl’aspetti
ineludibili di buona parte della vita umana (la volontà, la passione, la
classificazione), per una comprensione ad ampio raggio del senso del terrestre. Altre
opere: “Critica della ragione storica” (Giannini, Napoli); “Storicismo”
(Giannini, Napoli); “Metafisica e storia” (Giannini, Napoli); “La linea ed il
circolo -- Il progresso: storia di un’idea – storia lineale, storia ciclica --
La Nuova Accademia, Milano; L’idea di progresso. Teoria e storia, Giannini,
Napoli, “La dia-lettica e la co-loquenza”, Giannini, Napoli, La materia della filosofia,
Giannini, Napoli, Teoria della previsione, ESI, Napoli; seconda Giannini,
Napoli, “Croce interprete di Hegel” Giannini, Napoli); “Il concetto di storia
in Croce, Morano, Napoli; E.S.I., Napoli, Renata Viti Cavaliere La logica della
filosofia, Giannini, Napoli); “Il sofisma e la libertà” Giannini, Napoli, “Autobiografia
minima, Bulzoni, Roma, Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Giannini,
Napoli “Consenso e dissenso” (Sansoni, Firenze); Intervista su Croce, A.
Fratta, SEN, Napoli, Il diritto alla filosofia, SEN, Napoli, Critica delle
crisi: filosofia, scienze, rivoluzioni” (Cadmo, Roma); “Il progresso della
filosofia, Storia della filosofia con testi e ricerche, Ferraro Napoli, Eutanasia
dei principii logici, Loffredo, Napoli); “Il potere e l’ipotesi. Tappe di una
filosofia delle funzioni, Morano, Napoli, Pensieri sul “Mondo”, Cavaliere,
Gily,Melillo, presentazione di Cotroneo,
Luciano, Napoli); “Teoria della previsione, G. Cotroneo e G. Gembillo, Armando
Siciliano, Messina, Le origini della dialettica, F. Rizzo, Rubbettino, Soveria
Mannelli, Scritti su “Criterio”, Introduzione, testi e indici R. Viti Cavaliere
e Peluso, Scripta Web, Napoli. "Dizionario Biografico", su
treccani. quartotempoblog, Biografia di
Carmen Moscariello Quarto Tempo, altervista.org. critica M. Biscione,
Interpreti di Croce, Giannini, Napoli G. Gembillo, Un itinerario filosofico, La
Nuova Cultura, Napoli Coppolino, La “scuola” crociana, La Nuova Cultura,
Napoli, V. Mathieu, Storia della filosofia: La filosofia del Novecento, Le
Monnier, Firenze, G. M. Pagano, “Storicismo e azione” (Cadmo, Roma); G.
Cantillo, Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti, Napoli, E. Paolozzi, il
valore dei dettagli, in L'identità liberale di una società in trasformazione,
Napoli, La tradizione critica della filosofia. G. Cantillo e R. Viti Cavaliere,
Loffredo, Napoli, R. Viti Cavaliere, Postfazione, La teoria della storia di Croce,
Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, Viti Cavaliere, Profilo in Ead., “Il
giudizio e la regola” (Loffredo, Napoli); “Il diritto alla filosofia, Cotroneo
e R. Viti Cavaliere, Rubbettino, Soveria Mannelli R. Viti Cavaliere, Una scelta di lettere d’Antoni
in "Logos", Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. //store.rubbettinoeditorei/ Fondo F., Università
“L’Orientale” di Napoli. Una scelta di lettere di Carlo Antoni a
Raffaello Franchini a cura di Renata Viti Cavaliere Nota
introduttiva Si offre al lettore una scelta di lettere di Carlo Antoni a
Raffaello Franchini, tra le cui carte chi scrive ha rinvenuto una custodia, di
colore verde sbiadito, contenente la preziosa raccolta Sul risvolto di
copertina F. così annota. Sono lettere d’Antoni. Pubblicabili solo dopo molto
tempo: mutilarle sarebbe un grave errore. Poco più avanti aggiunge a mo’
di postilla: «+ 3 reperite in seguito. Sul non mutilarle farei riserve. +
1 reperita. In spirito di fedeltà, dunque, alla palese intenzione del mio
maestro di vedere un giorno stampate le lettere d’Antoni, e consapevole della
difficoltà a pubblicare ancor oggi integralmente il lascito epistolare,
preservo intatte alcune lettere ora destinate all’attenzione degli
studiosi, mantenendo la massima discrezione su quei contenuti riservati a cui
si allude nell’appunto manoscritto. Si è fatto in modo che non si perdesse -
nella scelta operata- il filo “logico” di uno scambio epistolare
intenso, che purtroppo conosciamo solo unilateralmente 3, riguardante pensieri
e dottrine che in quegli anni avevano impegnato molto Antoni incidendo
non poco su F., che per tanti versi si considerò sempre idealmente
suo allievo. Proprio allo scopo di non interrompere il dialogo sotteso al
carteggio, non sono ovviamente state escluse, solo per il fatto di essere state
già edite, le 6 lettere di Antoni che Franchini riportò quasi per intero
all’interno del sag gio in memoriam, scritto nel ‘69 nel decimo
anniversario della morte dello studioso 1 Un sentito ringraziamento
ai figli Laura e Vincenzo per avermi messo a disposizione i materiali
dell’Archivio F. Su alcune buste compare l’indirizzo vomerese di Via
Michetti, ma per lo più le lettere sono indirizzate a «Il Giornale» in
via Roma, e poi in Via Nardones, nel cuore dei Quartieri spagnoli a
Napoli. 3 Non è stato in alcun modo possibile reperire le lettere
di Franchini. Esse non sono presenti nel Fondo Antoni conservato a Roma a Villa
Mirafiori, e si deve seriamente ritenere che siano andate perdutetriestino,
costruendo intorno ad esse per buona parte l’affettuoso ricordo di una
magistrale lezione 4 . Dieci anni addietro infatti, nel corso del 1959, Franchini
si era trovato ad intervenire sul pensiero e l’opera di Carlo Antoni a
distanza di appena un mese: nel mese di luglio aveva recensito il
volume La restaurazione del diritto di natura, edito con Neri
Pozza, in una lunga nota sul «Mondo» dal titolo Le leggi di
Antigone, e nell’agosto fu chiamato purtroppo a scrivere nel giro di
poche ore, con sincero rammarico, In morte di Antoni. Amico
della verità 5, un corposo necrologio rivolto a celebrare la maestrìa del
grande discepolo di Croce, così fedele e al tempo stesso del tutto originale.
Le lettere qui pubblicate aiutano a focalizzare, per rapidi lampi di luce, quel
tratto di strada relativo ai precedenti anni Cinquanta, vissuti da
entrambi per lo più all’in terno della tradizione crociana, dalla quale sentirono
di non dover prescindere, a partire dagli ultimi anni di vita del
filosofo sino alla prematura scomparsa di Antoni. Sorprende per certi
aspetti l’ incipit della lettera di Antoni: «È da tempo che seguo
con vivo interesse la Sua attività di studioso, se si considera l’età di
F.. E’ pur vero però ch’egli puo già vantare una significativa
produzione scientifica, tra articoli di giornale e saggi, non soltanto di
esordio, e che i primi scritti risalgono già. F. infatti pubblicq una serie di saggi
su quotidiani napoletani come Il Corriere e «La Voce», e su riviste di pregio
come «Ethos» diretta da Pepe e «Lo Spettatore italiano» curato da Elena Croce e
Craveri Non credo si sbagli ad indicare nella recensione al volume di
Antoni Considerazioni su Il saggio dal titolo Antoni, lo
storicismo e la dialettica è nel volume F.,
Interpretazioni. Da BRUNO (si veda) a Jaspers, Napoli, Giannini. È
già uscito, con titolo diverso, nella miscellanea, Umanità e Storia. Scritti in
onore di Attisani, Napoli, Giannini. Il testo di F. su Antoni appartiene ad un
legato non agevolmente reperibi le, per cui le lettere in esso contenute
risultano per i lettori d’oggi come se inedite. F. racconta nelle sue note
autobiografiche di aver redatto in breve tempo, rinunciando ad andare ai
funerali, l’ampio articolo commemorativo per Il Mondo. Cfr. R. F., Autobiografia
minima, Roma, Bulzoni, Sulla prima produzione di F. si veda il volumetto di
Pagano, Storicismo e azione. Gli scritti di F., Roma, Cadmo. Il periodo è
di formazione e di studio tra le difficoltà della guerra, privo però di
documentazione a stampa Hegel e Marx (pubblicata nella rivista
«Ethos») l’atto d’inizio di un dialogo filosofico che anda via via
intensificandosi. Si può presumere infatti che Antoni, nella prima delle
lettere da me rinvenute, esprimesse un giudizio assai positivo sul lavoro dello
studioso avendo anche chiaro il ricordo di quell’articolo di due anni
addietro, nel quale si traccia di lui un bel profilo con riferimento ai
precedenti volumi Dallo storicismo alla sociologia e La lotta contro la ragione. In
realtà F. da allora in poi, e in più d’una occasione, ebbe
sempre gran cura di rievocare i pensieri di Antoni sia in segno di
consenso sia comunque per un doveroso riconoscimento dei suoi meriti
d’interprete. Valga ad esempio la recensione allo Hegel
di De Ruggiero (in «Lo Spettatore Italiano») dove compare un significativo
riferimento alla lettura che Antoni aveva proposto circa il carattere
intellettualistico e astrattivo della dialettica hegeliana nella prima triade
della Scienza della logica . In quella occasione, peraltro, F. non si
limitò ad illustrare i termini di una questione dai risvolti complessi,
ma suggeriva d’intendere il rapporto dell’essere col nulla, reali solo
nel divenire, come la prova evidente dell’uscita dalla immobilità
tautologica della vecchia identit à senza vita. In altre parole egli non
mostrò di approvare del tutto l’idea di un “tradimento” della dialettica
operato da Hegel nei confronti della sua creatura più preziosa, perché
l’essere e il nulla in quanto opposti, o contrari, animano il movimento d ella
realtà lungi dal fissarlo per dir così in uno schema triadico posticcio. Non
per caso, nell’esaminare i saggi raccolti da Antoni, F. mirò subito al
problema -Hegel che per il filosofo triestino rappresentò a lungo un cruccio
insuperabile, anche negli anni a venire. Tra critiche all’illuminismo e
all’irrazionalismo romantico si può dire che Hegel abbia redatto la
magna charta della speculazione moderna che è la dialettica, quasi un
segreto di difficile decriptazione. Mentre, però, Antoni si arrovellava
sul “rompicapo” che è l’essere da cui sprizza la scintilla del divenire
vitale, cogliendo in Hegel il restauratore della metafisica tradizionale, F.
Ristampato nel volume Esperienza dello storicismo, Napoli, Giannini. Il
ricordo di Ruggiero: lo studioso e l’uomo sta nel
volumetto Dalla filosofia della storia alla ragione storica, Napoli,
Giannini] mostrava maggiore apertura alla nuova logica che di fatto assorbe la
metafisica in una logica non più matematizzante. Molto acuta gli era pertanto
sembrata la critica di Antoni al ritmo dialettico hegeliano come risultante da
una sorta di contaminazione tra sillogistica e dialettica degli opposti, perché
in tal caso cominciava ad emergere il problema di una preferenza del filosofo
di Stoccarda rivolta in ogni modo al sillogismo piuttosto che al giudizio. Il
tema della dialettica si trova al centro dello scambio epistolare. Croce,
nonostante l’età avanzata e gli acciacchi che lo assillavano, aveva
scritto nuove e profonde analisi intorno all’origine della dialettica in Hegel
e sul tema della vitalità che per un verso complicava il sistema, mentre,
peraltro, lo arricchiva ulteriormente dall’interno. Nella recensione
all’ultimo libro di Croce Indagini su Hegel e schiarimenti
filosofici Franchini aveva chiamato ancora una volta in causa Antoni,
attribuendogli finanche il merito di aver suscitato nel maestro il bisogno di
un ripensamento della questione della dialettica. Antoni ne è lusingato ma al
tempo stesso si preoccupa dell’opinione del filosofo. Scrive a Croce un
biglietto di scuse per avere impropriamente adoperato l’espressione dialettica
dei distinti, e a F. una lunga lettera in cui chiarisce forse anche a se
stesso che la differenza da lui messa in luce tra la dialettica hegeliana
della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione, comunicata
a Croce pur con molta discrezione, ha forse finito per condurre il
filosofo proprio là dove egli non avrebbe voluto e dove per la verità non si
sentì mai di seguirlo: vale a Cfr. F., Il razionalismo
hegeliano, in Id., Dalla filosofia della storia alla RAGIONE
STORICA Vedi F., La crudele dialettica, Il Mondo. Si chiede F.: che cosa è
accaduto nei quarantasei anni che intercorrono tra il Saggio sullo
Hegel e gli ultimi scritti crociani su Hegel? Cosa ha spinto Croce a
tornare sul tema della dialettica in Hegel? Certo non la pubblicazione degli
scritti di Hegel, neppure il cosiddetto rinascimento esistenzialistico-fenomenologico
del filosofo di Stoccarda, e neppure i brillanti saggi di Negri. Semmai è stato
Antoni a sottolineare l’aporia intellettualistica nella hegeliana
formulazione del movimento dialettico. Croce, pur non rispondendo
direttamente alla questione posta d’Antoni, aveva voluto infine includere
l’opposizione nella logica dei distinti in modo che non si perde di vista
la drammaticità dell’atto generativo del prodursi del reale nel suo
significato logico-spirituale dire ad una sorta di primato della vitalità nel
suo dialettico rapporto con la vita morale. Come si legge nelle lettere,
l’intreccio di varie vicende offre snodi teorici, e non solo teorici,
particolarmente interessanti. Direi che tre possono essere considerate le
questioni più significative, che di necessità coinvolgono filosoficamente
il lettore al di là dell’apparenza di alcune diatribe contingenti. In
primo luogo si deve collocare il fatto importante della pubblicazione del saggio
di Antoni Commento a Croce, coevo al Congresso di filosofia che si svolse
a Napoli (con la relazione introduttiva d’Antoni) sul tema della
“conoscenza storica”. Connessa alla stampa del saggio d’Antoni è la
vicenda relativa al caso Fiore, che com’è evidente molto amareggiò
l’Antoni, e, infine, la questione, aperta da Croce molti anni addietro
(che per ovvi motivi torna in queste lettere), intorno al significato
dell’insegnamento della filosofia della storia nelle università italiane.
Gustosa, infine, l’osservazione ironica di Antoni a proposito del libro
di S prigge dedicato a Croce, relativa al celebre saggio Perché non
possiamo non dirci cristiani. Val la pena, quando ancor oggi si torna
spesso a discettare sul senso e sul ruolo di questo scritto, commentare la
strana insinuazione sui motivi prettamen te politici, benché anacronistici, che
l’avrebbero, secondo lo studioso inglese, ispirato. La recensione di
Franchini al Commento a Croce uscì dunque sulla Nuova Antologia.
Non so se furono pochi i lettori che ne presero visione, come
ipotizzava Antoni; certo è che ampia fu l’analisi di quel libro all’interno
del puntuale racconto (non però un esaustivo resoconto) scritto da
Franchini sul congresso napoletano di Filosofia, racconto-resoconto che uscì
negl’Atti dell’Accademia Pontaniana.. L’illustre interprete di Croce
dichiarò poi onestamente, con l’umiltà dello studioso intelligente, di
aver potuto vedere con Rimando alla monografia di Sasso,
L’illusione della dialettica . Profilo di Antoni, Roma,
Edizioni dell’Ateneo. Si veda anche l’esauriente saggi o di Biscione,
Antoni interprete di Hegel, in «Filosofia, con particolare riferimento al
volume postumo di Antoni, Lezioni su Hegel, Napoli, Bibliopolis, F.,
La conoscenza storica, in «Att i» dell’Accademia pontaniana, N.S., V,
Napoli (rist. in Metafisica e Storia, Napoli, Giannini, da cui si
cita) maggiore chiarezza i suoi pensieri, quasi in virtù del diradarsi di
una sorta di nebbia, attraverso l’illustrazione che ne aveva fatta
il giovane discepolo. Che posto ebbe dunque il Commento a Croce
nella discussione svoltasi durante il XVII Congresso di filosofia intorno al
cruciale problema della conoscenza storica? Anzitutto F. pone una questione di
politica culturale, assegnando alla relazione introduttiva di Antoni il
significato di un “riscatto” del valore filosofico dello storicismo
crociano rispetto alle posizioni sistematiche o, che è lo stesso,
problematicistiche, di coloro cioè che comunque presuppongono un assoluto,
sia esso raggiungibile oppure no. F. vide in Antoni una voce laica in grado di
contrastare dogmatismi annosi e quelle forze culturali poco sensibili alle
inquietudini dello spirito liberale anche nell’organizzazione degli
studi. La scelta di chiamare Antoni ad aprire i lavori del Congresso era stata
“politicamente” rilevante e teoreticamente acuta, perché si trattò del
riconoscimento di una linea di ricerca filosofica, tutt’uno c on la ricerca
storiografica, che appunto Antoni – così scrive F. - ha
spinto alle estreme conseguenze nei capitoli dedicati all’origine storica
della distinzione e ai RAPPORTI TRA L’ASSOLUTO E LA STORIA Il Commento a
Croce fu in quell’occa sione lo strumento di una militanza
filosofica di tenore essenzialmente etico-politico. Solo un filosofo
della storia, nel senso metodologico e non metafisico dell’espressione, puo
in piena consapevolezza gridare alto e forte il no dell’etica contro
le usurpazioni del politicismo comunista. Così F., forse con enfasi
eccessiva ma correttamente, collocava Antoni dalla parte dell’anti-totalitarismo,
anche memore degli studi da lui fatti sulla tragedia totalitaria della
Germania nazista. Sull’ibridazione di socialismo e liberalismo Antoni non è
d’accordo, come si sa, pur tuttavia mai egli nega il carattere
solidaristico di una politica economica curvata sul sociale, come infatti
emerge in alcuni tratti delle lettere a F.. Il Congresso affianca al tema
della conoscenza storica quello su Arte e linguaggio. È organizzato da
Battaglia e dalla SFI napoletana, e vide partecipi i principali esponenti degli
schieramenti filosofici del tempo, come Stefanini (si veda), Bontadini (si
veda), Spirito (si veda), Calogero (si veda), Fazio (si veda) Allmayer, Paci
(si veda), Filiasi-Carcano (si veda), e tra gl’organizzatori Carbonara (si
veda). Antoni è primo relatore e animatore, con numerosi interventi, delle
accese discussioni sino alla fine dei lavori. Antoni fu l ieto d’aver
partecipato al Congresso napoletano, sì da trarne soddisfazione morale e
politica, benché anche in seguito continuò a vedere nella cultura italiana
sempre e solo schiere di combattenti non proprio ad armi pari, specie là dove
le idee “confessionali” tornavano per lo più a compattarsi in vista
di un certo potere. La presenza di Antoni aveva ottenuto un esito importante:
aveva consentito agli esponenti di una tradizione storicistica sui
generis, alla quale Franchini si univa seguendo il cammino già di Ciardo,
Attisani, Parente, di testimoniare la volontà di un confronto con le
altre correnti della filosofia italiana e straniera. D’altronde, al
solito pregiudizio che tendeva a stanziare gli studi crociani nel
Sud dell’Italia, era stato p roprio l’Antoni, nel discorso di chiusura
delle sessioni del Congresso, ad opporre la realtà del pensiero di Croce, per
eccellenza europeo e mondiale nell’ispirazione e nei suoi fecondi risultati. F.
non si fa tuttavia sfuggire l’occasione di denu nciare i limiti di
presunte filosofie d’avanguardia. Tra l’altro lo stesso problema della
conoscenza storica, così posto nella sua purezza, poteva indurre nell’errore di
non considerarne il rapporto con la volontà e la vita morale, di
trascurare cioè il ruolo dell’individuo umano, che è un nulla se si vuole
rispetto all’infinito, ma è quel tutto che si realizza nell’opera singola e si
trasmette storicamente alle generazioni future in nome di una tradizione
critica. Non ha forse Croce detto chiaramente che storicismo è creare la
propria azione, il proprio pensiero, la propria poesia, muovendo dalla
coscienza presente del passato»? Chi, se non un individuo concreto e
responsabile, potrebbe essere mai l’artefice di tanta proprietà? Cos’è
lo storicismo se non il vero umanismo dei nostri giorni? Ad Antoni F.
tributa in definitiva il migliore degli omaggi sottolineando la teoreticità del
saggio su Croce, di quel “commento” messo lì a dissimulare forse con un
eccesso di pudore la nuova filosofia che nasceva dalla lettura intrinseca
del grande pensatore. I capitoli sulla Distinzione e sul Giudizio sono cruciali
nel libro di Antoni, profondi e utili quelli sull’individuo nella Storia
e sull’idea di progresso. Più d’ogni altro principio quello In
particolar modo Calogero e Attisani avevano messo in discussione la concezione
dell’individuo in Croce e Antoni. Croce, La storia come
pensiero e come azione, Bari, Laterza: Storicismo e umanismo, della distinzione
è appartenuto allo spirito italiano, da MACHIAVELLI (si veda) a BONAITUI (si
veda) Galilei, da VICO (si veda) a CROCE (si veda) attraverso LABRIOLA (si
veda) e SANCTIS (si veda). Nella logica crociana poi la distinzione correggeva,
secondo Antoni, gli effetti indebiti di una contraddizione perenne pur
nell’unità che ne è lo sfondo. L’identità allora diventa non già l’accordo
presupposto dei contrari ma il reale incontro dell’universale col concreto
nella forma conoscitiva del giudizio storico. Croce restaura così
– secondo Antoni - il principio d’identità,
rigenerandolo tuttavia nella nuova vita di un rapporto asimmetrico racchiudibile
nella formula a=A. E tra le categorie non passa spazio come per un salto dall ’
uno all ’ altro contesto. «In realtà il sistema, scrive Antoni, è quello di
un’unica categoria reale e attiva, che è l’Io, di cui le categorie
sono articolazioni. Lo stesso trapasso della conoscenza nell’azione non può
essere inteso come un passaggio radicale da una categoria all’altra, quasi che
la conoscenza d’una situazione storica non fosse già guida ta da una
volontà e da un interesse e l’azione non fosse guidata, lungo l’intero
suo svolgimento, dalla conoscenza» La lettera è davvero illuminante a tal
proposito: Antoni, platonicamente, indicava nell’Idea del Bene l’idea
-guida dello spirito umano, incisa in noi per definirsi nel tempo in
quella che felicemente chiamiamo “storia della civiltà”. Profonda
fu l’amarezza di Antoni dopo aver letto la recensione di Fiore al suo
“Commento” nel Ponte. Il suo dispiacere nasceva anche dal fatto che i
direttori, succeduti al Calamandrei nella gestione della rivista, erano almeno
dichiaratamente suoi amici. Nella recensione non si sottolineavano, com’è
pur giusto fa re, eventuali spunti critici per una filosofica
discussione, ma si assumeva nei confronti dell’Autore un atteggiamento ostile
in partenza, probabilmente per motivi che non si direbbero solo di
carattere teorico. E difatti si accusava Antoni, «l’unico supe rstite del
crocianesimo in un mondo che crociano non è» (come se il mondo aspettasse di
assumere un colore politico o una preferenza culturale per decreto della Storia)
di aver discettato di problemi morali e F. cita da Antoni, Commento
a Croce, Venezia, Neri Pozza, Vedi T. Fiore, rec. a C. Antoni, Commento a
Croce, in «Il Ponte, Tumiati assunse la direzione della rivista fondata
da Calamandrei, in un primo tempo, dinsieme con Agnoletti politici in maniera
distaccata dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto e
animato. Le “infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi
di Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo
fossilizzato, quasi che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi
segnalate come devianze, talvolta vere e proprie concessioni a un larvato
gentilianesimo. Inutile dire che questo avveniva, e poteva esser fatto, solo
sminuzzando il discorso di Antoni e calcando la mano su alcune frasi o concetti
che risultavano distorti nel loro effettivo significato. Date le premesse, non
stupisce la conclusione cui giungeva il recensore quando si chiedeva: “
ma quale crocianesimo è questo? ” se, difatti, Antoni si era permesso di
seminare dubbi, di rivelare incertezze e contraddizioni nel sistema. La peggior
cattiveria nello scritto del Fiore consistette però nell’attribuire ad
Antoni una sorta di astenia emotiva, ben altra cosa rispetto alla passione
democratica del Ruggiero e al civismo mazziniano d’OMODEO (si veda),
entrambi già scomparsi . Eppure Tommaso Fiore era andato da amico e sodale ad
accogliere Antoni a Bari in una precedente visita dello studioso nella città
pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva fatto parte del movimento
democratico meridionale con Martino, Dorso, in continuità con Salvemini,
Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero e Fiore, si videro
rifiutare e aspramente criticare il manifesto liberalsocialista da Croce, il
quale tendeva a separare il concetto di libertà, per lui superiore,
dall’idea di giustizia. Dissonanze politiche pesarono probabilmente più
del dovuto sulla “scombinata” e certo solo velatamente scientifica recensione
che Fiore redatta sul libro di Antoni. Per una curiosa ironia della sorte
sia Antoni che Franchini hanno ricoperto, a distanza di un decennio,
incarichi universitari nell’ambito del settore filosofico sulla disciplina
della Filosofia della storia, tanto avversata da Croce. Pur tra molte
difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni riusciva nel ’54 a cambiare
titolarità (adempiendo ad un impegno preso col filosofo), chiamato infine
sulla cattedra di A Fiore è stato dedicato un intero fascicolo della
«Rivista Pugliese» di Bari, comprensivo del carteggio con Rosselli e con
Dorso. Antoni aveva precedentemente insegnato Letteratura tedesca a
Padova politici in maniera distaccata
dalla realtà, realtà che pure in gioventù lo aveva attratto e animato. Le
“infedeltà” o presunte tali riscontrate dal recensore nei riguardi di
Croce venivano prima denunciate in nome di un crocianesimo fossilizzato, quasi
che lo si volesse difendere a tutti i costi, e poi segnalate come devianze, talvolta
vere e proprie concessioni a un larvato gentilianesimo. Inutile dire che questo
avveniva, e poteva esser fatto, solo sminuzzando il discorso di Antoni e
calcando la mano su alcune frasi o concetti che risultavano distorti nel loro
effettivo significato. Date le premesse, non stupisce la conclusione cui giungeva
il recensore quando si chiedeva: ma quale crocianesimo è questo?
se, difatti, Antoni si era permesso di seminare dubbi, di rivelare incertezze e
contraddizioni nel sistema. La peggior cattiveria nello scritto del Fiore
consistette però nell’attribuire ad Antoni una sorta di astenia emotiva,
ben altra cosa rispetto alla passione democratica del De Ruggiero e al
civismo mazziniano dell’Omodeo, entrambi già scomparsi . Eppure Fiore era
andato da amico e sodale ad accogliere Antoni a Bari in una precedente visita
dello studioso nella città pugliese; Fiore era un antifascita convinto e aveva
fatto parte del movimento democratico meridionale con De Martino, Dorso, in
continuità con Salvemini, Gobetti e Rosselli. Un po’ d’anni addietro, Calogero
e Fiore, si videro rifiutare e aspramente criticare il manifesto
liberalsocialista da Croce, il quale tendeva a separare il concetto di
libertà, per lui superiore, dall’idea di giustizia. Dissonanze
politiche pesarono probabilmente più del dovuto sulla “scombinata” e
certo solo velatamente scientifica recensione che Fiore redatta sul libro di
Antoni. Per una curiosa ironia della sorte sia Antoni che F. hanno
ricoperto, a distanza di un decennio, incarichi universitari nell’ambito
del settore filosofico sulla disciplina della filosofia della storia, tanto
avversata da Croce. Pur tra molte difficoltà burocratico-isti tuzionali Antoni
riusciva nel ’54 a cambiare titolarità (adempiendo ad un impegno preso
col filosofo), chiamato infine sulla cattedra di A Fiore è stato dedicato
un intero fascicolo della «Rivista Pugliese» di Bari, comprensivo del
carteggio con Rosselli e con Dorso. Antoni aveva precedentemente
insegnato Letteratura tedesca a Padova Storia della filosofia moderna e
contemporanea nell’Università di Roma. Franchini ottenne l’incarico didattico
nell’Uni versità di Napoli dopo aver conseguito la libera docenza,
inaugurando il corso con una prolusione sulla Filosofia della storia,
materia che si accingeva ad insegnare. Antoni non riuscì a recarsi a Napoli per
assistervi, ma poté leggerne il testo su «Criterio» con sincero compiacimento F.
traccia in quell’occasione il profilo storico della questione, dai pensatori
cristiani fino a Hegel, a Spengler e Toynbee, difendendo l’insegnabilità di
una disciplina che mira a conoscere un secolare bisogno dell’animo
umano»rivolto a dare un senso generale alle epoche storiche. S’intende
che la filosofia della storia, in quanto caso particolare della
metafisica, anda svecchiata e in un certo senso riformulata attraverso la
metodologia storica non disgiunta dalle sempre essenziali ricerche di
storia della storiografia. Egli si appellava alla tradizione “locale” ma
europea di Vico, Sanctis, Spaventa, Omodeo. Non fa però il nome di Labriola,
ricordato invece da Antoni (lettera) insieme al caso Ferrero e alla oramai
lontana, nel tempo, battaglia contro la filosofia della storia in un celebre
discorso che Croce tenne al Senato del Regno. La prolusione di F. si chiudeva
con un omaggio «al primo docente ufficiale che di questa materia l’Italia
abbia avuto, il nostro Maestro ed Amico Antoni. La recensione al libro di
Sprigge merita qualche nota in margine, anche a difesa dell’interprete
inglese sul quale potrebbe pesare fin troppo l’icastica osservazione di
Antoni che gli attribuisce una lettura del rapporto di Croce col cristianesimo
sulla base di mere considerazioni politicistiche. Franchini cercò allora
La Prolusione uscì in due puntate su «Criterio», la rivista diretta a Firenze
da Ragghianti. «Criterio» fu poi ripresa da F. nella Nuova Serie Filosofica, e
da lui diretta Il discorso in Senato non conteneva, contrariamente a quanto
talvolta si è lasciato intendere, alcun riferimento a Ferrero (per il quale si
veda invece la nota di Croce in Conversazioni critiche, serie I, Bari,
Laterza. Il testo del discorso in Senato si può leggere in Discorsi
parlamentari, con un saggio di M. Maggi, Bologna, Il Mulino. Su Croce e
Ferrero si veda la nota di F. Tessitore in «Rivista di Studi crociani.
Sulla riconciliazione di Croce e Ferrero, in nome di un comune sentire negli
anni bui del fascismo, rimando a A. Parente, Croce per lumi sparsi,
Firenze, La Nuova Italia, La Prolusione è poi ristampata in F.,
Metafisica e Storia, di dipanare la controversa materia, riconoscendo
allo Sprigge la buona fede pur nella ripetizione del luogo comune per il quale
si attribuivano a Croce inclinazioni e spirito conservatori. In effetti Croce
aveva mostrato sempre “comprensione” per la Chiesa cattolica, ciò non
pertanto lo scritto, che pure piacque molto per evidenti ragioni a taluni
cattolici, fu una risposta alla sfida dei fatti sulla base di principi teorici
che in ogni modo ispirarono il filosofo, il cui sguardo per necessità
mirava ad assumere connotati universali “oltre” la mera contingenza delle
circostanze politiche. E tuttavia il contenuto di quel testo è sempre
“presente” nel suo significato inequivocabile. La figura di Gesù, al
centro del cristianesimo, ha rappresentato un messaggio ancora fermamente
iscritto nel cuore della modernità e dentro la storia del mondo contemporaneo,
sia per gli appartenenti ad una chiesa sia per i laici credenti e non
credenti. Non in poco conto pertanto dev’essere tenuto il plurale
espresso in quel “noi” ( Perché [noi] non possiamo non
dirci cristiani ), che difatti esclude il discorso in prima persona, ed esclude
che si tratti della confessione di un sentimento segreto. Parimenti
estranee all’argomento crociano furon o le polemiche anticlericali, del tutto
fuori luogo in un contesto che, come può verificare ogni attento lettore, fu di
carattere teoretico e storiografico. Il cristianesimo non è stato un miracolo,
ma un processo storico; anche se proprio il fatto di aver intersecato
profondamente le vicende storiche di una così vasta parte del mondo lo rende
una sorta di evento straordinario, non però diversamente, in chiave
ontologica, dal miracolo che ogni ente è, e dall’eccezione che noi tutti
siamo. Le lettere, fatt esi più rare, raccontano di vicende accademiche e
di fatti quotidiani, di brevi viaggi e di alcuni malanni che affliggevano
Antoni già da qualche tempo. Al centro peraltro sta la figura di Scaravelli,
scomparso tragicamente. Nella Commemorazione pisana Antoni aveva tracciato
dello Scaravelli, a pochi mesi dalla morte, un profilo davvero La
recensione al saggio di Sprigge, Croce, l’uomo e il pensatore
(Napoli, Ricciardi) apparve su Criterio con il titolo Un profilo del
Croce, ed è ristampata nel volume L’oggetto della filosofia,
Napoli, Giannini, La commemorazione letta nella Sala degli Stemmi della Scuola
Normale Superiore è nel volume di
Antoni, Gratitudine, Milano-Napoli, Ricciardi, Caro F., ho letto
la recensione, che Le restituisco. Mi rallegro con Lei per il fatto che il Suo
libro sia stato recensito dalla «Historische Zeitschrift», che resta tuttora la
migliore rivista tedesca di studi storici. È un onore per Lei. In quanto alla
recensione stessa, essa ha il consueto carattere informativo delle recensioni
tedesche, nelle quali di rado si prende posizione. Naturalmente noi, abituati
allo stile delle recensioni crociane, ci impazientiamo dinanzi a tanta
acriticità. Ignoro chi sia questo Funke. Con i più cordiali saluti Suo Antoni
Ha visto il mio Tramonto delle ideologie sul «Mondo»? Roma Mio caro
F., Si tratta della recensione di Funke al saggio di F.
Esperienza dello storicismo, in «Historische Zeitschrift», Antoni aveva scritto sul «Mondo» un lungo e
denso articolo sul volume di F., che si può leggere nella raccolta Il
tempo e le idee, a cura di M. Biscione, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,
Vedi «Il Mondo», in Il Tempo e le idee, cpartecipe, in spirito di
amicizia e di stima per un uomo schivo e assai colto, conversatore brillante
che sapeva «passare dalla musica classica al romanzo francese, dalla pittura
alla fisica nucleare». Giunto alla filosofia da studi scientifici, di matematica
e di medicina, Scaravelli si era infatti misurato con i grandi della tradizione
filosofica specie su temi di logica pura per certi versi, ma in virtù
dell’intento di far pre valere il capire sull’esistere. A Croce e Gentile
dedica con acume le sue fatiche d’interprete, non meno che a Platone, Cartesio,
Kant, Heidegger, Heisenberg. In ogni modo egli aveva cercato di risolvere
un suo problema teoretico. Antoni scrive a F. (lettera): «Il problema di
Scaravelli era quello di dedurre il molteplice dall’identico, cioè di scoprire
o capire come la grande madre genera i suoi figli. Problema insolubile perché
pur muovendo dal principio d’identità indispensabile per la comprensione
dei significati, Scaravelli dovette infine arrendersi alla sua
dissolvenza aprendosi piuttosto al giudizio delle forme concrete
dell’esistere storico. Si trattava del problema della creazione del
mondo, concludeva Antoni, riassumendo così in una formula efficace le puntuali
analisi contenute nella Critica del capire, ch’ebbero il merito di
rompere il silenzio con cui il libro fu accolto, nonostante il parere
molto positivo espresso dallo stesso Croce. Manca,
infine, il tempo per discutere tra amici intorno all’ultimo libro di
Antoni La restaurazione del diritto di natura . F. ne aveva parlato
nel numero di luglio del «Mondo», accogliendo senza riserve la proposta, in
apparenza assai poco storicistica, di un “ritorno” al principio
dell’etica universalmente umana, la sola capace però «di evitare le
pericolose conseguenze del predominio della tecnica e della civiltà di massa».
Egli ebbe forse bene a mente le parole adoperate da Antoni in una lettera di
qualche anno prima: alla base del giudizio storico e dell’azione morale e
politica sta la luce di un concetto universale dello spirito umano che
tuttavia, proprio nella forma di un umanesimo rinnovato, non contrasta affatto
con la visione Si veda la lunga recensione di Antoni a Scaravelli,
Critica del capire, Giornale critico della filosofia italiana, Vedi lettera,
più avanti riportata storicistica e dialettica della vita con tutte le sue
imprevedibili e particolarissime circostanze. Roma Caro dott. F., è da tempo
che seguo con vivo interesse la Sua attività di studioso. Così ho letto la Sua
bella recensione del libro del Ciardo e il Suo articolo su GRAMSCI (si veda),
comparso sullo «Spettatore. Ho ricevuto oggi la sua memoria su Storicismo
e relativismo, che ho letto subito. Penso che il suo esame del
rapporto e la differenza tra “storicismo” e “istorismo” ossia relativismo
storicistico sia molto opportuno oltre che acuto. Ella mi muove un lieve
appunto: quello di aver attribuito al Troeltsch il merito di aver
introdotto nell’uso comune il termine di “storicismo”. Mi sembra però di
aver detto una verità incontestabile: anche se al termine il Troeltsch
continuava a dare un significato deteriore, tuttav ia egli ha introdotto l’uso
del termine stesso nel dominio della storiografia e della riflessione sui
metodi della storiografia. Soltanto dopo di lui si parla di storicismo moderno,
di problemi, crisi ecc. dello storicismo. Se Ella ha occasione di venire a
Roma, sarò assai lieto di vederla e di conversare con lei. Con cordiali
saluti La recensione al libro di Ciardo, Le quattro epoche
dello storicismo, era uscita in «La parola del passato», (rist. nel volume F., Esperienza dello
storicismo, Napoli, Giannini, Si tratta dell’articolo La
“metodologia dell’azione” di A. Gramsci, uscito in Lo Spettatore italiano La
rivista si pubblica a Roma per iniziativa di Elena Croce, figlia maggiore del
filosofo, e del marito Raimondo Craveri. Cfr. R. Franchini,
Storicismo e relativismo, in «Atti» dell’Accademia Pontaniana (rist. in
Esperienza dello storicismo) Roma, Caro F., di ritorno da Bari, dove
sono stato a tenere una conferenza agli “Amici della cultura”, trovo la
sua lettera e mi affretto a rispondere, ossia a rilasciarle il “certificato”
che desidera. Con cordialissimi auguri Suo Carlo Antoni Roma, È da qualche anno
che seguo con molta attenzione gli scritti che F. va pubblicando nelle riviste.
Alcuni di essi, infatti, hanno già recato un contributo di chiarificazione e di
critica assai notevole nel campo degli studi storico- filosofici: Tutti, poi,
indistintamente sono la testimonianza d’un ingegno assai vivace, fine,
sensibile ai più urgenti problemi della filosofia e della vita.
Oltre a rivelare una preparazione culturale assai ricca e sostanziosa, essi
indicano anche un raro senso di umanità. Tra i giovani dell’ultima
generazione il Franchini è certamente uno dei più promettenti. Per le sue
doti intellettuali e morali ritengo anche che possa 32 Segue
la lusinghiera lettera di presentazione di Antoni sull’operosità di F., i l
quale di lì a poco entra a far parte del corpo docente del liceo classico della
scuola militare napoletana essere un magnifico insegnante, tale da mantenere
alto il prestigio di cui ha sempre goduto il collegio della
Nunziatella. Carlo Antoni Roma Mio caro F., ho letto con grande interesse
il Suo saggio 33 e soprattutto la parte che mi riguarda. Ella ha
afferrato perfettamente il mio pensiero (La ringrazio anche per averne messo in
rilievo la novità), tanto perfettamente da trarne le conseguenze, che io
non avevo voluto trarne, malgrado che mi avvedessi che c’erano. In effetti Le
confesso che ho i miei dubbi intorno ad una “dialettica” dei distinti. Di
questo dubbio Lei trova traccia del resto nella recensione che feci
allo “Hegel” di Ruggiero. In ogni caso sono assai lieto della penetrante
attenzione che Ella dedica ai miei scritti. Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F.,
Il saggio è: Morte e resurrezione della dialettica da Hegel a Croce,
in «Letterature moderne (rist. in Esperienza dello storicismo,
cit.) il Suo articolo mi ha fatto, com’è naturale, un immenso piacere.
Attribuirmi il merito di aver provocato in Croce il bisogno di
riesaminare la questione della dialettica è, non occorre dirlo, rendermi il
massimo degli onori. Ma Croce stesso che ne dice? Vorrei sapere se approva il
Suo articolo. Con saluti cordialissimi Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La
ringrazio per la Sua lettera e per le notizie che mi dà. Come Ella può
comprendere, la questione, da Lei sollevata nel Suo articolo, ha per me una
grande importanza. Le dirò come io veda la cosa. Quando pubblicai il mio
saggio sulla Dialettica di Hegel, in cui ne denunciavo il carattere
intellettualistico, saggio ri stampato nel ’46 nelle mie “Considerazioni, Croce
ne prese conoscenza, tanto che mi segnalò il Suo articolo in proposito, ma non
si propose il problema. Sono tempi in cui Croce, tutto preso
dall’attività politica, non ha probabilmente l’agio di ritornare sulle
sue idee intorno alla dialettica. Il mio saggio suscita l’interesse di RUGGIERO
(si veda), che lo cita con molta lode nel suo “Hegel”, ma senza prender
posizione. Per quanto riguarda questa mia prima osservazione, penso che Croce
abbia ragione nel negare che la sua revisione sia stata provocata da me.
34 Il riferimento è al saggio: La crudele dialettica,
uscito su «Il Mondo. Tutti gli scritti di Franchini che uscirono nella
rivista di PANNUNZIO (si veda) sono raccolti nel volume Pensieri
sul “Mondo”, a cura di Cavaliere, Gily, e Melillo, con una Presentazione
di Cotroneo, Napoli, Luciano; Antoni, La dialettica di Hegel, Poesia e
verità; rist. in Id., Considerazioni su Hegel e Marx, Napoli. Si
ricorda che F. recensì le Considerazioni nella rivista Ethos. Ma io
giunsi all’altra osservazione e cioè alla netta distinzione tra la hegeliana
dialettica della contraddizione e la crociana dialettica dell’opposizione.
Essa si connetteva alla mia prece dente attribuzione a Croce della restaurazione del principio
d’identità. Ero molto incerto se comunicare o no a Croce questa mia
osservazione, che avevo svolto nel corso universitario di quell’anno. Mi
rendevo conto, cioè, che essa avrebbe provocato un grave turbamento ed un
bisogno di una radicale revisione del pensiero crociano nei confronti di Hegel
e della dialettica in generale. Mi consultai con parecchi amici. Tra costoro
Bacchelli, al quale ricorsi e per la sua sensibilità umana e psicologica e per
la devozione che aveva per la persona di Croce, mi dissuase dal farlo, dicendo
che oramai era meglio lasciare tranquillo il glorioso vegliardo e non
costringerlo alla sua età a un siffatto sforzo. Tuttavia la cosa mi tormentava,
dato che ritenevo che Croce avesse attribuito a Hegel la sua propria gloria e
mi dispiaceva che potesse morire senza essersi reso conto della propria
originalità nei confronti di quel suo maestro. Dopo che si fu ripreso dalla grave
malattia, che lo colpì, mi feci coraggio e gli scrissi. Croce mi rispose con
una lettera che era un’accettazione di massima, ma contenuta in termini
un po’ generici. Si vedeva che si riservava di meditare per suo conto l’intera
questione. E infatti poco dopo cominciarono a uscire i suoi nuovi scritti
intorno alla vitalità e al suo carattere dialettico, e in genere intorno a
Hegel e alla origine della dialettica hegeliana. Il punto di partenza di questi
scritti, però, è fornito dal momento della vitalità, al quale Croce riporta
tutta la dialettica: sia la teoria hegeliana per sé stessa, sia la dialettica
della vita e dello spirito in sé. In questo modo Croce andava, in certo senso,
più in là della mia osservazione, scavalcandola e prendendo tutt’altra
direzione. Le dirò che, invece, per mio conto ho proseguito in
direzione ben diversa. Nel corso di quest’anno ho svolto un esame dell’intera
questione, che mi ha portato a risultati che contrastano con le tesi
recentissime espresse da Croce.Per concludere penso che Croce, pur essendo
stimolato dalla mia seconda osservazione, a riproporsi lo studio della natura
della dialettica, è stato condotto alle sue nuove idee dal senso più
accentuato dell’importanza della vitalità. Con cordialissimi saluti Suo
Carlo Antoni Roma, Mio caro F., La ringrazio di aver pensato a me in questi
giorni. Come sempre succede, nei primi momenti dopo la scomparsa di persona
cara, non ci si rende conto del tutto della perdita. Il senso di vuoto viene
dopo. Così accadrà per noi tutti: ma dovremmo anche cercare di restare uniti.
Il Suo articolo comparso nel «Mondo» mi è molto piaciuto. Vorrei vedere il
fondo del «Times»: non potrebbe spedirmelo in prestito? Glielo restituirei
subito. Arrivederci tra breve Suo Carlo Antoni Roma, F., Croce, Il
Mondo Caro F., ho ancora sul mio tavolo la lettera, che ho ritrovato al mio
ritorno dalle vacanze. Vorrei che Lei mi desse qualche notizia sul concorso, di
modo che io possa eventualmente intervenire presso i commissari. Ho letto con
piacere i Suoi due articoli: quello su Mann 37 e quello sul libro del
Sainati 38 . Sulla personalità di Mann faccio molte riserve. Si parlò di lui
con Croce, l’ultima volta che lo vidi, ed in fondo Croce era d’accordo,
quando dicevo che dagli scritti di Mann veniva su un certo lezzo di
frollo, se non addirittura di marcio. Attendo il Suo volume. Suo Carlo Antoni
Roma, 11 aprile 1954 Caro F., con l’editore Pozza, che era qui in questi
giorni, ho esaminato la questione della traduzione d’una scelta di lettere di
Hegel I due volumi della nuova edizione Su Mann è uscito il saggio
Nobiltà dello spirito sia in «Il Giornale» sia in «Il Gi ornale di
Trieste». Di Sainati si parlava a lungo nell’articolo Studi crociani,
apparso su Il Mondo. Il progetto di curatela dell’epistolario hegeliano
presenta più d’una difficoltà. La nuova edizione dell’Hoffmeister avrebbe
dovuto far fede, assai più dell’edizione curata dal figlio del filosofo, ma è al
momento incompleta. L’idea allora di rifarsi alla precedente edizione, da
integrare eventualmente con le lettere ritenute significative, si mostrò
impraticabile. F. avrebbe dovuto occuparsi della traduzione di una scelta
di lettere e della stesura dell’introduzione storico -critica. Non se ne fece
nulla, nonostante la buona disposizione di Pozza e l’interessamento
di Ragghianti del Meiner, curata da Hoffmeister, arrivano. Sono previsti altri
due volumi. La nuova edizione reca il copyright con espressa riserva dei
diritti di traduzione. Per mia esperienza prevedo che le pretese di Meiner
sarebbero esose. Da un rapido confronto con la vecchia edizione curata
dal figlio, ho tratto l’impressione che la nuova non rechi molto di
nuovo. In ogni caso, se ci si volesse attenere a quest’ultima, si
dovrebbe attendere l’uscita dei due ultimi volumi, che chi sa quando si
attuerà. Con Pozza sono quindi giunto alla conclusione che ci conviene rifarci
alla prima edizione, che reca anche sufficienti note. Ove risultasse qualche
nuova lettera molto importante nella nuova edizione, il Pozza chiederebbe il
diritto di traduzione per essa. Ella dovrebbe quindi cominciare il lavoro di
scelta. Non le nascondo che dalla lettura delle lettere il compito della
traduzione mi è apparso molto arduo. Con cordiali saluti Suo Carlo Antoni Roma Caro
F., grazie per le Sue parole. Si tratta in fondo d’un semplice
cambiamento del titolo della mia cattedra, che era poi una sorta d’impegno che
avevo assunto con Croce. Ancora l’ultima volta che lo vidi, Croce mi raccomandò
di fare cambiare quel titolo di “filosofia della storia”, che
proprio non gli andava giù . Gli spiegai
allora Alla notizia dell’ottenuto conferimento della cattedra di filosofia
della storia nella facoltà di lettere di Roma, Croce nel congratularsi con
l’Antoni, così gli scriveva: «Se la parola sociologia è screditata
per la sua volgare origine positivistica, quella di filosofia della
storia è del pari screditata per la sua origine teologica e metafisica. Lei si
deve subito dar da fare per cangiarlo». Cfr. Lettera di Croce ad che la
procedura non era facile, ed infatti ci sono voluti parecchi anni, con modifiche
allo statuto, per raggiungere il risultato 41 . Sono ansioso di leggere sulla
Nuova Antologia la Sua recensione: peccato che sarà letta da pochi!
L’intervento di Tagliacozzo mi ha sorpreso: è un esempio del cattivo modo
in cui un discepolo può seguire un maestro, cui è affezionato. Con
cordialissimi saluti, Suo Carlo Antoni Roma, Mio Caro F., bellissima la Sua
recensione, per cui Le sono molto grato
Mi dispiace soltanto che essa compaia nella Nuova Antologia, dove sarà
letta da pochi. La Sua osservazione o previsione sulla sorpresa di molti che
scopriranno quanto complessa sia la filosofia crociana, mi ha divertito e fatto
ricordare come spesso mi sia toccato di sentire che quella filosofia non è
interessante, perché non è problematica. Mi è piaciuto anche il modo,
assai fine, con cui Ella sa definire la mia posizione verso le dottrine del
Maestro. Antoni, in Carteggio Croce-Antoni, a cura di Musté,
introduzione di Sasso, Bologna, Mulino,
Antoni e chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea. La recensione al libro di Antoni Commento a
Croce uscì con questo titolo sulla rivista Nuova Antologia. Ottimo
pure l’articolo sulla Storia e conomica del Kulischer, anche dal punto di vista
giornalistico. Sarà bene che ci vediamo prima della scadenza dei termini per la
presentazione delle domande di libera docenza. Mi reco a Firenze per
incontrarmi con Ragghianti e Pozza, e sarò di ritorno soltanto il 30.
Cordialmente Suo Carlo Antoni Roma, Mio caro F., una bronchite con i
fiocchi – si direbbe ch e quest’anno sono iettato
– mi ha tenuto a letto per una settimana e ancora non so quando
potrò uscire di casa. Prevedo che dovrò rinunciare al progetto di venire a
Napoli per la Sua prolusione: è un vero dispiacere per me, perché ci tenevo ad
essere presente. Il primo insegnante di “filosofia della storia” è stato,
a quanto mi consta, ROVERE (si veda), poi a Roma LABRIOLA (si veda) tenne
tale insegnamento per incarico, con Antoni si rifere al saggio dal
titolo Una storia del progresso uscito su Il Giornale (rist.
in F., L’oggetto della filosofia, cit.). Antoni si era
prodigato l’anno prima per l’inserimento della Filosofia della storia
nell’elenco delle libere docenze. F. sostenne gli esami di abilitazione
alla libera docenza in Filosofia della storia superandoli brillantemente. Tra i
commissari Battaglia, Attisani e
Falco. F. inaugura il suo corso di filosofia della storia a Napoli
con una prolusione dal titolo La Filosofia della
storia, il cui testo uscì poi sulla rivista «Criterio» diretta da Ragghianti,
in due puntate. Il testo della lezione inaugurale venne infine ristampato nel
volume Metafisica e Storia, molto successo. Nella mia prolusione tenni ad
accennare alla continuità ideale, tramite Croce. La proposta di attribuire la
cattedra a Ferrero, provocata da un clamoroso intervento del presidente Teodoro
Roosevelt, fu bocciata dal Senato. Croce tenne allora un famoso discorso, che valse
a far cadere la proposta, del resto poco gradita dal mondo accademico di
allora. Suo Carlo Antoni Roma Mio caro F., Ella può ben immaginare con quanto
piacere ho letto e riletto la Sua memoria alla Pontaniana. Anzitutto essa mi ha
confortato confermando l’utilità del mio intervento al Congresso di Napoli. Ma
anche la parte che più propriamente riguarda il mio “Commento” mi è stata
di grande vantaggio. In fondo, si guardano i propri scritti sempre un po’
attraverso una nebbia: un osservatore acuto ed esperto, come Lei, è di grande
aiuto a discernere le linee principali del proprio pensiero. La ringrazio,
dunque, con molto affetto La Prolusione dal titolo La dottrina
dialettica della storia è nel volume postumo Storicismo e antistoricismo,
a cura di M. Biscione, introduzione di A. Pagliaro, Napoli, Morano, nella
Collana di Filosofia diretta da E.P. Lamanna e P. Piovani. Antoni si
rifere al celebre discorso di Croce al Senato del Regno, nella seduta,
Sul disegno di legge “Istituzione di una cattedra di Filosofia della
storia presso la Università di Roma”, che ora è possibile leggere nel
volume Benedetto Croce. Discorsi parlamentari, con un saggio di
Maggi, La memoria accademica di cui si parla riguardava l’ampio resoconto
critico che Franchini scrisse intorno al Congresso di Filosofia che si è
tenuto a Napoli, dove Antoni è stato invitato a tenere la relazione
introduttiva sul tema della conoscenza storica. Aliotta sul «Giornale
d’Italia» sottolinea l’importanza di una tradizione di storicismo crociano. La
memoria di F., dal titolo La conoscenza storica, uscì negli Atti dell’Accademia
Pontaniana, (rist. in Metafisica e Storia Roma Mio caro F., la Sua
osservazione tocca un punto, che aveva già suscitato le perplessità del mio
amico Attisani. Nel mio articolo esso era trattato troppo sommariamente.
Bisognerà che ci ritorni sopra. In ogni caso voglio subito avvertirla che non
penso a qualcosa di medio tra conoscenza storica e azione, ma al semplice fatto
che noi pensiamo e giudichiamo la storia alla luce di quel concetto
universale dell’uomo o dello spirito umano, che è il medesimo che orienta
la nostra azione morale e politica. Questo concetto, in quanto principio
dell’azione morale, è l’idea del Bene. Essa è vera, anzi è la verità che
abita in noi, ma si va definendo e chiarendo attraverso la storia, che per
questo è storia della civiltà. Aggiungo che non vi è distinzione tra categoria
e coscienza della categoria, anche se la prima appare eterna e
l’altra storicamente relativa: la categoria è sempre coscienza di sé, ma
si va rendendo sempre più cosciente, come, mi sembra, sia insegnato da Croce
nelle parti storiche dei suoi trattati. Ha fatto bene ad accettare
l’invito al “Simposio” laterziano. Sono curioso di sapere quali sono gli
altri invitati. Ella non manca di combattività, sicché sono tranquilli per la
buona causa. Non sono sicuro di resistere al caldo fino alla fine del mese.
Tuttavia la prego di telefonare a casa mia al Suo passaggio da Romagrazie per
la Sua lettera di consenso al mio articolo sul socialismo. È una
conferenza, che tenni a Zurigo e che poi fu raccolta in un volume pubblicato in
Svizzera. Avendo avuto una certa eco in Svizzera e Germania, pensai che era
utile farla conoscere, anche in relazione alla situazione dei radicali. In
effetti mi sembra di aver ottenuto qualcos a: un socialista come Silone
ha sentito il bisogno di telefonarmi per dirmi che era d’accordo. Come Ella si
sarà accorto, la parte più importante è l’ultima, dove io cerco di venire
incontro alle “istanze” sociali senza cadere nelle confusioni del liberal
-socialismo calogeriano. Mi sembra che proprio avendo attribuito al liberismo
un carattere etico-politico, si possa dargli anche un nuovo carattere
positivo, liberatore, sociale. In quanto all’indirizzo del Mondo, alcuni
amici mi hanno fatto osservare c he da alcune settimane era piuttosto
moderato. Poiché le critiche, che io Le esposi nella nostra conversazione
per strada, le vado facendo a Pannunzio appunto da alcune settimane, forse non
è presunzione la mia, se suppongo di aver ottenuto qualcosa anche in questo
senso. Va benissimo per la recensione a Sprigge, dove c’è da obiettare ad una
sorta d’insinuazione (Croce avrebbe scritto l’articolo sul perché non possiamo
non dirci cristiani, che sappiamo aver avuto carattere anti-nazista, perché
prevedeva l’alleanza con la Dem. Cristiana!) Suo Antoni Roma, Le
convinzioni di Antoni sul socialismo, sul liberalismo e sulla incongruità di un
liberalsocialismo furono sempre chiare e lineari. Franchini concordava. Qui
esse emergono nella concretezza del dibattito politico che coinvolse gli
intellettuali del «Mondo». La recensione di F. alla traduzione italiana
del saggio di Sprigge,
Croce, l’uomo e il pensatore (Napoli, Ricciardi) usce
su Criterio con il titolo Un profilo del Croce (rist. nel volume
L’oggetto della filosofia Caro F., l’infiammazione agli occhi, che
mi aveva impedito di venire a Napoli e che sembrava scomparsa, mi dà
nuovamente fastidio, sicché devo riguardarmi. Penso che Ella dovrebbe
scrivere l’articolo sul primo decennio dell’Istituto. Come forse Ella sa, nei
tempi in cui Croce stava progettandolo, io insistetti presso Mattioli,
affinché scoraggiasse l’iniziativa. Infatti non avevo nessuna fiducia
nella utilità dell’istituzione. Devo riconoscere che mi ero sbagliato,
anche se difatti, errori, inconvenienti non sono mancati. In complesso,
mi sembra, il nostro giudizio deve essere positivo. Anche se ne hanno
profittato alcuni furfante lli, se, cioè, l’eterogenesi dei fini o l’astuzia
della ragione hanno operato in senso negativo, parecchi bravi hanno avuto modo di studiare e lavorare. In
quanto all’indirizzo “storico” dell’Istituto, esso non soltanto corrisponde al
nome, ma al preciso pensiero di Croce. Con i più cordiali saluti Suo Carlo
Antoni Roma, Mio caro F., purtroppo devo rinunciare definitivamente alla mia
gita a Napoli: non sono ancora completamente ristabilito e devo riguardarmi da
una ennesima ricaduta. Non [È pubblicato infatti sul Mondo il saggio di F.
Dieci anni nell’anniversario della fondazione dell’Istituto
Italiano di Studi Storici avvenuta nella s ede di Palazzo Filomarino in
Napoli ho ancora ripreso ad uscire di casa. Le faccio quindi per lettera
gli affettuosi auguri che avrei voluto farle a voce. Spero di leggere la Sua
prolusione in Criterio. Le sono grato per il Suo proposito di propormi per
la “Pontaniana”: onore che accetto e che mi è molto gradito. Eccole i miei
dati biografici: nato a Senosecchia (Trieste); volontario nella guerra, ferito,
medaglia di bronzo e croce di guerra; LAUREATO IN FILOSOFIA A FIRENZE;
professore nei Licei scientifici a Messina e a Roma; assistente
dell’Istituto Italiano di studi germanici. Libero docente di Storia della
filosofia; professore di Letteratura tedesca a Padova; membro della Giunta del
Partito Liberale, Consultore nazionale, Commissario dell’IRCE; chiamato
alla cattedra di Filosofia della storia di Roma. Premio Einaudi per la
filosofia; socio corr. dell’Accademia dei Lincei, dell’Arcadia, dell’Acc.
Peloritana, socio della Mont- Pelagia Society e dell’Archäologische
Institut. Chiamato alla cattedra di Storia della filosofia moderna e
contemporanea. Suo Carlo Antoni Roma, Cosa che avvenne. F. è diventato socio
ordinario dell’Accademia Pontaniana di Napoli
su proposta di Nicolini. Rinvio per queste ed altre notizie
biografiche al volumetto R. F., Autobiografia minima, Roma, Bulzoni.
Antoni è socio della prestigiosa Accademia Caro F., sono lieto per
la notizia che ella mi dà: così ella potrà assumere l’incarico, che, mi
auguro, sia anche compensato. Lessi con piacere le notizie della Sua
prolusione. Esse mi diedero qualche conforto in un momento di amarezza, quando
cioè mi capitò di leggere sul «Ponte» la cattiva e balorda recensione di Tommaso
Fiore al mio Commento. E dire che costui, appena letto il libro, mi
scrisse una lettera entusiastica! Tumiati, al quale avevo espresso la mia
sorpresa per la pubblicazione di siffatta sconcezza, mi scrisse una lettera
piena di deplorazioni o scuse. Ma chi mi ha recato la serenità è stato
Ragghianti, che, dopo aver fatto un breve ritratto del Fiore, mi ha suggerit o
di seguire l’aurea massima di Flaubert: «Mon cul vous contemple». Ottimo
il Suo articolo in Criterio. Suo Carlo Antoni Roma, Caro F., non ho voluto che ella
attendesse il mio libro dalla ERI e Le ho spedito oggi una delle copie a mia
disposizione. Pannunzio accoglierà volentieri la Sua recensione La recensione
di Fiore al Commento a Croce di Antoni era uscita in «Il Ponte»,
Rivista mensile di politica e letteratura. Tumiati assunse la direzione del Ponte,
fondata da Calamandrei, direzione che condivide per un certo periodo con
Agnoletti. Antoni si riferisce all’artic olo di Franchini sul libro di Sprigge.
Si tratta del libro di Antoni Lo storicismo,
pubblicato dalle edizioni ERI, in cui sono raccolte le conferenze da lui tenute
nell’estate dell’anno precedente per il Terzo Programma della Radio italiana;
la Mio caro Franchini, è da un pezzo che non mi faccio vivo con Lei. Non
Le scrissi quando Ella mi annunciò la fine del «Giornale», ultimo quotidiano
liberale, che, oltre a tutto, era un bel giornale, assai bene redatto. Faceva
onore a Napoli. Per Lei, forse, l’esser costretto ad abbandonare una
continuata attività giornalistica è stato un vantaggio. Ella è ad un punto in
cui deve concentrare i suoi spazi. Non le ho neppure scritto che la prefazione
al Suo nuovo libro mi ha dato molta soddisfazione e mi ha trovato pienamente
consenziente. Attendo ora il libro, di cui voglio occuparmi in un articolo sul
«Mondo» oppure in «Criterio» (che, dopo un intervallo dovuto a indisposizioni
di Ragghianti, riprende ora ad uscire). Sono d’accordo con Lei anche per
quanto riguarda i collaboratori del «Mondo», tra i quali la qualità non
corrisponde spesso alla quantità. Tornato dalla villeggiatura
– sono stato sul lago di Como e in Svizzera -, ho avuto
la sessione d’esami e una sessione del Consiglio Superiore. Altra sessione
di detto Consiglio è prevista per il 23 c.m. Alla fine del mese sarò a
Marburgo, invitato dai filosofi tedeschi a partecipare ad un loro congresso e a
intervenirvi con una conferenza. Cercherò d’istruirli. Con
affettuosi saluti Suo recensione di Franchini dal titolo Una storia
dello storicismo uscì puntualmente su «Il Mondo» nel giugno del ’57
(rist. in Metafisica e Storia, cit.). Il Giornale, quotidiano
liberale come ben sottolineava Antoni, uscì a Napoli. E fondato da Quintieri e
Astarita. F. lavora nella redazione del Giornale: vi è entrato su pressione e
interessamento dello stesso Croce. 61 Il libro di Franchini in
uscita era Metafisica e Storia, edito poi presso l’editore Giannini
di Napoli. Caro F., La ringrazio per aver pensato a me per una conferenza alla
Società filosofica di Napoli e ringrazio pure l’amico Carbonara e gli
altri componenti del Consiglio. La prego, anzi, di esprimere loro la mia
più viva gratitudine per un invito che mi lusinga. Ma è da un pezzo che non
accetto di tenere conferenze. Esse mi recano, infatti, molta tensione e fatica:
non amo leggere, ma il parlare richiede uno sforzo, che mi lascia prostrato. La
prego quindi di scusarmi presso la Società filosofica. Mi auguro di vederla tra
breve qui a Roma. Con saluti affettuosi Suo Antoni Roma. Caro F., ho una certa
intenzione di muovermi per Pasqua, anche per togliermi di dosso una certa
malinconia e irritazione, ma penso che sarò a Roma per l’assemblea dell’associazione.
In caso contrario La avvertirei in tempo. Ho un vivo desiderio di parlare a
lungo con Lei di molte cose, anche perché mi vado sempre più isolando: ciò che
non fa bene alla salute. Con cordialissimi saluti Suo Carlo Antoni Roma,
Caro F., La ringrazio anzitutto per il Suo interessamento al caso del ragazzo,
che Le avevo raccomandato. Ella ha fatto più di quanto potessi sperare. Il
trafiletto mi sembra andare benissimo: contiene alcune frecciate brillanti.
Naturalmente recherà un dispiacere al nostro Battaglia. Il quale potrà
sempre rispondere che l’organizzazione del congresso è stata diretta da
un comitato, che conteneva fior di laici e che costoro sono stati sempre
consenzienti. A mio avviso il difetto sta nell’assurdo di un congresso
filosofico, dove i filosofi laici, se decidono di intervenire, si presentano
necessariamente in ordine sparso, ciascuno con idee proprie, mentre le chiese
vi inviano schiere compatte e disciplinate. Ho pure qualche riserva da
fare sulle parole dell’amico Calogero, che hanno un significato che non
condivido: dialogare sta bene, ma bisogna guardarsi dal ridurre la filosofia a
mero dialogo, ché si rischia di ridurla ad un attualismo del dialogare, dove il
dialogo stesso diventa fine a sé stesso. Ma questo è un altro discorso. Con
cordialità Trovano in un certo modo conferma le consideraz ioni sulla
nobile solitudine tipica di uno studioso schivo e riservato come e Antoni.
Rinvio alla Introduzione di G. Sasso al carteggio Croce-Antoni. Ancora
strascichi polemici sui Congressi di filosofia in Italia. Mio caro F., in
effetti quella mia frase sull’insolubilità del problema di Scaravelli è p
iuttosto sibillina e può sembrare campata in aria. Mi piace molto che Ella me
ne faccia quasi un rimprovero. Tuttavia in una commemorazione non potevo
passare ad una critica e soprattutto non potevo affrontare per mio conto
l’intera questione. Il problema di Scaravelli era quello di dedurre il
molteplice dall’identico, cioè di scoprire o “capire” come la grande madre
genera i suoi figli. Era, insomma, il problema della creazione del mondo.
Se vogliamo, era anche il problema di derivare l’estetica dalla logica,
l’individuale esistenza dall’universale categoria. Questo, se non erro, era per
lui il problema del “capire”, che, come Ella ben vede, era insolubile. Ma
Ella vede anche che se avessi dovuto spiegare perché il problema era mal posto,
avrei dovuto tenere una vera e propria lezione. Con saluti cordialissimi Suo
Antoni Roma. Antoni aveva tenuto una splendida commemorazione di Scaravelli
nella Sala degli Stemmi alla Scuola Normale di Pisa Scaravelli è scomparso
tragicamente nella primavera di quell’anno. Così Antoni scrive a F.. Ella sa
della tragica morte del mio carissimo amico Scaravelli. Sono stato a Firenze ai
suoi funerali. È uno spirito amabile, brillante, fine, buono e un galantuomo
anche nelle cose filosofiche: è uno dei nostri ed io contavo su di lui. Per me
è una perdita dolorosissima. Caro F., eccellente il suo articolo su Weber. Ella
ha indubbiamente ragione nel trovare un presupposto kantiano o neo-kantiano
nella sua teoria del tipo ideale. Io ne avevo avvertito la presenza, ma non vi
avevo insistito. Assai utile il suo articolo per quei fessi in mala fede che
pretendono di scoprire Weber e di utilizzarlo, assieme a Dilthey, contro CROCE
(si veda). Raramente il rancore, l’arrivismo, la petulanza hanno messo
insieme tanta stupidità. Ma che cosa credono di concludere con questa impresa
sballata? Suo Antoni Roma. Caro F., penso anch’io che la Sua appartenenza
alla Nunziatella possa essere d’ostacolo ad un alleggerimento dei suoi
incarichi scolastici, reso urgente dai suoi incarichi universitari. Ho ricevuto
il suo Kant, ma Le devo confessare che non ho trovato il tempo per
leggerlo. Lo farò nei prossimi giorni. Alla fine di gennaio sono stato a
Zurigo, dove ho tenuto una conferenza e ho parlato alla radio: è stata una gita
splendida, un tempo magnifico, nella Svizzera coperta di neve. Suo Antoni. L’articolo
di F. su Weber e il “regresso” è uscito su Il Mondo. Si
tratta del volume: I. Kant, Critica della ragion pratica, a cura di F.,
Bari, Laterza. Not to be
confused with F., author of ‘I gladiatori. Keywords: I gladiatori. vitale, avvenire, divenire,
storia, historismus, ragione storica, spirito, dialettica, opposti, l’opposto,
il distinto, aequi-vocalita della dialettica – dialettica come metodo della
filosofia, non della scienza; prospettico, prespetico, spetico, giudizio,
l’utile, storia ciclica, storia lineale, filosofia analitica, historimus
philologicus, critica della ragione storica; Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Franchini” – The Swimming-Pool Library. Raffaello Franchini. Franchini.
Luigi Speranza -- Grice e Franci: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale degl’ostrogoti – la scuola di
Ferara – filosofia ferraese – filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Ferrara). Filosofo ferrarese. Filosofo
emiliano. Filosofo italiano. Ferrara, Emilia Romagna. Grice: “I like Franci;
for one, he philosophises and calls his thing ‘studi linguistici,’ for another,
he teaches in a varsity older than mine!” Insegna a Bologna. i suoi interessi si sono
concentrati principalmente sullo studio delle molteplici manifestazioni della
spiritualità. Dopo essersi laureato a Bologna con Heilmann, ha poi compiuto
studi di perfezionamento a Roma sotto la supervisione di Tucci. Direttore del
Dipartimento di Studi Linguistici, presidente dell'Accademia delle Scienze e
direttore della Biblioteca di Discipline Umanistiche presso l'Bologna. È stato
inoltre Accademico effettivo dell'Accademia delle Scienze dell'Istituto di
Bologna; Socio ordinario dell'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo
Oriente, Roma; Membro dell'European Society for Asian Philosophy, Nottingham, Socio
Onorario e membro del Comitato Scientifico dell'Associazione Italia-India;
Consigliere dell'Associazione Italiana di Studi Sanscriti; Vicepresidente del
Centro di Documentazione e Iniziativa per la Pace «Giovanni Favilli»; Membro
del Comitato Direttivo del Centro Studi, Iniziative e Informazioni «Amilcar
Cabral»; Membro del Coordinamento nazionale per l'insegnamento delle culture
afro-asiatiche nella scuola secondaria; Direttore della collana «Studi e testi
orientali». Ha inoltre insegnato presso le Calcutta per tre anni nei primi anni
sessanta e di Firenze. Insegna: Sanscrito Lingue Arie Moderne dell'India Storia
dell'India Moderna e Contemporanea Filosofie, Religioni e Storia dell'India e
dell'Asia Centrale. Gli interessi di Franci si rivolgano principalmente
all'India classica e, in particolare, allo studio del pensiero mistico (bhakti)
e dell'Advaita Vedānta shankariano. Egli non ha mancato comunque di
approfondirne anche gli aspetti moderni e contemporanei: il ruolo dell'induismo nell'India d'oggi;
problematiche relative alla questione linguistica, con particolare attenzione
alle letterature in bengali e in inglese; studi sul pensiero classico
nell'India d'oggi e i pensatori moderni in generale come Aurobindo. Altre
opere: L'Upadesasahasri (Gadyabhaga) di Sankara: contributo allo studio del
Kevaladvaita” (Bologna); “Recenti sviluppi delle questioni linguistiche
indiane, Bologna); “Alcuni problemi e tendenze della filosofia comparata”
(Bologna); “Yoga ed esicasmo, Trapani, “Saggi indologici, Bologna, La Bhakti:
l'amore di Dio nell'induismo, Fossano); “Studi sul pensiero indiano, Bologna, Piero
Martinetti e "Il sistema Sankhya", Contributi alla storia
dell'orientalismo, Giorgio Renato Franci, Bologna, Luigi Heilmann linguista, indologo,
umanista, Bologna, La benedizione di Babele: contributi alla storia degli studi
orientali e linguistici, e delle presenze orientali, a Bologna, Bologna, L'induismo,
Bologna, Il Mulino, Induismo, prefazione di Gianfranco Ravasifotografie di
Andrea Pistolesi, Milano, Touring Club Italiano, Il Buddhismo, Bologna, Il
Mulino, Yoga, Bologna, Il Mulino, Filosofia indiana Induismo, Treccani
L'Enciclopedia italiana".Ostrogoti antico popolo germanico. Gl’ostrogoti
(in latino Ostrogothi o Austrogothi) sono il ramo orientale dei goti, una tribù
germanica che influenza gl’eventi politici dell’impero romano.
Palazzo di Teodorico a Ravenna, mosaico nella basilica di Sant'Apollinare
Nuovo. Sconfissero Odoacre, che ha deposto Romolo Augusto, ultimo Imperatore
Romano d'Occidente, e si insediarono in Italia. Sono poi sconfitti dai
Bizantini. Identità con i Grutungi. Fibula ostrogota a forma di
aquila. La tribù degl’ostrogoti, o austrogothi, viene citata per la prima volta
all'interno della biografia dell'imperatore CLAUDIO IL GOTICO, attribuita a
Trebellius Pollio, appartenente alla raccolta Historia Augusta. Essi sono
ricordati fra le tribù della Scizia che invadeno e devastarono allora l'impero
(all'interno della biografia gl’ostrogoti sono citati insieme con i grutungi, i
tervingi e i visigoti. Secondo Wolfram le fonti primarie parlano di
Tervingi/Grutungi o di Vesi/Ostrogoti senza mai mischiare le coppie. I quattro
nomi vienneno usati contemporaneamente, ma sempre rispettando le coppie, come
in gruthungi, austrogothi, tervingi, e visi. Wolfram e Burns concludono che il
termine "grutungi" è un identificativo geografico usato dai tervingi
per descrivere un popolo che si autodefine ostrogoti.[ Questa terminologia spare
dopo che i goti vennero fatti scappare dall'invasione unnica. A suo supporto,
Wolfram cita Zosimo che parla di un gruppo di sciti a nord del Danubio chiamati
grutungi dai barbari dell'Ister. Wolfram conclude che questo popolo sono i tervingi
rimasti dopo la conquista degli Unni. Secondo questa concezione grutungi ed ostrogoti
sono più o meno LO STESSO POPOLO. Che i grutungi sono gl’ostrogoti è anche il
parere di Giordane. Egli identifica i re ostrogoti da Teodorico il Grande a
Teodato come gl’eredi del re Grutungio Ermanarico. Questa interpretazione,
nonostante sia condivisa da molti studiosi, non è universalmente condivisa. La
nomenclatura di grutungi e tervingi cadde in disuso. In generale, la
terminologia di una tribù gotica divisa dagli altri scomparve gradatamente dopo
l'assorbimento fatto dall'impero romano. Heather ritiene invece che
l'identificazione tradizionale degl’istrogoti con i greutungi è errata. Secondo
Heather gl’ostrogoti nasceno dalla coalizione tra i goti Amal in Pannonia, ex
sudditi degl’unni, e i goti foederati dell'Impero in Tracia. I grutungi che si
stanziarono all'interno dell'impero come foederati, secondo Heather, non sono
lo stesso popolo che fonda un regno romano-barbarico in Italia sotto Teodorico
il Grande, ma i progenitori, insieme con i tervingi e i goti superstiti
dell'armata di Radagaiso, dei visigoti. Secondo Heather, i visigoti nasceno
dalla coalizione, sotto Alarico, di TRE gruppi gotici: i tervingi, stanziati
come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, i grutungi, stanziati
come foederati nei Balcani e poi uniti sotto la guida di Alarico, ed i goti di
Radagaiso. INVASA L’ITALIA, vennero sconfitti da Stilicone e arruolati
nell'esercito romano; dopo l'uccisione di Stilicone, vi fu un'ondata repressiva
da parte dell'Impero contro i soldati di origine barbarica, che decisero dunque
di unirsi ad Alarico) Secondo Heather, dunque, i Grutungi sono i progenitori
dei visigoti, non ostrogoti. Genealogia mitologica e storica Þjelvar
(secondo la Gutasaga) Hafþi = Huítastjerna Graipr Guti ovvero
Gapt (o Gautr o Gautar) (anche Gaut, Goto, etc.) (cfr. Giordane) Hulmul
Gautrekr leggendario re dei Geati, Augis "Amala", capostipite
degl’amali, Hisarnis Ostrogota, primo re degl’ostrogoti Hunuil Athal Achiulf
Oduulf Ansila Edilf Vultuuf Hermanaric,
re della tribù gotica dei Grutungi; Valaravans Hunimund Vinitharius Thorismund
Vandalarius Beremund Thiudimer Valamir Vidimer Veteric = Erelieva Eutaric =
Amalasunta Teodorico Amalafrida = N.N.; Audofleda (o Audefleda) Atalarico
Matasunta = Vitige; Germano
Giustino Teodegota = Alarico II; Amalasunta = Eutaric Germano Stor; Posizionamento
degli Ostrogoti in Sarmazia. Il regno gotico in Dacia (Gutthiuda). Secondo
le loro stesse tradizioni erano originari dell'attuale isola svedese di Gotland
e la regione di Götaland. Nel 250 si divisero dai visigoti e nacque
appunto il regno ostrogoto. Il primo re si chiamava Ostrogota ed era della
stirpe degli Amali. Gl’ostrogoti uccideno l'imperatore Decio, più tardi saccheggiarono
alcune isole dell'Egeo e conquistarono la Tracia e la Mesia. La prima
menzione di Ostrogoti si ha nel 269, quando l'imperatore Claudio II li
riconobbe fra i barbari sciti. In quell'anno Claudio II riuscì a fermare
l'avanzata degli Ostrogoti. Nelle prime fasi della loro migrazione dalla
Scandinavia, gli Ostrogoti, o goti d'Oriente fondarono un regno a nord del Mar
Nero (Cultura di Černjachov). Ma ricominciarono le scorrerie e
conquistarono il regno vandalo (che prima della conquista del Nord Africa si
trovava in Dacia) e presero questa popolosa regione. Dopo queste vittorie
assoggettarono popoli slavi(sklaveni) e arrivarono fino al Mar Baltico, e
alcuni storici paragonarono le loro imprese a quelle di Alessandro Magno,
perché avevano creato un regno che partiva dalla Grecia e arrivava fino al mar
Baltico. Invasioni degli UnniModifica Incalzati dagli Unni che li avevano
scacciati dalla loro regione d'insediamento tra il Danubio e il Mar Nero, gl’ostrogoti
chiesero pressantemente asilo a Valente, accalcandosi ai confini dell'Impero,
precisamente lungo il Danubio. L'imperatore Valente accetta di accogliere le
popolazioni barbare come foederati, allo scopo di rafforzare il proprio
esercito e per aumentare la base imponibile del fisco. Gl’ostrogoti si
stabilirono così nel territorio della Mesia e della Dacia. Dopo le
invasioni degli Unni Travolti dall'invasione unna, numerosi nuclei d’ostrogoti
entrano a far parte dell'orda d’Attila. Dopo la morte del condottiero unno, il
popolo ostrogoto si ricostituì e si stanzia lungo il medio corso del Danubio,
in un territorio corrispondente grosso modo all'odierna Serbia. Dopo il
collasso dell'Impero degl’unni, molti ostrogoti vennero spostati
dall'imperatore Marciano in Pannonia con la qualifica di foederati. Durante il
regno di Leone I, dal momento che l'impero romano smise di pagare la quota
annuale, devastano l'Illiria. Venne firmata la pace in seguito alla quale
Teodorico Amalo, figlio di Teodemiro della dinastia Amali, venne mandato a
Costantinopoli come ostaggio, dove riceve un'educazione romana. Regno in Italia
Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Regno ostrogoto
e Teodorico il Grande. Teodorico sconfigge Odoacre (Antica
pergamena). Estensione del Regno degli Ostrogoti. In Italia, il barbaro
Odoacre DEPONE L’ULTIMO IMPERATORE ROMANO ROMOLO AUGUSTO, DETTO AUGUSTOLO, e
non osando proclamarsi imperatore si proclama RE di un misto di popoli barbari:
eruli, sciri, rugi, gepidi, e turcilingi. Egli riscatta dai vandali con un
tributo la Sicilia, che rimane dunque unita all'Italia e ne segue le sorti.
Caduto l'Impero romano d'Occidente, è rimasto in piedi quello d'Oriente, il cui
imperatore Zenone intende riconquistare l'Occidente, in mano ai barbari.
L'imperatore è preoccupato dall'intraprendenza di Odoacre, che sa governare in
modo da non urtare la suscettibilità dei latini e da estendere i confini del
suo regno. Il periodo vide una lotta a tre tra Teodorico, che successe al
padre, Teodorico Strabone e l'imperatore bizantino Zenone. Nel corso di questo
conflitto le alleanze cambiarono più volte, e buona parte dei Balcani venne
devastata. Alla fine, dopo la morte di Strabone, Zenone scese a patti con
Teodorico. Parte della Mesiae della Dacia vennero cedute ai Goti, e Teodorico
venne nominato magister militum praesentalis e Console. Solo un anno dopo
Teodorico e Zenone ripresero il loro conflitto, e di nuovo Teodorico invase la
Tracia saccheggiandola. Fu allora che Zenone siglò un accordo con Teodorico,
invitandolo a invadere l'Italia in suo nome per scacciare il re degli Eruli
Odoacre che, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente Romolo
Augusto ed essersi proclamato rex Italiæ, amministra la penisola in totale
autonomia. In numero forse di 250.000 tra uomini, donne e bambini, da
Nouae risalirono la Sava condotti da Teodorico loro re, si scontrarono con
Odoacre ad Aquileia e lo batterono a Verona. Odoacre scese invano nell'Italia
centrale per ottenere aiuti da Roma. Riguadagnata Ravenna riuscì a battere
l'avversario e a chiuderlo in Pavia: ma i Visigoti, giunti dalla Spagna in
aiuto dei loro consanguinei, ruppero il blocco. La guerra continuò un altro
anno finché Odoacre fu sconfitto definitivamente sull'Adda e venne costretto a
rifugiarsi a Ravenna. Dopo un lungo assedio a Ravenna, Odoacre si arrese a
Teodorico con la promessa di aver salva la vita. Ma Teodorico, violando i
patti, uccise Odoacre a tradimento durante un banchetto, con le proprie mani, e
ne fece uccidere i parenti e i seguaci. Secondo altri, Odoacre fu invece
giustiziato dopo rapido processo condotto dallo stesso Teodorico, in quanto stava
tentando di indurre alcuni generali ostrogoti alla rivolta per riconquistare il
trono. Gl’ostrogoti costituirono un nuovo regno romano-barbarico in
Italia, che si estendeva fino alla Pannonia a nord est e alla Provincia, l'odierna
Provenza, a nord ovest. Come Odoacre, anche Teodorico poteva vantare il titolo
di patrizio e rispondeva all'imperatore di Costantinopoli con la qualifica di
viceré d'Italia, titolo riconosciuto dall'imperatore Anastasio. Il suo regno è
caratterizzato da un relativo ordine interno, anche se i luogotenenti reali
violano sovente le disposizioni di Teodorico di rispettare la popolazione
latina. Molti proprietari terrieri ancora fedeli al paganesimo sono eliminati
con l'accusa di schiavismo, ma in molte circostanze è un pretesto per
consentire ai possidenti barbari e collaborazionisti (tra cui Quinto Aurelio
Memmio Simmaco) di ingrandire le loro proprietà. Il regno sopravvive fino
all'intervento diretto in Italia dell'imperatore d'Oriente Giustiniano e alla
susseguente guerra goto-bizantina. La caduta Magnifying glass icon
mgx2.svg Guerra gotica. Impero di Teodorico - La mappa mostra i regni
germanici nel 526, l'anno in cui morì Teodorico. Oltre all'Italia, la Dalmazia
e la Provenza, regnò anche sui Visigoti. Dopo la morte di Teodorico del 30
agosto 526, le sue conquiste incominciarono a collassare. Successore di
Teodorico fu il neonato nipote Atalarico, tutelato dalla madre Amalasunta come
reggente. La mancanza di un erede forte portò a una rete di alleanze che
condussero lo stato ostrogoto alla disintegrazione: il regno visigoto
riconquista la propria autonomia sotto Amalarico, i rapporti con i vandali
divennero ostili, e i franchi incominciarono una nuova campagna espansionistica
sottomettendo i turingi, i burgundi e quasi sfrattando i visi-goti dalla loro
patria, la gallia meridionale. La posizione di predominanza che il regno
ostrogoto acquisì grazie a Teodorico in Europa occidentale passa ora ai franchi.
Non sopportando la reggenza di una donna, né l'educazione romana impartita al
ragazzo, né i rapporti ossequiosi d’Amalasunta verso Bisanzio e neppure il suo
spirito conciliante verso i Romanici, la nobiltà gota riusce a strapparle il figlio
e a educarlo secondo le usanze del suo popolo. Tuttavia Atalarico si da a una
vita di sperperi ed eccessi trovando una morte prematura. Allora Amalasunta,
che vuole mantenere il potere, sposa suo cugino Teodato, duca di Tuscia.
Costui, però, la relega in un'isola del lago di Bolsena, dove poi la fa
uccidere da un suo sicario. L'esilio e l'assassino d’Amalasunta è il casus
belli che permitte a Giustiniano di invadere l'Italia. Teodato tenta d’evitare
la guerra, spedendo messaggeri a Costantinopoli, ma Giustiniano è già pronto a
reclamare l'Italia. Solo la rinuncia al trono di Teodato, e la consegna del suo
regno all'impero, avrebbero evitato la guerra. Il generale incaricato di
dirigere le operazioni è BELISARIO (melodramma), che da poco aveva combattuto
con successo contro i vandali, a cui furono affidati 10.000 uomini tra
comitatensi, foederati e buccellarii. Il generale bizantino conquista
velocemente la Sicilia, per poi occupare Reggio Calabria e Napoliprima. È a
Roma, costringendo alla fuga il nuovo re dei goti Vitige che da poco è stato
chiamato a sostituire Teodato. Rimase fermo a lungo a Roma poi, grazie a
rinforzi giunti da Costantinopoli, il generale spedì Narsete a liberare
Ariminum (Rimini), e Mundila (che battè i Goti a Pavia) a conquistare
Mediolanum (Milano). I conflitti interni fra Narsete e Belisario fecero sì che
Milano, assediata, dovette capitolare per fame venendo saccheggiata da 30.000 goti
che, guidati da Uraia, trucidarono gli abitanti. Ritratto di
Teodato su una sua moneta. Nel frattempo erano arrivati in Italia anche i
Franchi e i Burgundi, discesi nella Pianura Padana al comando di Teodeberto.
Belisario riuscì a espugnare Ravenna, capitale degli Ostrogoti, e a catturare
Vitige, grazie a un'astuzia: finse di accettare l'offerta da parte dei Goti di
diventare loro re per farsi aprire le porte e conquistarla. In seguito alla
caduta di Ravenna, il tesoro regio e la corte furono trasferite a Pavia, dove
già Teodorico aveva fatto realizzare un Palazzo reale.Giustiniano, spaventato,
richiamò in patria Belisario lasciando campo libero ai Goti. Sale al potere
Totila, che ottenne l'appoggio della popolazione italica grazie a una politica
agraria di eguaglianza, in base alla quale i servi, affrancati, si arruolavano
in massa nell'esercito di Totila. Grazie a questo e ad altri fattori,
riconquistò l'Italia settentrionale. Totila arrivò fino a Roma assediandola e
conquistandola; per la sua difesa venne richiamato Belisario che la riprese.
Giustiniano, dopo aver richiamato Belisario, lanciò una nuova campagna di
conquista dell'Italia, con a capo Germano. Durante la riconquista di Roma
guidata da Narsete, Totila venne ferito e morì poco dopo. Il successore di
Totila fu Teia che, sconfitto velocemente, fu anche l'ultimo re dei Goti. La
sua sconfitta non determinò però l'automatica sottomissione delle guarnigioni
ostrogote, che, pur non eleggendo un nuovo re, continuarono avanti una lotta
disorganizzata, chiamando in loro aiuto i Franchi-Alamanni condotti da Butilino
e Leutari: Narsete, comunque, riuscì a sconfiggere i franco-alamanni,
spingendoli al ritiro e nello stesso tempo ottenne la sottomissione delle
ultime fortezze ostrogote della Tuscia, di Cuma e di Conza. Rimaneva però
ancora da conquistare la regione transpadana, in cui i goti, condotti da Widin,
non avevano intenzione di arrendersi e avevano ottenuto inoltre l'appoggio del
comandante franco Amingo: la loro resistenza durò fino a quando Narsete
sconfisse sia Widin sia Amingo e sottomise Verona, Pavia e Brescia, le ultime
sacche di resistenza. La Prammatica Sanzione del 554 ricondusse tutti i
territori dell'Italia sotto la legislazione dell'Impero bizantino, e reintegrò
tutti i proprietari terrieri delle terre alienate dall'"immondo" Totila
a favore dei contadini. Gli Ostrogoti, in seguito alla vittoria bizantina,
scomparvero praticamente come componente demica, venendo dispersi o arruolati
come mercenari per servire in Oriente nell'esercito bizantino, mentre pochi
rimasero in Italia; la Chiesa ariana venne perseguitata e molti Ostrogoti
vennero convertiti al cattolicesimo, salvo poi essere riassorbiti dai
Longobardi. CulturaOrecchini ostrogoti in stile policromo, Metropolitan
Museum of Art, New York. Architettura A causa della breve storia del regno,
l'arte d’ostrogoti e romani non sube una fusione. Sotto il patrocinio di
Teodorico e Amalasunta, comunque, vennero svolti numerosi restauri di edifici
dell'antica Roma. A Ravenna vennero costruite nuove chiese ed edifici
monumentali, molti dei quali sono tuttora in piedi. La Basilica di
Sant'Apollinare Nuovo, il suo battistero, e la Cappella Arcivescovile seguono
uno stile architettonico tardo romano, mentre il Mausoleo di Teodorico mostra
elementi puramente gotici, tipo il mancato uso di mattoni a cui vennero
preferiti blocchi di calcare istriano, o il tetto in monoblocco di pietra da
300 tonnellate. Buona parte dei lavori di letteratura gotica (redatti
durante il regno ostrogoto) sono IN LINGUA LATINA, nonostante alcuni dei più
vecchi siano stati tradotti in greco e IN GOTICO (ad esempio il Codex
Argenteus). Cassiodoro, provenendo da un contesto diverso, ed esso stesso
incaricato di compiti importanti nelle istituzioni (console e magister
officiorum), rappresenta la classe dirigente romana. Come molti altri con le
stesse origini, serve lealmente Teodorico e i suoi eredi, come descritto nelle
sue opere del tempo. Il suo Chronica, usato in seguito da Giordane per il
proprio Getica, e altri panegirici scritti da lui e da altri romani per i re goti
del tempo, vennero redatti sotto la protezione dei signori goti stessi. La sua
posizione privilegiata gli permise di compilare il Variae Epistolae, un
epistolario di comunicazioni di stato, che ci permette un'ottima conoscenza
della diplomazia gotica del tempo. Fibbia di cintura ostrogota da
Torre del Mangano, VI secolo, Pavia, Musei Civici BOEZIO (si veda) è un'altra
importante figura del tempo. Ben educato e proveniente da una famiglia
aristocratica, scrive di matematica, musica e filosofia. Il suo lavoro più
famoso, il De consolatione philosophiæ, venne scritto mentre si trovava
imprigionato con l'accusa di tradimento. Re ostrogoti Magnifying glass
icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Sovrani ostrogoti. Dinastia
degli Amali Valamiro Teodemiro Teodorico AtalaricoTeodato Re successivi Vitige
Ildibaldo Erarico Totila (anche conosciuto come Baduela) Teia. Picotti,
Ostrogoti in Enciclopedia Italiana Treccani Trebellius Pollio, Historia Augusta
- Divus Claudius Wolfram, Storia dei Goti, Roma, Salerno Herwig Wolfram, Burns,
A History of the Ostrogoths (Bloomington: Indiana Wolfram Heather, Peter, The
Goths, Blackwell, Malden, Heather Heather Wolfram Giordane, Getica, Bury; AA.VV.,
Dall'impero romano a Carlo Magno, in La Storia, Milano, Mondadori, Settia, Il
fiume in guerra. L'Adda come ostacolo militare (V-XIV secolo)", Studi
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History of the Later Roman Empire, Procopio di Cesarea, De Bello Gothico
Brandolini, Pavia: Vestigia di una Civitas altomedievale. Majocchi, Sviluppo e
affermazione di una capitale altomedievale: Pavia in età gota e longobarda,
"Reti Medievali – Rivista, rmojs.unina.it index.php/rm/article Reti
Medievali Fonti primarie Procopio di Cesarea, De bello Gothico, Giordane, De
origine actibusque Getarum ("Origine e azioni dei Goti"). traduzione
di Mierow Cassiodoro, Chronica Cassiodoro, Varia epistolae
("Lettere"), presso il Progetto Gutenberg Anonymus Valesianus,
Excerpta, Par. II Fonti
secondarieModifica In inglese Gibbon, History of the Decline and Fall of the
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La «civilitas» di Teoderico: rigore amministrativo, «tolleranza» religiosa e
recupero dell'antico nell'Italia ostrogota, Roma, L'Erma di Bretschneider Goti
Sovrani ostrogoti Regno ostrogoto Lingua gotica Teodorico il Grande Grutungi
Ostrogoti, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. Ostrogoti, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica; Ostrogoti, in Catholic
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ostrogoto regno ostrogoto in Italia; Tervingi Grutungi. Keywords: i ostrogoti, Staal,
Grice on Indian Philosophy – ‘the Indian philosophical culture” “The Western
European philosophical culture” -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Franci” –
The Swimming-Pool Library. Giorgio
Reato Franci. Franci.
Luigi Speranza -- Grice e Francia: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dei centauri – la scuola di
Firenze – filosofia fiorentina – filosofia toscana -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Firenze). Filosofo
fiorentino. Filosofo toscano. Filosofo italiano. Fireze, Toscana. Grice:
“Francia is a good one; for one, he philosophised on ‘not’: “il rifiuto.”” Grice: “Italians use rifiute
and confute – as we do!” – Grice: “Ryle used to say, to provoke Popper, that
‘to refute’ is pretentious, when “to deny” does!” Figlio del generale e geografo Orazio e di Gina
Mazzoni, dopo gli studi liceali si laurea Firenze con Carrara, di cui diviene.
Insegna a Firenze. Al contempo, svolse attività di ricerca all'Istituto Nazionale
d’Ottica di Arcetri, diretto da Vasco Ronchi. Lavora presso il centro di
ricerca ottica della Ducati di Bologna fino a quando divennne professore
straordinario di onde elettromagnetiche a Firenze, quindi ordinario della
stessa disciplina all'istituto nazionale d’Ottica (Arcetri), dopo anni di
ricerca e di insegnamento all'Rochester. Passa a Firenze, come ordinario di
ottica su una cattedra appositamente creata per lui. Contemporaneamente,
collabora con l'Istituto di ricerca sulle microonde del CNR di Firenze, fondato
da Nello Carrara. Fonda e diresse sia l'Istituto di ricerca sulle onde
elettromagnetiche, oggi Istituto di Fisica Applicata del CNR, che l'Istituto di
Elettronica Quantistica (sempre del CNR). Ordinario di fisica a Firenze.
Altresì presidente della Società italiana di fisica, della International
Commission for Optics della Società italiana di logica e filosofia della
scienza, del Forum per i problemi della pace e della guerra e della Scuola di
musica di Fiesole, oltre l'ambito scientifico F. ha vasti interessi culturali,
occupandosi approfonditamente tra l'altro di filosofia della scienza. Socio
nazionale dell'Accademia Nazionale dei Lincei, è anche un appassionato
dantista. È padre dell'architetto Cristiano F.. Si occupa
variamente di fisica matematica, di ottica, di microonde, di laser, di
meccanica quantistica, di elettrodinamica, di fondamenti della fisica, di
epistemologia, di informatica. Tra i suoi contributi principali sono da
ricordare, nel campo dell'ottica, la formulazione del concetto di
super-risoluzione (Toraldo filters) e del principio dell'interferenza inversa (prodromico
alla nozione di olografia), nonché la dimostrazione sperimentale dell'esistenza
delle onde evanescenti (evanescent waves). I suoi contributi più recenti
hanno riguardato la didattica della fisica, la divulgazione della filosofia
della scienza e i rapporti tra scienza e società nonché tra cultura scientifica
e cultura umanistica. Tra l'altro, in collaborazione ha curato e tradotto in
italiano il noto trattato La fisica di Feynman, opera didattica di Feynman.
Altre opere: Fisica per architetti, Edizioni Universitarie, Firenze); “Onde
elettromagnetiche, Zanichelli, Bologna); “Radiazione, Istituto di Fisica,
Università degli Studi di Firenze, Firenze, “Diffrazione” (Einaudi, Torino);
“Il fotone e l’elettrone”; Istituto di Fisica, Università degli Studi di
Firenze, Firenze, “L’accelerazione della particella” Istituto di Fisica,
Università degli Studi di Firenze, Firenze); “Elettrodinamica e radiazione” Istituto
di Fisica, Università degli Studi di Firenze, Firenze. “Il metodo geometrico ed
il metodo aritmetico della fisica” Istituto di Fisica, Università degli Studi
di Firenze, Firenze, “Radiazione”, Istituto di Fisica, Università degli Studi
di Firenze, Firenze, “Il fisico (Einaudi, Torino); “Il fisico” (Guaraldi,
Firenze-Rimini, Il rifiuto. Considerazioni semiserie di un fisico sul mondo di
oggi e di domani, Einaudi, Torino, Problemi dei fondamenti della fisica, Scuola
Internazionale di Fisica, Varenna sul Lago di Como, Società Italiana di Fisica,
Editrice Compositori, Bologna, Le teorie fisiche. Un'analisi formale (Bollati
Boringhieri, Torino); “L'amico di Platone. L'uomo nell'era scientifica”
(Vallecchi, Firenze); “Le cose e i loro nomi” (Laterza, Roma-Bari); Fisica per il licei” (La Nuova Italia,
Firenze); “La grande avventura della scienza, Istituto di Fisica, Università
degli Studi di Firenze, Firenze, “La scimmia allo specchio. Osservarsi per conoscere”
(Laterza, Roma-Bari); “Un universo troppo semplice. La visione storica e la
visione scientifica del mondo, Feltrinelli, Milano); “Tempo, cambiamento,
invarianza” (Einaudi, Torino, Dialoghi di fine secolo. Ragionamenti sulla
scienza e dintorni” (Giunti, Firenze); -- EX ABSURDO “Ex absurdo. Riflessioni
di un fisico, Feltrinelli, Milano); “In fin dei conti, Di Renzo Editore, Roma);
“Il pianeta assediato. Conversazione di fine millennio” Le lettere, Firenze, Nascita
di un uomo moderno, Edizioni CNSL, Recanati, Introduzione alla filosofia della
scienza” (Laterza, Roma-Bari, Metodi matematici della fisica, Edizioni IFAC,
Firenze,. Elettrodinamica e teoria della radiazione (Renzo Vallauri e Daniela
Mugnai), Edizioni IFAC, Firenze. Per le notizie biografiche qui riportate, ci
si riferisce a R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo, "Breve nota sul contributo
scientifico di Giuliano Toraldo di Francia", Quaderni della Società
Italiana di Elettromagnetismo, cfr. anche aif/ fisico/biografia-f./ Elenco dei Professori di Firenze Archiviato, Florence, Italian
Physical Society, Editrice Compositori, Bologna, R. Pratesi, L. Ronchi Abbozzo,
Breve nota sul contributo, Quaderni della Società Italiana di Elettromagnetismo,
E. Castellani, "Nodi d'invarianti:
l'eredità", scienziato umanista, Le Scienze, E. Agazzi, "Ricordo", Epistemologia,
Breve nota sul contributo, su elettromagnetismo. Angela, Dialoghi di fine
secolo: ragionamenti sulla scienza e dintorni, Giunti, In ricordo, Riccardo Pratesi, Società italiana
di fisica. Teatro dell'assurdo Lingua Segui Storia del teatro occidentale Teatro
greco Tragedia greca Commedia greca Dramma satiresco Autori classici greci
Teatro latino Atellana Cothurnata Fescennino Praetexta Palliata Satira latina
Togata Autori classici latini Teatro medievale Sacra rappresentazione Mistero
Moralità Masque Dumbshow Commedia elegiaca Teatro moderno Commedia umanistica
Teatro erudito Dramma pastorale Teatro rinascimentale Teatro elisabettiano
Commedia dell'arte Commedia ridicolosa Comédie larmoyante Dramma romantico
Dramma borghese Dramma politico Teatro contemporaneo Regia teatrale Teorici del
teatro Teatro epico Teatro dell'assurdo Varietà Storia della danza Storia del
mimo e della pantomima Storia del circo Visita il Portale del Teatro Teatro
dell'assurdo è la denominazione di un particolare tipo di opere scritte da
alcuni drammaturghi, soprattutto europei, tra gli anni quaranta e gli anni
sessanta, a volte prolungato agli anni settanta per quel che riguarda poi il
lavoro di alcuni autori particolari. Con lo stesso termine si identifica anche
tutto lo stile teatrale nato dall'evoluzione dei loro lavori. Etimologia Il
termine venne coniato dal critico Esslin, che ne fece il titolo di una sua
pubblicazione, The Theatre of the Absurd. Per Esslin il lavoro di questi autori
consiste in una articolazione artistica del concetto filosofico di ASSURDITÀ dell'esistenza,
elaborato dagli autori dell'esistenzialismo (si vedano ad esempio le tesi di
Sartre e quelle successive di Camus, esposte anche nelle proprie produzioni
narrative e appunto TEATRALE, oltre a quella consueta saggistica). Le
caratteristiche peculiari del teatro dell'assurdo sono il deliberato abbandono
di un costrutto drammaturgico razionale e il rifiuto del linguaggio
logico-consequenziale. La struttura tradizionale (trama di eventi,
concatenazione, scioglimento) viene pertanto rigettata e sostituita da una
successione di eventi priva di logica apparente, legati fra loro da una labile
ed effimera traccia (uno stato d'animo o un'emozione), apparentemente senza
alcun significato. Il teatro dell'assurdo si caratterizza per dialoghi
volutamente senza senso, ripetitivi e serrati, capaci di suscitare a volte il
sorriso nonostante il senso tragico del dramma che stanno vivendo i
personaggi. Tra i maggiori esponenti del teatro dell'assurdo (che
potrebbe avere come "padre" letterario Jarry) vanno ricordati
Beckett, Tardieu, Ionesco, Valentin, Adamov e Schehadé. Una seconda generazione
ha avuto come protagonisti Pinter, Pinget, Vian e Mrożek. Anche Genet, autore
di Le serve, era stato inizialmente inserito da Esslin nel gruppo
originario. Fra gl’autori italiani, è spesso accostato al teatro
dell'assurdo CAMPANILE (si veda), indicandolo come un precursore. Esslin, The
Theatre of the Absurd, Garden City, Doubleday et Company, Assurdo
Esistenzialismo Generi teatrali Patafisica Teatro dell'assurdo, su Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Voce Teatro dell'assurdo nel
Dizionario dello Spettacolo del '900, su Delteatro Portale Letteratura
Portale Teatro Esistenzialismo corrente di pensiero Ionesco scrittore
e drammaturgo francese Camus et la
Parole manquante Langue Suivre Camus et la Parole manquante est un essai de Costes
consacré à Camus et publié. Le cheminement intellectuel de l'écrivain est étudié sous
un angle psychanalytique, et décomposé en trois cycles: le cycle de l'absurde,
le cycle de la révolte et le cycle de la culpabilité. Camus et la Parole
manquante Costes France Essai Payot Science de l'Homme Série Étude
psychanalytique modifier Consultez la documentation du modèle Camus parole.jpg
Cadre conceptuel Costes se propose de saisir le cheminement intellectuel d'un
des écrivains français les plus lus, aussi bien dans son pays que dans le
monde. C'est à dessein qu'il a placé cette citation de Camus en tête de son
ouvrage: Comme les grandes œuvres, les sentiments profonds signifient
toujours plus qu'ils n'ont conscience de le dire. Le Mythe de Sisyphe. Costes
fonde son étude sur une double approche, à la fois textuelle sur l'analyse des
textes de Camus -la plus exhaustive possible- et sur une approche biographique
de l'homme. Pour lui, les deux approches sont complémentaires pour rendre
compte le plus exactement possible de ce qui a fondé la démarche camusienne.
Son objectif est de rechercher ce qui fait le désir de création d'un écrivain
comme lui et de s'attacher à expliquer les modes de sublimation littéraire :
pourquoi est-il devenu écrivain, où puise-t-il son énergie créatrice? Il est
certain que dans son cas le fait parental est un élément évident. D'une part,
il n'a pas suffisamment connu son père, mort pendant la guerre, un an après la
naissance d'Albert, pour en garder la moindre image. D'autre part, sa mère,
douce et peu loquace, s'est toujours effacée derrière la figure autoritaire de
la grand-mère. L'enfant est donc rapidement confronté à une forte absence
parentale. Pour combler ce manque, il va rechercher en particulier des
substituts de père, qu'il va trouver chez son instituteur Germain puis chez
Grenier, son professeur de FILOSOFIA au LICEO LIZIO d'Alger (ce qu'Alain Costes
appelle des imagos). Il leur impute son amour pour le football, dont son
instituteur était particulièrement féru, de la nage et de la mer, qui lui
viendrait de son oncle tonnelier qui vivait avec eux chez la grand-mère, et de
l'écriture qu'il tiendrait du professeur Grenier. Son amour du théâtre en
découle largement. Le théâtre transportait Camus dans le monde qui était
exactement le sien du fait de ses identifications paternelles littéraires.
Cycle de l'absurdeModifier Sisyphe. L'homme que je serais si je n'avais
été l'enfant que je fus. Carnets. Apparemment, La mort heureuse son premier
roman, s'inscrit dans un cadre œdipien banal: Mersault entretient une liaison
avec Marthe qui va de temps en temps voir Zagreus, son ancien amant. Mais
Mersault tue Zagreus dans une crise de jalousie. Tout se complique cependant:
Mersault a surtout tué Zagreus pour le voler, Zagreus l'estropié, (comme
l'oncle de Camus) infirmité qu'il a rapportée de la guerre, cette guerre où son
père est mort. Voilà la raison essentielle du meurtre de Zagreus par Mersault,
cet homme silencieux qui rappelle à Camus cette mère absente et murée dans son
silence. L'analyse d'Alain Costes est confortée par un article où les
difficultés de Meursault se traduisent ainsi: échec du travail de deuil, perte
de contact avec la réalité et rupture des relations objectale. C'est en quelque
sorte le fantasme de Camus qui a pour titre L'Étranger. L’ambivalence de
Camus, le côté positif qu’il investit dans la Nature idéalisée et le côté
négatif d’une perte de contact avec la réalité, c’est d’abord son premier
recueil de nouvelles où l’on retrouve dans le titre cette dualité: l’endroit »
qu’il projette sur la Nature, sur l’amour et l’envers qui représente le monde
absurde et angoissant. Face à cette angoisse, à ses tentations suicidaires – le
suicide est « le seul problème philosophique - Camus veut exprimer son pari
pour la vie, par-delà l’absurde à travers l’analyse qu’il livre dans Le Mythe
de Sisyphe. Quoi qu’il en soit, écrit Costes, la pierre angulaire de la
pensée de Camus réside dans les silences de sa mère. Comme les mythes, les
silences sont faits pour que l’imagination les anime. Il rêve d’une philosophie
du minéral, à force d’indifférence et d’insensibilité, il arrive qu’un visage
rejoigne la grandeur minérale d’un paysage. C’est la bonne mère Nature
qui réapparaît mais sous une forme dénudée, hiératique, celle où il est souvent
question de pierre ou de désert. Le Malentenduaussi est une tragédie du
mutisme, de la non communication, comme toutes les œuvres du cycle de l’absurde.
Quand Camus termine Le Malentendu, il note dans ses carnets. C’est le goût de
la pierre qui m’attire peut-être tant vers la sculpture. Elle redonne à la
forme humaine le poids et l’indifférence sans lesquels je ne lui vois de vraie
grandeur. Comme le sculpteur qui fait parler la pierre, Camus peuple le silence
maternel de ses fantasmes ». C’est le mythe de Niobé, réduite au silence pour
avoir provoqué la mort de ses enfants. Ce silence qui fascine tant Camus et lui
renvoie l’image de sa mère, il va le vaincre par l’écriture, oralité du
langage, qui tient aussi à son père mort et à son oncle muet. Cycle de la
révolte La révolte selon Delacroix La conception de La Peste est difficile,
laborieuse, trois versions se succèdent pour composer, recomposer, peaufiner
son texte. Pour Alain Costes, ce long et pénible travail exprime la «
restructuration progressive du moi physique camusien. Camus précise ainsi son
objectif: Faire ainsi du thème de la séparation le grand thème du roman; c’est le
thème de la mère qui doit tout dominer. C’est un Camus recomposé en 4
personnages, expression de la restructuration de son Moi: le docteur Rieux est
le résistant Camus, Tarrou est le fils dont le père (comme celui de Camus)
assista à une exécution capitale, Rambert le journaliste que la peste sépare de
sa femme et Grand le long travail de création. Est jouée la première de
L’État de siège. Dans cette pièce, les habitants de Cadix vivent une vie
insouciante quand survient le tyran Peste et sa secrétaire. Seul Diego s’oppose
au tyran et se sacrifiera pour qu’il parte. Mais ici c’est l’image paternelle
du tyran qui est maléfique, alors que l’imago maternel est valorisé et Diego va
engager une lutte victorieuse contre le Père. Cette évolution indique selon Alain
Costes, que Diego-Camus « aborde très clairement la situation œdipienne
». Les Justes, cette pièce ou des révolutionnaires russes doivent tuer le
Grand-duc, représentant du tsar (donc le Père) repose sur l’histoire du meurtre
du père et l’histoire d’une passion avec Dora-Kaliayev. Les amants se
rejoignent enfin au-delà de la mort dans un acte qui transcende leur amour
contrairement à l’histoire de Victoria et de Diego dans L'État de siège. C’est
pourquoi Costes peut soutenir que pour la première fois, on y trouve une
problématique authentiquement œdipienne. Lors de la gestation de L'Homme
révolté, Camus prend ses distances vis-à-vis de ses premiers maîtres, André de
Richaud, André Gide, André Malraux, les philosophes allemand et même Grenier
dont il dit : rencontrer cet homme a été un grand bonheur. Le suivre aurait été
mauvais, ne jamais l’abandonner sera bien. L’Homme révolté, c’est la recherche
de la mesure, ce qu’il appelle la pensée de Midi. Camus veut dépasser le thème
de l’absurde en repartant du mythe de Sisyphe, je crie que je ne crois à rien
et que tout est absurde, mais je ne puis douter de mon cri et il me faut au
moins croire à ma protestation. C’est ce dépassement qui devient révolte.
Touche après touche, Camus trace à partir des faits accumulés (le recours au
rationnel) ce qu’il appelle la mesure, qui doit permettre de concilier
dimensions personnelle et collective, justice et liberté. On assiste selon
Alain Costes au « passage d’une pensée antithétique à une pensée dialectique,
La Pensée du Midi, synthèse de liberté et de justice, de culpabilité et
d’innocence, d’individuel et de collectif, de personnel et de
lucide. Cycle de la culpabilité Schéma de la culpabilité Dans L'Exil et le
Royaume, aussi bien Janine La Femme infidèle dépressive qui, dans le Sahel loin
de chez elle, perd ses repères et sa confiance en elle-même que dans Le
Renégat, cet « esprit confus qui cherche une rédemption masochiste jusque dans
le désert saharien, ces deux héros dépressifs se vivent en tant qu’objet, « en
état de totale dépendance », en quête d’un objet perdu (le mari pour elle et le
père pour lui). On retrouve cette tendance dans la nouvelle Retour à
Tipasa où Camus est effectivement retourné, mais en hiver cette fois, contraste
marquant avec le Tipasa de Noces écrasé de soleil. Il y trouve un temps de
mélancolie et la frustration du retour à Paris car « il y a la beauté et il y a
les humiliés ». Il emportera « une petite pièce de monnaie, beau visage femme
côté pile et face rongée de l’autre côté. La dépression latente,
l’extrême difficulté à écrire s’inscrit dans les deux Jonas. La nouvelle conte
l’histoire –très autobiographique- d’un peintre qui laisse envahir sa vie et ne
parvient plus à exercer son art. Il en arrive à vivre dans la gêne, à se réfugier
dans une espèce de cagibi dans lequel Costes voit comme un rappel de l’utérus,
régression ultime de la dissolution du Moi. Dans la seconde version plus
optimiste, un mimodrame, Jonas se reconstruit en peignant une immense toile
mais sa prise de conscience sera fatale à son 'objet', à sa femme qui dépérit
et finit par mourir. Dans la seconde version, Camus est dans son élément, la
réalité théâtrale où il va désormais se réfugier pour quelques années,
échappant dans l’adaptation théâtrale au contenu, au fond qu’il emprunte aux
auteurs qu’il adapte. La seule nouvelle de L'Exil et le Royaume qui soit
plus « optimisme (porte ouverte au Royaume) s’intitule La Pierre qui pousse.
Cette pierre rappelle bien sûr le rocher de Sisyphe mais ici le héros d’Arrast
va se débarrasser de sa pierre en la déposant chez son ami le coq. Selon Alain
Costes, ce n’est qu’en retrouvant la parole par sa discussion avec le coq que
d’Arrast va pouvoir « évacuer son objet persécuteur (jeter sa pierre) et clore
son travail de deuil. Dans La Chute, son héros Clamence va s’infliger un
châtiment radical pour apaiser sa culpabilité, devenir sourd à ce cri, ce corps
qui tombe à l’eau et le poursuit depuis si longtemps. Il s’installe dans cette
ville de canaux et de brume, lui qui n’aime que le soleil de la Méditerranée,
dans le « malconfort », « cette cellule de basse-fosse », comme Jonas va
s’isoler dans sa soupente. De là, il va pouvoir prendre à témoin le monde
entier, s’auto accuser, « projeter son surmoi sur le monde extérieur », se
réfugier dans ce personnage double de juge-pénitent. Ces années cinquante
sont les années où Camus se lance dans l’adaptation et la direction théâtrale.
Il y a, comme le note Quilliot, des raisons objectives, le décès de Marcel
Herrand, la crise physique et morale confinant à la dépression qui mobilise une
partie importante de ses forces. Mais Costes y voit surtout l’omnipotence des
images du père, retour au théâtre, retour aux grandes admirations adolescentes,
retour au Père. Camus tourne une nouvelle page. C’est en janvier, la première
des possédés qui lui a coûté tant de temps et d’efforts, en novembre il
commence à écrire Le premier homme, double quête de la mère et du père où Camus
avait retrouvé sa créativité à travers la sublimation par l’écriture. Références
psychanalytiques Camus aborde plusieurs concepts psychanalytiques dans son
œuvre: Surmoi: phase postérieure à la liquidation de l'Œdipe, trouvant sa
source dans l'intériorisation des interdits parentaux et constitue le
représentant psychique de la réalité extérieure ; Désintrication: arrêt d'une
situation entremêlée; Parents combinés: fantasme très archaïque, précédant la
scène primitive, défini par Mélanie Klein où les parents apparaissent confondus
dans une relation sexuelle ininterrompue; Processus primaire : Ensemble des
mécanismes de l'appareil psychique de l'inconscient, produisant rêve et
symptôme, lapsus et œuvre d'art. Les processus principaux sont le déplacement,
la condensation et le retournement dans le contraire; Processus secondaire:
Mécanisme qui joue sur le pré conscient et l'inconscient avec révision du désir
après examen de la réalité extérieure. Germain à qui il dédiera ses Discours de
Suède, donc d'une certaine façon son prix Nobel de littérature. Image
fantasmatique des représentations des deux sexes avec qui le sujet a vécu une
relation affective durable. On peut ainsi discerner d'une façon très générale:
l'imago de la bonne mère ou l'imago de la mauvaise mère (même chose pour le
père. Camus sera d'abord un gardien de buts accompli au Racing club d'Alger
puis un supporter assidu à Paris. Pour un portrait de cet oncle qui vivait avec
eux à Alger, voir la nouvelle Les Muets dans le recueil L'Exil et le Royaume.
Voir ses nouvelles autobiographiques dans L'Envers et l'Endroit. Pichon-Rivière
et Baranger, Répression du deuil et intensification des mécanismes et des
angoisses schizo-paranoïques, Revue française de psychanalise. Ne pas confondre
Mersault héros de La Mort heureuse et Meursault héros de L'Étranger. Perte du
réel qui finit par une stupeur catatonique. Dont le fantasme se focalise sur un
objet. La pièce de Ben Jonson qu’il donne avec sa troupe du Théâtre du
travails’intitule La Femme silencieuse. Carnets, édition de la Pléiade. Voir
les nouvelles La Halte d’Oran ou le Minotaure et Le Désert. La tragédie
n’est-elle pas toujours “malentendu” au sens propre du terme, stupeur et pour
tout dire, surdité » commente Quillot dans son essai sur Camus La Mer et les
Prisons. Morvan Lebesque écrivait déjà dans son essai sur Camus: En Rieux, en
Tarrou, voire en Joseph Grand ou en Rambert, c’est Camus lui-même qui se
rassemble. Carnets. Costes résume ainsi ces nouvelles : « Janine en quête d’un
homme, le Renégat courant de père en père, les muets réduits (eux aussi) au
silence par leur patron, Daru dans L’Hôte rendu étranger à son pays du fait de
la loi, d’Arrast, Jonas et Clamence ulcérés par les exigences de leur surmoi,
tous sont torturés par une problématique dont la plaque tournante est l’imago
paternelle Nouvelle intégrée au recueil L'Été. Cette disparition prématurée
oblige Camus à prendre la direction du festival d’Angers. Camus recherchera la
tombe de son père avant d’aller s’y recueillir à Saint-Brieuc.
Chasseguet-Smirgel, Dépersonnalisation, phase paranoïque et scène primitive,
Revue française de psychanalyse, Camus et la Parole manquante. Pichon-Rivière
et Baranger, Notes sur l'Étranger de Camus, Revue française de psychanalyse; Durand,
Le Cas Camus, Fischbacher, Luppé, Camus, Universitaires, Simon, Présence de
Camus, Nizet, Grenier, Les Îles, Gallimard, Onimus, Camus, Desclée de Brouwer /
Fayard, Ginestier, Pour connaître la pensée de Camus, Gallimard, Boone, Camus,
coll. La Plume du temps, éd. Henri Veyrier, Liens internes Société des études
camusiennes Culpabilité (psychanalyse) icône décorative Portail de la
littérature française Le Mythe de Sisyphe ouvrage d'Albert Camus Cycle de
l'absurde La Mort heureuse livre de Camus. Keywords: i centauri, ex absurdo; scientific realism,
philosophy of physics, foundations of physics; geometry and arithmetics as the
methods in physics; observation and perception, ‘what the eye no longer sees’ –
‘we see with our eyes”; Eddington’s two tables – teoria relativistica, theory
of relativity – theory of the absolute, particella, relativita,
assoluto/relativo – relative-assoluto – Galilei – H. P. Grice’s discussion of
the ‘relative-absolute’ distinction vis-à-vis R. M. Hare (‘there are no
absolute values’) as cited by colonial philosopher J. L. Mackie in ‘Inventing
right and wrong’ ‘absolute value’ ‘relative value’, Lemarchand, theatre, not
Esslin. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice
e Francia” – The Swimming-Pool Library. Giuliano Toraldo di Francia. Francia.
Luigi Speranza -- Grice e Franzini: la ragione
conversazionae e l’implicatura conversazionale dell’espressione – scuola di
Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo
lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “I like Franzini; for
one, he philosophised on aesthetics and passions (‘passioni’). Sir Geoffrey [Warnock] and I
philosophised on the former, if not the latter!” Si laurea con Giovanni Piana e Dino Formaggio.
Insegna a Milano e l'Udine. Studia Husserl e la fenomenologia, nonché della
filosofia francese, ha indagato sul fronte storico e teoretico alcuni temi
cruciali dell'estetica, quali la “creazione”; “simbolo” (‘to throw two things
together, so that the recipient compares them!); “immagine”; “experienza estetica inter-soggetiva”. Sulla
scorta di una ricognizione della genesi settecentesca dell' “estetica”, vista
quest'ultima come punto di incontro tra doxa ed episteme, fra sentimento e
ragione, fra il noetico e l’estetico, -- “La noetica di Grice” -- indaga lo
statuto dell’estetica e della noetica, approfondendo il valore
volitivo/giudicativo (noetico, contenuto, p) della dimensione pre-categoriale
dell'esperienza (l’estetico). Questo percorso trovato una sintesi che mira alla
definizione di una "fenomenologia del noetico”, no dell’estetico; ossia di
una ‘noesi’ che sappia de-cifrare la ricchezza simbolica dell’estetico –
rappresentazione, immagine. Altre opere: “Dall’estetico al noetico” (Milano,
Unicopli); “Sul bello naturale” (Milano, Guanda); “Il bello naturale creato di
Dio (phusei); il bello ART-ificiale creato dall’ART-ista Vinci (thesei – ex
positione)” (Milano, Unicopli); La figura del diavolo, il discorso del diavolo”
(Milano, Mimesis); “In principio erat verbum” Favola: dal mito al logos
(Milano, Guerini); “In-scriptum, De-scriptum, ex-criptum – (Milano, Cuem); “Le
leggi del cielo, l’estetico e il patico (Milano, Guerini); “Metafora, mimesi,
morfo-genesi, progetto. Architettitura filosofica (Milano, Guerini). La
Fenomenologia” (Milano); “Differenze nello spirito romano” (Milano, Edizioni
dell'Arco); “Mondo possibile: l’interpretazione dell’espressione comunicativa
(Milano, Guerini); “Il senso, il sensibile, il sentimentale, l’ingenuo”
(Milano, Mondadori); “Il senso, sentire, sentimento” (Milano, Bruno Mondadori);
“Percezione e immagine” (Milano, Il Castoro), “Piacere, dispiacere, Gusto e
disgusto” (Milano, Nike); “Fenomenologia pura, fenomenologia impura,
fenomenologia mista – il misto, il puro, l’impuro (Einaudi, Torino); “Cezanne a
Liguria”; “Fenomenologia del noetico: Al di là dell'immagine” (Milano,
Cortina); “Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli
enciclopedisti, Palermo, Aesthetica; "Estetica del bello, noetica del brutto,
Palermo, Aesthetica, Immagine e verita: e vero che il sole si ferma) (Milano,
Il Castoro); “L’estetico dell’espressione comunicativa” (Firenze, Monnier);
“L’unicita della ragione; La cosedetta “altra ragione” – il buletico e il creditum:
sensibilità, immaginazione, forma naturale, forma artificiale, forma create
dall’art-ista, Milano, Il Castoro); Il simbolico e il noetico (to throw to
things to be compared, say an Italian flag, and the love of country); Simbolo: figura, materia, e
forma – simbolo materiale – forma noetica – hyle-morphismo” (Milano, Il
Saggiatore); “La lume dell’altre ragione” (Milano, Bruno Mondadori); La
rappresentazione dello spazio – spatium (Milano, Mimesis); ntroduzione
all'estetica, Bologna, Mulino); “Arte, bello e interpretazione della natura”
(Milano, Mimesis); Non sparate sull'umanista. La sfida della valutazione (Milano,
Guerini e Associati); “Filosofia della crisi” (Milano, Guerini e
Associati, pre-moderno, Moderno e
postmoderno. Un bilancio, Milano, Raffaello Cortina Editore, ti dà il
benvenuto, su eliofranzini. L'estetica aujourd'hui. Conversazione» Il rasoio di
Occam MicroMega Estetica, filosofia,
vita quotidiana. Conversazione in MicroMega, su unimi Entra in carica oggi, il
rettore su unimi, contiene l'articolo Il
nuovo rettore della Università Statale di Milano prevede di mantenere a Città
Studi un polo di dipartimenti scientifici Husserl Fenomenologia Scuola di Milano SOCRATE: Caro Fedro, dove vai e da dove
vieni? Platone FEDRO FEDRO: Dalla casa di Lisia, Socrate, il figlio di Cefalo,
e vado a fare una passeggiata fuori dalle mura. Ho passato parecchio tempo là
seduto, fin dal mattino; e ora, seguendo il consiglio di Acumeno,(2) compagno
mio e tuo, faccio delle passeggiate per le strade, poiché, a quanto dice,
tolgono la stanchezza più di quelle sotto i portici. SOCRATE: E dice bene,
amico mio. Dunque Lisia era in città, a quanto pare. FEDRO: Sì, alloggia da
Epicrate, nella casa di Monco, quella vicino al tempio di Zeus Olimpio. SOCRATE:
E come avete trascorso il tempo? Lisia non vi ha forse imbandito, è chiaro, i
suoi discorsi? FEDRO: Lo saprai, se hai tempo di ascoltarmi mentre cammino.
SOCRATE: Ma come? Credi che io, per dirla con Pindaro, non faccia del sentire
come avete trascorso il tempo tu e Lisia una faccenda «superiore a ogni
negozio»? FEDRO: Muoviti, allora! SOCRATE: Se vuoi parlare. FEDRO: Senza
dubbio, Socrate, l'ascolto ti si addice, poiché il discorso su cui ci siamo
intrattenuti era, non so in che modo, sull'amore. Lisia ha scritto di un bel
giovane che viene tentato, ma non da un amante, e ha comunque trattato anche
questo argomento in modo davvero elegante: sostiene infatti che bisogna
compiacere chi non ama piuttosto che chi ama. SOCRATE: E bravo! Avesse scritto
che bisogna compiacere un povero piuttosto che un ricco, un vecchio piuttosto
che un giovane, e tutte quelle cose che vanno bene a me e alla maggior parte di
voi! Allora sì che i suoi discorsi sarebbero urbani e utili al popolo! Io ora
ho tanto desiderio di ascoltare, che se facessi a piedi la tua passeggiata fino
a Megara e, seguendo Erodico,(5) arrivato alle mura tornassi di nuovo, non
rimarrei dietro a te. FEDRO: Cosa dici, ottimo Socrate? Credi che io, da
profano quale sono, ricorderò in modo degno di lui quello che Lisia, il più
bravo a scrivere dei nostri contemporanei, ha composto in molto tempo e a suo
agio? Ne sono ben lungi! Eppure vorrei avere questo più che molto oro. SOCRATE:
Fedro, se io non conosco Fedro, mi sono scordato anche di me stesso! Ma non è vera
né l'una né l'altra cosa: so bene che lui, ascoltando un discorso di Lisia, non
l'ha ascoltato una volta sola, ma ritornandovi più volte sopra lo ha pregato di
ripeterlo, e quello si è lasciato convincere volentieri. Poi però neppure
questo gli è bastato, ma alla fine, ricevuto il libro, ha esaminato i passi che
più di tutti bramava; e poiché ha fatto questo standosene seduto fin dal
mattino, si è stancato ed è andato a fare una passeggiata, conoscendo, corpo
d'un cane!, il discorso ormai a memoria, credo, a meno che non fosse troppo
lungo. E così si è avviato fuori dalle mura per recitarlo. Imbattutosi poi in
uno che ha la malattia di ascoltare discorsi, lo ha visto, e nel vederlo si è
rallegrato di avere chi potesse coribanteggiare con lui (6) e lo ha invitato ad
accompagnarlo. Ma quando l'amante dei discorsi lo ha pregato di declamarlo, si
è schermito come se non desiderasse parlare: ma alla fine avrebbe parlato anche
a viva forza, se non lo si fosse ascoltato volentieri. Tu dunque, Fedro,
pregalo di fare adesso quello che comunque farà molto presto. FEDRO: Per me,
veramente, la cosa di gran lunga migliore è parlare così come sono capace,
poiché mi sembra che non mi lascerai assolutamente andare prima che abbia
parlato, in qualunque modo. SOCRATE: Ti sembra davvero bene. FEDRO: Allora farò
così . In realtà, Socrate, non l'ho proprio imparato tutto parola per parola:
ti esporrò tuttavia il concetto più o meno di tutti gli argomenti con i quali
lui ha sostenuto che la condizione di chi ama differisce da quella di chi non
ama, uno per uno e per sommi capi, cominciando dal primo. SOCRATE: Prima però,
carissì mo, mostrami che cos'hai nella sinistra sotto il mantello; ho
l'impressione che tu abbia proprio il discorso. Se è così, tieni presente che
io ti voglio molto bene, ma se c'è anche Lisia non ho assolutamente intenzione
di offrirmi alle tue esercitazioni retoriche. Via, mostramelo! FEDRO: Smettila!
Mi hai tolto, Socrate, la speranza che riponevo in te di esercitarmi. Ma dove
vuoi che ci sediamo a leggere? SOCRATE: Giriamo di qui e andiamo lungo
l'Ilisso, poi ci sederemo dove ci sembrerà un posto tranquillo. FEDRO: A quanto
pare, mi trovo a essere scalzo al momento giusto; tu infatti lo sei sempre.
Perciò sarà per noi facilissimo camminare bagnandoci i piedi nell'acqua, e non
spiacevole, tanto più in questa stagione e a quest'ora. SOCRATE: Fa' da guida
dunque, e intanto guarda dove ci potremo sedere. FEDRO: Vedi quell'altissimo
platano? SOCRATE: E allora? FEDRO: Là c'è ombra, una brezza moderata ed erba su
cui sederci o anche sdraiarci, se vogliamo. SOCRATE: Puoi pure guidarmici.
FEDRO: Dimmi, Socrate: non è proprio da qui, da qualche parte dell'Ilisso, che
a quanto si dice Borea ha rapito Orizia? SOCRATE: Così si dice. FEDRO: Proprio
da qui dunque? Le acque appaiono davvero dolci, pure e limpide, adatte alle
fanciulle per giocarvi vicino. SOCRATE: No, circa due o tre stadi più in giù,
dove si attraversa il fiume per andare al tempio di Agra: appunto là c'è un
altare di Borea. 2 Platone Fedro FEDRO: Non ci ho mai fatto caso.
Ma dimmi, per Zeus: tu, Socrate, sei convinto che questo racconto sia vero?
SOCRATE: Ma se non ci credessi, come fanno i sapienti, non sarei una persona
strana; e allora, facendo il sapiente, potrei dire che un soffio di Borea la
spinse giù dalle rupi vicine mentre giocava con Farmacea, ed essendo morta così
si è sparsa la voce che è stata rapita da Borea (oppure dall'Areopago, poiché
c'è anche questa leggenda, che fu rapita da là e non da qui). Io però, Fedro,
considero queste spiegazioni sì ingegnose, ma proprie di un uomo fin troppo
valente e impegnato, e non del tutto fortunato, se non altro perché dopo questo
gli è giocoforza raddrizzare la forma degli Ippocentauri, e poi della Chimera;
quindi gli si riversa addosso una folla di tali Gorgoni e Pegasi e un gran
numero di altri esseri straordinari dalla natura strana e portentosa. E se uno,
non credendoci, vorrà ridurre ciascuno di questi esseri al verosimile, dato che
fa uso di una sapienza rozza, avrà bisogno di molto tempo libero. Ma io non ho
proprio tempo per queste cose; e il motivo, caro amico, è il seguente. Non sono
ancora in grado, secondo l'iscrizione delfica, di conoscere me stesso; quindi
mi sembra ridicolo esaminare le cose che mi sono estranee quando ignoro ancora
questo. Perciò mando tanti saluti a queste storie, standomene di quanto
comunemente si crede riguardo a esse, come ho detto poco fa, ed esamino non
queste cose ma me stesso, per vedere se per caso non sia una bestia più
intricata e che getta fiamme più di Tifone, oppure un essere più mite e più
semplice, partecipe per natura di una sorte divina e priva di vanità fumosa. Ma
cambiando discorso, amico, non era forse questo l'albero a cui volevi guidarci?
FEDRO: Proprio questo. SOCRATE: Per Era, è un bel luogo per sostare! Questo
platano è molto frondoso e imponente, l'alto agnocasto è bellissimo con la sua
ombra, ed essendo nel pieno della fioritura rende il luogo assai profumato.
Sotto il platano poi scorre la graziosissima fonte di acqua molto fresca, come
si può sentire col piede. Dalle immagini di fanciulle e dalle statue sembra
essere un luogo sacro ad alcune Ninfe e ad Acheloo.(15) E se vuoi ancora, com'è
amabile e molto dolce il venticello del luogo! Una melodiosa eco estiva
risponde al coro delle cicale. Ma la cosa più leggiadra di tutte è l'erba,
poiché, disposta in dolce declivio, sembra fatta apposta per distendersi e
appoggiarvi perfettamente la testa. Insomma, hai fatto da guida a un forestiero
in modo eccellente, caro Fedro! FEDRO: Mirabile amico, sembri una persona
davvero strana: assomigli proprio, come dici, a un forestiero condotto da una
guida e non a un abitante del luogo. Non lasci la città per recarti oltre
confine, e mi sembra che tu non esca affatto dalle mura. SOCRATE: Perdonami,
carissimo. Io sono uno che ama imparare; la terra e gli alberi non vogliono
insegnarmi nulla, gli uomini in città invece sì . Mi sembra però che tu abbia
trovato la medicina per farmi uscire. Come infatti quelli che conducono gli
animali affamati agitano davanti a loro un ramoscello verde o qualche frutto,
così tu, tendendomi davanti al viso discorsi scritti sui libri, sembra che mi
porterai in giro per tutta l'Attica e in qualsiasi altro luogo vorrai. Ma per ì
l momento, ora che sono giunto qui io intendo sdraiarmi, tu scegli la posizione
in cui pensi di poter leggere più comodamente e leggi. FEDRO: Ascolta, dunque.
«Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi
utile che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che
chiedo perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono dei
benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione, mentre per gli
altri non viene mai un tempo in cui conviene cambiare parere. Infatti fanno
benefici secondo le loro possibilità non per costrizione, ma spontaneamente,
per provvedere nel migliore dei modi alle proprie cose. Inoltre coloro che
amano considerano sia ciò che è andato loro male a causa dell'amore, sia i
benefici che hanno fatto, e aggiungendo a questo l'affanno che provavano
pensano di aver reso già da tempo la degna ricompensa ai loro amati. Invece
coloro che non amano non possono addurre come scusa la scarsa cura delle
proprie cose per questo motivo, né mettere in conto gli affanni trascorsi, né
incolpare gli amati delle discordie con i familiari; sicché, tolti di mezzo
tanti mali, non resta loro altro se non fare con premura ciò che pensano sarà
loro gradito quando l'avranno fatto. Inoltre, se vale la pena di tenere in
grande considerazione gli amanti perché dicono di essere amici al sommo grado
di coloro che amano e sono pronti sia a parole sia coi fatti a rendersi odiosi
agli altri pur di compiacere gli amati, è facile comprendere che, se dicono il
vero, terranno in maggior conto quelli di cui si innamoreranno in seguito, ed è
chiaro che, se parrà loro il caso, ai primi faranno persino del male.
D'altronde come può essere conveniente concedere una cosa del genere a chi ha
una disgrazia tale che nessuno, per quanto esperto, potrebbe tentare di
allontanare? Essi stessi, infatti, ammettono di essere malati più che
assennati, e di sapere che sragionano, ma non sanno dominarsi; di conseguenza,
una volta tornati in senno, come potranno credere che vada bene ciò di cui
decidono in questa disposizione d'animo? E ancora, se scegliessi il migliore
degli amanti, la tua scelta sarebbe tra pochi, se invece scegliessi quello più
adatto a te tra gli altri, sarebbe tra molti; perciò c'è molta più speranza che
quello degno della tua amicizia si trovi tra i molti. Se poi, secondo l'usanza
corrente, temi di guadagnarti del biasimo nel caso la gente lo venga a sapere,
è naturale che gli amanti, credendo di essere invidiati dagli altri così come
si invidiano tra loro, si inorgogliscano parlandone e per ambizione mostrino a
tutti che non hanno faticato invano; mentre coloro che non amano, essendo più
padroni di sé, scelgono ciò che è meglio in luogo della fama presso gli uomini.
Inoltre è inevitabile che molti vengano a sapere o vedano gli amanti
accompagnare i loro amati e darsi un gran da fare, cosicché, quando li vedono
discorrere tra loro credono che essi stiano insieme o perché il loro desiderio
si è realizzato o perché sta per realizzarsi; ma non provano affatto ad
accusare coloro che non amano perché stanno assieme, sapendo che è necessario
parlare con qualcuno per amicizia o per qualche altro piacere. E se poi hai
paura perché credi sia difficile che un'amicizia perduri, e temi che se
sorgesse un dissidio per un altro motivo la sventura sarebbe comune ad
entrambi, mentre in questo caso verrebbe un gran danno a te, perché hai gettato
via ciò che più di tutto tieni in conto, a maggior ragione dovresti temere
coloro che 3 Platone Fedro amano: molte sono le cose che li
affliggono, e credono che tutto accada a loro danno. Per questo allontanano gli
amati anche dalla compagnia con gli altri, per timore che quelli provvisti di
sostanze li superino in ricchezza, e quelli forniti dì cultura li vincano in
intelligenza; in somma, stanno in guardia contro il potere di tutti quelli che
possiedono un qualsiasi altro bene. Così, dopo averti indotto a inimicarti
queste persone, ti riducono privo di amici, e se badando al tuo interesse sarai
più assennato di loro, verrai in discordia con essi. Chi invece non si è
trovato a essere nella condizione di amante, ma ha ottenuto grazie alle sue
doti ciò che chiedeva, non sarebbe geloso di chi si accompagna a te, anzi
odierebbe coloro che rifiutano la tua compagnia, pensando che da costoro sei
disprezzato, ma trai beneficio da chi sta assieme a te. Perciò c'è molta più
speranza che dalla cosa nasca tra loro amicizia piuttosto che inimicizia. Per
di più molti degli amanti hanno desiderio del corpo prima di aver conosciuto il
carattere e aver avuto esperienza delle altre qualità individue dell'amato,
così che non è loro chiaro se vorranno ancora essere amici quando la loro
passione sarà finita; per quanto riguarda invece coloro che non amano, dal
momento che erano tra loro amici anche prima di fare questo, non è verosimile
che la loro amicizia risulti sminuita dal bene che hanno ricevuto, anzi esso
rimane come ricordo di ciò che sarà in futuro. Inoltre ti si addice diventare
migliore dando retta a me piuttosto che a un amante. Essi lodano le parole e le
azioni dell'amato anche al di là di quanto è bene, da un lato per timore di
diventare odiosi, dall'altro perché essi stessi danno giudizi meno retti per
via del loro desiderio. Infatti l'amore produce tali effetti: a coloro che non
hanno fortuna fa ritenere molesto ciò che agli altri non arreca dolore, mentre
spinge coloro che hanno fortuna a elogiare anche ciò che non è degno di
piacere, tanto che agli amati si addice più la compassione che l'invidia. Se
dai retta a me, innanzitutto starò assieme a te prendendomi cura non solo del
piacere presente, ma anche dell'utilità futura, non vinto dall'amore ma padrone
di me stesso, senza suscitare una violenta inimicizia per futili motivi, ma
irritandomi poco e non all'improvviso per motivi gravi, perdonando le colpe
involontarie e cercando di distogliere da quelle volontarie: queste sono prove
di un'amicizia che durerà a lungo. Se invece ti sei messo in mente che non
possa esistere amicizia salda se non si ama, conviene pensare che non potremmo
tenere in gran conto né i figli né i genitori, e non potremmo neanche
acquistarci amici fidati, poiché i vincoli con essi ci sono venuti non da una
tale passione, ma da altri rapporti. Inoltre, se si deve compiacere più di
tutti chi ne ha bisogno, anche nelle altre cì rcostanze conviene fare benefici
non ai migliori, ma ai più indigenti, poiché, liberati da grandissimi mali,
serberanno la massima gratitudine ai loro benefattori. E allora anche nelle
feste private è il caso di invitare non gli amici ma chi chiede l'elemosina e
ha bisogno di essere sfamato, poiché costoro ameranno i loro benefattori, li
seguiranno, verranno alla loro porta, proveranno grandissima gioia, serberanno
non poca gratitudine e augureranno loro ogni bene. Ma forse conviene compiacere
non chi è molto bisognoso, ma chi soprattutto è in grado di rendere il favore;
non solo chi chiede, ma chi è degno della cosa; non quanti godranno del fiore
della tua giovinezza, ma coloro che anche quando sarai diventato vecchio ti
faranno partecipe dei loro beni; non coloro che, ottenuto ciò che desideravano,
se ne vanteranno con gli altri, ma coloro che per pudore ne taceranno con
tutti; non coloro che hanno cura di te per poco tempo, ma coloro che ti saranno
amici allo stesso modo per tutta la vita; non coloro che, cessato il desiderio,
cercheranno il pretesto per un'inimicizia, ma coloro che daranno prova della
loro virtù quando la tua bellezza sarà sfiorita. Dunque tu ricordati di quanto
ti ho detto e considera questo, che gli amici riprendono gli amanti perché sono
convinti che questa pratica sia cattiva, mentre nessuno dei familiari ha mai
rimproverato a coloro che non amano di provvedere male ai propri affari per
questo motivo. Forse ora mi domanderai se ti esorto a compiacere tutti quelli
che non amano. Ebbene, io credo che neanche chi ama ti inviti ad avere questo
atteggiamento con tutti quelli che amano. Infatti né per chi riceve benefici la
cosa è degna di un'uguale ricompensa, né, se anche lo volessi, ti sarebbe
possibile tenerlo nascosto allo stesso modo agli altri; bisogna invece che da
ciò non venga alcun danno, ma un vantaggio a entrambi. Io penso che quanto è
stato detto sia sufficiente: se tu desideri ancora qualcosa e pensi che sia
stata tralasciata, interroga. FEDRO: Che te ne pare del discorso, Socrate? Non
è stato pronunciato in maniera straordinaria, in particolare per la scelta dei
vocaboli? SOCRATE: In maniera davvero divina, amico, al punto che ne sono
rimasto colpito! E questa impressione l'ho avuta per causa tua, Fedro,
guardando te, perché mi sembrava che esultassi per il discorso intanto che lo
leggevi. E dato che credo che in queste cose tu ne sappia più di me ti seguivo,
e nel seguirti ho partecipato al tuo furore bacchico, o testa divina! FEDRO: Ma
dai! Ti pare il caso di scherzare così ? SOCRATE: Ti sembra che io scherzi e
che non abbia fatto sul serio? FEDRO: Nient'affatto, Socrate, ma dimmi
veramente, per Zeus protettore degli amici: credi che ci sia un altro tra i
Greci in grado di parlare sullo stesso argomento in modo più grande e copioso
di lui? SOCRATE: Ma come? Bisogna che il discorso sia lodato da me e da te
anche sotto questo aspetto, ossia perché il suo autore ha detto ciò che
bisognava dire, e non solo perché ha tornito ciascun termine in modo chiaro,
forbito e puntuale? Se proprio bisogna, devo convenirne per amor tuo, dal
momento che mi è sfuggito a causa della mia nullità. Infatti ho posto mente
soltanto all'aspetto retorico del discorso; quanto all'altro, credevo che
neppure Lisia lo ritenesse sufficiente. A meno che tu, Fedro, non abbia
un'opinione diversa, mi è parso che abbia ripetuto due o tre volte gli stessi
concetti, come se non avesse a disposizione grandi risorse per dire molte cose
sullo stesso argomento, o forse come se non gliene importasse nulla; e mi
sembrava pieno di baldanza giovanile quando mostrava com'era bravo, dicendo le
stesse cose prima in un modo e poi in un altro, a parlarne in tutti e due i
casi nella maniera migliore. 4 Platone Fedro FEDRO: Ti sbagli,
Socrate: precisamente in questo consiste il discorso. Infatti non ha
tralasciato nulla di ciò che meritava d'esser detto in argomento, tanto che
nessuno mai saprebbe dire cose diverse e di maggior pregio rispetto a quelle
dette. SOCRATE: In questo non potrò più darti retta: uomini e donne antichi e
sapienti, che hanno parlato e scritto di queste cose, mi confuteranno, se per
farti piacere convengo con te. FEDRO: Chi sono costoro? E dove hai ascoltato
cose migliori di queste? SOCRATE: Ora, lì per lì, non so dirlo; ma è chiaro che
le ho udite da qualcuno, dalla bella Saffo o dal saggio Anacreonte o da qualche
scrittore in prosa. Da cosa lo arguisco per affermare ciò? In qualche modo,
divino fanciullo, sento di avere il petto pieno e di poter dire cose diverse
dalle sue, e non peggiori. So bene che non ho concepito da me niente di tutto
ciò, dato che riconosco la mia ignoranza; allora resta, credo, che da qualche
altra fonte io sia stato riempito attraverso l'ascolto come un vaso. Ma per
indolenza ho scordato proprio questo, come e da chi le ho udite. FEDRO: Ma hai
detto cose bellissime, nobile amico! Neanche se te lo ordino devi riferirmi da
chi e come le hai udite, ma metti in atto esattamente il tuo proposito. Hai
promesso di dire cose diverse, in maniera migliore e non meno diffusa rispetto
a quelle contenute nel libro, astenendoti da queste ultime; quanto a me, io ti
prometto che come i nove arconti innalzerò a Delfi una statua d'oro a grandezza
naturale, non solo mia ma anche tua.(18) SOCRATE: Sei carissimo e veramente
d'oro, Fedro, se pensi che io affermi che Lisia ha sbagliato tutto e che è
possibile dire cose diverse da tutte queste; ciò, credo, non potrebbe capitare
neanche allo scrittore più scarso. Tanto per incominciare, riguardo
all'argomento del discorso, chi credi che, sostenendo che bisogna compiacere
coloro che non amano piuttosto che coloro che amano, abbia ancora altro da dire
quando abbia tralasciato di lodare l'assennatezza degli uni e biasimare la
dissennatezza degli altri, il che appunto è necessario? Ma credo che si debbano
concedere e perdonare simili argomenti a chi ne parla; e di tali argomenti è da
lodare non l'invenzione, ma la disposizione, mentre degli argomenti non
necessari e difficili da trovare è da lodare, oltre alla disposizione, anche
l'invenzione. FEDRO: Concordo con ciò che dici: mi sembri aver parlato in modo
opportuno. Pertanto farò anch'io così: ti concederò di stabilire come principio
che chi ama è più ammalato di chi non ama, e quanto al resto, se avrai detto
altre cose in maggior quantità e di maggior pregio di queste, ergiti pure come
statua lavorata a martello a Olimpia, presso l'offerta votiva dei Cipselidi!
SOCRATE: L'hai presa sul serio, Fedro, perché io, scherzando con te, ho
attaccato il tuo amato, e credi che io proverò veramente a dire qualcosa di
diverso e di più vario a confronto dell'abilità di lui? FEDRO: A questo
proposito, caro, mi hai dato l'occasione per un'uguale presa.(20) Ora tu devi
parlare assolutamente, così come sei capace, in modo da non essere obbligati a
fare quella cosa volgare da commedianti che si rimbeccano a vicenda, e non
volermi costringere a tirar fuori quella frase: «Socrate, se io non conosco
Socrate, mi sono dimenticato anche di me stesso», o quell'altra: «Desiderava
dire, ma si schermiva»; ma tieni bene in mente che non ce ne andremo di qui
prima che tu abbia esposto ciò che sostenevi di avere nel petto. Siamo noi due
soli, in un luogo appartato, io sono più forte e più giovane. Da tutto ciò,
dunque, «intendi quel che ti dico»,(21) e vedi di non parlare a forza piuttosto
che spontaneamente. SOCRATE: Ma beato Fedro, mi coprirò di ridicolo
improvvisando un discorso sui medesimi argomenti, da profano che sono a
confronto di un autore bravo come lui! FEDRO: Sai com'è la questione? Smettila
di fare il ritroso con me; poiché penso di avere una cosa che, se te la dico,
ti costringerà a parlare. SOCRATE: Allora non dirmela! FEDRO: No, invece te la
dico proprio! E le mie parole saranno un giuramento. Ti giuro... ma su chi, su
quale dio? Vuoi forse su questo platano qui? Ebbene, ti giuro che se non
pronuncerai il tuo discorso proprio davanti a questo platano, non ti mostrerò e
non ti riferirò più nessun altro discorso di nessuno. SOCRATE: Ahi, birbante!
Come hai trovato bene il modo di costringere un uomo amante dei discorsi a fare
ciò che tu ordini! FEDRO: Perché allora fai tanti giri? SOCRATE: Niente più
indugi, dal momento che hai proferito questo giuramento. Come potrei astenermi
da un tale banchetto? FEDRO: Allora parla! SOCRATE: Sai dunque come farò?
FEDRO: Riguardo a cosa? SOCRATE: Parlerò dopo essermi coperto il capo, per
svolgere il discorso il più velocemente possibile e non trovarmi in imbarazzo
per la vergogna, guardando verso di te. FEDRO: Purché tu parli; quanto al
resto, fa' come vuoi. SOCRATE: Orsù, o Muse dalla voce melodiosa, vuoi per
l'aspetto del canto vuoi perché siete state così chiamate dalla stirpe dei
Liguri amante della musica,(22) narrate assieme a me il racconto che questo
bellissimo giovane mi costringe a dire, così che il suo compagno, che già prima
gli sembrava sapiente, ora gli sembri tale ancora di più. C'era una volta un
fanciullo, o meglio un giovanetto assai bello, di cui molti erano innamorati.
Uno di loro, che era astuto, pur non essendo innamorato meno degli altri aveva
convinto il fanciullo che non lo amava. E un giorno, saggiandolo, cercava di
persuaderlo proprio di questo, che bisogna compiacere chi non ama piuttosto che
chi ama, e gli parlava così : «Innanzi tutto, fanciulfo, uno solo è l'inizio
per chi deve prendere decisioni nel modo giusto: bisogna sapere su cosa verte
la decisione, o è destino che si sbagli tutto. Ai più sfugge che non conoscono
l'essenza di ciascuna 5 Platone Fedro cosa. Perciò, nella
convinzione di saperlo, non si mettono d'accordo all'inizio della ricerca e
proseguendo ne pagano le naturali conseguenze, poiché non si accordano né con
se stessi né tra loro. Che non capiti dunque a me e a te ciò che rimproveriamo
agli altri, ma dal momento che ci sta dinanzi la questione se si debba entrare
in amicizia con chi ama piuttosto che con chi non ama, stabiliamo di comune
accordo una definizione su cosa sia l'amore e quale forza abbia; poi, tenendo
presente questa definizione e facendovi riferimento, esaminiamo se esso
apporta un vantaggio o un danno. Che l'amore sia appunto un desiderio, è chiaro
a tutti; che inoltre anche chi non ama desideri le cose belle, lo sappiamo. Da
che cosa allora distingueremo chi ama e chi non ama? Occorre poi tenere
presente che in ciascuno di noi ci sono due princì pi che ci governano e ci
guidano, e che noi seguiamo dove essi ci guidano: l'uno, innato, è il desiderio
dei piaceri, l'altro è un'opinione acquisita che aspira al sommo bene. Talvolta
questi due princì pi dentro di noi si trovano d'accordo, talvolta invece sono
in disaccordo; talvolta prevale l'uno, talvolta l'altro. Pertanto, quando
l'opinione guida con il ragionamento al sommo bene e prevale, la sua vittoria
ha il nome di temperanza; mentre se il desiderio trascina fuori di ragione
verso i piaceri e domina in noi, il suo dominio viene chiamato dissolutezza. La
dissolutezza ha molti nomi, dato che è composta di molte membra e molte parti;
e quella che tra queste forme si distingue conferisce a chi la possiede il
soprannome derivato da essa, che non è né bello né meritevole da acquistarsi.
Il desiderio relativo al cibo, che prevale sulla ragione del bene migliore e
sugli altri desideri, è chiamato ingordigia e farà sì che chi lo possiede venga
chiamato con lo stesso nome; quello che tiranneggia nell'ubriachezza e conduce
in tale stato chi lo possiede, è chiaro quale epiteto gli toccherà; così, anche
per gli altri nomi fratelli di questi che designano desideri fratelli, a
seconda di quello che via via signoreggia, è ben evidente come conviene
chiamarli. Il desiderio a motivo del quale è stato fatto tutto il discorso
precedente ormai è pressoché manifesto, ma è assolutamente più chiaro una volta
detto che se non viene detto; ebbene, il desiderio irrazionale che ha il
sopravvento sull'opinione incline a ciò che è retto, una volta che, tratto
verso il piacere della bellezza e corroborato vigorosamente dai desideri a esso
congiunti della bellezza fisica, ha prevalso nel suo trasporto prendendo nome
dal suo stesso vigore, è chiamato eros». Ma caro Fedro, non sembra anche a te,
come a me, che mi trovi in uno stato divino? FEDRO: Certamente, Socrate! Ti ha
preso una certa facilità di parola, contrariamente al solito! SOCRATE:
Ascoltami dunque in silenzio. Il luogo sembra veramente divino, percio non
meravigliarti se nel prosieguo del discorso sarò spesso invasato dalle Ninfe:
le parole che proferisco adesso non sono lontane dai ditirambi.(24) FEDRO: Dici
cose verissime. SOCRATE: E tu ne sei la causa. Ma ascolta il resto, poiché
forse quello che mi viene alla mente potrebbe andarsene via. A questo
provvederà un dio, noi invece dobbiamo tornare col nostro discorso al
fanciullo. «Dunque, carissimo: cosa sia ciò su cui bisogna prendere decisioni,
è stato detto e definito; ora, tenendo presente questo, dobbiamo dire il resto,
ossia quale vantaggio o quale danno presumibilmente verrà da uno che ama e da
uno che non ama a chi concede i suoi favori. Per chi è soggetto al desiderio ed
è schiavo del piacere è inevitabile rendere l'amato il più possibile gradito a
sé; ma per chi è malato tutto ciò che non oppone resistenza è piacevole, mentre
tutto ciò che è più forte o pari a lui è odioso. Così un amante non sopporterà
di buon grado un amato superiore o pari a lui, ma vuole sempre renderlo
inferiore e più debole: e inferiore è l'ignorante rispetto al saggio, il vile
rispetto al coraggioso, chi non sa parlare rispetto a chi ha abilità oratorie,
chi è tardo di mente rispetto a chi è d'ingegno acuto. è inevitabile che, se
nell'animo dell'amato nascono o ci sono per natura tanti difetti, o anche di
più, l'amante ne goda e ne procuri altri, piuttosto che essere privato del
piacere del momento. Ed è altresì inevitabile che sia geloso e causa di grande
danno, poiché distoglie l'amato da molte altre compagnie vantaggiose grazie
alle quali diverrebbe veramente uomo, danno che diventa grandissimo quando lo
allontana da quella compagnia grazie alla quale diventerebbe una persona molto
assennata. Essa è la divina filosofia, da cui inevitabilmente l'amante tiene
lontano l'amato per paura di essere disprezzato, così come ricorrerà alle altre
macchinazioni per fare in modo che sia ignorante di tutto e guardi solo al suo
amante; e in questa condizione l'amato sarebbe fonte di grandissimo piacere per
lui, ma del massimo danno per se stesso. Quindi, per quanto riguarda
l'intelletto, l'uomo che prova amore non è in nessun modo utile come guida e
come compagno. Poi si deve considerare la costituzione del corpo, e quale cura
ne avrà colui che ne diventerà padrone, dato che si trova costretto a inseguire
il piacere anziché il bene. Lo si vedrà seguire una persona molle e non
vigorosa, non cresciuta alla pura luce del sole ma nella fitta ombra, inesperta
di fatiche virili e di secchi sudori, esperta invece di una vita delicata ed
effeminata, ornata di colori e abbellimenti altrui per mancanza dei propri,
intenta a tutte quelle attività conseguenti a ciò, che sono evidenti e non meritano
ulteriori discussioni. Ma stabiliamo un punto essenziale, e poi passiamo ad
altro: per un corpo del genere, in guerra come in tutte le altre occupazioni
importanti, i nemici prendono coraggio, gli amici e gli stessi amanti provano
timore. Perciò questo punto è da lasciar perdere, dato che è evidente, e
bisogna passare invece a quello successivo, cioè quale vantaggio o quale danno
arrecherà ai nostri beni la compagnia e la protezione di chi ama. è chiaro a
chiunque, ma soprattutto all'amante, che egli si augurerebbe più d'ogni altra
cosa che l'amato fosse orbo dei beni più cari, più preziosi e più divini;
accetterebbe che rimanesse privo di padre, madre, parenti e amici, ritenendoli
causa d'impedimento e biasimo della dolcissima compagnia che ha con lui. E se
possiede sostanze in oro o altri beni, egli penserà che non sia facile da
conquistare né, una volta conquistato, trattabile; ne consegue inevitabilmente
che l'amante provi gelosia se l'oggetto del suo amore possiede delle sostanze,
e gioisca se le perde. Inoltre l'amante si augurerà che l'amato sia senza
moglie, senza figli e senza casa il più a lungo possibile, poiché brama di
cogliere il più a lungo possibile il frutto della 6 Platone Fedro
sua dolcezza. Ci sono altri mali ancora, ma un dio ha mescolato alla maggior
parte di essi un piacere momentaneo; per esempio all'adulatore, bestia
terribile e fonte di grande danno, la natura ha comunque mescolato un piacere
non privo di gusto. E così qualcuno può biasimare come rovinosa un'etera o
molte altre creature e attività del genere, che almeno per un giorno possono
essere occasione di grandissimo piacere; ma per l'amato la compagnia quotidiana
dell'amante, oltre al danno che arreca, è la cosa di tutte più spiacevole.
Infatti, come recita l'antico proverbio, il coetaneo si diletta del coetaneo
(credo infatti che l'avere gli stessi anni conduca agli stessi piaceri e
procuri amicizia in virtù della somiglianza); tuttavia anche il loro stare
insieme genera sazietà. Inoltre si dice che la costrizione è pesante per
chiunque in qualsiasi circostanza: ed è proprio questo il rapporto che, oltre
alla differenza d'età, l'amante ha con il suo amato. Infatti, quando uno più
vecchio sta assieme a uno più giovane, non lo lascia volentieri né di giorno né
di notte, ma è tormentato da una necessità e da un pungolo che lo conduce a
destra e a manca procurandogli di continuo piaceri a vedere, ascoltare, toccare
l'amato e a provare tutto ciò che lui prova, sì da mettersi strettamente e con
piacere al suo servizio. Ma quale conforto o quali piaceri darà all'amato per
evitare che questi, stando con lui per lo stesso periodo di tempo, arrivi al
colmo del disgusto? Quando quello vedrà un volto invecchiato e non più in
fiore, con tutte le conseguenze già spiacevoli da udire a parole, per non
parlare poi se ci si trova nella necessità di avere a che fare con esse; quando
dovrà guardarsi in ogni momento e con tutti da custodi sospettosi e sentirà
elogi inopportuni ed esagerati, come anche insulti già insopportabili se
l'amante è sobrio, vergognosi oltre ogni sopportazione se è ubriaco e indulge a
una libertà di linguaggio stucchevole e assoluta? E se quando è innamorato e
dannoso e spiacevole, una volta che l'amore è finito sarà inaffidabile per il
tempo a venire, in prospettiva del quale era riuscito a malapena, con molte
promesse condite di infiniti giuramenti e preghiere e in virtù della speranza
di beni futuri, a mantenere il legame già allora faticoso da sopportare. E
allora, quando bisogna pagare il debito, dato che dentro di sé ha cambiato
padrone e signore, e assennatezza e temperanza hanno preso il posto di amore e
follia, è divenuto un altro senza che il suo amato se ne sia accorto. Questi,
ricordandosi di quanto era stato fatto e detto e pensando di parlare ancora con
la stessa persona, chiede che gli siano ricambiati i favori resi allora; quello
per la vergogna non ha il coraggio di dire che è diventato un altro, né sa come
mantenere i giuramenti e le promesse fatte sotto la dissennata signoria
precedente, dato che ormai ha riacquistato il senno e la temperanza, per non
ridiventare simile a quello che era prima, se non addirittura lo stesso di
prima, facendo le stesse cose. Perciò diventa un fuggiasco, e poiché l'amante
di prima ora è di necessita reo di frode, invertite le parti, muta il suo stato
e si dà alla fuga.(25) L'altro è costretto a inseguire tra lo sdegno e le
imprecazioni, poiché non ha capito tutto fin dal principio, cioè che non
avrebbe mai dovuto compiacere chi ama e di necessità è privo di senno, ma ben
più chi non ama ed è assennato; altrimenti sarebbe inevitabile concedersi a una
persona infida, difficile di carattere, gelosa, spiacevole, danno sa per le
proprie ricchezze, dannosa per la costituzione fisica, ma dannosa nel modo più
assoluto per l'educazione dell'anima, della quale in tutta verità non c'è e mai
ci sarà cosa di maggior valore né per gli uomini né per gli dèi. Pertanto,
ragazzo, bisogna intendere bene questo, e sapere che l'amicizia di un amante
non nasce assieme alla benevolenza, ma alla maniera del cibo, per saziarsi;
come i lupi amano gli agnelli, così gli amanti hanno caro un fanciullo». Questo
è quanto, Fedro. Non mi sentirai dire di più, ma considera ormai finito il
discorso. FEDRO: Eppure io credevo che fosse a metà, e che tu avresti speso uguali
parole per chi non ama, dicendo che bisogna piuttosto compiacere lui e
indicando quanti beni ne derivano; ma ora perché smetti, Socrate? SOCRATE: Non
ti sei accorto, beato, che ormai pronuncio versi epici e non più ditirambi,
proprio mentre muovo questi rimproveri? Se comincerò a elogiare l'altro, cosa
credi che farò? Non lo sai che sarei certamente invasato dalle Ninfe, alle
quali tu mi hai gettato deliberatamente in balia? Perciò in una parola ti dico
che quanti sono i mali che abbiamo biasimato nell'uno tanti sono i beni, ad
essi opposti, che si trovano nell'altro. E che bisogno c'è di un lungo
discorso? Di entrambi si è detto abbastanza. Così il racconto avrà la sorte che
gli spetta; e io, attraversato questo fiume, me ne torno indietro prima di essere
costretto da te a qualcosa di più grande. FEDRO: Non ancora, Socrate, non prima
che sia passata la calura. Non vedi che è all'incirca mezzogiorno, l'ora che
viene chiamata immota? Ma restiamo a discutere sulle cose che abbiamo detto;
non appena farà più fresco, ce ne andremo. SOCRATE: Quanto ai discorsi sei
divino, Fedro, e semplicemente straordinario. Io penso che di tutti i discorsi
prodotti durante la tua vita nessuno ne abbia fatto nascere più di te, o perché
li pronunci di persona o perché costringi in qualche modo altri a pronunciarli
(faccio eccezione per Simmia il Tebano, (26) ma gli altri li vinci di gran
lunga). E ora mi sembra che tu sia stato la causa di un mio nuovo discorso.
FEDRO: Allora non mi dichiari guerra! Ma come, e qual è questo discorso?
SOCRATE: Quando stavo per attraversare il fiume, caro amico, si è manifestato
quel segno divino che è solito manifestarsi a me e che mi trattiene sempre da
ciò che sto per fare. E mi è parso di udire proprio da lì una certa voce che
non mi permette di andare via prima d'essermi purificato, come se avessi
commesso qualche colpa verso la divinità. In effetti sono un indovino, per la
verità non molto bravo, ma, come chi sa a malapena scrivere, valido solo per me
stesso; perciò comprendo chiaramente qual è la colpa. Perché anche l'anima,
caro amico, ha un che di divinatorio; infatti mi ha turbato anche prima, mentre
pronunciavo il discorso, e in qualche modo temevo, come dice Ibico, che
«commesso un fallo» nei confronti degli dèi «consegua fama invece tra gli
umani». Ma ora mi sono reso conto della colpa. FEDRO: Che cosa dici? Platone
Fedro SOCRATE: Terribile, Fedro, terribile è il discorso che tu hai
portato, come quello che poi mi hai costretto a dire! FEDRO: E perché? SOCRATE:
è sciocco e sotto un certo aspetto empio. Quale discorso potrebbe essere più
terribile di questo? FEDRO: Nessuno, se tu dici il vero. SOCRATE: E allora? Non
credi che Eros sia figlio di Afrodite e sia una creatura divina? FEDRO: Così
almeno si dice. SOCRATE: Ma non è detto da Lisia, né dal tuo discorso, che è
stato pronunciato tramite la mia bocca ammaliata da te. E se Eros è, come
appunto è, un dio o un che di divino, non sarebbe affatto un male, e invece i
due discorsi pronunciati ora su di lui ne parlavano come se fosse un male; in
questo dunque hanno commesso una colpa nei confronti dì Eros. Inoltre la loro
semplicità è proprio graziosa, poiché senza dire niente di sano né di vero si
danno delle arie come se fossero chissà cosa, se ingannando alcuni omiciattoli
troveranno fama presso di loro. Pertanto io, caro amico, ho la necessità di
purificarmi; per coloro che commettono delle colpe nei confronti del mito c'è
un antico rito purificatorio, che Omero non conobbe, ma Stesicoro sì . Costui
infatti, privato della vista per aver diffamato Elena, non ne ignorò la causa
come Omero, ma da amante alle Muse quale era la capì e subito compose questi
versi: Questo discorso non è veritiero, non navigasti sulle navi ben costrutte,
non arrivasti alla troiana Pergamo.(28) E dopo aver composto l'intero carme
chiamato Palinodia gli tornò immediatamente la vista. Io pertanto sarò più
saggio di loro almeno sotto questo aspetto: prima di incorrere in un male per
aver diffamato Eros tenterò di offrirgli in cambio la mia palinodia, col capo
scoperto e non velato come allora per la vergogna. FEDRO: Non avresti potuto
dirmi cose più dolci di queste, Socrate. SOCRATE: Veramente, caro Fedro, tu
intendi con quale impudenza siano stati pronunciati i due discorsi, il mio e
quello ricavato dal libro. Se un uomo dall'indole nobile e affabile, che fosse
innamorato di uno come lui o lo fosse stato in precedenza, ci ascoltasse mentre
diciamo che gli amanti sollevano grandi inimicizie per futili motivi e sono
gelosi e dannosi nei confronti dei loro amati, non credi che avrebbe
l'impressione di ascoltare persone allevate in mezzo ai marinai e che non hanno
mai visto un amore libero, e sarebbe ben lungi dal convenire con noi sui
rimproveri che muoviamo ad Eros? FEDRO: Per Zeus, forse sì, Socrate. SOCRATE:
Io dunque, per vergogna nei suoi confronti e per timore dello stesso Eros,
desidero sciacquarmi dalla salsedine che impregna il mio udito con un discorso
d'acqua dolce; e consiglio anche a Lisia di scrivere il più in fretta possibile
che, a parità di condizioni, conviene compiacere più un amante che chi non ama.
FEDRO: Ma sappi bene che sarà così : quando avrai pronunciato l'elogio
dell'amante, sarà inevitabile che Lisia venga costretto da me a scrivere un
altro discorso sullo stesso argomento. SOCRATE: Confido in ciò, finché sarai
quello che sei. FEDRO: Fatti coraggio, dunque, e parla. SOCRATE: Dov'è il
ragazzo a cui parlavo? Faccia in modo di ascoltare anche questo discorso e non
conceda con troppa fretta i suoi favori a chi non ama per non aver udito le mie
parole. FEDRO: Questo ragazzo è accanto a te, molto vicino, ogni qualvolta tu
voglia. SOCRATE: Allora, mio bel ragazzo, tieni presente che il discorso di
prima era di Fedro figlio di Pitocle, del demo di Mirrinunte, mentre quello che
mi accingo a dire è di Stesicoro di Imera, figlio di Eufemo. Bisogna dunque
parlare così : «Non è veritiero il discorso secondo il quale anche in presenza
di un amante si deve piuttosto compiacere chi non ama, per il fatto che l'uno è
in preda a "mania", l'altro è assennato. Se infatti l'essere in preda
a mania fosse un male puro e semplice, sarebbe ben detto; ora però i beni più
grandi ci vengono dalla mania, appunto in virtù di un dono divino. Infatti la
profetessa di Delfi e le sacerdotesse di Dodona,(29) quando erano prese da
mania, procurarono alla Grecia molti e grandi vantaggi pubblici e privati,
mentre quando erano assennate giovarono poco o nulla. E se parlassimo della
Sibilla (30) e di tutti gli altri che, avvalendosi dell'arte mantica ispirata
da un dio, con le loro predizioni in molti casi indirizzarono bene molte
persone verso il futuro, ci dilungheremmo dicendo cose note a tutti. Merita
certamente di essere addotto come testimonianza il fatto che tra gli antichi
coloro che coniavano i nomi non ritenevano la mania una cosa vergognosa o
riprovevole; altrimenti non avrebbero chiamato "manica" l'arte più
bella, con la quale si discerne il futuro, applicandovi proprio questo nome. Ma
considerandola una cosa bella quando nasca per sorte divina, le imposero questo
nome, mentre gli uomini d'oggi, inesperti del bello, aggiungendo la
"t" l'hanno chiamata "mantica". Così anche la ricerca del
futuro che fanno gli uomini assennati mediante il volo degli uccelli e gli
altri segni del cielo, dal momento che tramite l'intelletto procurano
assennatezza e cognizione alla "oiesi", cioè alla credenza umana, la
denominarono "oionoistica", mentre i contemporanei, volendola
nobilitare con la "o" lunga, la chiamano oionistica. Perciò, quanto
più l'arte mantica è perfetta e onorata della oionistica, e il nome e l'opera
dell'una rispetto al nome e all'opera dell'altra, tanto più bella, secondo la
testimonianza degli antichi, è la mania che viene da un dio rispetto
all'assennatezza che viene dagli uomini. Ma la mania, sorgendo e profetando in
coloro in cui doveva manifestarsi, trovò una via di scampo anche dalle malattie
e dalle pene più gravi, che da qualche parte si abbattono su alcune stirpi a
causa di antiche colpe, ricorrendo alle preghiere e al culto degli dèi; quindi,
attraverso purificazioni e iniziazioni, rese immune chi la possedeva per il
tempo presente e futuro, avendo trovato una liberazione dai mali presenti per
chi era in preda a mania e invasamento divino nel modo giusto. Al terzo posto
vengono l'invasamento e la mania provenienti dalle Muse, che impossessandosi di
un'anima tenera e pura la destano e la colmano di furore bacchico in canti e
altri componimenti poetici, e celebrando innumerevoli opere degli antichi
educano i posteri. Chi invece giunge alle porte della poesia senza 8
Platone Fedro la mania delle Muse, convinto che sarà un poeta valente
grazie all'arte, resta incompiuto e la poesia di chi è in senno è oscurata da
quella di chi si trova in preda a mania. Queste, e altre ancora, sono le belle
opere di una mania proveniente dagli dèi che ti posso elencare. Pertanto non
dobbiamo aver paura di ciò, né deve sconvolgerci un discorso che cerchi di
intimorirci asserendo che si deve preferire come amico l'uomo assennato a
quello in stato di eccitazione; ma il mio discorso dovrà riportare la vittoria
dimostrando, oltre a quanto detto prima, che l'amore non è inviato dagli dèi
all'amante e all'amato perché ne traggano giovamento. Noi dobbiamo invece
dimostrare il contrario, cioè che tale mania è concessa dagli dèi per la nostra
più grande felicità; e la dimostrazione non sarà persuasiva per i
valent'uomini, ma lo sarà per i sapienti. Prima di tutto dunque bisogna
intendere la verità riguardo alla natura dell'anima divina e umana,
considerando le sue condizioni e le sue opere. L'inizio della dimostrazione è
il seguente. Ogni anima è immortale. Infatti ciò che sempre si muove è
immortale, mentre ciò che muove altro e da altro è mosso termina la sua vita
quando termina il suo movimento. Soltanto ciò che muove se stesso, dal momento
che non lascia se stesso, non cessa mai di muoversi, ma è fonte e principio di
movimento anche per tutte le altre cose dotate di movimento. Il principio però
non è generato. Infatti è necessario che tutto ciò che nasce si generi da un
principio, ma quest'ultimo non abbia origine da qualcosa, poiché se un
principio nascesse da qualcosa non sarebbe più un principio. E poiché non è
generato, è necessario che sia anche incorrotto; infatti, se un principio
perisce, né esso nascerà da qualcosa né altra cosa da esso, dato che ogni cosa
deve nascere da un principio. Così principio di movimento è ciò che muove se
stesso. Esso non può né perire né nascere, altrimenti tutto il cielo e tutta la
terra, riuniti in corpo unico, resterebbero immobili e non avrebbero più ciò da
cui ricevere di nuovo nascita e movimento. Una volta stabilito che ciò che si
muove da sé è immortale, non si proverà vergogna a dire che proprio questa è
l'essenza e la definizione dell'anima. Infatti ogni corpo a cui l'essere in
movimento proviene dall'esterno è inanimato, mentre quello cui tale facoltà
proviene dall'interno, cioè da se stesso, è animato, poiché la natura
dell'anima è questa; ma se è così, ovvero se ciò che muove se stesso non può
essere altro che l'anima, di necessità l'anima sarà ingenerata e immortale.
Sulla sua immortalità si è detto a sufficienza; sulla sua idea bisogna dire
quanto segue. Spiegare quale sia, sarebbe proprio di un'esposizione divina
sotto ogni aspetto e lunga, dire invece a che cosa assomigli, è proprio di
un'esposizione umana e più breve; parliamone dunque in questa maniera. Si
immagini l'anima simile a una forza costituita per sua natura da una biga alata
e da un auriga.(32) I cavalli e gli aurighi degli dèi sono tutti buoni e nati
da buoni, quelli degli altri sono misti. E innanzitutto l'auriga che è in noi
guida un carro a due, poi dei due cavalli uno è bello, buono e nato da cavalli
d'ugual specie, l'altro è contrario e nato da stirpe contraria; perciò la
guida, per quanto ci riguarda, è di necessità difficile e molesta. Quindi bisogna
cercare di definire in che senso il vivente è stato chiamato mortale e
immortale. Ogni anima si prende cura di tutto ciò che è inanimato e gira tutto
il cielo ora in una forma, ora nell'altra. Se è perfetta e alata, essa vola in
alto e governa tutto il mondo, se invece ha perduto le ali viene trascinata giù
finché non s'aggrappa a qualcosa di solido; qui stabilisce la sua dimora e
assume un corpo terreno, che per la forza derivata da essa sembra muoversi da
sé. Questo insieme, composto di anima e corpo, fu chiamato vivente ed ebbe il
soprannome di mortale. Viceversa ciò che è immortale non può essere spiegato
con un solo discorso razionale, ma senza averlo visto e inteso in maniera
adeguata ci figuriamo un dio, un essere vivente e immortale, fornito di un'anima
e di un corpo eternamente connaturati. Ma di queste cose si pensi e si dica
così come piace al dio; noi cerchiamo di cogliere la causa della perdita delle
ali, per la quale esse si staccano dall'anima. E la causa è all'incirca questa.
La potenza dell'ala tende per sua natura a portare in alto ciò che è pesante,
sollevandolo dove abita la stirpe degli dèi, e in certo modo partecipa del
divino più di tutte le cose inerenti il corpo. Il divino è bello, sapiente,
buono, e tutto ciò che è tale; da queste qualità l'ala dell'anima e nutrita e
accresciuta in sommo grado, mentre viene consunta e rovinata da ciò che è
brutto, cattivo e contrario ad esse. Zeus, il grande sovrano che è in cielo,
procede per primo alla guida del carro alato, dà ordine a tutto e di tutto si
prende cura; lo segue un esercito di dèi e di demoni, ordinato in undici
schiere. La sola Estia resta nella dimora degli dèi; quanto agli altri dèi,
quelli che in numero di dodici sono stati posti come capi guidano ciascuno la
propria schiera secondo l'ordine assegnato.(33) Molte e beate sono le visioni e
i percorsi entro il cielo, per i quali si volge la stirpe degli dèi eternamente
felici, adempiendo ciascuno il proprio compito. E tiene dietro a loro chi
sempre lo vuole e lo può; infatti l'invidia sta fuori del coro divino. Quando
poi vanno a banchetto per nutrirsi, procedono in ardua salita verso la sommità
della volta celeste, dove i carri degli dèi, ben equilibrati e agili da
guidare, procedono facilmente, gli altri invece a fatica; infatti il cavallo
che partecipa del male si inclina, e piegando verso terra grava col suo peso
l'auriga che non l'ha allevato bene. Qui all'anima si presenta la fatica e la
prova suprema. Infatti quelle che sono chiamate immortali, una volta giunte
alla sommità, procedono al di fuori posandosi sul dorso del cielo, la cui
rotazione le trasporta in questa posa, mentre esse contemplano ciò che sta
fuori del cielo. Nessuno dei poeti di quaggiù ha mai cantato né mai canterà in
modo degno il luogo iperuranio.(34) La cosa sta in questo modo (bisogna infatti
avere il coraggio di dire il vero, tanto più se si parla della verità):
l'essere che realmente è, senza colore, senza forma e invisibile, che può
essere contemplato solo dall'intelletto timoniere dell'anima e intorno al quale
verte il genere della vera conoscenza, occupa questo luogo. Poiché dunque la
mente di un dio è nutrita da un intelletto e da una scienza pura, anche quella
di ogni anima cui preme di ricevere ciò che conviene si appaga di vedere dopo
un certo tempo l'essere, e contemplando il vero se ne nutre e ne gode, finché
la rotazione ciclica del cielo non l'abbia riportata allo stesso punto. Nel
giro che essa compie vede la giustizia stessa, vede la temperanza, vede la
scienza, 9 Platone Fedro non quella cui è connesso il divenire, e
neppure quella che in certo modo è altra perché si fonda su altre cose da
quelle che ora noi chiamiamo esseri, ma quella scienza che si fonda su ciò che
è realmente essere; e dopo che ha contemplato allo stesso modo gli altri esseri
che realmente sono e se ne è saziata, si immerge nuovamente all'interno del
cielo e fa ritorno alla sua dimora. Una volta arrivata l'auriga, condotti i
cavalli alla mangiatoia, mette innanzi a loro ambrosia e in più dà loro da bere
del nettare. Questa è la vita degli dèi. Quanto alle altre anime, l'una,
seguendo nel migliore dei modi il dio e rendendosi simile a lui, solleva il
capo dell'auriga verso il luogo fuori del cielo e viene trasportata nella sua
rotazione, ma essendo turbata dai cavalli vede a fatica gli esseri; l'altra ora
solleva il capo, ora piega verso il basso, e poiché i cavalli la costringono a
forza riesce a vedere alcuni esseri, altri no. Seguono le altre anime, che
aspirano tutte quante a salire in alto, ma non essendone capaci vengono
sommerse e trasportate tutt'intorno, calpestandosi tra loro, accalcandosi e
cercando di arrivare una prima dell'altra. Nasce così una confusione e una
lotta condita del massimo sudore, nella quale per lo scarso valore degli
aurighi molte anime restano azzoppate, e a molte altre si spezzano molte penne;
tutte, data la grande fatica, se ne partono senza aver raggiunto la
contemplazione dell'essere e una volta tornate indietro si nutrono del cibo
dell'opinione. La ragione per cui esse mettono tanto impegno per vedere dov'è
sita la pianura della verità è questa: il cibo adatto alla parte migliore
dell'anima viene dal prato che si trova là, e di esso si nutre la natura
dell'ala con cui l'anima si solleva in volo. Questa è la legge di Adrastea.(35)
L'anima che, divenuta seguace del dio, abbia visto qualcuna delle verità, non
subisce danno fino al giro successivo, e se riesce a fare ciò ogni volta, resta
intatta per sempre; qualora invece, non riuscendo a tenere dietro al dio, non
abbia visto, e per qualche accidente, riempitasi di oblio e di ignavia, sia
appesantita e a causa del suo peso perda le ali e cada sulla terra, allora è
legge che essa non si trapianti in alcuna natura animale nella prima
generazione. Invece l'anima che ha visto il maggior numero di esseri si
trapianterà nel seme di un uomo destinato a diventare filosofo o amante del
bello o seguace delle Muse o incline all'amore. L'anima che viene per seconda
si trapianterà in un re rispettoso delle leggi o in un uomo atto alla guerra e
al comando, quella che viene per terza in un uomo atto ad amministrare lo Stato
o la casa o le ricchezze, la quarta in un uomo che sarà amante delle fatiche o
degli esercizi ginnici o esperto nella cura del corpo, la quinta è destinata ad
avere la vita di un indovino o di un iniziatore ai misteri. Alla sesta sarà
confacente la vita di un poeta o di qualcun altro di coloro che si occupano
dell'imitazione, alla settima la vita di un artigiano o di un contadino,
all'ottava la vita di un sofista o di un seduttore del popolo, alla nona quella
di un tiranno. Tra tutti questi, chi ha condotto la vita secondo giustizia
partecipa di una sorte migliore, chi invece è vissuto contro giustizia, di una
peggiore; infatti ciascuna anima non torna nel luogo donde è venuta per
diecimila anni, poiché non rimette le ali prima di questo periodo di tempo,
tranne quella di colui che ha coltivato la filosofia senza inganno o ha amato i
fanciulli secondo filosofia. Queste anime, al terzo giro di mille anni, se
hanno scelto per tre volte di seguito una tale vita, rimettono in questo modo
le ali e al compiere dei tremila anni tornano indietro. Quanto alle altre,
quando giungono al termine della prima vita tocca loro un giudizio, e dopo
essere state giudicate le une vanno nei luoghi di espiazione sotto terra a
scontare la loro pena, le altre, innalzate dalla Giustizia in un luogo del
cielo, trascorrono il tempo in modo corrispondente alla vita che vissero in
forma d'uomo. Al millesimo anno le une e le altre, giunte al sorteggio e alla
scelta della seconda vita, scelgono quella che ciascuna vuole: qui un'anima
umana può anche finire in una vita animale, e chi una volta era stato uomo può
ritornare da bestia uomo, poiché l'anima che non ha mai visto la verità non
giungerà mai a tale forma. L'uomo infatti deve comprendere in funzione di ciò
che viene detto idea, e che muovendo da una molteplicità di sensazioni viene
raccolto dal pensiero in unità; questa è la reminiscenza delle cose che un
tempo la nostra anima vide nel suo procedere assieme al dio, quando guardò
dall'alto ciò che ora definiamo essere e levò il capo verso ciò che realmente
è. Perciò giustamente solo l'anima del filosofo mette le ali, poiché grazie al
ricordo, secondo le sue facoltà, la sua mente è sempre rivolta alle entità in
virtù delle quali un dio è divino. Quindi l'uomo che si avvale rettamente di
tali reminiscenze, essendo sempre iniziato a misteri perfetti, diventa lui solo
realmente perfetto; dato però che si distacca dalle occupazioni degli uomini e
si fa accosto al divino, è ripreso dai più come se delirasse, ma sfugge ai più
che è invasato da un dio. Questo dunque è il punto d'arrivo di tutto il
discorso sulla quarta forma di mania, quella per cui uno, al vedere la bellezza
di quaggiù, ricordandosi della vera bellezza mette nuove ali e desidera levarsi
in volo, ma non essendone capace guarda in alto come un uccello, senza curarsi
di ciò che sta in basso, e così subisce l'accusa di trovarsi in istato di
mania: di tutte le ispirazioni divine questa, per chi la possiede e ha
comunanza con essa, è la migliore e deriva dalle cose migliori, e chi ama le
persone belle e partecipa di tale mania è chiamato amante. Infatti, come si è
detto, ogni anima d'uomo per natura ha contemplato gli esseri, altrimenti non
si sarebbe incarnata in un tale vivente. Ma ricordarsi di quegli esseri
procedendo dalle cose di quaggiù non è alla portata di ogni anima, né di quelle
che allora videro gli esseri di lassù per breve tempo, né di quelle che, cadute
qui, hanno avuto una cattiva sorte, al punto che, volte da cattive compagnie
all'ingiustizia, obliano le sacre realtà che videro allora. Ne restano poche
nelle quali il ricordo si conserva in misura sufficiente: queste, qualora
vedano una copia degli esseri di lassù, restano sbigottite e non sono più in
sé, ma non sanno cosa sia ciò che provano, perché non ne hanno percezione
sufficiente. Così della giustizia, della temperanza e di tutte le altre cose
che hanno valore per le anime non c'è splendore alcuno nelle copie di quaggiù,
ma soltanto pochi, accostandosi alle immagini, contemplano a fatica, attraverso
i loro organi ottusi, la matrice del modello riprodotto. Allora invece si
poteva vedere la bellezza nel suo splendore, quando in un coro felice, noi al
seguito di Zeus, altri di un altro dio, godemmo di una visione e di una
contemplazione beata ed eravamo iniziati a quello che è lecito chiamare il più
beato dei misteri, che celebravamo in perfetta integrità e immuni dalla prova
di tutti quei mali che dovevano attenderci nel tempo a venire, contemplando
nella nostra iniziazione mistica visioni perfette, semplici, immutabili e
10 Platone Fedro beate in una luce pura, poiché eravamo purì e non
rinchiusi in questo che ora chiamiamo corpo e portiamo in giro con noi,
incatenati dentro ad esso come un'ostrica. Queste parole siano un omaggio al
ricordo, in virtù del quale, per il desiderio delle cose d'allora, ora si è
parlato piuttosto a lungo. Quanto alla bellezza, come si è detto, essa brillava
tra le cose di lassù come essere, e noi, tornati qui sulla terra, l'abbiamo colta
con la più vivida delle nostre sensazioni, in quanto risplende nel modo più
vivido. Per noi infatti la vista è la più acuta delle sensazioni che riceviamo
attraverso il corpo, ma essa non ci permette di vedere la saggezza (poiché
susciterebbe terribili amori, se giungendo alla nostra vista le offrisse
un'immagine di sé così splendente) e le altre realtà degne d'amore. Ora invece
soltanto la bellezza ebbe questa sorte, di essere ciò che più di tutto è
manifesto e amabile. Chi dunque non è iniziato di recente, o è corrotto, non si
innalza con pronto acume da qui a lassù, verso la bellezza in sé, quando
contempla ciò che quaggiù porta il suo nome; di conseguenza quando guarda ad
essa non la venera, ma consegnandosi al piacere imprende a montare e a generare
figli a mo' di quadrupede, e comportandosi con tracotanza non ha timore né
vergogna di inseguire un piacere contro natura. Invece chi è iniziato di
recente e ha contemplato molto le realtà di allora, quando vede un volto
d'aspetto divino che ha ben imitato la bellezza o una qualche forma ideale di
corpo, dapprima sente dei brividi e gli sottentra qualcuna delle paure di
allora, poi, guardandolo, lo venera come un dio, e se non temesse di
acquistarsi fama di eccessiva mania farebbe sacrifici al suo amato come a una
statua o a un dio. Al vederlo, lo afferra come una mutazione provocata dai
brividi, un sudore e un calore insolito; e ricevuto attraverso gli occhi il
flusso della bellezza, prende calore là dove la natura dell'ala si abbevera.
Una volta che si è riscaldato si liquefano le parti attorno al punto donde
l'ala germoglia, che essendo da tempo tappate a causa della secchezza le
impedivano di fiorire. Così, grazie all'afflusso del nutrimento, lo stelo
dell'ala si gonfia e prende a crescere dalla radice per tutta la forma
dell'anima; un tempo infatti era tutta alata. A questo punto essa ribolle tutta
quanta e trabocca, e la stessa sensazione che prova chi mette i denti nel
momento in cui essi spuntano, ossia prurito e irritazione alle gengive, la
prova anche l'anima di chi comincia a mettere le ali: quando le ali spuntano
ribolle e prova un senso di irritazione e solletico. Dunque, quando l'anima,
mirando la bellezza del fanciullo, riceve delle parti che da essa provengono e
fluiscono (e che appunto per questo sono chiamate flusso d'amore) (36) e ne
viene irrigata e scaldata, si riprende dal dolore e si allieta. Quando invece
ne è separata e inaridisce, le bocche dei condotti donde spunta fuori l'ala si
disseccano e si serrano, impedendone il germoglio; ma esso, rimasto chiuso
dentro assieme al flusso d'amore, pulsando come le arterie pizzica nei
condotti, ciascun germoglio nel proprio, tanto che l'anima, pungolata
tutt'intorno, è presa da assillo e dolore, e tornandole il ricordo della
bellezza si allieta. In seguito alla mescolanza di entrambe le cose, l'anima è
turbata per la stranezza di ciò che prova e trovandosi senza via d'uscita
comincia a smaniare; ed essendo in stato di mania non può né dormire di notte
né di giorno restare ferma dov'è, ma corre in preda al desiderio dove crede di
poter vedere colui che possiede la bellezza: e una volta che l'ha visto e si è
imbevuta del flusso d'amore, libera i condotti che allora si erano ostruiti,
riprende fiato e cessa di avere pungoli e dolore, e allora coglie, nel momento
presente, il frutto di questo dolcissimo piacere. Perciò non se ne distacca di
sua volontà e non tiene in conto nessuno più del suo bello, ma si dimentica di
madri, fratelli e di tutti i compagni, e non gli importa nulla se le sue
sostanze vanno in rovina perché non se ne cura, anzi disprezza tutte le
consuetudini e le convenienze di cui si ornava prima d'allora ed è disposta a
servire l'amato e a giacere con lui ovunque gli sia concesso di stare il più
vicino possibile al suo desiderio; infatti, oltre a venerarlo, ha trovato in
colui che possiede la bellezza l'unico medico dei suoi più grandi travagli. A
questa passione cui si rivolge il mio discorso, o bel fanciullo, gli uomini
danno il nome di eros, gli dèi invece la chiamano in un modo che a sentirlo,
data la tua giovane età, ti metterai ragionevolmente a ridere. Alcuni Omeridi
citano due versi, credo presi da poemi segreti, riguardanti Eros, uno dei quali
è piuttosto insolente e non del tutto corretto come metro; essi suonano così :
I mortali lo chiamano Eros alato, gli immortali Pteros, ché fa crescere
l'ali.(37) A questi versi si può credere oppure non credere; non di meno la
causa e la sensazione di chi ama è proprio questa. Ora, se chi è stato colto da
Eros era uno dei seguaci di Zeus, riesce a sopportare con più fermezza il peso
del dio che trae il nome dalle ali; quelli che erano al servizio di Ares e
giravano il cielo assieme a lui, quando sono presi da Eros e pensano di subire
qualche torto dall'amato, sono sanguinari e pronti a sacrificare se stessi e il
proprio amore. Così ciascuno conduce la sua vita in base al dio del cui coro
era seguace, onorandolo e imitandolo per quanto gli è possibile, finché resta
incorrotto e vive la prima esistenza quaggiù, e in questo modo si accompagna e
ha relazione con gli amati e con le altre persone. Quindi ciascuno sceglie tra
i belli il suo Eros secondo il proprio carattere, e come fosse un dio gli
edifica una specie di statua e l'abbellisce per onorarla e tributarle riti. I
seguaci di Zeus cercano il loro amato in chi ha l'anima conforme al loro
dio:(38) pertanto guardano se per natura sia filosofo e atto al comando, e
quando l'hanno trovato e ne se sono innamorati, fanno di tutto affinché sia
effettivamente tale. E se prima non si erano impegnati in un'occupazione del
genere, da quel momento vi mettono mano e imparano da dove è loro possibile,
continuando poi anche da soli, e seguendo le tracce riescono a trovare per loro
conto la natura del proprio dio, perché sono stati intensamente costretti a
volgere lo sguardo verso di lui; e quando entrano in contatto con lui sono
presi da invasamento e tramite il ricordo ne assumono le abitudini e le
occupazioni, per quanto è possibile a un uomo partecipare della natura di un
dio. E poiché ne attribuiscono la causa all'amato, lo tengono ancora più caro,
e sebbene attingano da Zeus come le Baccanti,(39) riversando ciò che attingono
nell'anima dell'amato lo rendono il più possibile simile al loro dio. Coloro
che invece erano al seguito di Era cercano un'anima regale, e trovatala fanno
per lei esattamente le stesse cose. Quelli del seguito di Apollo e di ciascuno
degli altri dèi, procedendo secondo il loro dio, bramano che il proprio
fanciullo abbia un'uguale natura, e una volta che se lo sono procurato imitano
essi stessi il dio e con la persuasione e 11 Platone Fedro
l'ammaestramento portano l'amato ad assumere l'attività e la forma di quello,
ciascuno per quanto può; e lo fanno senza comportarsi nei confronti dell'amato
con gelosia o con rozza malevolenza, ma cercando di indurlo alla somiglianza
più completa possibile con se stessi e con il dio che onorano. Dunque l'ardore
e l'iniziazione di coloro che veramente amano, se ottengono ciò che desiderano
nel modo che dico, diventano così belle e felici per chi è amato, qualora venga
conquistato dall'amico che si trova in stato di mania per amore; e chi è
conquistato cede all'amore in questo modo. Come all'inizio dì questa narrazione
in forma di mito abbiamo diviso ciascuna anima in tre parti, due con forma di
cavallo, la terza con forma di auriga, questa distinzione resti per noi un
punto fermo anche adesso. Uno dei cavalli diciamo che è buono, l'altro no:
quale sia però la virtù di quello buono e il vizio di quello cattivo, non
l'abbiamo precisato, e ora bisogna dirlo. Dunque, quello tra i due che si trova
nella disposizione migliore è di forma eretta e ben strutturata, di collo alto
e narici adunche, bianco a vedersi, con gli occhi neri, amante dell'onore unito
a temperanza e pudore e compagno della fama veritiera, non ha bisogno di frusta
e si lascia guidare solo con lo stimolo e la parola; l'altro invece è storto,
grosso, mal conformato, di collo massiccio e corto, col naso schiacciato, il
pelo nero, gli occhi chiari e iniettati di sangue, compagno di tracotanza e
vanteria, dalle orecchie pelose, sordo, e cede a fatica alla frusta e agli
speroni. Quando dunque l'auriga, scorgendo la visione amorosa, prende calore in
tutta l'anima per la sensazione che prova ed è ricolmo di solletico e dei
pungoli del desiderio, il cavallo che obbedisce docilmente all'auriga, tenuto a
freno, allora come sempre, dal pudore, si trattiene dal balzare addosso
all'amato; l'altro invece non cura più né i pungoli dell'auriga né la frusta,
ma imbizzarrisce e si lancia al galoppo con violenza, e procurando ogni sorta
di molestie al compagno di giogo e all'auriga li costringe a dirigersi verso
l'amato e a rammentare la dolcezza dei piaceri d'amore. All'inizio essi si
oppongono sdegnati, al pensiero dì essere costretti ad azioni terribili e
inique; ma alla fine, quando non c'è più alcun limite al male, si lasciano
trascinare nel loro percorso, cedendo e acconsentendo a fare quanto viene loro
ordinato. Allora si fanno presso a lui e hanno la visione folgorante
dell'amato. Scorgendolo, la memoria dell'auriga è ricondotta alla natura della
bellezza, che vede di nuovo collocata su un casto piedistallo assieme alla
temperanza; a tale vista è colta da paura e per la reverenza che le porta cade
supina, e nello stesso tempo è costretta a tirare indietro le redini così forte
che entrambi i cavalli si piegano sulle cosce, l'uno, spontaneamente perché non
recalcitra, quello protervo decisamente contro voglia. Ritiratisi più lontano,
l'uno per vergogna e sbigottimento bagna tutta l'anima di sudore, l'altro,
cessato il dolore che gli veniva dal morso e dalla caduta, a fatica riprende
fiato e incomincia, pieno d'ira com'è, a ingiuriare, coprendo di male parole
l'auriga e il compagno di giogo perché per viltà e debolezza hanno abbandonato
il posto e l'accordo convenuto. E costringendoli di nuovo ad avanzare contro la
loro volontà a stento cede alle loro preghiere di rimandare a un'altra volta.
Quando poi è giunto il tempo stabilito ed essi fingono di non ricordarsene, lo
rammenta a loro con la forza, nitrendo e trascinandoli con sé, e li obbliga ad
accostarsi di nuovo all'amato per fare i medesimi discorsi; e quando sono
vicini tende la testa in avanti e rizza la coda, mordendo il freno, e li
trascina con impudenza. L'auriga, sentendo ancora più intensamente la stessa impressione
di prima, come respinto dalla fune al cancello di partenza, tira indietro
ancora più forte il morso dai denti del cavallo protervo, insanguina la lingua
maldicente e le mascelle e piegandogli a terra le gambe e le cosce lo dà in
preda ai dolori. Quando poi il cavallo malvagio, subendo la medesima cosa più
volte, desiste dalla sua tracotanza, umiliato segue ormai il proposito
dell'auriga, e quando vede il bel fanciullo, muore dalla paura; di conseguenza
accade che a questo punto l'anima dell'amante segua l'amato con pudicizia e
timore. Poiché dunque l'amato, come un essere pari agli dèi, è oggetto di ogni
venerazione da parte dell'amante che non simula, ma prova veramente questo
sentimento, ed è egli stesso per natura amico di chi lo venera, se anche in
precedenza fosse stato ingannato dalle persone che frequentava o da altre, le
quali sostenevano che è cosa turpe accostarsi a chi ama, e per questo motivo
avesse respinto l'amante, ora, col passare del tempo, l'età e la necessità lo
inducono ad ammetterlo alla sua compagnia; infatti non accade mai che un
malvagio sia amico di un malvagio, né che un buono non sia amico di un buono. E
dopo averlo ammesso presso di sé e avere accettato di parlare con lui e stare
in sua compagnia, la benevolenza dell'amante, manifestandosi da vicino,
colpisce l'amato, il quale si avvede che tutti gli altri amici e parenti non
offrono neppure una parte di amicizia a confronto dell'amico ispirato da un
dio. Quando poi questi continua a fare ciò nel tempo e si accompagna all'amato
incontrandolo nei ginnasi e negli altri luoghi di ritrovo, allora la fonte di
quei flusso che Zeus, innamorato di Ganimede, (40) chiamò flusso d'amore,
scorrendo in abbondanza verso l'amante dapprima penetra in lui, poi, quando ne
è ricolmo, scorre fuori; e come un soffio di vento o un'eco, rimbalzando da
corpi lisci e solidi, ritornano là dov'erano partiti, così il flusso della
bellezza ritorna al bel fanciullo attraverso gli occhi, e di qui per sua natura
arriva all'anima. Quando vi è giunto la incoraggia a volare, quindi irriga i
condotti delle ali e comincia a farle crescere, e così riempie d'amore anche
l'anima dell'amato. Pertanto egli ama, ma non sa che cosa; e neppure è a
conoscenza di cosa prova né è in grado di dirlo, ma come chi ha contratto una
malattia agli occhi da un altro non è in grado di spiegarne la causa, così egli
non si accorge di vedere se stesso nell'amante come in uno specchio. E in
presenza di questi, il suo dolore cessa esattamente come a lui, se invece è
assente allo stesso modo di lui desidera ed è desiderato, perché reca in sé una
sembianza d'amore che dell'amore è sostituto: però non lo chiama e non lo crede
amore, bensì amicizia. Più o meno come l'amante, ma in misura più debole,
desidera vederlo, toccarlo, baciarlo, giacere con lui; e com'è naturale, in
seguito non tarda a fare cio. Quando dunque giacciono insieme, il cavallo
sfrenato dell'amante ha di che dire all'auriga, e pretende di trarre un piccolo
guadagno in cambio di tante fatiche; invece quello dell'amato non ha nulla da
dire, ma, gonfio di desiderio e ancora incerto abbraccia e bacia l'amante,
manifestandogli affetto per la sua grande benevolenza. Così, nel momento in cui
si congiungono, non è più tale da rifiutare di compiacere da parte sua
l'amante, se viene pregato di soddisfare; ma il compagno di giogo assieme
all'auriga 12 Platone Fedro si oppone a ciò, obbedendo al pudore e
alla ragione. Se dunque prevalgono le parti migliori dell'animo, quelle che
guidano a un'esistenza ordinata e alla filosofia, essi trascorrono la vita di
quaggiù in modo beato e concorde, poiché sono padroni di sé e ben regolati,
avendo sottomesso ciò in cui nasce il male dell'anima e liberato ciò in cui
nasce la virtù; e alla fine, divenuti alati e leggeri, hanno vinto una delle
tre gare veramente olimpiche, di cui né la temperanza umana né la mania divina
possono fornire all'uomo un bene più grande.(41) Se invece seguono un genere di
vita piuttosto grossolano e privo di filosofia, ma ambizioso, forse, in stato
di ubriachezza o in qualche altro momento di negligenza, i loro due compagni di
giogo sfrenati, cogliendo le anime alla sprovvista e portandole nella stessa
direzione, possono compiere la scelta che tanti considerano la più beata e
mandarla ad effetto; e una volta che l'hanno mandata ad effetto, se ne
avvalgono anche in futuro, ma raramente, poiché fanno cose che non sono
approvate da tutta l'anima. Anche costoro vivono in amicizia reciproca, ma meno
di quelli, sia durante l'amore sia quando ne sono usciti, credendo di essersi
dati l'un l'altro e di aver ricevuto i più grandi pegni, che non è lecito
sciogliere perché ciò condurrebbe all'inimicizia. Al termine della vita escono
dal corpo senz'ali, ma col desiderio di metterle, cosicché riportano un premio
non piccolo della loro mania amorosa; infatti non è legge che coloro i quali
hanno già iniziato il cammino sotto la volta del cielo scendano di nuovo nella
tenebra e camminino sotto terra, bensì che trascorrano una vita luminosa e
felice compiendo il viaggio in compagnia reciproca, e che una volta rinati
rimettano le ali assieme per grazia dell'amore. Questi doni così grandi e così
divini, o fanciullo, ti darà l'amicizia da parte di un amante. Invece la
compagnia di chi non ama, mescolata con temperanza mortale, capace di
amministrare cose mortali e misere, dopo aver generato nell'anima amata una
bassezza lodata dal volgo come virtù, la farà girare priva di senno attorno
alla terra e sotto terra per novemila anni. Questa, caro Eros, per le nostre
facoltà, è la più bella e virtuosa palinodia che abbiamo potuto offrirti in
dono e in espiazione, costretta a causa di Fedro a essere pronunciata, oltre al
resto, anche con alcune parole poetiche. Ma tu concedi il perdono per le cose
di prima e serba gratitudine per queste, e, benevolo e propizio, non togliermi
e non storpiarmì per la collera l'arte amorosa che mi hai dato, anzi concedimi
di essere in onore tra i bei fanciulli ancor più di adesso. E se nel discorso
precedente io e Fedro abbiamo detto qualcosa che a te suona stonata,
attribuiscine la colpa a Lisia, che del discorso è padre, e fallo desistere da
simili prolusioni, volgendolo alla filosofia come si è volto suo fratello
Polemarco,(42) affinché anche questo suo amante non sia nel dubbio come ora, ma
dedichi senz'altro la sua vita ad Eros in compagnia di discorsi filosofici.
FEDRO: Mi unisco alla tua preghiera, Socrate: se questo è meglio per noi, che
avvenga. Da un pezzo ho ammirato il tuo discorso per quanto l'hai reso più
bello del precedente; quindi temo che Lisia mi appaia misero, quand'anche
voglia opporre ad esso un altro discorso. Recentemente infatti, mirabile amico,
un politico lo biasimava criticandolo proprio per questo, e in tutta la sua
critica lo chiamava logografo;(43) perciò forse si tratterrà per ambizione
dallo scrivercene un altro. SOCRATE: Ragazzo, la tua opinione è ridicola, e
quanto al tuo compagno sbagli di grosso, se credi che si spaventi così al
minimo rumore. Ma forse pensi che chi lo biasimava dicesse quello che ha detto
proprio per criticarlo. FEDRO: Così pareva, Socrate; del resto sei anche tu
conscio che coloro che nelle città hanno il massimo potere e la massima
reverenza si vergognano a scrivere discorsi e a lasciare propri scritti,
temendo l'opinione dei posteri, cioè di essere chiamati sofisti. SOCRATE: Ti sei
scordato, Fedro, che la dolce ansa ha preso il nome dalla lunga ansa del Nilo
(44) e oltre all'ansa dimentichi che gli uomini di governo piu assennati amano
tantissimo comporre discorsi e lasciare propri scritti, almeno quelli che,
quando scrivono un discorso, apprezzano a tal punto chi li loda da aggiungere
in testa per primi i nomi di quelli che li devono lodare in ogni singola
occasione. FEDRO: In che senso dici ciò? Non capisco. SOCRATE: Non capisci che
all'inizio del discorso di un uomo politico per primo viene scritto il nome di
chi lo loda! FEDRO: E come? SOCRATE: «Il consiglio ha deciso», dice più o meno,
ovvero «il popolo ha deciso», o entrambi, e ancora «il tale e il tal altro ha
detto» (e qui lo scrittore cita se stesso con grande reverenza e si fa
l'elogio). Poi si mette a parlare, mostrando a chi lo loda la sua abilità,
talvolta dopo aver composto uno scritto assai lungo. O ti pare che una cosa del
genere sia altro che un discorso scritto? FEDRO: Non mi pare proprio. SOCRATE:
Quindi, se il discorso regge, l'autore esce di scena tutto lieto; se invece
viene escluso e radiato dallo scrivere discorsi e dall'essere degno di
scriverli, piangono lui e i suoi compagni. FEDRO: E anche molto! SOCRATE: è
chiaro dunque che non disprezzano questa attività, ma l'ammirano. FEDRO:
Sicuro! SOCRATE: E allora? Quando un retore o un re è in grado di raggiungere
la potenza di Licurgo, di Solone o di Dario (45) e di diventare un logografo
immortale nella sua città, non si crede forse egli stesso pari agli dèi mentre
ancora vive, e i posteri non pensano di lui la stessa cosa, contemplando i suoi
scritti? FEDRO: Certamente! SOCRATE: Credi allora che uno di costoro, chiunque
sia e in qualunque modo sia ostile a Lisia, lo biasimi proprio perché scrive
discorsi? 13 Platone Fedro FEDRO: Non è verosimile, da ciò che
dici, poiché a quanto pare criticherebbe anche il proprio desiderio. SOCRATE:
Allora è chiaro a tutti che non è cosa turpe in sé lo scrivere discorsi. FEDRO:
Ma certo. SOCRATE: Ora però io ritengo turpe questo, il pronunciarli e
scriverli in modo non bello, ma riprovevole e disonesto. FEDRO: è chiaro.
SOCRATE: E allora qual è il modo di scriverli bene e quale il modo contrario?
Abbiamo bisogno, Fedro, di esaminare a questo proposito Lisia e chiunque altro
abbia mai composto o comporrà uno scritto sia pubblico sia privato, in versi
come un poeta o non in versi come un prosatore? FEDRO: Chiedi se ne abbiamo
bisogno? E per quale ragione uno, oserei dire, vivrebbe, se non per i piaceri
di questo tipo? Non certo per quelli per cui bisogna prima soffrire, altrimenti
non si prova godimento, come sono quasi tutti i piaceri del corpo, che per
questo motivo sono stati giustamente chiamati servili. SOCRATE: Tempo ne
abbiamo, a quanto pare. E poi mi sembra che in questa calura soffocante le
cicale, cantando sopra la nostra testa e discorrendo tra loro, guardino anche
noi. Se dunque vedessero che anche noi due, come fanno i più a mezzogiorno, non
discorriamo, ma sonnecchiamo e ci lasciamo incantare da loro per pigrizia della
mente, giustamente ci deriderebbero, considerandoci degli schiavi venuti da
loro per dormire in questo luogo di sosta come delle pecore che passano il
pomeriggio presso la fonte; se invece ci vedranno discorrere e navigare accanto
a loro come alle Sirene senza essere ammaliati, forse, prese da ammirazione, ci
daranno quel dono che per concessione degli dèi possono dare agli uomini.
FEDRO: E qual è questo dono che hanno? A quanto pare, non l'ho mai sentito.
SOCRATE: Non si addice davvero a un uomo amante delle Muse non averne mai
sentito parlare.(46) Si dice che un tempo le cicale erano uomini, di quelli
vissuti prima che nascessero le Muse; quando poi nacquero le Muse e comparve il
canto, alcuni di loro restarono così colpiti dal piacere che cantando non si curarono
più di cibo e bevanda e senza accorgersene morirono. Da loro in seguito ebbe
origine la stirpe delle cicale, che ricevette dalle Muse questo dono, di non
aver bisogno di nutrimento fin dalla nascita, ma di cominciare subito a cantare
senza cibo né bevanda fino alla morte, e di andare quindi dalle Muse a riferire
chi tra gli uomini di quaggiù le onora, e quale di esse onora. A Tersicore
riferiscono di quelli che l'hanno onorata nei cori, rendendoli a lei più
graditi, a Erato di chi l'ha onorata nei carmi d'amore, e così per le altre,
secondo l'onore che ha ciascuna. A Calliope, la più anziana, e a Urania, che
viene dopo di lei, riferiscono di quelli che trascorrono la vita nella
filosofia e onorano la loro musica, poiché esse, avendo cura del cielo e dei
discorsi divini e umani, emettono tra tutte le Muse la voce più bella.(47) Per
molte ragioni, quindi, a mezzogiorno bisogna parlare e non dormire. FEDRO: E
allora bisogna parlare. SOCRATE: Dobbiamo dunque esaminare quello che ora ci
siamo proposti, ossia come è bene pronunciare e scrivere un discorso e come non
lo è. FEDRO: è chiaro. SOCRATE: I discorsi che saranno pronunciati in modo
bello e decoroso non devono forse implicare che l'animo di chi parla conosca il
vero riguardo a ciò di cui intende parlare? FEDRO: A tal proposito, caro
Socrate, ho sentito dire questo: per chi vuole essere un retore non c'è la
necessità di apprendere ciò che è realmente giusto, ma ciò che sembra giusto
alla moltitudine che giudicherà, non ciò che è veramente buono o bello, ma che
sembrerà tale, poiché il convincere il prossimo viene da questo, non dalla
verità. SOCRATE: «Non parola da buttare»(48) dev'essere, Fedro, ciò che dicono
i sapienti, ma si deve esaminare se le loro affermazioni sono valide. Anche per
questo non bisogna lasciar cadere quanto ora è stato detto. FEDRO: Hai ragione.
SOCRATE: Esaminiamolo dunque in questo modo. FEDRO: Come? SOCRATE: Se volessi
persuaderti a difenderti dai nemici acquistando un cavallo, ed entrambi non
conoscessimo un cavallo, ma io per caso sapessi di te solo questo, che Fedro
reputa sia un cavallo quell'animale domestico che a orecchie assai grandi...
FEDRO: Sarebbe ridicolo, Socrate. SOCRATE: Non ancora. Ma lo sarebbe nel caso
che, per convincerti sul serio, componessi un discorso di elogio dell'asino
chiamandolo cavallo e sostenendo che tale bestia è assolutamente degna di
essere acquistata sia per uso domestico sia per le spedizioni militari, utile
per il combattimento in groppa, valente a portare bagagli e vantaggiosa in
molte altre cose. FEDRO: Allora sarebbe davvero ridicolo. SOCRATE: E non è
forse meglio essere ridicolo e amico piuttosto che esperto e nemico? FEDRO:
Così pare. SOCRATE: Pertanto, quando il retore che non conosce il bene e il
male inizia a persuadere una città che si trova nelle sue stesse condizioni,
facendo non l'elogio dell'ombra dell'asino come se fosse del cavallo, ma
l'elogio del male come se fosse il bene, e presa dimestichezza con le opinioni
della gente la persuade a operare il male anziché il bene, quale frutto credi
che mieterà in seguito la retorica da quello che ha seminato? FEDRO:
Sicuramente non buono. 14 Platone Fedro SOCRATE: Ma buon amico,
abbiamo forse svillaneggiato l'arte dei discorsi in modo più rozzo del dovuto?
Essa forse dirà: «Cosa mai andate cianciando, o mirabili uomini? Io non
costringo nessuno che non conosca il vero a imparare a parlare, ma, se il mio
consiglio vale qualcosa, a prendere me solo dopo aver acquisito quello. Questa
dunque è la cosa importante che vi voglio dire: senza di me, anche chi conosce
le cose come sono in realtà non saprà essere più persuasivo secondo arte».
FEDRO: E non dirà cose giuste, se parlasse così ? SOCRATE: Sì, se i discorsi
che si presentano le rendono testimonianza che è un'arte. In effetti mi sembra
di udire alcuni discorsi che vengono a testimoniare che essa mente e non è
un'arte, ma una pratica priva di arte. Un'autentica arte del dire senza il
tocco della verità, afferma lo Spartano,(49) non esiste né esisterà mai. FEDRO:
C'è bisogno di questi discorsi, Socrate: su, portali qui ed esamina cosa dicono
e in che modo. SOCRATE: Venite avanti, nobili rampolli, e persuadete Fedro dai
bei figli (50) che se non praticherà la filosofia in modo adeguato, non sarà
mai in grado di parlare di nulla. Fedro dunque risponda. FEDRO: Chiedete.
SOCRATE: La retorica, in generale, non è l'arte di guidare le anime per mezzo
di discorsi, non solo nei tribunali e in tutte le altre riunioni pubbliche, ma
anche in quelle private, la stessa sia nelle questioni piccole sia in quelle
grandi, e non è affatto di maggior pregio, almeno quando è retta, nelle cose
serie che in quelle di poco conto? O come hai sentito parlare in proposito?
FEDRO: No, per Zeus, assolutamente non così, ma soprattutto nei processi si
parla e si scrive con arte, come pure nelle assemblee pubbliche. Non possiedo
informazioni più ampie. SOCRATE: Ma allora, a proposito dei discorsi, hai
sentito parlare solo delle arti di Nestore e Odisseo, che hanno messo per
iscritto a Ilio nei periodi di tregua, e non di quelle di Palamede? (51) FEDRO:
Per Zeus, neanche di quelle di Nestore, a meno che tu non faccia di Gorgia un
Nestore, o di Trasimaco e Teodoro un Odisseo.(52) SOCRATE: Forse. Ma lasciamo
perdere costoro. Tu dimmi piuttosto: nei tribunali gli avversari cosa fanno? Non
fanno affermazioni tra loro contrastanti? O cosa diremo? FEDRO: Proprio questo.
SOCRATE: Riguardo al giusto e all'ingiusto? FEDRO: Sì . SOCRATE: Allora, chi
opera in questo modo con arte, farà apparire la stessa cosa alle stesse persone
ora giusta, ora, quando lo voglia, ingiusta? FEDRO: Come no? SOCRATE: E in
un'assemblea popolare farà sembrare alla città le stesse cose ora buone, ora,
al contrario, cattive? FEDRO: è così . SOCRATE: E non sappiamo che il Palamede
di Elea (53) parlava con un'arte tale da far apparire agli ascoltatori le
stesse cose simili e dissimili, una e molte, ferme e in movimento? FEDRO: Ma
certo! SOCRATE: Dunque l'arte del contraddire non si trova solo nei tribunali e
nell'assemblea popolare, ma a quanto pare in tutto ciò che si dice ci sarebbe
questa sola arte, se mai la è veramente, con la quale uno sarà capace di
rendere ogni cosa simile a ogni altra in tutti i casi possibili e per quanto è
possibile, e di mettere in luce quando un altro fa la stessa cosa e lo
nasconde. FEDRO: In che senso dici una cosa del genere? 5OCRATE Se cerchiamo in
questo modo credo che ci apparirà evidente. L'inganno si verifica di più nelle
cose che differiscono di molto o in quelle che differiscono di pOco? FEDRO: In
quelle che differiscono di poco. SOCRATE: Ma è più facile che non ti accorga di
essere arrivato all'opposto se ti sposti poco per volta che se ti sposti a
grandi passi. FEDRO: Come no? SOCRATE: Dunque chi ha intenzione di ingannare un
altro senza essere ingannato a sua volta deve distinguere con precisione la
somiglianza e la dissomiglianza degli esseri. FEDRO: è necessario. SOCRATE: Ma
se ignora la verità di ciascuna cosa, sarà mai in grado di discernere la
somiglianza dì ciò che ignora, piccola o grande che sia, con le altre cose?
FEDRO: Impossibile. SOCRATE: Dunque, in coloro che hanno opinioni contrarie
alla realtà degli esseri e si ingannano, è chiaro che questa impressione si
insinua attraverso certe somiglianze. FEDRO: Accade proprio così . SOCRATE: è
possibile allora che uno possieda l'arte di spostare poco a poco la realtà di
un essere attraverso le somiglianze, conducendolo ogni volta da ciò che è al
suo contrario, o viceversa di evitare questo, se non ha cognizione di cosa sia
ciascun essere? FEDRO: Non sarà mai possibile. SOCRATE: Dunque, amico, colui
che non conosce la verità, ma è andato a caccia di opinioni, ci offrirà un'arte
dei discorsi ridicola, a quanto pare, e priva di arte. FEDRO: Pare di sì .
15 Platone Fedro SOCRATE: Vuoi dunque vedere, nel discorso di Lisia
che porti e in quelli che noi abbiamo fatto, qualcuna delle cose che definiamo
prive di arte e conformi all'arte? FEDRO: Più d'ogni altra cosa, poiché ora noi
parliamo in certo qual modo a vuoto, non avendo esempi adeguati. SOCRATE: E per
un caso fortunato, a quanto pare, sono stati pronunciati due discorsi che
recano un esempio di come chi conosce il vero, giocando con le parole, possa
condurre fuori strada gli ascoltatori. Ed io, Fedro, ne attribuisco la causa
agli dèi del luogo; ma forse anche le profetesse delle Muse, che cantano sopra
la nostra testa, possono averci ispirato questo dono, poiché io non sono certo
partecipe di una qualche arte del dire. FEDRO: Sia come dici tu. Solo spiega
ciò che affermi. SOCRATE: Su, leggimi l'inizio del discorso di Lisia. FEDRO: «Sei
a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia per noi utile
che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere ciò che chiedo
perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si pentono...» SOCRATE:
Fermati. Bisogna dire in che cosa costui sbaglia e opera senz'arte, non è vero?
FEDRO: Sì . SOCRATE: Non è forse evidente per chiunque almeno questo, che siamo
d'accordo su alcune di queste cose, in disaccordo su altre? FEDRO: Mi sembra di
capire il tuo pensiero, ma esprimilo ancora più chiaramente. SOCRATE: Quando
uno dice la parola "ferro" o "argento", non intendiamo
forse tutti la stessa cosa? FEDRO: Certo! SOCRATE: E quando si tratta dei
termini "giusto" e "bene"? Non siamo portati chi in una
direzione, chi in un'altra, e siamo in conflitto gli uni con gli altri e
persino con noi stessi? FEDRO: Proprio così ! SOCRATE: Dunque concordiamo su
alcune cose, su altre no. FEDRO: è così . SOCRATE: In quale dei due campi siamo
più facilmente ingannabili e la retorica ha maggior potere? FEDRO: Quello in
cui vaghiamo nell'incertezza, è evidente. SOCRATE: Pertanto chi si accinge a
praticare la retorica deve innanzitutto aver distinto con metodo queste cose e
aver colto un carattere peculiare di entrambe le forme, quella in cui è inevitabile
che la gente vaghi nell'incertezza e quella in cui non lo è. FEDRO: Chi avesse
colto questo, Socrate, avrebbe compreso un'idea davvero bella. SOCRATE: Inoltre
credo che, nell'occuparsi di ciascuna cosa, non debba lasciarsi sfuggire, ma
debba percepire con acutezza a quale delle due specie appartiene ciò di cui
intende parlare. FEDRO: Come no? SOCRATE: E allora? Dobbiamo dire che l'amore
appartiene alle questioni controverse oppure no? FEDRO: Alle questioni
controverse, non c'è dubbio. O credi che ti sarebbe stato possibile dire quello
che poco fa hai detto su di lui, ossia che è un danno sia per l'amato sia
l'amante, e al contrario che è il più grande dei beni? SOCRATE: Parli in modo
eccellente; ma dimmi anche questo, giacché io a causa dell'invasamento non lo
ricordo troppo bene: se all'inizio del discorso ho dato una definizione
dell'amore. FEDRO: Sì, per Zeus, in modo davvero insuperabile. SOCRATE: Ahimè,
quanto sono più esperte nei discorsi, a quel che dici, dici, le Ninfe
dell'Acheloo e Pan figlio di Ermes rispetto a Lisia figlio di Cefalo! Può darsi
che dica una sciocchezza, ma Lisia, cominciando il suo discorso sull'amore, non
ci ha costretto a concepire Eros come una certa realtà unica che voleva lui, e
in relazione a questo ha composto e condotto a termine tutto il discorso
seguente? Vuoi che rileggiamo il suo inizio? FEDRO: Se ti sembra il caso.
Tuttavia ciò che cerchi non è lì . SOCRATE: Parla, in modo che ascolti proprio
lui. FEDRO: «Sei a conoscenza della mia situazione, e hai udito che ritengo sia
utile per noi che queste cose accadano; ma non stimo giusto non poter ottenere
ciò che chiedo, perché non mi trovo a essere tuo amante. Gli innamorati si
pentono dei benefici che hanno fatto, allorquando cessa la loro passione...».
SOCRATE: Sembra che costui sia ben lungi dal fare ciò che cerchiamo, se mette
mano al discorso non dall'inizio ma dalle fine, nuotando supino all'indietro, e
prende le mosse da ciò che l'amante direbbe al suo amato quando ormai ha smesso
di amarlo. Oppure ho detto una sciocchezza, Fedro, mia testa cara? FEDRO: è
certamente la fine, Socrate, quella intorno a cui compone il discorso. SOCRATE:
E il resto? Non ti pare che le parti del discorso siano state buttate lì alla
rinfusa? O ciò che è stato detto per secondo risulta che per una qualche
necessità doveva essere messo per secondo piuttosto che un altro degli
argomenti trattati? A me, che non so nulla, è sembrato che lo scrittore abbia
detto in maniera non rozza ciò che gli veniva in mente; e tu sei a conoscenza
di una qualche arte di scrivere discorsi, in base alla quale lui ha disposto
questi argomenti così di seguito, uno dopo l'altro? FEDRO: Sei troppo buono, se
credi che io sia in grado di vedere nelle sue parole in modo così preciso!
SOCRATE: Ma penso che tu possa dire almeno questo, che ogni discorso dev'essere
costituito come un essere vivente e avere un corpo suo proprio, così da non
essere senza testa e senza piedi, ma da avere le parti di mezzo e quelle
estreme scritte in modo che si adattino le une alle altre e al tutto. FEDRO:
Come no? SOCRATE: Esamina dunque il discorso del tuo compagno, se è composto
così o in altro modo, e troverai che non differisce in nulla dall'epigramma che
secondo alcuni è stato scritto sulla tomba di Mida il Frigio. FEDRO: Qual è
questo epigramma, e cos'ha di particolare? SOCRATE: è questo qui: Vergine
bronzea sono, e sto sull'avello di Mida. Fin che l'acqua scorra e alberi grandi
verdeggino, stando qui sulla tomba di molte lacrime aspersa, annuncerò a chi
passa che Mida qui è sepolto. Capisci senz'altro, come credo, che non c'è
alcuna differenza se un verso viene recitato per primo o per ultimo. FEDRO: Tu
ti fai beffe del nostro discorso, Socrate! SOCRATE: Allora lasciamolo perdere,
così non ti crucci (eppure mi sembra che contenga parecchi esempi ai quali
gioverebbe porre attenzione, cercando di non imitarli in alcun modo); e
passiamo agli altri due discorsi. In essi, mi sembra, c'era qualcosa che per
chi vuole fare indagini sui discorsi è conveniente esaminare. FEDRO: A che cosa
alludi? SOCRATE: In qualche modo erano opposti: uno diceva che si deve
compiacere chi ama, l'altro chi non ama. FEDRO: E con molto vigore! SOCRATE:
Pensavo che tu avresti detto il vero, cioè con mania: ciò che cercavo è appunto
questo. Abbiamo detto infatti che l'amore è una forma di mania. O no? FEDRO: Sì
. SOCRATE: E che ci sono due forme di mania, una che nasce da malattie umane,
l'altra che nasce da un mutamento divino delle consuete abitudini. FEDRO:
Giusto. SOCRATE: Distinguendo quattro parti di quella divina in relazione a
quattro dèi, abbiamo attribuito l'ispirazione mantica ad Apollo, quella
iniziatica a Dioniso, quella poetica alle Muse, la quarta ad Afrodite ed Eros,
e abbiamo detto che la mania amorosa è la migliore. E non so come,
rappresentando con immagini la passione amorosa, forse toccando da un lato un
che di vero, dall'altro uscendo un po' di strada, abbiamo composto un discorso
non del tutto incapace di persuadere e abbiamo levato quasi per gioco, con
parole misurate e pie, un inno in forma di mito in onore di Eros, mio e tuo
signore, Fedro, e protettore dei bei giovani. FEDRO: E almeno per me, un
discorso davvero non spiacevole da ascoltare! SOCRATE: Prendiamo dunque in
esame solo questo, come il discorso sia potuto passare dal biasimo alla lode.
FEDRO: Cosa intendi dire con ciò? SOCRATE: A me pare che il resto sia stato
fatto realmente per gioco; ma in alcune di queste cose dette a caso ci sono due
procedimenti di cui non sarebbe spiacevole se si riuscisse a coglierne con arte
la potenza. FEDRO: Quali? SOCRATE: Il primo consiste nel ricondurre le cose
disperse in molteplici modi a un'unica idea cogliendole in uno sguardo
d'insieme, così da definirle una per una e da chiarire ciò su cui si vuole di
volta in volta insegnare. Per esempio, nel discorso fatto poco fa su Eros, una
volta definito ciò che è, a prescindere se sia stato detto bene o male, è
appunto grazie a questa definizione che il discorso ha acquistato chiarezza e
coerenza interna. FEDRO: E dell'altro procedimento cosa dici, SOcrate? SOCRATE:
Esso consiste, al contrario, nel saper dividere secondo le idee in base alle
loro articolazioni naturali, senza cercar di spezzare alcuna parte, alla
maniera di un cattivo macellaio; ma come i due discorsi di poco fa concepivano
la dissennatezza dell'animo come un'idea unica in comune, e come da un corpo
unico hanno origine membra doppie dallo stesso nome, chiamate destra e
sinistra, così i due discorsi hanno considerato anche la componente della
follia come un'idea per sua natura unica in noi: il primo discorso, tagliando
la parte di sinistra, e poi tagliandola ancora, non ha smesso prima di aver
trovato in queste divisioni un certo qual amore chiamato sinistro e di averlo a
buon diritto biasimato; l'altro discorso invece ci ha condotto nella parte destra
della mania e vi ha trovato un amore che ha lo stesso nome dell'altro, ma è
divino, e dopo aavercelo posto innanzi lo ha elogiato come la causa dei nostri
più grandi beni. FEDRO: Dici cose verissime. SOCRATE: Io, Fedro, sono amante di
questi procedimenti, delle divisioni e delle unificazioni, al fine di essere in
grado di parlare e di pensare; e se ritengo che qualcun altro sia per sua
natura capace di guardare all'uno e ai molti, lo seguo «tenendo dietro alle sue
orme come a quelle di un dio». E quelli che appunto sono in grado di fare ciò,
lo sa un dio se la mia definizione è giusta o meno, fino a questo momento li
chiamo dialettici. Quelli che invece hanno appreso da te e da Lisia ciò di cui
si è discusso ora, dimmi tu come conviene chiamarli: o è proprio questa l'arte
dei discorsi, grazie alla quale Trasimaco e gli altri sono diventati abili a
parlare essi stessi e rendono tali gli altri, che vogliono coprirli di doni
come dei re? FEDRO: Sono uomini regali, sì, ma non esperti delle cose che
chiedi. Ma mi pare che tu dia il nome giusto a questo metodo, chiamandolo
dialettico; quello della retorica invece pare ci sfugga ancora. SOCRATE: Come
dici? Potrebbe forse esserci qualcosa di bello, che anche senza questi
procedimenti si apprende lo stesso con arte? Né io né tu dobbiamo assolutamente
disprezzarlo, ma dobbiamo appunto precisare che cos'è ciò che rimane della
retorica. FEDRO: Rimangono moltissime cose, Socrate, almeno quelle che si
trovano nei libri scritti sull'arte del dire. 17 Platone Fedro
SOCRATE: Hai fatto bene a ricordarmelo. Per primo, credo, all'inizio del
discorso dev'essere pronunciato il proemio; sono queste che chiami le finezze
dell'arte, non è vero? FEDRO: Sì . SOCRATE: Al secondo posto viene una
narrazione seguita da testimonianze, al terzo le argomentazioni, al quarto le
verosimiglianze. Poi vengono la conferma e la riconferma, così almeno credo che
dica l'eccellente uomo di Bisanzio, il Dedalo dei discorsi. FEDRO: Vuoi dire il
valente Teodoro? SOCRATE: Come no? E poi sia nell'accusa sia nella difesa vanno
fatte una confutazione e una controconfutazione. E non tiriamo in ballo il
bellissimo Eveno di Paro, che per primo trovò l'insinuazione e gli elogi
indiretti; alcuni sostengono che pronunciasse persino dei biasimi indiretti in
poesia per esercitare la memoria (in effetti era un uomo abile). E lasceremo
riposare Tisia e Gorgì a,(56) i quali videro come il verosimile sia da tenere
in conto più del vero e con la forza del discorso fanno apparire grande ciò che
è piccolo e piccolo ciò che è grande, vecchio ciò che è nuovo e al contrario
nuovo ciò che è vecchio, e scoprirono la brevità dei discorsi e le prolissità
infinite su ogni sorta di argomento? Una volta Prodico,(57) sentendo da me
queste cose, scoppiò a ridere, e sostenne di aver scoperto lui solo i discorsi
di cui l'arte abbisogna: né lunghi né brevi, ma misurati. FEDRO: Parole molto
sagge, o Prodico. SOCRATE: E non menzioniamo Ippia? Credo che anche l'ospite
eleo voterebbe con lui.(58) FEDRO: Perché no? SOCRATE: E come parleremo dei Templi
alle Muse dei discorsi innalzati da Polo, ad esempio la ripetizione o il
parlare per sentenze e per immagini, e dei Templi alle Muse dei nomi di cui
Licimnio gli fece dono per la composizione del bello stile?(59) FEDRO: E le
opere di Protagora,(60) Socrate, non erano più o meno di questo tipo? SOCRATE:
Una certa Correttezza dello stile, ragazzo, e molte altre belle cose. Ma quanto
ai discorsi strappalacrime sfoderati per la vecchiaia e la povertà, mi pare che
l'abbia vinta per arte la potenza del Calcedonio, uomo d'altronde straordinario
nel suscitare la collera nella gente e poi nell'ammansire chi aveva fatto
adirare incantandolo, come soleva dire, e potentissimo nel lanciare e
sciogliere calunnie in ogni modo. Sembra poi che ci sia comune accordo tra
tutti sulla conclusione dei discorsi, alla quale alcuni danno il nome di
riepilogo, altri un altro nome. FEDRO: Intendi il ricordare per sommi capi agli
ascoltatori, alla fine del discorso, ciascuno degli argomenti trattati?
SOCRATE: Intendo questo, e se tu hai qualcos'altro da aggiungere sull'arte dei
discorsi... FEDRO: Cose da poco, che non vale la pena di dire. SOCRATE:
Lasciamo perdere le cose di poco conto, e vediamo piuttosto in piena luce quale
potenza dell'arte hanno le cose di cui abbiamo parlato, e quando. FEDRO: Una
potenza davvero forte, SOcrate, almeno nelle adunanze del popolo. SOCRATE:
Infatti l'hanno. Ma guarda anche tu, o esimio, se la loro trama non sembra
anche te, come a me, slegata. FEDRO: Purché tu lo dimostri. SOCRATE: Allora
dimmi: se uno si presentasse al tuo compagno Erissimaco o a suo padre Acumeno e
dicesse loro: «Io so somministrare ai corpi farmaci tali da riscaldarli e
raffreddarli, se lo voglio, e se mi pare il caso tali da farli vomitare e
persino evacuare, e moltissime altre cose del genere. E dal momento che ho
queste conoscenze sono convinto di essere un medico e di far diventare medico
un altro a cui comunico la scienza di queste cose», cosa credi che direbbero
dopo averlo ascoltato? FEDRO: Cos'altro se non chiedergli se sa anche a chi e
quando bisogna fare ciascuna di queste cose, e in quale misura? SOCRATE: E se
allora rispondesse: «Non lo so affatto: ma sono convinto che chi ha appreso
queste conoscenze da me sia a sua volta in grado di fare ciò che chiedi»?
FEDRO: Direbbero, credo, che quell'uomo è pazzo, e che crede di essere
diventato un medico per aver sentito qualcosa da qualche libro o per aver usato
casualmente dei farmaci, senza avere alcuna conoscenza dell'arte. SOCRATE: E se
uno si presentasse a Sofocle e ad Euripide dicendo che sa comporre discorsi
lunghissimi su un argomento piccolo e piccolissimi su un argomento grande,
commoventi, quando lo vuole, e al contrario spaventevoli e minacciosi, e tante
altre cose del genere, e che insegnando ciò crede di trasmettere il modo di
comporre una tragedia? FEDRO: Credo che anche costoro, Socrate, riderebbero se
uno pensa che la tragedia sia altra cosa che l'unione di questi elementi ben
connessi tra loro e accordati con il tutto. SOCRATE: Però non lo
rimprovererebbero con villania, credo, ma come un musico, se incontrasse un
uomo che crede di essere esperto nell'armonia, perché il caso vuole che sappia
come si fa a produrre il suono più acuto e quello più grave, non gli direbbe
villanamente: «Disgraziato, tu sei pazzo!», ma in quanto musico gli direbbe, in
modo più affabile: «Carissimo, chi vuole essere un esperto di armonia è
necessario che conosca anche questo, tuttavia nulla vieta che chi ha le tue
capacità non sappia neppure un poco di armonia; tu infatti conosci le nozioni
necessarie e preliminari dell'armonia, non come si produce l'armonia». FEDRO:
Giustissimo. SOCRATE: Allora anche Sofocle direbbe a chi si esibisse di fronte
a loro che conosce i preliminari dell'arte tragica ma non il modo di comporre
una tragedia, e Acumeno direbbe all'altro che conosce i preliminari della
medicina, non la scienza medica. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: E cosa pensiamo
che direbbero Adrasto voce di miele o Pericle, (61) se sentissero parlare degli
accorgimenti che abbiamo elencato poco fa, cioè parlare conciso, parlare per
immagini e tutte le altre cose che abbiamo 18 Platone Fedro scorso
affermando che erano da esaminare in piena luce? Forse per villania, come
abbiamo fatto io e te, si rivolgerebbero con parole aspre e rudi a chi ha
scritto queste cose e le insegna spacciandole per retorica, oppure, essendo più
saggi di noi, ci lascerebbero di stucco dicendo: «Fedro e Socrate, non bisogna
essere aspri, ma indulgenti, se alcuni, non essendo a conoscenza della
dialettica, non hanno saputo definire cosa mai sia la retorica e in conseguenza
di questa condizione, possedendo le nozioni necessarie e preliminari dell'arte,
hanno creduto di averla scoperta; e impartendo queste nozioni ad altri
ritengono di averli istruiti compiutamente nella retorica e presumono che i
loro discepoli debbano procurarsi da sé nei discorsi la capacità di esporre
ciascuna di queste cose in maniera convincente e di collegare tutto l'insieme,
come se fosse opera da nulla!». FEDRO: Ma può anche darsi, Socrate, che sia proprio
un qualcosa del genere cio che concerne l'arte che questi uomini insegnano e
presentano per iscritto come retorica, e mi sembra che tu abbia detto il vero;
ma allora come e dove ci si può procurare l'arte di colui che è veramente
esperto di retorica e persuasivo? SOCRATE: Riuscire a diventare un perfetto
campione della retorica, è naturale, Fedro, e forse anche necessario, che sia
come negli altri campi: se per natura sei portato alla retorica, sarai un
retore famoso, a patto d'aggiungervi scienza ed esercizio; ma se manchi di una
di queste qualità, resterai imperfetto. Quanto poi all'arte connessa a ciò, non
mi sembra che il metodo proceda nella direzione in cui vanno Lisia e Trasimaco.
FEDRO: Qual è il metodo, allora? SOCRATE: Si dà il caso, carissimo, che Pericle
sia stato probabilmente il più perfetto di tutti nella retorica. FEDRO: Perché?
SOCRATE: Tutte le grandi arti hanno bisogno di sottigliezza e di discorsi
celesti sulla natura, poiché questa elevatezza di pensiero e questa capacità di
condurre tutto ad effetto sembrano provenire in qualche modo da qui. E Pericle,
oltre alla buona disposizione naturale, si acquistò anche questo: imbattutosi,
credo, in Anassagora, uomo di tal fatta, si riempì di discorsi celesti e giunse
alla natura dell'intelletto e della ragione, argomenti intorno ai quali
Anassagora si diffondeva ampiamente, e da qui ricavò quello che era utile per
l'arte dei discorsi. FEDRO: In che senso dici ciò? SOCRATE: Il modo di
procedere dell'arte medica è lo stesso della retorica. FEDRO: E come? SOCRATE:
In entrambe bisogna dividere una natura, in una quella del corpo, nell'altra
quella dell'anima, se tu, non solo per esercizio e in modo empirico, ma con
arte, vuoi procurare all'uno salute e vigore somministrandogli medicine e
nutrimento, e trasmettere all'altra la convinzione che desidera e la virtù
offrendole discorsi e occupazioni rispettose delle leggi. FEDRO: è verosimile
che sia così, Socrate. SOCRATE: Ritieni dunque che sia possibile comprendere la
natura dell'anima in modo degno di menzione senza conoscere la natura
dell'insieme? FEDRO: Se si deve dare qualche credito a Ippocrate, che è degli
Asclepiadi,(63) senza questo metodo non è possibile neanche comprendere la
natura del corpo. SOCRATE: E dice bene, amico; tuttavia bisogna confrontare il
discorso con quanto afferma Ippocrate ed esaminare se si accorda. FEDRO:
Certamente. SOCRATE: Allora esamina cosa dicono sulla natura Ippocrate e il
discorso vero. Non bisogna forse ragionare così riguardo alla natura di
qualsiasi cosa? Innanzitutto si deve considerare se ciò in cui vorremo essere
esperti noi stessi e in grado di rendere tale un altro sia semplice o
multiforme; poi, se è semplice, si deve esaminare quale potenza ha per sua
natura nell'agire e su che cosa la esercita, o quale potenza ha nel subire e da
che cosa la subisce, se invece ha più forme bisogna enumerarle e vedere per
ciascuna di esse ciò che si vede per un'unità, cioè in virtù di che cosa è
portata per sua natura ad agire e su che cosa, o in virtù di che cosa a subire,
che cosa e da che cosa. FEDRO: Può essere, Socrate. SOCRATE: Dunque il metodo
privo di questi procedimenti somiglierebbe all'andare di un cieco. Chi invece
persegue con arte una qualsiasi cosa non è da rassomigliare a un cieco o a un
sordo, ma è chiaro che, se uno vuol trasmettere ad altri discorsi fatti con
arte, dimostrerà puntualmente l'essenza della natura di ciò a cui rivolgerà i
suoi discorsi; e questo sarà in qualche modo l'anima. FEDRO: Come no? SOCRATE:
Perciò tutto il suo sforzo è teso a questo, poiché in questo cerca di produrre
persuasione. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: è chiaro dunque che Trasimaco e
chiunque altro offra seriamente l'arte della retorica, innanzitutto descriverà
e farà vedere con la massima precisione l'anima, se per sua natura è una e
tutta uguale o multiforme come l'aspetto del corpo; diciamo infatti che questo
è dimostrare la natura di una cosa. FEDRO: Assolutamente. SOCRATE: In secondo
luogo, in virtù di che cosa è per sua natura portata ad agire, e su cosa, o in
virtù di che cosa è portata a subire, e da che cosa. FEDRO: Come no? SOCRATE:
In terzo luogo, classificati i generi dei discorsi e dell'anima e le loro
proprietà, passerà in rassegna tutte le cause, adattando ciascun genere di
discorso a ciascun genere di anima e insegnando quale anima, da quali discorsi
e per quale causa viene di necessità persuasa, quale invece non viene persuasa.
FEDRO: Sarebbe bellissimo se fosse così, a quanto pare! SOCRATE: Pertanto,
caro, ciò che verrà dimostrato o detto in altro modo non sarà mai detto o
scritto con arte, né su questo né su un altro argomento. Ma quelli che oggi
scrivono le arti dei discorsi che tu hai ascoltato sono scaltri, e pur
conoscendo molto bene l'anima sono portati a dissimulare; perciò, prima che
parlino e scrivano in questo modo, non lasciamoci convincere da loro, credendo
che scrivano con arte. FEDRO: Qual è questo modo? SOCRATE: Già usare le
espressioni appropriate non è cosa facile; ma per quanto mi è possibile voglio
dirti come bisogna scrivere, se si intende farlo con arte. FEDRO: Dillo dunque.
SOCRATE: Poiché la forza del discorso sta nella guida delle anime, chi vuole
essere esperto di retorica è necessario che sappia quante forme ha l'anima.
Esse sono tantissime e di svariate qualità, e di conseguenza alcuni uomini sono
di un certo tipo, altri di un altro; e dato che le forme dell'anima risultano
così divise, a loro volta sono tantissime anche le forme dei discorsi, ciascuna
di tipo diverso. Per questo motivo gli uomini di un certo tipo si lasciano
facilmente persuadere da discorsi di un certo tipo su determinati argomenti,
mentre gli uomini di un altro tipo, sempre per questo motivo, sono difficili da
persuadere. Perciò chi vuole diventare retore deve innanzitutto tenere in
adeguata considerazione queste cose, poi, osservando il loro modo di essere e
di operare all'atto pratico, dev'essere in grado di seguirle acutamente con le
sue facoltà intellettive, altrimenti non avrà mai niente più dei discorsi che
ascoltava quando frequentava un maestro. E quando sappia dire in modo adeguato
quale genere di uomo viene persuaso e da quali discorsi, e sia in grado di
accorgersi della sua presenza e di provare a se stesso che si tratta di
quell'uomo e di quella natura sulla quale vertevano a suo tempo i discorsi, e
poiché ora è di fatto presente deve riferirle questi discorsi nella maniera
prevista, per persuaderla di determinate cose, una volta che dunque sia in
possesso di tutti questi requisiti, sappia cogliere i momenti giusti in cui
bisogna parlare e quelli in cui bisogna trattenersi e sappia discernere
l'opportunità e l'inopportunità del parlare conciso, commovente o indignato e
di tutte le altre forme di discorso che ha appreso, allora l'arte è realizzata
in modo bello e compiuto, prima no. Ma se uno manca di una qualsiasi di queste
cose quando parla, insegna o scrive, e afferma di parlare con arte, vince chi
non si lascia persuadere. «E allora?», dirà forse il nostro scrittore. «Fedro e
Socrate, la pensate così? Dobbiamo forse definire in altro modo l'arte che è
detta dei discorsi?». FEDRO: è impossibile in altro modo, Socrate; eppure
sembra un lavoro non da poco. SOCRATE: Hai ragione. Proprio per questo bisogna
rivoltare tutti i discorsi sottosopra ed esaminare se da qualche parte appare
una via più facile e più breve per giungere ad essa, così da non procedere
inutilmente per una via lunga e aspra, quando è possibile percorrerne una corta
e liscia. Ma se hai da qualche parte un aiuto, per averlo ascoltato da Lisia o
da qualcun altro, cerca di richiamarlo alla memoria e di dirlo. FEDRO: Così,
per fare una prova, potrei, ma non me la sento, almeno adesso. SOCRATE: Vuoi
dunque che io riferisca un discorso che ho ascoltato da alcuni che si occupano
di queste cose? FEDRO: Perché no? SOCRATE: D'altronde, Fedro, si dice che è
giusto riferire anche le ragioni del lupo. FEDRO: Allora fa' così anche tu.
SOCRATE: Dunque, essi sostengono che non si devono magnificare e levare così in
alto queste cose, con tanti giri di parole; infatti, come abbiamo detto anche
all'inizio del discorso, chi intende essere sufficientemente esperto nella
retorica non deve certo partecipare della verità circa questioni giuste e
buone, o uomini tali per natura o per educazione, poiché nei tribunali non
importa proprio niente a nessuno della verità su queste cose, ma importa solo
ciò ch'è atto a persuadere: è il verosimile, a cui si deve applicare chi
intende parlare con arte. Talvolta infatti non bisogna neanche esporre i fatti,
a meno che non si siano svolti in maniera verosimile, ma solo quelli
verosimili, sia nell'accusa sia nella difesa, e in genere chi parla deve
seguire il verosimile, dopo aver detto tanti saluti alla verità; poiché è
appunto questo che, se percorre l'intero discorso, procura tutta quanta l'arte.
FEDRO: Hai esposto, Socrate, proprio le ragioni che adducono quelli che danno a
vedere di essere esperti nell'arte dei discorsi; mi sono ricordato che già in
precedenza abbiamo toccato brevemente tale argomento, e sembra che ciò sia di
enorme importanza per chi si occupa di queste cose. SOCRATE: Sicuramente hai
studiato con precisione proprio Tisia: quindi Tisia ci dica anche questo, se
per verosimile intende qualcosa di diverso da ciò che sembra ai più. FEDRO: E
che altro? SOCRATE: E avendo fatto questa scoperta, a quanto pare, di saggezza
e d'arte insieme, ha scritto che se un uomo debole e coraggioso, che ha
percosso un uomo forte e vile e gli ha portato via il mantello o qualcos'altro,
viene condotto in tribunale, nessuno dei due deve dire la verità, ma il vile
deve asserire di non essere stato percosso dal solo uomo coraggioso, questi
deve confutare ciò ribattendo che erano loro due soli, e servirsi del seguente
argomento: «Come avrei potuto io, data la mia condizione, mettere le mani
addosso a una persona come lui?». L'altro non ammetterà la propria viltà, ma
cercando di dire qualche altra menzogna offrirà subito materia di confutazione
all'avversario. E anche negli altri campi le cose dette con arte sono più o
meno di questo genere. Non è così, Fedro? FEDRO: Come no? SOCRATE: Ahimè,
sembra che abbia fatto la scoperta davvero sensazionale di un'arte nascosta,
Tisia o chiunque altro sia e da qualunque luogo si compiaccia di trarre il
nome! Ma a costui, amico, dobbiamo dire o no... FEDRO: Cosa? SOCRATE: Questo:
«O Tisia, da tempo noi, prima ancora che tu venissi qui, ci trovavamo a dire
che questo verosimile viene a nascere nei più per somiglianza col vero; e poco
fa abbiamo spiegato che chi conosce la verità sa scoprire benissimo le
somiglianze. Perciò, se hai qualcos'altro da dire sull'arte dei discorsi, lo
ascolteremo; altrimenti daremo credito a ciò che abbiamo esposto or ora, cioè
che se uno non enumererà le nature di coloro che lo ascolteranno, e non sarà in
grado di dividere gli esseri secondo le forme e di raccoglierli uno per uno in
un'idea, non sarà mai esperto nell'arte dei discorsi, per quanto è possibile a
un uomo. E non potrà mai acquisire queste capacità senza molta applicazione; ad
essa il sapiente dovrà indirizzare i suoi sforzi non per parlare e agire con
gli uomini, ma per poter dire cose che siano gradite agli dèi e fare ogni cosa
in modo a loro gradito, per quanto è nelle sue facoltà. Infatti i più saggi tra
noi, Tisia, dicono che chi ha intelletto deve prendersi cura di compiacere non
i compagni di schiavitù, se non in modo accessorio, ma i padroni buoni e che
discendono da uomini buoni. Perciò, se la strada è lunga, non meravigliartene,
in quanto per raggiungere grandi traguardi bisogna percorrerla, non come credi
tu. D'altronde, come dice il nostro discorso, anche queste fatiche diventeranno
bellissime grazie a quei traguardi, se uno lo vuole». FEDRO: Mi pare che si
stia parlando in modo bellissimo, Socrate, se davvero qualcuno ne è capace.
SOCRATE: Ma per chi intraprende azioni belle è bello anche soffrire, qualunque
cosa gli tocchi di soffrire. FEDRO: Sicuro. SOCRATE: Quanto si è detto a
proposito dell'arte e della mancanza di arte nel fare discorsi sia dunque
sufficiente. FEDRO: Come no? SOCRATE: Rimane la questione della convenienza e
della non convenienza della scrittura, quando essa vada bene e quando invece
sia sconveniente. O no? FEDRO: Sì . SOCRATE: Sai allora come, nell'ambito dei
discorsi, potrai acquistarti il massimo favore di un dio con le tue azioni e le
tue parole? FEDRO: Per niente. E tu? SOCRATE: Io posso raccontarti una storia
tramandata dagli antichi; il vero essi lo sanno. E se noi lo trovassimo da
soli, ci importerebbe ancora qualcosa delle opinioni degli uomini? FEDRO: Hai
fatto una domanda ridicola! Ma racconta ciò che dici di aver udito. SOCRATE: Ho
sentito dunque raccontare che presso Naucrati, in Egitto, c'era uno degli antichi dèi del luogo, al
quale era sacro l'uccello che chiamano ibis; il nome della divinità era Theuth.
Questi inventò dapprima i numeri, il calcolo, la geometria e l'astronomia, poi
il gioco della scacchiera e dei dadi, infine anche la scrittura. Re di tutto
l'Egitto era allora Thamus e abitava nella grande città della regione superiore
che i Greci chiamano Tebe Egizia, mentre chiamano il suo dio Ammone. Theuth,
recatosi dal re, gli mostrò le sue arti e disse che dovevano essere trasmesse
agli altri Egizi; Thamus gli chiese quale fosse l'utilità di ciascuna di esse,
e mentre Theuth le passava in rassegna, a seconda che gli sembrasse parlare
bene oppure no, ora disapprovava, ora lodava. Molti, a quanto si racconta,
furono i pareri che Thamus espresse nell'uno e nell'altro senso a Theuth su
ciascuna arte, e sarebbe troppo lungo ripercorrerli; quando poi fu alla
scrittura, Theuth disse: «Questa conoscenza, o re, renderà gli Egizi più sapienti
e più capaci di ricordare, poiché con essa è stato trovato il farmaco della
memoria e della sapienza». Allora il re rispose: «Ingegnosissimo Theuth, c'è
chi sa partorire le arti e chi sa giudicare quale danno o quale vantaggio sono
destinate ad arrecare a chi intende servirsene. Ora tu, padre della scrittura,
per benevolenza hai detto il contrario di quello che essa vale. Questa scoperta
infatti, per la mancanza di esercizio della memoria, produrrà nell'anima di
coloro che la impareranno la dimenticanza, perché fidandosi della scrittura
ricorderanno dal di fuori mediante caratteri estranei, non dal di dentro e da
se stessi; perciò tu hai scoperto il farmaco non della memoria, ma del
richiamare alla memoria. Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza,
non la verità: ascoltando per tuo tramite molte cose senza insegnamento,
crederanno di conoscere molte cose, mentre per lo più le ignorano, e la loro
compagnia sarà molesta, poiché sono divenuti portatori di opinione anziché
sapienti». FEDRO: Socrate, tu pronunci con facilità discorsi egizi e di
qualsiasi paese tu voglia! SOCRATE: E pensa che alcuni, mio caro, hanno
asserito che i primi discorsi profetici nel tempio di Zeus a Dodona venivano da
una quercia! Agli uomini di allora, dato che non erano sapienti come voi
giovani, bastava, nella loro semplicità, ascoltare una quercia o una roccia,
purché dicessero il vero; ma forse per te fa differenza chi è colui che parla e
da dove viene. Non miri infatti solamente a questo, se le cose stanno così o
diversamente? FEDRO: Hai colto nel segno, e mi sembra che riguardo alla
scrittura le cose stiano come dice il re di Tebe. SOCRATE: Allora chi crede di
tramandare un'arte con la scrittura, e chi a sua volta la riceve nella
convinzione che dalla scrittura deriverà qualcosa di chiaro e di saldo,
dev'essere ricolmo di molta ingenuità e ignorare realmente il vaticinio di
Ammone, se pensa che i discorsi scritti siano qualcosa in più del riportare
alla memoria di chi già sa ciò su cui verte lo scritto. FEDRO: Giustissimo.
SOCRATE: Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di
simile alla pittura. Le creazioni della pittura ti stanno di fronte come cose
vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La
medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino
come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di
ciò che dicono coll'intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e
21 Platone Fedro solo identico. E, una volta che è scritto, tutto
quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è
competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e
non sa a chi deve parlare e a chi no. Se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente
ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, poiché non è capace né di difendersi da
sé né di venire in aiuto a se stesso. FEDRO: Anche queste tue parole sono
giustissime. SOCRATE: E allora? Vogliamo considerare un altro discorso,
fratello legittimo di questo, in che modo nasce e quanto è per sua natura
migliore e più potente di questo? FEDRO: Qual è questo discorso e come, secondo
te, nasce? SOCRATE: è quello che viene scritto mediante la conoscenza
nell'anima di chi apprende; esso è in grado di difendersi da sé, e sa con chi
bisogna parlare e con chi tacere. FEDRO: Intendi il discorso vivente e animato
di chi sa, del quale quello scritto si può a buon diritto definire un'immagine.
SOCRATE: Per l'appunto. Ora dimmi questo: l'agricoltore che ha senno pianterebbe
seriamente d'estate nei giardini di Adone i semi che gli stessero a cuore e da
cui volesse ricavare frutti; e gioirebbe a vederli crescere belli in otto
giorni, o farebbe ciò per gioco e per la festa, quand'anche lo facesse? E
riguardo invece a quelli di cui si è preso cura sul serio servendosi dell'arte
dell'agricoltura e seminandoli nel luogo adatto, sarebbe contento che quanto ha
seminato giungesse a compimento in otto mesi? FEDRO: Farebbe così, Socrate: sul
serio per gli uni, diversamente per gli altri, come tu dici. SOCRATE: Dovremo
dire che chi possiede la scienza delle cose giuste, belle e buone abbia meno
senno dell'agricoltore con le sue sementi? FEDRO: Nient'affatto. SOCRATE:
Allora non le scriverà seriamente nell'acqua nera, seminandole attraverso la
canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con la parola, e incapaci
di insegnare in modo adeguato la verità. FEDRO: No, almeno non è verosimile.
SOCRATE: Infatti non lo è. Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di
scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla
memoria per se stesso, nel caso giunga «alla vecchiaia dell'oblio», e per
chiunque segua la sua stessa orma, e gioirà a vederli crescere teneri. E quando
gli altri faranno altri giochi, ristorandosi nei simposi e in tutti i
divertimenti fratelli di questi, egli allora, a quanto pare, invece che in essi
passerà la vita a dilettarsi in ciò di cui parlo. FEDRO: è un gioco molto bello
quello che dici, Socrate, rispetto all'altro che è insulso: il gioco di chi sa
divertirsi coi discorsi, narrando storie sulla giustizia e sulle altre cose di
cui parli. SOCRATE: Così è in effetti, caro Fedro: ma l'impegno in queste cose
diventa, credo, molto più bello quando uno, facendo uso dell'arte dialettica,
prende un'anima adatta, vi pianta e vi semina discorsi accompagnati da
conoscenza, che siano in grado di venire in aiuto a se stessi e a chi li ha
piantati e non siano infruttiferi, ma abbiano una semenza dalla quale nascano
nell'indole di altri uomini altri discorsi capaci di rendere questa semenza
immortale, facendo sì che chi la possiede sia felice quanto più è possibile per
un uomo. FEDRO: Ciò che dici è molto più bello. SOCRATE: Ora che siamo
d'accordo su questo, Fedro, possiamo giudicare quelle altre questioni. FEDRO:
Quali? SOCRATE: Quelle che volevamo indagare e per le quali siamo arrivati a
questo punto, ossia esaminare il rimprovero rivolto a Lisia circa lo scrivere i
discorsi e i discorsi stessi, quali fossero scritti con arte e quali senz'arte.
Ciò che è conforme all'arte e ciò che non lo è mi sembra che sia stato chiarito
opportunamente. FEDRO: Così almeno mi è parso: ma ricordami ancora una volta
come abbiamo detto. SOCRATE: Se prima uno non conosce il vero riguardo a
ciascun argomento su cui parla o scrive e non è in grado di definire ogni cosa
in se stessa, e una volta che l'ha definita non sa dividerla secondo le sue
specie fino ad arrivare a ciò che non è più divisibile, quindi, dopo aver
scrutato a fondo allo stesso modo la natura dell'anima, trovando la specie
adatta a ciascuna natura non dispone e regola il discorso secondo questo
procedimento, offrendo discorsi variegati a un'anima variegata e dalla piena
armonia, discorsi semplici a un'anima semplice, non sarà possibile, per quanto
è conforme a natura, maneggiare con arte la stirpe dei discorsi né per
insegnare né per persuadere, come il discorso fatto in precedenza ci ha
chiaramente indicato. FEDRO: Risulta in tutto e per tutto così . SOCRATE:
Riguardo poi alla questione se sia bello o turpe pronunciare e scrivere
discorsi, e quando un rimprovero sia rivolto giustamente oppure no, non ha
forse chiarito ciò che abbiamo detto poco fa... FEDRO: Cosa abbiamo detto?
SOCRATE: Che se Lisia o altri ha mai scritto o scriverà su argomenti d'interesse
privato o pubblico, proponendo leggi o scrivendo un'opera politica, nella
convinzione che in ciò vi sia una grande solidità e chiarezza, allora il
biasimo ricade su chi scrive, che lo si dica o meno: poiché il non distinguere
realtà e sogno in ciò che è giusto e ingiusto, male e bene, non può davvero
evitare di essere riprovevole, quand'anche tutta la gente lo apprezzasse.
FEDRO: No di certo. SOCRATE: Chi invece ritiene che nel discorso scritto su
qualsiasi argomento vi sia necessariamente molto gioco e che nessun discorso
con pregio di grande serietà sia mai stato scritto né in versi né in prosa (e
neanche pronunciato, come i discorsi dei rapsodi che sono recitati senza essere
sottoposti a vaglio e non mirano a insegnare, ma a persuadere), 22 Platone
Fedro ma che i migliori di essi siano realmente un mezzo per aiutare la
memoria di chi già conosce l'argomento, e ritiene che solo nei discorsi sul
giusto, sul bello e sul bene, pronunciati come insegnamento allo scopo di far
apprendere e scritti realmente nell'anima, vi sia chiarezza, compiutezza e
pregio di serietà; e inoltre è convinto che discorsi tali debbano essere detti
suoi come se fossero figli legittimi, innanzitutto quello che reca in sé, nel
caso si trovi che lo possiede, poi quelli che discendenti e fratelli di questo,
sono nati allo stesso modo nell'anima di altri uomini secondo il loro valore, e
ai rimanenti manda tanti saluti; bene, un uomo siffatto, Fedro, è probabile che
sia tale quale tu e io ci augureremmo di diventare. FEDRO: Io voglio e mi
auguro in tutto e per tutto ciò che dici. SOCRATE: Dunque, per quanto riguarda
i discorsi, ormai abbiamo scherzato abbastanza: tu ora va' da Lisia e digli che
noi due siamo discesi alla fonte e al santuario delle Ninfe e abbiamo ascoltato
dei discorsi che ci ordinavano di riferire a Lisia e a chi altri componga
discorsi, a Omero e a chi altri abbia composto poesia epica o lirica, e in
terzo luogo a Solone e a chiunque nei discorsi politici abbia scritto dei testi
con il nome di leggi, quanto segue: se ha composto queste opere sapendo com'è
il vero e può soccorrerle quando ciò che ha scritto viene messo alla prova, e
quando parla è in grado egli stesso di dimostrare la debolezza di quanto è
stato scritto, una persona del genere non deve essere chiamato col nome di
costoro, ma con un nome derivato da ciò a cui si è dedicato con serietà. FEDRO:
Quale nome gli assegni dunque? SOCRATE: Chiamarlo sapiente, Fedro, mi sembra
che sia cosa troppo grande e che si addica solo a un dio; chiamarlo invece
filosofo o con un nome del genere sarebbe a lui più adatto e conveniente.
FEDRO: E niente affatto fuori luogo. SOCRATE: Chi invece non possiede cose di
maggior pregio di quelle che ha composto e ha scritto, rivoltandole su e giù
per lungo tempo, incollandole l'una con l'altra o separandole, non lo dirai a
buon diritto poeta o autore di discorsi o scrittore di leggi? FEDRO: Come no?
SOCRATE: Riferisci dunque questo al tuo compagno! FEDRO: E tu? Cosa farai? Non
bisogna lasciare da parte neanche il tuo compagno. SOCRATE: Chi è costui?
FEDRO: Isocrate il bello. Cosa riferirai a lui, Socrate? Come lo definiremo?
SOCRATE: Isocrate è ancora giovane, Fedro: tuttavia voglio dire ciò che prevedo
di lui. FEDRO: Che cosa? SOCRATE: Mi sembra che per doti naturali sia migliore
a confronto dei discorsi di Lisia, e che inoltre sia temperato di un'indole più
nobile. Perciò non ci sarebbe affatto da meravigliarsi se, col procedere
dell'età, proprio grazie ai discorsi cui ora pone mano superasse più che se
fossero fanciulli quanti mai si sono dedicati ai discorsi, e se inoltre questo
non gli bastasse, ma uno slancio divino lo spingesse a cose ancora più grandi;
giacché nell'animo di quell'uomo, caro amico, c'è una forma naturale di
filosofia. Pertanto io riferisco queste cose da parte di questi dèi al mio
amato Isocrate, tu fa' sapere quelle altre al tuo Lisia. FEDRO: Sarà così . Ma
andiamo, poiché anche la calura si è fatta più mite. SOCRATE: Non conviene
rivolgere una preghiera a questi dèi prima di metterci in cammino? FEDRO: Come
no? SOCRATE: O caro Pan e voi altri dèi di questo luogo, concedetemi di
diventare bello dentro, e che tutto ciò che ho di fuori sia in accordo con ciò
che ho nell'intimo. Che io consideri ricco il sapiente e possegga tanto oro
quanto nessun altro, se non chi è temperante, possa prendersi e portar
via.Abbiamo bisogno di qualcos'altro, Fedro? Da parte mia si è pregato in
giusta misura. FEDRO: Fa' questo augurio anche per me; le cose degli amici sono
comuni. SOCRATE: Andiamo! Platone Fedro.
Celebre oratore ateniese vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., di cui
restano orazioni giudiziarie. Il discorso sull'amore che gli viene attribuito
nel dialogo è probabilmente fittizio. Il padre Cefalo, originario della
Sicilia, aveva una fabbrica d'armi al Pireo; nella sua casa è ambientata la
Repubblica. Noto medico dell'epoca. Epicrate era un oratore democratico;
Morico, forse il proprietario precedente della casa, era un cittadino ateniese
che per le sue ricchezze e il suo lusso divenne frequente bersaglio dei poeti
comici. 4) Pindaro, Isthmia. Erodico di Megara, divenuto poi cittadino di
Selimbria, era un medico famoso per il suo regime di vita
"salutistico"; Platone lo menziona anche nella Repubblica e nel
Protagora. I Coribanti erano i sacerdoti della dea Cibele, i cui culti erano caratterizzati
da una forte valenza orgiastica. Piccolo fiume che scorre vicino ad Atene. Il
dialogo è immaginato in piena estate, a mezzogiorno. Borea, vento del nord,
rapì Orizia, figlia di Eretteo, re di Atene; in cambio concesse agli Ateniesi
il suo favore nelle battaglie navali. Farmacea, citata poco sotto, era una
ninfa cui era sacra la fonte dell'Ilisso. 10) Demo dell'Attica. Letteralmente
'colle di Ares', era un'altura in Atene dove aveva sede il più antico tribunale
della città, formato dagli arconti usciti di carica. Sono tutti esseri
mitologici. Gli Ippocentauri o Centauri, nati dall'unione di Issione con una
nube, erano metà uomo e metà cavallo. La Chimera era un mostro con tre teste,
una di leone, una di capra spirante fuoco, una di serpente. Le Gorgoni, mostri
marini, erano Steno, Euriale e Medusa; le prime due erano immortali, mentre
Medusa, che aveva il potere di pietrificare con lo sguardo, era mortale e fu
uccisa da Perseo. Pegaso era il cavallo alato nato dal sangue della testa di
Medusa tagliata da Perseo; con il suo aiuto Bellerofonte uccise la Chimera.
Conosci te stesso è appunto il precetto scritto nel tempio di Apollo a Delfi.
Tifone o Tifeo, figlio di Gea e del Tartaro, era un drago dalle molte teste che
emettevano fumo e fiamme; al termine di una dura lotta Zeus lo fulminò e lo
scagliò sotto l'Etna. Il suo mito è ricordato in Esiodo, Theogonia 820
seguenti. Da Tifone ha avuto origine il nome comune indicante un vento caldo
portatore di tempeste. Nel testo greco c'è un gioco di parole, intraducibile in
italiano, con il quale Tifone viene paretimologicamente accostato al participio
di "túpho" ('fumare', 'bruciare') e, tramite l'aggettivo privativo
"atuphos" a "tuphos" ('vanità', 'orgoglio', superbia'). Nel
dialogo Platone fa uso più volte di simili giochi verbali, impossibili da
mantenere nella traduzione, per creare paretimologie.Alle Ninfe, divinità dei
boschi e dei fiumi, Socrate in seguito attribuirà il dono dell'ispirazione.
Acheloo, oltre ad essere un fiume della Grecia centrale, era anche dio dei
fiumi. 16) Una locuzione simile ricorre in Omero, Iliade. Saffo è la famosa
poetessa lirica di Lesbo vissuta tra il settimo e il sesto secolo a.C., autrice
di carmi soprattutto d'amore omoerotico, divisi dagli Alessandrini in nove
libri; di essi ci sono pervenuti un'ode intera, una quasi completa e parecchi
frammenti di varia lunghezza. Anacreonte di Teo, lirico monodico del sesto
secolo, fu autore tra l'altro di poesie amorose dal tono leggero, di cui
restano pochi frammenti. Non è invece possibile sapere a quali autori in prosa
si allude nel passo. Gli arconti ateniesi, al momento di entrare in carica,
giuravano che se avessero trasgredito le leggi di Solone avrebbero innalzato a
Delfi una statua d'oro della loro grandezza e peso. Cipselo fu tiranno di
Corinto nel sesto secolo e fondò una dinastia di tiranni. L'offerta votiva cui
si allude era forse una statua. Immagine derivata dalla lotta: Fedro intende
che Socrate a sua volta ha offerto il fianco a una critica. Pindaro, frammento
Snell-Maehler (citato anche in Meno). Il testo greco gioca sull'assonanza tra
ligús, dalla voce melodiosa, e ligús, Ligure, con lambda maiuscolo. Questo
gioco paretimologico è probabilmente alla base della leggenda secondo cui i
Liguri erano amanti del canto. Socrate istituisce un nesso paretimologico tra
"èros" e "róme, forza. Il ditirambo, componimento lirico corale
associato al culto di Dioniso, ai tempi di Platone era in piena decadenza. Qui
il termine ha una connotazione negativa, indicando una forma di invasamento non
ispirata da "mania" divina, e quindi non mediata dal logos. L'immagine è ricavata da un gioco fatto con
un coccio (óstrakon), nero da una parte e bianco dall'altra; i giocatori,
divisi in due squadre, sceglievano un colore e a seconda di quello che
risultava lanciando il coccio dovevano fuggire o inseguire. La metafora
significa che l'amante, prima inseguitore, ora fugge l'amato. Simmia, prima
pitagorico, poi discepolo di Socrate, è uno degli interlocutori del Fedone.
Ibico, frammnto, Page. Poeta lirico corale del sesto secolo a.C., di lui
restano un'ode e pochi frammenti. Stesicoro, poeta lirico corale, visse nel
sesto secolo a.C. Secondo una leggenda perse la vista per aver accusato Elena
di infedeltà in un carme omonimo e la riacquistò per aver scritto la Palinodia
(la 'Ritrattazione'), in cui sosteneva che Paride non aveva portato a Troia la
vera Elena, ma un fantasma con le sue sembianze; questa versione del mito fu
ripresa da Euripide nell'Elena. Omero invece, non avendo fatto la stessa cosa,
rimase cieco. Allo stesso modo Socrate pronuncerà una ritrattazione del
discorso precedente su Eros, nella quale solleverà il dio dalle accuse che gli
aveva mosso. ACCADEMIA Platone Fedro A Delfi, in Beozia, c'era il più
famoso santuario di Apollo, che dava i responsi per bocca della sua
sacerdotessa, la Pizia; a Dodona, nell'Epiro, c'era un santuario di Zeus.
Questo nome designava in origine una, in seguito più sacerdotesse di Apollo, di
cui era nota l'ambiguità dei responsi; la più celebre era la Sibilla di Cuma,
in Campania. L'arte divinatoria, in greco "mantike", viene fatta
derivare da "manikos" cioè 'affetto da mania'; il composto
"oionoistike", di invenzione platonica, viene ricondotto a
"oieris,” opinione, credenza, e accostato a "oionistike", ovvero
l'"arte di trarre gli auspici" dal volo degli uccelli. Il gioco
paretimologico, di cui si è provato a rendere ragione nella traduzione, è
importante in quanto è funzionale al rovesciamento della tesi sostenuta da
Lisia. È il celebre mito dell'anima come una biga alata, metafora complessa e
non facile da interpretare. Se infatti l'auriga rappresenta palesemente la
ragione, non è del tutto chiaro il significato dei due cavalli; è poco
soddisfacente l'interpretazione tradizionale, secondo cui il cavallo nero
rappresenterebbe l'anima concupiscibile, quello bianco l'anima impulsiva, e
l'intera immagine sarebbe da intendere come la tripartizione dell'anima che
Platone teorizza nella Repubblica. Infatti nel Timeo si dice che anima
concupiscibile e anima impulsiva sono mortali, mentre qui i due cavalli fanno
parte proprio della struttura dell'anima immortale, come prova anche il fatto
che essi si nutrono di nettare e ambrosia, cibo e bevanda degli dèi, e che tale
struttura è comune sia all'anima umana sia a quella divina. è preferibile
pensare che i cavalli indichino due componenti opposte connaturate comunque
all'anima immortale, che l'auriga ha la funzione di conciliare per trovare un
equilibrio. Estia, dea del focolare, nella cosmologia antica veniva
identificata col centro dell'universo, che era immobile; per questo essa, unica
tra gli dèi, non viaggia per il cielo. Le divinità che guidano le dodici
schiere sono probabilmente quelle olimpiche. L'Iperuranio, il luogo 'oltre il
cielo', è il mondo delle Idee. Luogo metafisico, immagine della sfera
dell'intelligibile che nella sua immutabilità trascende la realtà sensibile,
esso è raggiungibile solo dell'anima. Adrastea, letteralmente 'l'inevitabile',
in questo caso è una personificazione del destino; in Repubblica impersonifica
invece la vendetta. Viene qui esposto il destino escatologico delle anime e la
teoria della metempsicosi, argomento che ha una più ampia trattazione con il
mito di Er nel libro decimo della Repubblica. Nel Fedro l'assegnazione della
vita futura è strettamente determinata dalla misura in cui le anime hanno
contemplato la pianura della verità prima di tornare sulla terra, poiché ad
esso corrisponde il grado di verità connesso alla vita in cui si reincarnano.
36) Altro gioco verbale basato su una paretimologia il termine
"imeros" ('desiderio'), collegato per assonanza ad Eros, viene fatto
derivare da i-, radice di "eiri" ('andare'), "mer-" radice
di "méros" ('parte'), "ro-", radice di "roé"
('flusso'). 37. Gli Omeridi erano una scuola di aedi nell'isola di Chio che la
tradizione voleva fondata dallo stesso Omero. Invenzione platonica sono sia i
poemi segreti cui si allude ironicamente sia i due versi citati, nei quali c'è
un gioco di parole tra "Eros" e Ptéros" (epiteto scherzosamente
coniato da "pterós,” alato, probabilmente suggerito da quei passi omerici
(Iliade) in cui si dice che gli dèi chiamano le cose in modo diverso dagli
uomini. È impossibile conservare nella traduzione il gioco tra il genitivo
"Diós" ('di Zeus') e l'aggettivo "dios", solitamente reso
con 'splendente' o 'divino'. Le Baccanti o Menadi erano le sacerdotesse di
Dioniso. Zeus, innamorato di GANIMEDE, bellissimo fanciullo frigio, in forma di
aquila lo rapì sull'Olimpo, e ne fa il coppiere degli dèi. Per il gioco
linguistico su "imeros", la nota 36. L'espressione significa che né
la temperanza umana esaltata da Lisia, né la follia divina di per sé bastano a
costruire una scienza nel senso pieno del termine, ma occorre una giusta
mescolanza delle due cose; questo, in ultima analisi, può essere il senso del
mito della biga alata. L'immagine agonistica, più che a tre differenti gare,
allude probabilmente al fatto che per vincere nella lotta bisognava atterrare
l'avversario tre volte. Figlio di Cefalo e fratello di Lisia, fu vittima delle
persecuzioni politiche sotto i Trenta tiranni. Ad Atene la frequenza dei
processi e l'assenza del patrocinio legale, che obbligava l'accusatore o
l'accusato a parlare personalmente in giudizio, avevano fatto nascere la
professione del logografo ('scrittore di discorsi'), che preparava su
commissione i testi da pronunciare in tribunale; le orazioni di Lisia sono
appunto la testimonianza della sua attività di logografo. Il termine ha nel
contesto una connotazione negativa, tanto da essere poco sotto equiparato a
sofista. Il parallelo ritorna più avanti, dove si allude ai compensi che i
sofisti chiedevano per i loro insegnamenti. L'espressine, un po' enigmatica,
significa probabilmente che da una cosa semplice ne è derivata una difficile.
Figura storicamente indeterminata, Licurgo è, secondo la tradizione, il
legislatore di Sparta. Uomo politico e poeta, annoverato tra i sette saggi,
Solone attua, durante il suo arcontato, una riforma dello stato ateniese che
prevedeva la divisione dei cittadini in classi in base al censo. Dario primo,
re di Persia, fu il promotore della prima guerra greco-persiana) Il mito che
segue è probabilmente creazione platonica. Il canto delle cicale è metafora
dell'ispirazione a comporre discorsi ma anche del rischio, da parte
dell'ascoltatore, di lasciarsene ammaliare senza sottoporli a vaglio critico,
un atteggiamento passivo che le cicale stesse, intermediarie tra gli uomini e
le Muse, non approvano) Sulla scia del catalogo esiodeo (Theogonia 75
seguenti), le Muse qui citate hanno nomi parlanti Tersicore è 'colei che
gioisce dei cori', Erato è connessa con Eros, Calliope è 'dalla bella voce',
Urania 'la celeste'. ACCADEMIA Fedro Omero, Iliade) Per Spartano qui si
intende semplicemente una persona che dice la verità in modo franco e
lapidario. 50) I "figli" di Fedro sono i discorsi che ha indotto gli
altri a fare. 51) Nestore, il più vecchio dei guerrieri greci a Ilio, era
famoso per la sua eloquenza persuasiva. Abile, e soprattutto astuto parlatore
era notoriamente Odisseo. Anche Palamede, l'eroe che smascherò un tentativo di
Odisseo di non partecipare alla guerra di Troia, era fornito di capacità
oratorie) Gorgia di Lentini, nato tra il 485 e il 480 a.C. e morto vecchissimo
dopo il 380 a.C., fu uno dei principali esponenti della sofistica; a lui è
dedicato l'omonimo dialogo di Platone. Delle sue numerose opere restano pochi
ma significativi frammenti. Il sofista Trasimaco di Calcedonia, vissuto nel
quinto secolo a.C., è uno dei personaggi della Repubblica, dove difende in modo
combattivo la sua idea della giustizia come diritto del più forte. Teodoro di
Bisanzio, attivo nella seconda metà del quinto secolo a.C., scrisse un trattato
di retorica) Allusione ironica a Zenone di VELIA (si veda) e ai paradossi con i
quali cercava di confutare dialetticamente i concetti di molteplicità e
movimento; famosi sono i paradossi della freccia e di Achille e la tartaruga)
Mida era il leggendario re della Frigia che per avidità di ricchezze chiese e
ottenne da Dioniso di poter trasformare in oro tutto ciò che toccava; ma poiché
anche tutto ciò che voleva mangiare o bere diventava oro, pregò il dio di
liberarlo da questo dono funesto. L'epigramma citato è attribuito a Cleobulo di
Lindo, uno dei sette saggi. Poeta e
sofista contemporaneo di Socrate. Tisia è maestro di Gorgia da LEONZIO (si
veda) e iniziatore, assieme a Corace, della scuola retorica siciliana. Prodico
di Ceo, uno dei più importanti esponenti della sofistica, discepolo di
Protagora e maestro di Socrate. Ippia di Elide, il celebre sofista da cui
prendono il titolo due dialoghi di Platone. Polo di Agrigento e Licimnio di
Chio furono discepoli di Gorgia; il primo è uno dei protagonisti del Gorgia di
LEONZIO (si veda) di Platone. Nel passo si allude probabilmente a opere di
retorica dei due sofisti, come poco sotto a proposito di Protagora. Protagora
di Abdera, protagonista dell'omonimo dialogo Platonico, visse ad Atene nell'età
periclea. Considerato il principale esponente della sofistica, è ricordato
soprattutto per il suo agnosticismo religioso, che gli valse una condanna per
empietà, e il suo relativismo, sintetizzato nella massima l'uomo è misura di
tutte le cose. Nulla ci rimane delle sue numerose opere. Adrasto, il re di Argo
che guidò la spedizione dei sette contro Tebe, è rappresentato da Eschilo nelle
Supplici come abile oratore; l'epiteto voce di miele gli è già riferito da
Tirteo (frammento, Gentili-Prato). Adrasto è qui usato come eteronimo di un
personaggio contemporaneo, forse un sofista. Anche Pericle, lo statista
ateniese del quinto secolo che radicalizzò il processo democratico della polis
portandola al massimo splendore, è qui ricordato, con un tocco d'ironia, per le
sue capacità oratorie. Anassagora di Clazomene (quinto secolo a.C.) visse per
molti anni ad Atene, dove ebbe come discepoli Pericle e lo stesso Socrate.
Punto cardinale del suo pensiero è l'esistenza di un principio razionale che dà
ordine al mondo, da lui chiamato "nous" ('intelletto'). Ippocrate di
Cos, vissuto tra il quinto e il quarto secolo a.C., fu il fondatore della
medicina antica; l'epiteto di Asclepiade deriva da Asclepio, dio della
medicina. Di lui e dei suoi discepoli resta un considerevole numero di scritti
riuniti nel cosiddetto corpus Hippocraticum. Città sul delta del Nilo, sede di
un emporio commerciale greco. Theuth o Thoth era il dio egizio dell'invenzione,
che i Greci identificavano con Ermes; rappresentato con la testa di ibis, era
scriba nel tribunale dei morti. Con questo mito Platone assegna alla scrittura
un valore puramente "ipomnematico", ovvero la considera un mero
supporto alla memoria, e non veicolo di sapienza; la trasmissione del vero
sapere resta per lui affidata all'oralità dialettica. «La regione superiore» è l'alto corso del
Nilo. Thamus, leggendario re dell'Egitto, viene considerato un eteronimo dello
stesso Ammone, una delle principali divinità egizie, venerata da una potente
casta sacerdotale e identificata dai Greci con Zeus; poco sotto infatti, la
risposta da lui data a Theuth è chiamata «vaticinio di Ammone». I giardini d’Adone sono recipienti in cui
d'estate si piantavano semi che nascevano entro otto giorni e subito morivano;
il rito simboleggiava la morte prematura di Adone, il bellissimo giovane amato
d’Afrodite. Allo stesso modo i giardini di scrittura, ovvero i discorsi
scritti, devono essere intesi come una forma di gioco, poiché i veri discorsi
latori di verità sono affidati alla dimensione orale) Citazione poetica di
autore ignoto.Il retore Isocrate fondò ad Atene una scuola in competizione con
l'Accademia platonica; di lui restano orazioni. Isocrate è fautore di
un'alleanza di tutte le città greche sotto la guida di Filippo di Macedonia, in
vista di una spedizione contro i Persiani. Pan, figlio d’Ermes, era la
principale divinità agreste del pantheon greco, venerata soprattutto in
Arcadia; presiedeva alla pastorizia e per questo era rappresentato con
sembianze caprine. Pan compare già come protettore del luogo assieme alle
Ninfe, e per questo Socrate gli rivolge la preghiera conclusiva. «Oro» è da intendersi
in senso metaforico come ricchezza della sapienza. Keywords: espressione, Sibley,
Strawson, ‘Bounds of Sense” -- simbolo, rappresentazione, immagine, noetico,
estetico, natura, bello, forma, materia, arte, platone, dialogue d’amore,
bello, comunicazione, rappresentazione, forma. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Franzini” – The Swimming-Pool Library. Elio Franzini. Franzini.
Luigi Speranza -- Grice e Frixione: la ragione
conversazionale e l’implicatura metrica di Lucrezio – la scuola di Genova –
filosofia genovese – filosofia ligure -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo genovese. Filosofo ligure. Filosofo italiano.
Genova, Liguria. Grice: “The Grecians were pretty clear – and Cicero followed
suit – surely if I say ‘He made it,’ there is no implicature that he is a poet,
even if ‘poeien’ is strictly, ‘make’!” -- Grice: “Poetry is a good place to
apply the idea of implicature, as in Donne – Nowell-Smith’s favourite obscure
poet, and Blake – mine!” Insegna
a Salerno, Milano, e Genova. I suoi interessi di ricerca includono il
linguaggio. Le sue ricerche riguardano il ruolo delle forme di ragionamento non
monotòno nell'ambito e il rapporto tra l’illusione del perceptum ed il ragionar
invalido. Si è anche occupato di modelli di rappresentazione. È noto anche per
la sua attività di poeta d'avanguardia, segnalata, tra gli altri, da Sanguineti,
e per aver fondato e fatto parte del “Gruppo ‘93”. Altre opere: “Il
Significato” Angeli); “La Funzione e la computabilità” (Carocci); “Come Ragioniamo,
Laterza Editore, Lista delle pubblicazioni da DBLP Computer Science Bibliography,
Universität Trier; Diottrie, Piero Manni, Ologrammi, Editrice Zona, Insegnamenti
Scuola di Scienze Umanistiche, Genova. Guida dello Studente, Corso di laurea in
filosofia, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, Governing Boards of
the Italian Association of Cognitive Sciences. A Cognitive Architecture for Artificial
Vision., in Artificial Intelligence, Elsevier. Prisco, Sanguineti. La
letteratura è un gioco che può ancora scandalizzare, Il Sole 24 Ore, Petrella,
GRUPPO 93. L'antologia poetica Petrella, Zona, F. scheda nel sito Genova,
Dipartimento di Antichità, Filosofia e Storia, Come ragioniamo recensione di
Dario Scognamiglio, ReF Recensioni Filosofiche. It cannot be denied that the
poem of LUCREZIO fails to awaken any marked interest until long after its
publication. The almost unbroken silence of his contemporaries regarding
him is significant of the com- parative indifference with which his
production was received. The reasons for this neglect are various and not
far to seek. In the first place the moment was inopportune for the appearance
of such a work. It is composed in that hapless time when the rule of the
oligarchy is overthrown and that of GIULIO (si veda) CESARE had not yet
been established, in the sultry years during which the outbreak of the
civil war is awaited with long and painful suspense. The poet betrays his
solicitude for the welfare of his country at this crisis in the
introduction of his work, in which he invokes the aid of Venus in
persuading Mars to command peace. Efficc
ut inter ea f era moenera militiai Per maria ac terras omnis sopita
quiescani. He acknowledges
that his attention is diverted from literary labours by the exigencies of
the Roman state. Nam neque nos agere hoc patriai tempore
iniquo Possumus aequo animo nee Memmi clara propago Talibiis in
rebus comrnuni desse saluti. Munro believes these lines
were written when Caesar as consul had formed his coalition with Pompey
and when there was almost a reign of terror. The reflection of a state
of 1 Monimseii, Hist. Rome, M. 41-43- ^Muiim. Luiictiiis.
tumult and peril is equally obvious in the opening verses of the second
book, where the security of the contemplative life is contrasted with the
turbulence of a political and military career.' Particularly signifi-
cant are the lines : Si non forte tuas legiones per loca
campi Fervere cum videas belli simulacra cientis, Subsidiis magnis
et ecum vi constabilitas, Ornatasque armis statuas pariierque
animatas, His tibi turn rebus timefactae religiones Effugiunt animo
pavide ; mortisque timores Turn vacuum pectus lincunt curaque
solutum, Fervere cum videas classem lateque vagari} It can readily
be appreciated that a period of such fermentation and alarm would afford
opportunity for philosophic study to those alone who were able to retire
from political excitements to private leisure and quiet. Moreover the
very characteristics of the Epicurean philosophy would recommend it
chiefly to persons of this description. Participation in public life was
distinctly discouraged by the school of Epicurus, who regarded the realm
of politics as a world of tumult and trouble, wherein happiness — the
chief end of life — was almost, if not quite, impossible. They counselled
entering the arena of public affairs only as an occasional and
disagreeable necessity, or as a possible means of allaying the discontent of
those to whom the quiet of a private life was not wholly satisfactory.'
Such instruction, though phrased in the noble hexameters of a Lucretius,
was scarcely calculated to enjoy immediate popularity in the stirring
epoch of a fast hurrying revolution. Sellar, Rommi Pods of the Republic.
Caesar after his consulship remained with his army for three months
l)efore Rome, and was bitterly attacked by Memmius. Does Lucretius here
alhide to Caesar? " Munro, Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics. In
consequence of his mode of thought and writing lieing so averse to his
own time and directed to a better future, the poet received little
attention in his own age.Teuflfel, Hist. Rom. Lit. L’ORTO ROMANO arose in
a state of society and under circumstances widely different from the
social ar.d political condition of the last phase ol the Roman Republic. Sellar.
Roman Poets of the Republic. A somewhat ingenious, but unsuccessful,
attempt has been made to account for the indifference with which
Lucretius was treated on the ground of his assault Upon the doctrine of
the future life. It has been suggested that as the enmity of the
Christian writers was early called down upon his head for this cause, he
was likewise whelmed under a conspiracy of silence on the part of his
Roman contempo- raries and successors " for the same reason. But so
general was the skepticism of his age on this question, that it is
scarcely credible that the publication of his views could have seriously
scandalized the cultured classes who read his lines. The same judgment will
hold true with reference to the entire attitude of Lucretius toward the
tra- ditional religion. It is a sufficient answer to the theory that his
infidelity created antipathy toward him to record the fact that Julius
Caesar, than whom no more pronounced free-thinker lived in his day, was,
despite his skepticism, pontifex maxi'mus of the Roman common-wealth, and did
not hesitate to declare in the presence of the Senate that the
immortality of the soul was a vain delusion. That he represented in these
heretical opinions the position of many of the fore- most persons of the
period is the testimony of contemporary literature. Shall we not find the
better reason for the apparent neglect of Lucretius in the era
immediately following the issue of his poem in the fact that there was no
public at this juncture for the study of Greek philosophy clothed in the
Latin language? CICERONE, who devoted himself with the zeal of a patriot to the
creation of a philosophical literature in his native tongue, complains of the
scant courtesy paid to his efforts. Xon eram nescius. Brute, cum, quae
summis ingeniis exquisitaque doctrina philosophi Graecn sermone tractavisseni,
ea Latinis Uteris mandaremus, fore ut hie noster labor in varias
reprehensiones incur reret. Nam qiiibusdam, et Us quidem non admodum
indoctis, totum hoc displicet, philosophari. Quidam autem non tam id
reprehendunt, si remissius agatur, sed tantum studium tamque muUam
operant ponendam in eo non arbitrabantur. Erunt etiam, et ii quidem
eruditi Graecis Utter is, contemnentes Latinas, qui se dicant in Graecis
legendis operant maUe consumer e. Postremo aliquosfuturos suspicor, qui
me ad aUas Utter as vocent, [This is the view advanced by R. T. Tyn-il of
the University of Dublin. See his LiiUn Poc'try (Houjrhton, Mifflin et Co.,
N. Y.). Merivale. History of the Romans. hoc scribendi, etsi sit elegans,
personae iamen et digtiiiatis esse negent. Yet this work, as he explains
in his De Divinatione,' was undertaken with the commendable purpose of
benefitting his countrymen. He anticipated with delight the
advantages which would accrue to them when his researches were complete.
Magnificum illud etiam Romanisque hominibus gloriosum, ut Graecis de
philosophia litteris no?i egeant. And later he reaped his re- ward in an
awakened interest in the subjects of his studious inquiries. But he was
compelled in the beginning to cultivate a sentiment in behalf of those
investigations. Lucretius addressed himself to an unsympathetic public, and was
likewise required to wait for applause until a more appreciative
generation rose up to do him honour. Yet it must not be supposed that The
Garden exercised a feeble influence over the thought of cultivated Romans
in this period of their history. The very theme which engaged the genius
of Lucretius had also employed the energies of predecessors and
contemporaries. Among attempts of this character were the “De Rerum Natura”
of Egnatius, which appeared somewhat earlier than the work of
Lucretius; the “Empedoclea” of Sallustius mentioned by Cicero in the much
discussed passage relating to Lucretius; and a metrical production en-titled “De
Rerum Natura” by Varro. Commentaries on the principles of The Garden had
also been extant for some time. Chief among the authors of such
compositions was Amafinius who preceded Lucretius by nearly a century.
Our knowledge of him is mainly derived from Cicero, who says: “C
Amafijiius exstitit dicens cuius libris editis commota multitudo contulit
se ad eain potissimum disciplinam.” Rabirius is also mentioned by the same
author as belonging to that class of writers, Qui nulla arte adhibita de
rebus ante oculos positis vol- Dc Finilnts, I, i. ^ Quaercnti
mihi vmltumquc d diu cogitanti, quanotii re possem prodesse qtiam plurimus, ne
quando intervdtterem considere reipubiicae, nulla niaior occurrebat quam
si optimaruni artiwn vias traderevi vicis civibus; quod conpluribus iam
libris me arbitror conseciiturn. Quod enim munus rei publicac adferrc
mains nieliusve pos- s tonus, quam si docemus at que erudimus
iuveiitutem^ his praesertim in or i bus at que iemporibus, qtdbus ita
prolapsa est, etc. De Divinatione. Sellar, Roman Poets of the Republic,
Acad. “-gari sermone disputant.” Rabirius
indulges in a popular treatment of philosophy and covers much the same
ground as Amafinius. Another contributor to the literature of Epicureanism
whom Cicero records in no complimentary way is Catius — “Catius insuber,
Epicureus, quinuper est vioriuus, quae ille Gargettius et iam ante Democritus
ctSuXa, hie spectra nominat.” The interest in The Garden among the Romans
of the time of Lucretius is further apparent in the prominence which
certain teachers of The Garden attained. Conspicuous among them is Zeno
the Sidonian, whose lectures Cicero in company with Atticus had attended, and whom
he calls the prince of Epicureans in his “De Natura Deorum”, and whose
instruction is doubtless liberally embodied in Cicero's discussions of
the system of The Garden. Contemporary with Zenone is Fedro, who had
achieved distinction in Rome, where Cicero studied under his direction.
Somewhat later Filodemo of Gadara appeared in Rome, and is mentioned by
Cicerone as a learned and amiable man. The considerable body of writings
bearing his name found in the Volumina Herculanensia indicates his position
among the philosophers of his day. Scyro, a follower of Fedro, said to have
been the teacher of Virgilio. Patrone, the successor of Fedro, and
Pompilius Andronicus, “who gave up everything for the tenets of The Garden, are
eminent also at this period. Partly as a result of the activity of these philosophers,
and partly on account of the prevailing anxiety to arrive at some
satisfactory scheme of life, the number of The Gardeners steadily
increased at this time, and included not a few illustrious names. Disp. Ad
Fam.. Cf. Diogenes Laertius. Rilter et Preller, Hist. Phil. Graec. d Fam., De Fin.,
Ritter et Preller, Hist. Phil. Graec. Ad. Fam., Ad. Fam., Ad Attic, Zeller. Stoics. Fpicnreans and
Sceptics, p. 414, i. These are known to us chiefly through the writings of
Cicero/ who mentions T. Albutius, Velleius, C. Cassius, the well-known
conspirator against Caesar, who may himself be classed among those who
had lost confidence in the gods/ C. Vibius Pansa, Galbus, L. Piso,
the patron of Philodemus, and L. Manlius Torquatus. Other notable
personages are apparently regarded as “Gardeners” by Cicero, but grave
doubts have been expressed concerning their real attitude toward the
school. It is barely possible that Atticus may justly be denominated a
“Gardener”, for he calls the Gardeners nostri familiars and condiscipuli. But
his eclectic spirit would seem to forbid his classification with any
single system, and Zeller feels that
neither he nor Asclepiades of Bithynia, a contemporary of Lucretius, who
resided at Rome and was associated with The Gardeners, can be regarded as
genuine Gardeners. The discussions of the The Gardeners in De
Natura Deorwn, De Finibus and other works of Cicero evince the profound
interest he had in the school, though his general attitude was one of
unfriendliness. What reason, then, we may ask, can be given for his
almost uninterrupted silence concerning Lucretius? The only reference
we have to the poet in all Cicero's voluminous compositions occurs in
a letter to his brother Quintus, four months after the death of
Lucretius, in which he says, “Lucretii poemata, ut scribis ita sunt:
viultis lunmiibus ingenii, viultae etiam artis; sed cum veneris virum te
putabo, si Sallustii Empedoclea legeris, hominem non putabo.” Cicero certainly
implicates that both Marcus and Quintus had read the poem, and many
scholars accept the statement of Jerome in his additions to the
Eusebian chronicle — quos Cicero emendavit — as applying to Marcus. But
if he was closely enough identified with the work of Lucretius to edit
his manuscript, why in those writings wherein ample opportunity was
afforded, did not Cicero mention his labours in the field of philosophy?
Zeller, Stoics, Epicureans and Sceptics, Merivale, Hist. Rom., De Fin., Legg.,
Stoics, Epicureans and Sceptics, p. 415. ^Ad Quintton Munro, who
discusses this question with his usual lucidity, inclines to the opinion
that Jerome, following Suetonius, has indicated Cicero as the [This is a
particularly pertinent inquiry in view of the fact that he does speak of
Amafinius, Rabirius and Catius, as we have already observed, and that he
devoted so much attention to the discussion of Epicurean principles. Munro
answers this question by declaring that it was ot Cicero's custom to
quote from contemporaries, numerous as his citations are from the older
poets and himself. That had he written on poetry as he did of philosophy
and oratory, Lucretius would have undoubtedly occupied a prominent place
in the work, and that more than once in his philosophical discussions
Cicero unquestionably refers to Lucretius. Munro is not alone in contending
that the literary relations between Lucretius and Cicero were more or less
intimate. Other critics have traced to Cicero's “Aratea” important lines
in LUCREZIO (si veda), while many passages in CICERONE (si veda) closely
resemble utterances of the poet. Martha quotes several remarkable
parallels between “De Finibus” and various lines in LUCREZIO. But it is
argued on the other hand no less vigorously that didactic resemblances
prove nothing, except that LUCREZIO and CICERONE wrought from like sources
their several Latinizations of philosophy. And herein there is
suggested a possible explanation of CICERONE’s apparent indifference to the
poet, whether he did him the favour of editing his verse or not. Cicero had
made an earnest study of philosophy long before the poem of LUCREZIO had been
introduced to his notice. He had resorted to original authorities for
information concerning L’ORTO ROMANO. Zeno the Sidonian and Philodemus of
Gadara, as already noted, had supplied him with much material. Everywhere
in his philosophical works there is evidence that he regarded himself a sort of
pioneer in this peculiar field of investigation. -- editor of
Lucretius, and that this was the real fact. Sellar, Roman Poets of the
Republic, though suspending judgment does not deny the probability that
Cicerone performs this favor for Lucretius. Teuffel, Hist. Rom. Lit., while
expressing doubt concerning the evidence of Cicerone’s connection with
the poem, declares that at any rate his "part was not very important, and
it might almost seem that he was afraid of publishing a work of this
kind." Sihler presents an argument of great force against the probability
of Cicero's editorship. See Art. Lucretius and CICERONE. Transactions American
Philological Association. Munro; Martha, La: L^oeme de LUCREZIO, quoted
in Lee's Lucretius -- and therefore deserving of the pre-eminence therein. He doubtless
placed no importance upon any Latin writings beside his own which treated
of this philosophy. Indeed the references which Cicero makes to philosophers
engaged in an undertaking similar to his own are in no instance
flattering. And Lucretius would only be esteemed by him a competitor in
the same department of inquiry, who wrote in Latin verse instead of Latin
prose. Keeping these facts in mind the comparative silence of Cicero
regarding Lucretius does not seem wholly incompatible with the theory of
his editorship. He was himself an expositor of Epicurus — and that too of
the hostile kind. Cicerone popularized the doctrines of The Garden in the bad
sense of the word," and had thrown "a ludicrous colour over
many things which disappear when they are more seriously regarded. Yet
his opposition to the tenets of Epicurus would not preclude him from
friendly association with many who professed them, and if asked to lend
his name to the publication of Lucretius' verses, there could be no reason
for withholding it. But if his antagonism to L’ORTO ROMANO would lead him
to speak against the doctrines of the poem, his admiration for the
literary excellences of the work, as exhibited in his willingness to
stand sponsor for its issue, would deter him from adverse criticism.
Silence in such a case is the best evidence of friendship. Mommsen remarks
that LUCREZIO although his poetical vigor as well as his art was admired
by his cultivated contemporaries, yet remained — of late growth as he was
— a master without scholars. But with increasing knowledge in what is best in The
Garden and a finer taste to appreciate the moral and literary virtues of
Lucrezio, subsequent generations gave ample recognition to the poet. ORAZIO
(si veda) and VIRGILIO (si veda) were greatly influenced by him, particularly
the latter, who is supposed to refer to Lucrezio in the famous lines, “Felix
qui potuii rerum cognoscere causas atque metus omnes et inexorabile
fatum. Subiecit pedihus strepitumque Achernntis avari. Lanjje, History of
Materialism. Hist. Rome, Georgica. OVIDIO (si veda) pronounced words of high
eulogy upon him. Carmina sublimis tunc sunt peritura Lucre tt Exitio
terras cum dabit una dies. The persistency of The Garden despite persecution
and opposition demonstrates its marvelous vitality and the almost deathless
influence of the personality of Epicurus, whose single mind projected its
grasp upon human thought throughout the whole existence of the sect.
And not the least important agent in affecting this result, because of
his almost idolatrous devotion to his master and the persuasive charm of
his lines, was the poet LUCREZIO. Keywords:
l’implicatura metrica di Lucrezio, poetry, Ezra Pound, Alighieri, “speranza,
tela” – Tesauro – Folco -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Frixione” – The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Marcello Frixione.
Luigi Speranza --
Grice e Frinico: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.
Luigi Speranza --
Grice e Frontida: la ragione conversazionale e la diaspora di Crotone -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited by Giamblico.
Luigi Speranza -- Grice e Frontino: la ragione
conversazionale a Roma antica -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Catalogued by it.wiki
under “filosofi romani”and ‘scrittori romani’ – vide Marc’Aurelio Antonino. “Of the size to fit a
gentleman’s pocket.” Sesto Giulio Frontino. Sesto Giulio Frontino Console dell'Impero romano
Ritratto a medaglione di Frontino nel frontespizio dell'edizione bipontina
delle sue opere Nome originale Sextus Iulius Frontinus. Preturaurbanus.
Consolato suffectus ordinarius. Legatus Augusti pro praetore della Britannia. Filosofo
italiano. Politico, funzionario e scrittore romano. Nasce nella Gallia
Narbonense. Il suo cursus honorum è caratteristico di un esponente preminente
dell'oligarchia senatoria, e ciò confermea una sua parentela con il cavaliere
Aulo Giulio F., il quale sposa Cornelia Africana, l'unica figlia di Publio
Cornelio SCIPIONE (si veda). È certo che è prætor urbanus e console suffectus.
Inviato in Britannia come governatore. In tali vesti sottomise Siluri e
Ordovici, popolazioni celtiche che risiedevano nei territori dell'attuale
Galles, fondando la fortezza legionaria di Deva Victrix. Divenne curator
aquarum, sovrintendente agli acquedotti di Roma, sotto Nerva. Console suffectus
e ordinarius. Muore durante il principato di Traiano, dato che in quegli anni PLINIO
(si veda) il giovane gli succede alla morte nella carica di augure. Plinio
define F. uomo preclaro, e rifere che desidera che non gl’è dedicato in morte
alcun monumento, quale inutile spesa, poiché soltanto ai nostri meriti è
affidata la nostra memoria. Gli Strategemata sono commentari di una sua opera
perduta, il “De re militari”, e consistono in libri di stratagemmi militari. Il
libro primo tratta della preparazione al combattimento e le varie operazioni. Il
libro secondo tratta del combattimento vero e proprio. Il libro terzo tratta
dell'assedio di città. Il libro quarto espone detti e fatti di celebri
generali. Per le differenze di stile e di contenuti, e per le frequenti
ripetizioni di cose già scritte nei libri precedenti, si sospetta che questo
quarto libro non sia opera di F.. Il De aquaeductu urbis Romae è un trattato
sugli acquedotti ed è l'opera più importante di F., una buona e concreta
trattazione, svolta in due libri, dei problemi di approvvigionamento idrico a
Roma. F. è curatore delle acque, cioè il responsabile degli acquedotti e dei
servizi connessi, e il trattato riflette la serietà e lo scrupolo del suo
impegno. L'opera contiene notizie storiche, tecniche,
amministrativo-legislative e topografiche sui nove acquedotti esistenti
all'epoca, visti come elemento di grandezza dell'impero romano e paragonati,
per la loro magnificenza, alle piramidi o alle opere architettoniche
greche. L'opera si è conservata nel codice Cassinensis di mano di Pietro
Diacono, ritrovato nell'abbazia di Montecassino da Poggio Bracciolini. Restano
solo estratti di un suo trattato di agrimensura (la disciplina che ha per
oggetto la rilevazione, la rappresentazione cartografica e la determinazione
della superficie agraria di un terreno, chiamata a Roma gromatica, da groma, lo
strumento usato per le misurazioni del terreno), scritto durante il principato
di Domiziano, in un periodo in cui F. abbandona momentaneamente la carriera
politica per dedicarsi principalmente all'attività letteraria. F. è pochissimo
studiato nelle scuole a causa del suo linguaggio semplice, della compilazione
non sempre precisa e per lo stile fin troppo generico. Tuttavia, la sua opera
(scritta per fini pratici e, forse, personali) è importante perché ha dato agli
storici ottime indicazioni per quanto concerne i lavori legati alle opere
idriche che si realizzavano nell'Impero Romano. Edizioni: Astutie militari
di F. huomo consolare, di tutti li famosi et eccellenti capitani romani, greci,
barbari, et hesterni, traduzione di Luci, Venezia, per Giovan' Antonio di
Nicolini da Sabio. Gl’acquedotti di Roma, da Commentario di F. - Degli
Acquedotti della Città di Roma - con note e figure, illustrato da Baldassarre
Orsini, Perugia, Stamperia camerale di Carlo Baduel. Gli Stratagemmi,
traduzione di Roberto Ponzio Vaglia, Milano, Sonzogno. M.-P. Arnaud-Lindet,
Histoire et politique à Rome. Fantham, The Emperor's Daughter, Tacito, Historiae, Frere, Britannia: A
History of Roman Britain, Epistularum libri, IV, 8, Ad Arriano. Epistularum libri, A Traiano. Marchesi, Storia della
letteratura latina, Questa opera fu poi utilizzata da Agenio Urbico come base
per il suo De controversiis. Marchesi,
Storia della letteratura latina, Milano-Messina, Giuseppe Principato, Sheppard
S. Frere, Britannia: A History of Roman Britain, London, Routledge,
Arnaud-Lindet, Histoire et politique à Rome, Paris, Éditions Bréal, Fantham,
Julia Augusti. The Emperor's Daughter, London, Routledge, F. Treccani, Enciclopedie,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Galdi, F. in Enciclopedia Italiana,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, F. su sapere.it, De Agostini. F. Enciclopedia
Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di F., su PHI Latin Texts,
Packard Humanities Institute. Opere di F.
F. (altra versione) F. (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.
Opere di F., su Open Library, Internet Archive. Opere di F., su Progetto
Gutenberg. Audiolibri di Fr., su LibriVox. F.: testi integrali del De aquis e
degli Strategemata in latino ed inglese in Lacus Curtius Opere minori: F.
de coloniis libellus, ex commentario Claudi Caesaris subsequitur, in Rei
agrariae auctores legesque variae, Amstelredami, apud Joannen Janssonium à
Waesberge, F. de qualitatibus agrorum, in Gromatici veteres ex recensione
Caroli Lachmann, diagrammata edidit Adolfus Rudorffius, Berolini, impensis
Georgii Reimeri, F. de controversiis agrorum, in Gromatici veteres ex
recensione Caroli Lachmann, diagrammata edidit Adolfus Rudorffius, Berolini,
impensis Georgii Reimeri, PredecessoreFasti consulares Successore Imperatore
Cesare Vespasiano Augusto IV e Tito Cesare Vespasiano II con Imperatore Cesare
Vespasiano Augusto V e Tito Cesare Vespasiano IIII Gneo Domizio Afro Tizio
Marcello Curvio Tullo II e NN con Lucio Giulio Urso II e NNII Aulo Cornelio
Palma Frontoniano I e Quinto Sosio Senecione I con Imperatore Cesare Nerva
Traiano Augusto III Imperatore Cesare Nerva Traiano Augusto IV e Quinto
Articuleio PIII Predecessore Governatori romani della Britannia Successore
Quinto Petillio Ceriale Gneo Giulio Agricola. Portale Antica Roma
Portale Biografie Portale Ingegneria Portale
Letteratura CILCategorie: Politici romani del I secolo Funzionari romani Scrittori
romani Scrittori del I secolo Governatori romani dell'Asia Governatori romani
della Britannia Consoli imperiali roman iIngegneri romani Iulii Governatori
romani della Germania inferiore Auguri. Sesto Giulio Frontino. Frontino.
Luigi Speranza --
Grice e Frontone: la ragione conversazionale e il portico romano – il filosofo
dell’epigramma -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Porch. Mentioned by Marziale in one
of his epigrams.
Luigi Speranza --
Grice e Frontone: il portico romano: la ragione conversazionale a Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. Porch. Famous enough to have a statue erected in his honour. Domizio Frontone
Luigi Speranza -- Grice e Frontone: la ragione
conversazionale del tutore e il suo allievo -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Roma). Vide Antonino. Of a size to fit a gentleman’s pocket. Console imperiale romano. Muore a Roma Gens Cornelia
Consolato. Filosofo italiano. Scrittore e oratore romano, precettore d’ANTONINO
(si veda) e Lucio Vero. Mai ritrova in un palinsesto nel monastero di Bobbio la
corrispondenza tra i due principi e il precettore. Di lui restano pochi
frammenti e lettere, e nessun ritratto, tuttavia all'epoca era considerato un
grande esperto di retorica latina, in grado di rivaleggiare con la seconda
sofistica, nonché il più importante avvocato romano del periodo antonino. Per i
contemporanei F. era addirittura quasi un "secondo Cicerone", una
fama che tuttavia è andata perduta nei secoli. Anche se probabilmente era
discendente di immigrati italici, che avevano sempre formato una minoranza
rilevante della popolazione della capitale numidica, ama definire se stesso un
libico, dei nomadi libici. Venne a Roma durante il principato d’ADRIANO (si
veda), e subito guadagna fama di avvocato ed oratore, inferiore solo a CICERONE
(si veda). Guadagna una grande fortuna, costruì magnifici edifici e compra i
famosi giardini di MECENATE (si veda). Antonino Pio, avendo avuto notizia della
sua fama, lo scelge come tutore dei figli adottivi ANTONINO (si veda) e VERO
(si veda). Tale è la sua fama di insegnante-retore che quando muore ANTONINO
(si veda) fa erigere una statua in sua memoria. E consul suffectus sotto
Antonino Pio, ma rifiuta l'incarico di proconsole in Asia, adducendo come
motivazione il cattivo stato di salute. È colpito dalla perdita di tutti i suoi
figli tranne una figlia. Il suo talento come oratore e retore è
notevolmente ammirato dai suoi contemporanei. Alcuni di questi in seguito sono
considerati membri di una scuola, denominata da lui “dei Frontoniani” – cfr.
“the Griceians”. Il suo obiettivo nell'insegnamento è inculcare l'uso esatto
del latino al posto degl’artifici di autori come Seneca e consiglia l'uso di
"parole poco usate ed inattese", da trovare con la lettura diligente
degli autori pre-ciceroniani. F. critica Cicerone per la disattenzione a questo
perfezionamento, pur ammirando senza riserva le sue lettere. Le uniche
opere attribuite erroneamente a F. sono due trattati grammaticali, “De nominum
verborumque differentiised “Exempla elocutionum” -- quest'ultimo lavoro è opera
di Arusiano Messio (si veda). Mai scopre nella Biblioteca Ambrosiana, a Milano,
un palinsesto manoscritto, su cui originariamente sono state scritte le lettere
di F. ai suoi allievi imperiali e le loro risposte. Mai scopre anche altri
fogli degli stessi manoscritti al Vaticano. Questi palinsesti sono appartenuti
alla famosa Abbazia di San Colombano a Bobbio, ed sono stati usati per
scriverci gl’atti del primo Concilio di Calcedonia. Appena disponibile il
palinsesto Ambrosiano, sono pubblicate a Roma, assieme agl’altri frammenti del
palinsesto. I testi vaticani sono pubblicati assieme al “Gratiarum actio pro
Carthaginiensibus,” proveniente da un altro manoscritto Vaticano. Bischoff
identifica un terzo manoscritto, di un solo foglio, che contiene frammenti di
corrispondenza tra F. con VERO (si veda), in parte corrispondenti al palinsesto
di Milano. Tuttavia il manoscritto empubblicato da Dom Tassin, che suppone che
potesse essere un lavoro di Frontone. Ritratto d’ANTONINO (si
veda), Musei Capitolini La scoperta di questi frammenti deluse gli eruditi
romantici perché non corrispondevano alla grande fama dell'autore. Oggi, sono
osservati con maggior benevolenza. Le lettere, raccolte ora in un Epistolario, rappresentano
la corrispondenza con Antonino Pio, ANTONINO (si veda), e Lucio VERO (si veda),
in cui il carattere degl’allievi di F. appare in una luce molto favorevole -- particolarmente
grazie all'affetto che entrambi sembrano mantenere per il loro maestro --- unitamente
a missive agli amici, principalmente lettere di raccomandazione. La collezione
contiene inoltre trattati sull'eloquenza, alcuni frammenti storici e inezie
letterarie come l'elogio del fumo e della polvere, della negligenza e una
dissertazione su Arione. L'editio princeps è quella di Mai, mentre
l'edizione standard è quella della Teubner, a cura di M. van den Hout
(Leipzig). Castelli pubblica i testi greci contenuti nell'Epistolario, con commento,
fondandosi, a differenza dell'edizione di Hout, su una collazione diretta del
manoscritto. La Loeb Classical Library ha stampato un'edizione in due volumi
delle lettere di Frontone. Il testo è ora obsoleto[senza fonte]. Van den Hout pubblicato
un completo commento (Leiden). In Italia la Utet ha pubblicato il testo a cura
di Portalupi. Nei frammenti scoperti in "palinsesto" da Mai
nritroviamo parte dell'Epistolario di F. Da queste porzioni di testo conservate
si reca la teorizzazione della Elocutio novella, ossia il nuovo modo che
Frontone proponeva per approcciarsi all'arte retorica. L'autore sembra molto
attento all'uso del latino, una lingua che egli auspica di rinnovare tramite
l'uso della terminologia arcaica poiché essa soltanto conteneva il significato
"genuino" delle espressioni. Per scegliere le parole adatte al
contesto è comunque richiesta competentia, cioè uno studio approfondito del
discorso, poiché la retorica è un'arte che non permette errori, come afferma lo
stesso retore. L'inesperienza può essere ben visibile quando la sistemazione
dell'orazione non è consona. Nelle Epistole è anche rintracciabile una
sorta di elenco di grandi autori, degli exempla da seguire. Tra questi si
possono individuare CATONE (si veda), SALLUSTIO (si veda) e CICERONE (si veda).
Curiose le osservazioni su quest'ultimo, Frontone pur ammettendo la fluenza
dello stile ciceroniano, lo definisce come un autore che "sorprende
poco" nella sua ricerca lessicale, basandosi unicamente sul suo innato
talento di oratore. La retorica dove sorprendere l’ascoltatore attraverso
l'"inatteso", l'interlocutore rimanendo allibito da tanta maestria
ammetteva, se pur non apertamente, il suo "surclassamento". La nuova
arte oratoria dunque era rivolta ad un pubblico dotto capace di intendere i
riferimenti letterari e arcaici del retore che la pratica. Essendo
insegnante di retorica di Antonino, nell'epistola intitolata Ad Marcum Caesarem
troviamo l'importanza dell'elocutio per il principe. Innanziututto, esordisce
Frontone, è di basilare importanza il rapporto con il destinatario. La voce del
principe e"tromba", non "flauto". Con questa sottile
metafore, Frontone ci fa comprendere che il principe deve dare gl’ordini alla
sua gente, come la tromba fa per l'esercito, sottolineando il valore
allocutorio del discorso imperiale. Il flauto, per contrappunto, è uno
strumento troppo flebile e delicato. Il discorso di un principe non può essere
vellutato. Si rischierebbe di perdere, agli occhi del popolo e del Senato (che
devono essere trattati allo stesso modo), l'autorevolezza e l'attenzione che
sono dovute ad un uomo così importante. Perelli, Storia della letteratura Latina.
A. Birley, Marcus Aurelius. Molti critici hanno avuto dubbi su questa
ammirazione dei contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche. Niebuhr,
lo descrisse come "frivolo", Naber lo trovò
"disprezzabile", cfr. Champlin. Altri lo hanno definito come
"pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né
l'analisi politica di un Cicerone o l'introspezione di un Plinio, cfr. Mellor,
commentando Champlin. Una ricerca prosopografica ha riabilitato la sua
reputazione, anche se non in maniera considerevole, cfr., ad esempio, sempre
Mellor su Champlin. Birley, The African Emperor. Questa esposizione sulla
riscoperta di F. è basata su Reynolds, Texts and Transmission: A Survey of the
Latin Classics, Clarendon. F., Epistolario, testo latino. Carla Castelli, Il
Greco di F.: testo critico e traduzione, studio linguistico, stilistico e
retorico, storia editoriale, The correspondence of F.. Edited and translated by
Haines. Fonti antiche PIR2 Internet Archive. F., Epistolario, QUI il testo
latino. M. Cornelii Frontonis opera inedita cum epistulis item ineditis
Antonini Pii, M. Aurelii, L. Veri et Appiani nec non aliorum veterum fragmentis
invenit et commentario praevio notisque illustravit Angelus Maius, Mediolani,
Regiis typis [ristampa in Francoforte: The correspondence of F. With ANTONINO
(si veda), VERO (si veda), Anoninus Pius, and various friends edited by Haines,
F. S. A., London, Heinemann. F.,
Opere, a cur. Portalupi, trad. italiana a fronte, Collana Classici latini,
Torino, UTET, Carla Castelli, Il greco
di F.. Testo critico e traduzione. Studio linguistico, stilistico e retorico.
Storia editoriale, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, Storiografia moderna
Quignard, in Rhétorique Spéculative Considera F. come l'origine di una corrente
anti-filosofica, litteraria. F. su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Funaioli, F. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, F. su sapere. De Agostini. F., su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di Marco Cornelio Frontone, su Musisque
Deoque. Opere di F., su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Opere di
F., su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di F., su Open Library, Internet
Archive. F.: Epistulae VDM Marco Aurelio Portale Antica Roma
Portale Biografie Portale Letteratura Categorie: Scrittori romani Retori
romani Scrittori Romani Nati Morti a Roma Cornelii Scrittori africani di lingua
latina F. A statesman and the philosophy tutor of Antonino. He seems to have had no
particular philosophical allegiance, and indeed entertained, like Grice, who
tutored Strawson, something of a distrust of philosophy in general. He makes a
speech attacking Christians that was borrowed by MINUCIO (si veda) Felice (si
veda) for a work of his own. Marco
Cornelio Frontone. Frontone.
Luigi Speranza -- Grice e Frosini: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del gattopardo – scuola di
Catania – scuola di Girgenti – filosofia siciliana filosofia italiana – Luigi
Speranza (Catania). Filosofo catanese. Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Catania, Sicilia. Grice: “I like Frosini; only in
Italy a professor of jurisprudence – the Italian H. L. A. Hart – would care to
provide a theatrical ‘reduction’ of a Sicilian ‘romanzo’! Genial – He has also
written on Risorgimento families!” Il progresso tecnologico è la nuova
democrazia di massa (F. in'intervista alla trasmissione RAI Mediamente ).
Considerato il padre dell'informatica in Italia, si devono a lui le prime
riflessioni generali sulle implicazioni esistenti tra diritto, tecnologie e
attività giudiziarie. Laureatosi a PISA in FILOSOFIA, studia a Catania. La
lettera e lo spirito della legge non è il suo ultimo libro. Nel 1997 pubblica
La democrazia nel XXI secolo, un vigoroso pamphlet nel quale viene valorizzata
la libertà dell'individuo nella nuova democrazia di massa, caratterizzata dal
circuito sempre più vasto e più rapido delle informazioni e della
globalizzazione degli interessi politici ed econo- sentato poi a Roma nell'ottobre del 2000. Fu
quasi un simbolico ritorno alla sua terra di Sicilia. Questo lavoro
"stravagante", altri ce ne sono, dimostra e conferma che mio padre fu
un eclettico. Era una critica che gli veniva mossa; e invero non ne capisco il
perché se intesa in senso negativo, perché al contrario eclettico vuol dire
avere molteplicità di interessi. Ciò che conta è che tali interessi vengano
coltivati, studiati e acquisiti bene: in tal maniera la ecletticità è un
fattore positivo come è naturale che sia in tutte le integrazioni e addizioni
di saperi. Verrebbe anzi da dire che il suo cd. eclettismo è paragonabile a
quello in archi-tettura, che definisce lo stile nato dalla mescolanza dei
migliori stilemi ripresi da diversi movimenti architettonici, storici e anche
esoticis. Il suo eclettismo siè manifestato nella capacità di sapere spaziare
in molti campi del sapere, attraverso una notevole messe di pubblicazioni non
solo giuridiche ma storiche, filosofiche, sociologiche e anche lettera-rie,
oltre a una intensa attività come opinionista di diversi quotidiani 39. Come è stato scritto: «Dagli amici e dagli
allievi Vittorio Frosini sarà sempre ricordato come Maestro di filosofia e di
diritto e, ancor di più, come l'umanista che, immergendosi nel flusso della
vita, seppe com-prendere e amare ogni manifestazione di intelligenza e di
sensibilità» G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il
Gattopardo, riduzione teatrale di Vittorio Frosini, Roma, Bulzoni, 2000;
l'amore per la Sicilia, sempre vivo e mai interrotto, lo manifestò anche con un
libretto: V. FroSiNI, Ideario siciliano, Palermo, Sellerio, 1988. Valorizzano
l'eclettismo di mio padre, ritenendolo senz'altro un merito che lo aiu-tò, tra
l'altro, a essere precursore in diversi campi, E. PATTARO, La filosofia del
diritto di fronte all'informatica giuridica, in A. JELLAMO, F. RICCOBONO (a
cura di), In ricordo di Vittorio Frosini, cit., 25 ss., e A. Punzi, La
tolleranza dell'eclettico. Vittorio Frosini sui lumi e le ombre (del pensiero
risorgimentale come di quello cristiano), in Riv. int. fil dir., n. 1-2/2019,
121 ss. Per
una conferma, v. la raccolta: R. RUSSANO (a cura di), Vittorio Frosini
Bibliografia degli scritti, Milano, Giuffrè, 1994. Fu collaboratore de La
Sicilia, poi del Corriere della sera (sotto la direzione di Giovanni
Spadolini), del Il Giornale nuovo (sotto la direzione di Indro Montanelli) e
del Il Tempo (sotto la direzione di Gianni Letta). F. RIcCOBONo, Vittorio Frosini, in Riv.
int. fil. dir., n. 4/2001, 534. Dopo la laurea pisana e quella catanese,
continua il peregrinag-gio per la formazione accademica: nel 1950, va a
specializzarsi, come Ph.D., in Political Science e Jurisprudence all'Università
di Oxford, a seguito della vittoria di una borsa di studio del British Council,
ottenuta insieme ai giovani "virgulti" Serio Galeotti e Pietro
Rescigno. Da allora, con entrambi, si
salderà una forte e sincera amicizia di tutta una vita. Ospite del Magdalen
College di Oxford, lavora a una tesi sull'obbligazione politica, sotto la guida
di John Mabbot, e frequenta Herber Hart, allora Lecturer in Philosophy 1 Si
lega anche a Salvador de Madariaga, l'esule politico spagnolo e docente di
letteratura spagnola a Oxford e ad Alessandro Passerin d'Entréves, il filosofo
della politica torinese in quel periodo professore di Italian Studies".
Gli anni oxo-niensi gli rimarranno sempre nel cuore e spesso amava rievocarli
con storie e aneddoti. Non mancava mai alla cena annuale degli ex allievi del
College (indossando rigorosamente la cravatta del College) e divenne socio
dello esclusivo Oxford and Cambridge Club, nella cui foresteria, con sede a
Pall Mall, alloggiava ogni qualvolta andava a Londra. Nel 1952 torna in Italia e inizia la
collaborazione a Il Mondo di Mario Pannunzio Un mondo al quale rimarrà sempre
legato nei ricordi e nella condivisione degli ideali liberaldemocratici13. Alle
«care ombre» di Mario Pannunzio, Carlo Antoni, Vitaliano Brancati, Nicolò
Carandini, Nicola Chiaromonte, Vittorio de Caprariis, dedicherà, «in segno di
grata memoria», un suo libro 14.10 Il lavoro di tesi, anticipato in vari
articoli, verrà pubblicato, ulteriormente svilup-pato, diversi anni dopo come
libro: V. FRoSINI, La ragione dello Stato. Studi sul pensiero politi- primo lito pubbicato in fala: 1LA. Mart,
Contributi al analist de Airto, a Cara dai Fro-
sini, Milano, Giuffrè, 1964. V.
FROSINI, Potrait of Salvador de Madariaga, in BRUGMANS ET NADAL (a cura di),
Liber Amicorum Salvador de Madariaga, Bruges, De Tempel, 1966, 97 ss.; V.
FROSINI, Alessandro Passerin d'Entréves,
in Riv. int. fil dir., n. 2/1986 (ora in IdEM, La coscienza giuridica, cit.,
203 ss.). 12 Una cospicua serie di
articoli apparsi su quel giornale, vennero raccolti in IDEM, "Il
Mondo" e l'eredità del Risorgimento, pres. di E. Sciacca, Acireale, ed.
Bonanno, 198%. 1 Sul punto, E. ScIAccA,
Vittorio Frosini scrittore politico, in Aa. Vv., Liber Amicorum in onore di
Vittorio Frosini, vol. I, cit., 1 ss. e A. JeLLamo, Vittorio Frosini e la
tradizione liberale, in Ri int. do n io
019, 15 Valga altresi quale testimonianzo i daglione" Mar nelli, Rubbettino, 2015, 521 ss. 14 V. FROSINI, Costituzione e società civile,
Milano, Comunità, 1975 (II ed., 1977).Studia la regolamentazione
dell'informatica. Ha presieduto l'associazione utaliana di Diritto
dell'Informatica e di Giuritecnica e l'Istituto di Teoria dell'interpretazione
e di informatica giuridica presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Roma
"La Sapienza". Teorico di un umanesimo tecnologico attento ai
diritti civili, ha avviato una ricostruzione sistematica dei problemi
dell'informatica consapevole delle diverse implicazioni economiche e sociali
della regolamentazione giuridica. Nel confronto costante tra diritto e
tecnologie, il progresso produce una evoluzione sociale continua che si
riflette nel campo giuridico ed economico come nei miglioramenti qualitativi
dei diversi rapporti con le istituzioni, favorendo un continuo e immediato
confronto fra amministratori e amministrati entro un rapporto diretto a
carattere orizzontale, mentre prima era a carattere verticale e così il
cittadino diventa veramente attore della vita civile e non più suddito. Di qui
il profilarsi di una nuova democrazia di massa in cui si realizza con apparente
paradosso una nuova forma di libertà individuale, un accrescimento della
socialità umana che si è allargata sull'ampio orizzonte del nuovo circuito
delle informazioni, un potenziamento, dunque, dell'energia intellettuale ed
operativa del singolo vivente nella comunità». L'opera centrale di F., Professore
ed emerito di filosofia del diritto e di informatica giuridica è indubbiamente
La struttura del diritto. Il saggio ha immediati riconoscimenti e una notevole
fortuna in Italia dove ha sei riedizioni pressoché inalterate. Quale suo
autore riceve un premio dai lincei dalle mani del Presidente della Repubblica
Italiana, Segni. F. è peraltro autore di saggi fondamentali sul rapporto
tra tecnologia e diritto quali: “Cibernetica: diritto e società”; “Informatica,
diritto e società” (Milano); “Giuffrè (si veda) Il giurista e le tecnologie
dell'informazione” (Roma, Bulzoni); “La democrazia)” (Roma, Ideazione;, Macerata,
Liberilibri); “La lettera e lo spirito della legge” (Milano): Giuffrè Teoria e
tecnica dei diritti umani” (Napoli, Edizioni scientifiche Italiane; “Fondamentali
sono anche i suoi scritti sulla rivista Informatica e Diritto: “L'automazione
elettronica nella giurisprudenza e nell'Amministrazione Pubblica”; “La
giuritecnica: problemi e proposte”; “Giustizia e informatica”; “La protezione
della riservatezza nella società informatica”; “L'esperienza OCSE nel
potenziamento degli scambi tecnologici connessi alla gestione delle
informazioni”; “L'informatica nella società contemporanea; “Riflessioni sui
contratti d'informatica”; “Il giurista nella società dell'informazione Riconoscimenti
A F. sono dedicati: il premio nazionale di informatica giuridica
"Vittorio Frosini" della rivista Il diritto dell'informazione e
dell'informatica; la collezione di strumenti di calcolo e di elaborazione
automatica dei dati, utilizzati presso l'Istituto di Teoria
dell'Interpretazione e di Informatica Giuridica dell'Università "La Sapienza"
di Roma. MediaMente: "Il progresso tecnologico e la nuova democrazia di
massa, su mediamente. rai. Net freedoms: i diritti di libertà in rete Dibattito
sul diritto dell'informazione e dell'informatica | RadioRadicale Cfr. F. in una lucida testimonianza su
Università, Normale e COLLEGIO MUSSOLINI, Cubeddu e Cavera. Cassese, F. e lo spirito della legge, Il Sole;
F., La democrazia, Macerata, Liberi libri,.
Fondazione Calamandrei, Russano, degli scritti, Milano, A. Giuffrè, F.,
su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. La
morfogenesi dell’ordinamento giuridico in F., L’IRCOCERVO, metodologia
giuridica, teoria generale del diritto e dottrina dello stato" Genesi
filosofica e struttura giuridica della Società dell'informazione, Napoli,
Edizioni Scientifiche Italiane, su edizioniesi. Il Gattopardo TEATRO STABILE,
ROMA Il Gattopardo - forse il film più popolare di Luchino Visconti, tratto
dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa - è ora anche uno spettacolo
teatrale. L'inedita trasposizione scenica si deve al regista Gianni Giaconia,
dal 1995 direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla
più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una riduzione
del romanzo da adattare alle scene. COMUNICATO STAMPA di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa riduzione teatrale di Vittorio Frosini
regia di Gianni Giaconia musiche di Giannini scene di
Luca Arcuri Il Gattopardo - forse il film più popolare di Visconti,
tratto dal capolavoro letterario di Tomasi di Lampedusa si deve al regista
Giaconia, direttore artistico della sala di piazza Nerazzini, a un passo dalla
più nota piazza dei Navigatori. Suo infatti il proposito di compiere una
riduzione del romanzo da adattare alle scene, sua la scelta di approntare una
singolare versione multimediale della celebre opera servendosi del testo messo
a punto da V., uscito in volume presso Bulzoni editore, e di inserti
cinematografici appositamente confezionati per l'occasione. Nei
centoventiminuti di questa originale edizione del Gattopardo riletto da
Giaconia gli inserimenti segneranno - non senza una certa attitudine
sperimentale e trasgressiva - alcuni passaggi della storia del principe Salina,
da Tomasi di Lampedusa mirabilmente ritratta nel doloroso passaggio, sulla scia
dell'impresa garibaldina, dalla Sicilia dei Borboni a quella dei Sabaudi, amaro
volgere di un mondo che si vede scosso e abbattuto da nuovi fremiti, dove però
resta valida la massima "se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che
tutto cambi". In scena, impegnati a sostenere le parti che
nella memoria di ognuno di noi hanno ancora i volti e i modi di Burt Lancaster,
Claudia Cardinale o Alain Delon (per limitarsi ai soli protagonisti
principali), sono circa trenta attori, tra cui Giorgio Berini, Sergio Silvestro
e EZimei, nei ruoli - rispettivamente - del principe, di suo nipote Tancredi e d’Angelica.
Siciliano di origine, Giaconìa si puo' considerare romano d'adozione. E'
infatti che risiede nella capitale, dove - con il nome d'arte di Monti - ha
iniziato la sua carriera d'attore proseguita tra palcoscenici e set per quasi
tre decenni ininterrotti. In teatro, è stato diretto tra gli altri da
Vasilicò, Fantoni, Sbragia, Vannucchi, Garrani e ha lavorato a fianco di
Giorgi, Tedeschi, Randone. Tra le sue interpretazioni e partecipazioni
cinematografiche e televisive, ricordiamo i film "Corre l'anno di grazia
1870" di Giannetti (con Mastroianni e Magnani) e "Ligabue" di
Salvatore Nocita (con Bucci, 1978), oltre a varie pellicole con Maurizio Merli
dirette da Marino Girolami (tra cui "Italia a mano armata" nel 1976),
e soprattutto a "Fontamara" di Carlo Lizzani (con Michele Placido)
dove Giaconia-Monti è Scarpone. Ha esperienza di doppiaggio e di regia
televisiva (per fiction trasmesse da televisioni locali siciliane). Dirige
il Teatro Stabile di Santa Francesca Romana, per il cui palcoscenico ha
già siglato, tra le altre, le regie di "Processo a Gesù" di
Fabbri, "Vita di Galileo" di Brecht, "La tempesta" di
Shakespeare, realizzando spettacoli multimediali. La trasposizione
in linguaggio scenico di un testo narrativo - scrive Vittorio Frosini autore
della riduzione teatrale de "Il Gattopardo" - obbliga ad esercitare sul
testo originario un rifacimento, che è quasi una operazione di chirurgia
estetica; anzi, si tratta di una metamorfosi da un linguaggio scritto in un
linguaggio parlato e gestito, da una continuità discorsiva ad una
serialità episodica. Nel procedere a questa manipolazione intellettuale
ho dovuto affrontare il problema di una scelta tematica dei motivi presenti
nell'opera romanzesca: ho dato perciò risalto ad alcuni di essi. Tale è il
confronto fra la coscienza del principe e l'idea della morte, che viene
anteposto agli altri momenti della vicenda; tale è il rapporto fra la
condizione storica dei personaggi e l'irruzione dell'impresa garibaldina. Si
tratta dunque di una libera sceneggiatura del romanzo, di una interpretazione
di esso, e cioè di una lettura partecipe. Vittorio Frosini è
professore emerito dell'università La Sapienza di Roma, dove ha insegnato
filosofia del diritto, sociologia giuridica e teoria dell'interpretazione. E'
stato componente del Consiglio Superiore della Magistratura e Visiting
Professor nelle università di Tokyo e di Harvard, ed è accademico della
Real Academia di Spagna. E' autore di molti studi di carattere giuridico,
pubblicati anche in diverse lingue straniere, e di numerosi saggi di carattere
storico e letterario, dedicati in parte alla Sicilia; Teatro Stabile S.
Francesca Romana, Piazza Nerazzini, Roma Informazioni e
prenotazioni: Biglietti: intero -
ridotto Stagione del Teatro Stabile S. Francesca Romana: Il Gattopardo
di G. Tomasi di Lampedusa riduzione teatrale di Vittorio Frosini regia di
Gianni Giaconia Goffredo Tofani (produzione da definire)
Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'uomo, la bestia e la
virtù di Luigi Pirandello regia di G. Cirillo Goffredo Tofani
(produzione da definire) Compagnia I Bankarettisti Non ti pago di Eduardo
De Filippo regia di Gennaro Sommella Compagnia I Buattari 'O
scarfalietto di E. Scarpetta regia di Paolo Savini Compagnia
Corricorri Vin santo di Roberto Giacomozzi regia di Roberto Giacomozzi
Compagnia Associazione Agitati prima dell'Uso L'importanza di chiamarsi
Ernesto di Oscar Wilde regia di Gaetano Cicoira Compagnia
Associazione Agitati Prima dell'Uso (una commedia da definire di E. Scarpetta)
regia di Gaetano Cicoira STAMPA PERMANENT LINK TEATRO STABILE IN
ARCHIVIO WORDSTAR(S) Il Gattopardo
romanzo scritto da Tomasi di Lampedusa Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando il film diretto da Luchino
Visconti, vedi Il Gattopardo (film). «Se non ci siamo anche noi, quelli ti
combinano la repubblica in quattro e quattr'otto. Se vogliamo che tutto rimanga
com'è, bisogna che tutto cambi» (Tancredi Falconeri, nipote di don
Fabrizio Corbera, Principe di Salina) Il Gattopardo Incipit Gattopardo.jpg
L'incipit manoscritto del Gattopardo AutoreGiuseppe Tomasi di Lampedusa 1ª ed. Originale
1958 Genere romanzo Sottogenere storico Lingua originale italiano Ambientazione
Sicilia, Risorgimento italiano Protagonisti Fabrizio Corbera Il Gattopardo è un
romanzo di Tomasi di Lampedusa che narra le trasformazioni avvenute nella vita
e nella società in Sicilia durante il Risorgimento, dal momento del trapasso
del regime borbonico alla transizione unitaria del Regno d'Italia, seguita alla
spedizione dei Mille di Garibaldi. Dopo i rifiuti delle principali case editrici
italiane (Mondadori, Einaudi, Longanesi), l'opera fu pubblicata postuma da
Feltrinelli nel 1958, un anno dopo la morte dell'autore, vincendo il Premio
Strega, e diventando uno dei best-seller del secondo dopoguerra; è considerato
uno tra i più grandi romanzi di tutta la letteratura italiana e mondiale.
Il romanzo fu adattato nell'omonimo film, diretto da Visconti e interpretato da
Lancaster, Cardinale e Delon. Tema e storia editoriale L'autore contempla da lungo tempo l'idea di
scrivere un romanzo storico basato sulle vicende della sua famiglia, gli
aristocratici Tomasi di Lampedusa, in particolare sul bisnonno, il principe
Giulio Fabrizio Tomasi, nell'opera il principe Fabrizio CORBERA Salina, vissuto
durante il Risorgimento, noto per aver realizzato un osservatorio astronomico
per le sue ricerche. Dopo che il Palazzo Lampedusa è gravemente lesionato dai
bombardamenti dalle forze Alleate durante la Seconda guerra mondiale e
saccheggiato, l'autore scivola in una lunga depressione. Stemma di
famiglia dei Tomasi. È scritto fino l'anno della morte dell'autore, un erudito
appassionato di letteratura, ma del tutto sconosciuto ai circuiti letterari
italiani. Il manoscritto venne inviato alle case editrici con una lettera di
accompagnamento scritta di pugno dal cugino di Tomasi, Piccolo. La spedizione
della prima copia (una versione ancora parziale) avvienne da Villa Piccolo,
indirizzata al conte Federico Federici della Mondadori. Piccolo stesso cerca di
avere notizie circa l'esito della lettura del manoscritto da parte di
Mondadori, inviando una lettera a Reale, per sincerarsi se la lettura avesse
sortito l'esito sperato. Tuttavia, gl’editori Mondadori ed Einaudi rifiutarono.
Infatti, il testo, pur privo di alcuni capitoli, è dato in lettura prima al
conte Federici per Mondadori, poi a Vittorini, allora consulente letterario per
Mondadori e curatore della collana I gettoni per l'Einaudi, il quale lo boccia
per entrambe le case editrici rimandandolo all'autore, e accompagnando il
rifiuto con una lettera di motivazione. L'opinione negativa di Vittorini, un
clamoroso errore di valutazione, è da lui ribadita anche successivamente,
quando il Gattopardo divenne un caso letterario internazionale.
L'avventurosa pubblicazione avviene solo dopo la morte dell'autore. L'ingegner GARGIA,
paziente della baronessa Alexandra Wolff Stomersee, la moglie psicoanalista di
Tomasi, si offre di consegnare una copia a una sua conoscente, Elena Croce. La
figlia di CROCE (si veda) lo segnala a Bassani, da poco divenuto direttore
della collana di narrativa I Contemporanei pella Feltrinelli, e che sollecita
gli amici letterati a segnalargli interessanti inediti. Bassani riceve dalla
Croce il manoscritto incompleto, ne comprese immediatamente l'enorme valore, e
vuola a Palermo per recuperare e ricomporre il testo nella sua interezza. Decide
subito di pubblicare il romanzo, che usce curato da Bassani. Quando riceve il
premio Strega, la tiratura aveva raggiunto in solo otto mesi le 250 000 copie,
divenendo il primo best seller italiano con oltre centomila copie vendute. La
forza e l'importanza che ha il romanzo è testimoniato anche dalla battuta che
Filippo nella commedia Sabato, Domenica e Lunedì fa dire a Memè, la zia colta
di casa Priore, la quale ammonendo i parenti troppo affaccendati nelle
questioni quotidiane esce di scena ammonendoli al grido di "Compratevi il
Gattopardo!". Il titolo del romanzo ha origine nello stemma di
famiglia dei principi di Lampedusa, rappresentato dal FELIS LEPTAILVRVS serval,
una belva felina diffusa nelle coste settentrionali dell'Africa, proprio di
fronte a Lampedusa. Nelle parole dell'autore l'animale ha un'accezione positiva.
Noi fummo i gattopardi, i leoni. Quelli che ci sostituiranno sono gli
sciacalletti, le iene; e tutti quanti gattopardi, sciacalli e pecore
continueremo a crederci il sale della terra. Tuttavia, proprio sull'onda del
successo planetario del romanzo, sarebbe invalso invece un significato
negativo, facendo dell'aggettivo "gattopardesco" l'emblema del trasformismo
delle classi dirigenti italiane. A ben vedere, è anche vero che è Tomasi stesso
con le sue fiere parole a legare la parola a un SIGNIFICATO AMBIGUO, quando
prevede un destino di rassegnazione e di solo illusorio orgoglio per
l'Italia. Dal romanzo venne tratta un'opera musicale di Musco, con
libretto di Squarzina. Trama Il racconto inizia con la recita del rosario
in una delle sontuose sale del Palazzo Salina, dove il principe Fabrizio, il
gattopardo, abita con la moglie Stella e i loro sette figli: è un signore
distinto e affascinante, raffinato cultore di studi astronomici ma anche di
pensieri più terreni e a carattere sensuale, nonché attento osservatore della
progressiva e inesorabile decadenza del proprio ceto; infatti, con lo sbarco in
Sicilia di Garibaldi e del suo esercito, va prendendo rapidamente piede un
nuovo ceto, quello borghese, che il principe, dall'alto del proprio rango,
guarda con malcelato disprezzo, in quanto prodotto deteriore dei nuovi tempi.
L'intraprendente e amatissimo nipote Tancredi Falconeri non esita a cavalcare
la nuova epoca in cerca del potere economico, combattendo tra le file dei
garibaldini (e poi in quelle dell'esercito regolare del Re di Sardegna),
cercando insieme di rassicurare il titubante zio sul fatto che il corso degli
eventi si volgerà alla fine a vantaggio della loro classe; è poi legato da un
sentimento, in realtà più intravisto che espresso compiutamente, per la
raffinata cugina Concetta, profondamente innamorata di lui. Il principe
trascorre con tutta la famiglia le vacanze nella residenza estiva di
Donnafugata; il nuovo sindaco del paese è don Calogero Sedara, un parvenu, ma
intelligente e ambizioso, che cerca subito di entrare nelle simpatie degli
aristocratici Salina, mercé la figlia Angelica, cui il passionale Tancredi non
tarderà a soccombere; non essendo una nobile, Angelica non avrà immediatamente
il consenso di don Fabrizio, ma grazie alla sua travolgente e incantevole
bellezza riesce a convincere casa Salina e a sposare Tancredi. Inoltre Calogero
Sedara, il padre di Angelica, fornisce alla figlia nel contratto matrimoniale
tutto quello che possiede. Arriva il momento di votare l'annessione della
Sicilia al Regno di Sardegna: a quanti, dubbiosi sul da farsi, gli chiedono un
parere sul voto, il principe risponde suo malgrado in maniera affermativa; alla
fine, il plebiscito per il sì sarà unanime. In seguito, giunge a palazzo Salina
un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley di Monterzuolo, incaricato di
offrire al principe la carica di senatore del Regno, che egli rifiuta
garbatamente dichiarandosi un esponente del vecchio regime, ad esso legato da
vincoli di decenza. Il principe condurrà da ora in poi vita appartata fino al
giorno in cui verrà serenamente a mancare, circondato dalle cure dei familiari,
in una stanza d'albergo a Palermo dopo il viaggio di ritorno da Caserta, dove
si era recato per cure mediche. L'ultimo capitolo del romanzo, ambientato nel
1910, racconta la vita di Carolina, Concetta e Caterina, le figlie superstiti
di don Fabrizio. Il significato dell'operaModifica L'autore compie
all'interno dell'opera un processo narrativo che è sia storico che attuale.
Parlando di eventi passati, Tomasi di Lampedusa parla di eventi del tempo
presente, ossia di uno spirito siciliano citato più volte come gattopardesco
("Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi")[7].
Nel dialogo con Chevalley di Monterzuolo, inviato dal governo sabaudo, il
principe di Salina spiega ampiamente il suo spirito della sicilianità; egli lo
spiega con un misto di cinica realtà e rassegnazione. Spiega che i cambiamenti
avvenuti nell'isola più volte nel corso della storia hanno adattato il popolo
siciliano ad altri "invasori", senza tuttavia modificare dentro
l'essenza e il carattere dei siciliani stessi. Così, il presunto miglioramento
apportato dal nuovo Regno d'Italia appare al principe di Salina come un
ennesimo mutamento senza contenuti, poiché ciò che non muta è l'orgoglio del
siciliano stesso. Il dialogo con Chevalley manoscritto Egli infatti
vuole esprimere l'incoerente adattamento al nuovo, ma nel contempo l'incapacità
vera di modificare sé stessi, e quindi l'orgoglio innato dei siciliani. In
questa chiave egli legge tutte le spinte contrarie all'innovazione, le forme di
resistenza mafiosa, la violenza dell'uomo, ma anche quella della natura. I
Siciliani non cambieranno mai poiché le dominazioni straniere, succedutesi nei
secoli, hanno bloccato la loro voglia di fare, generando solo oblio, inerzia,
annientamento (il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente
quello di "fare". il sonno è ciò che i Siciliani vogliono). GARIBALDI
(si veda) è stato uno strumento dei Savoia, nuovi dominatori (da quando il
vostro GARIBALDI (si veda) ha posto piede a Marsala, troppe cose sono state fatte
senza consultarci perché adesso si possa chiedere a un membro della vecchia
classe dirigente di svilupparle e portarle a compimento ho i miei forti dubbi
che il nuovo regno abbia molti regali per noi nel bagaglio). Questi avvenimenti
si sono innestati su una natura ed un clima violenti, che hanno portato ad una
mancanza di vitalità e di iniziativa negli abitanti (... questo paesaggio che
ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l'asprezza dannata; [...]
questo clima che ci infligge sei mesi di febbre a quaranta gradi; questa nostra
estate lunga e tetra quanto l'inverno russo e contro la quale si lotta con
minor successo. Classificazione come romanzo storico La vicenda descritta
nel Gattopardo può a prima vista far pensare che si tratti di un romanzo
storico. Tomasi di Lampedusa ha certamente tenuto presente una tradizione
narrativa siciliana: la novella Libertà di Verga, I Viceré di Roberto, I vecchi
e i giovani di PIRANDELLO (si veda) ispirata al fallimento risorgimentale,
drammaticamente avvertito proprio in Sicilia, dove sono vive speranze di un
profondo rinnovamento. Ma mentre Roberto, che fra i tre citati è, per questa
tematica, il più significativo, indaga le motivazioni del fallimento con una
complessa rappresentazione delle opposte forze in gioco, Tomasi di Lampedusa presenta
la vicenda risorgimentale attraverso il MACHIAVELLISMO della classe dirigente,
che alla fine si mette al servizio dei GARIBALDINI e dei piemontesi, convinta
che sia il modo migliore perché tutto resti com'è. Questa rappresentazione per
la prospettiva da cui è descritta è parziale. Restano fuori dal romanzo molti
eventi significativi. Solo per fare un esempio, la rivolta dei contadini di
Bronte, che provoca 16 morti prima di essere stroncata nel sangue da BIXIO (si
veda) che fa condannare a morte 5 dei responsabili -- oggetto invece della
novella di Verga. Da questo punto di vista quindi le mancanze de Il
Gattopardo come romanzo storico del Risorgimento in Sicilia sono evidenti.
Osserva Alicata. Una cosa è cercare di comprendere come e perché si afferma nel
processo storico risorgimentale una determinata soluzione politica, cioè la
direzione di determinate forze politiche e sociali, un'altra cosa è credere, o
far finta di credere, che ciò sia stato una sorta di presa in giro condotta dai
furbi (dai potenti di ieri e di sempre) ai danni degli sciocchi -- coloro che
si illudono che qualche cosa di nuovo possa accadere non solo sotto il sole di
Sicilia ma sotto il sole tout court. Pertanto è dubbio se il valore de Il
Gattopardovada ricercato al di fuori della prospettiva del romanzo storico. La
faccenda appare più complicata di come puo apparire ai primi lettori
dell'opera, se il principe stesso nega di aver voluto scrivere un romanzo
storico (semmai un testo intessuto di memoria e di memorie), nella seconda
edizione de Il romanzo storico, invece Lukács riconduce Il Gattopardo al canone
proprio del genere. Di recente Spinazzola, in un importante saggio, Il
romanzo antistorico, attribuisce alla triade formata da I Viceré di Roberto, I
vecchi e i giovani di PIRANDELLO (si veda), e il romanzo di Tomasi di
Lampedusa, la fondazione di un nuovo atteggiamento del romanzo rispetto alla
storia. Non più l'ottimismo di una concezione storicista e teleologica
dell'avvenire dell'uomo (ancora presente in Italia nelle grandi cattedrali di MANZONI
(si veda) e NIEVO (si veda)), ma la dolorosa consapevolezza che la storia degli
uomini non procede verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive, e
che la macchina del mondo non è votata a provvedere alla felicità dell'uomo. Il
romanzo anti-storico è il deposito di questa concezione non trionfalistica
della storia, nei tre testi citati il corso della storia genera nuovi torti e
nuovi dolori, invece di lenire i vecchi. Malgrado la posizione nuova di
Spinazzola, che rilegge in modo intelligente la questione, il problema resta
aperto, e la critica non ha ancora trovato una soluzione condivisa su questo
tema. È un romanzo uscito dalla tradizione narrativa, della quale si
avverte almeno la presenza di Stendhal. Ma nel senso della solitudine e della
morte che pervade il protagonista si rivela anche l'influenza determinante
dell'esperienza decadente. Un altro elemento di differenza con altri romanzi
storici è il suo essere una trasposizione in un racconto di fantasia di vicende
familiari che in parte sono realmente avvenute e sono state tramandate
attraverso la bocca dei parenti di Tomasi di Lampedusa. A differenza di romanzi
storici come ad esempio I promessi sposi, nel quale nessun dettaglio storico
era specificato che non fosse già presente nelle fonti scritte consultate da MANZONI
(si veda), Il Gattopardo rappresenta esso stesso una testimonianza storica
(seppur offuscata dal tempo e dalla tradizione orale) di come una parte della
nobiltà vive quel determinato periodo di transizione. Sterilità e morte
Il modulo narrativo si discosta molto dai canoni del romanzo storico. Il
romanzo è suddiviso in blocchi, con una sequenza di episodi che, pur facendo
capo ad un personaggio principale, sono dotati ciascuno di una propria
autonomia. Inoltre, il fallimento risorgimentale descritto non è un esempio di
uno scarto tra speranze e realtà nella storia degli uomini, ma sembra quello di
una norma costante delle vicende umane, destinate inesorabilmente al
fallimento: gli uomini, anche re Ferdinando o GARIBALDI (si veda), possono solo
illudersi di influire sul torrente delle sorti che invece fluisce per conto
suo, in un'altra vallata. La negazione della storia e la sterilità
dell'agire umano sono alcuni dei motivi più ricorrenti e significativi del Gattopardo.
In questa prospettiva di remota lontananza dalla fiducia nelle magnifiche sorti
e progressive, il Risorgimento può ben diventare una rumorosa e romantica
commedia e Marx un ebreuccio tedesco, di cui al protagonista sfugge il nome, e
la Sicilia, più che una realtà che storicamente si è fatta attraverso secoli di
storia, resta una categoria astratta, un'immutabile ed eterna metafisica
sicilianità. Nella descrizione del fallimento risorgimentale, secondo alcuni,
si può intravedere un'altra riconferma della legge e degli uomini: il
fallimento esistenziale che, negli anni in cui scrive, Tomasi di Lampedusa puo
constatare. Correlato a questo è il tema del fluire del tempo, della
decadenza e della morte (che richiamano Proust e Mann) esemplificato nella
morte di una classe, quella nobiliare dei Gattopardi – dei leopardi -- che sarà
sostituita dalla scaltra borghesia senza scrupoli dei scialle ed iene, dei
Sedara, ma che permea di sé tutta l'opera: la descrizione del ballo, il
capitolo della morte di don Fabrizio (secondo alcuni critici il punto più alto
del romanzo), la polvere del tempo che si accumula sulle sue tre figlie e sulle
loro cose. Si può dire che fra la tradizione del romanzo storico, siciliana ed
europea, di fine Ottocento e Il Gattopardo è passato il decadentismo con le sue
stanchezze, le sue sfiducie, la sua contemplazione della morte. L’opera di
Tomasi di Lampedusa inoltre cade in un momento di ripiegamento dei recenti
ideali della società italiana e di quella letteratura che si è sforzata di dare
voce artistica a quegli ideali. Il manoscritto Le fotocopie dei
manoscritti originali si trovano presso il Museo del Gattopardo a Santa
Margherita di Belice (AG), mentre gli originali sono custoditi dall'erede
Gioacchino Lanza Tomasi presso il Palazzo Lanza Tomasi a Palermo, ultima dimora
dello scrittore. Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega.it. Samonà Gioacchino
Lanza Tomasi, «Le avventure del Gattopardo», ilsole24ore.com Gilmour, L'ultimo
gattopardo. Vita di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, Milano;
Bragaglia Cristina, Il Piacere del Racconto, La Nuova Italia, 1993. ^ Tullio De
Mauro, «Gattopardo non gattopardesco», 2ilsole24ore GATTOPARDISMO in
Vocabolario – Treccani Giudice, Bruni,
Problemi e scrittori della letteratura italiana, d. Paravia, Torino. Edizioni Il Gattopardo, Prefazione e cura di Bassani,
Collana Biblioteca di Letteratura, Milano, Feltrinelli Editore, Il Gattopardo,
Collana Universale Economica n.416, Milano, Feltrinelli. Il Gattopardo,
antologia a cura di Riccardo Marchese, Collana Primo scaffale n.16, Firenze, La
Nuova Italia. Il Gattopardo e i Racconti, Edizione conforme al manoscritto del
1957, Collana Gli Astri, Milano, Feltrinelli, dicembre 1969. Il Gattopardo,
Nota introduttiva di Maria Bellonci, Milano, Club degli Editori, Il Gattopardo,
Collana I Narratori, Milano, Feltrinelli, novembre 1974. Il Gattopardo, a cura
di Barbieri, Collana Narrativa scuola, Torino, Loescher Editore, 1979. Il
Gattopardo, Nuova edizione riveduta con testi d'Autore in Appendice, a cura di
Gioacchino Lanza Tomasi, Collana Le Comete, Milano, Feltrinelli, giCollana
Universale Economica, Feltrinelli, CVI ed.; Collana Grandi Letture,
Feltrinelli, Il Gattopardo, Prefazione di Gioacchino Lanza Tomasi, Collezione
Premio Strega, Torino, UTET - Fondazione Maria e Goffredo Bellonci, Il
Gattopardo letto da Toni Servillo, edizione integrale in audiolibro, Emons; Anile,
Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo
di "destra" in un successo di "sinistra", Genova, Le Mani,
Bertolucci, Il principe dimenticato, Sarzana, Carpena, 1979. G. Bottino, Saggio
su "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Genova, 1973. M.
Castiello, Il Gattopardo, Milano, 2004. Arnaldo Di Benedetto, Tomasi di
Lampedusa e la letteratura, in Poesia e critica del Novecento, Napoli, Liguori,
1999. Margareta Dumitrescu, Sulla parte VI del Gattopardo. La fortuna di
Lampedusa in Romania, Catania, Giuseppe Maimone Editore, 2001. G. Lanza Tomasi,
I luoghi del Gattopardo, 2001. G. Masi, Come leggere Il Gattopardo di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, 1996. S.S. Nigro, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio
editore, 2012. F. Orlando, L'intimità e la storia. Lettura delGattopardo,
Torino, Einaudi, 1998. Alberto Samonà, Giuseppe Tomasi di Lampedusa a Villa
Piccolo: la dimora dell’immenso parla una lingua antica, in Maria Antonietta
Ferraloro, Dora Marchese, Fulvia Toscano (a cura di), Itinerari Siciliani -
Topografie dell’anima sulle tracce di Tomasi di Lampedusa, Roma, Historica
edizioni, Samonà, "Il Gattopardo", i "Racconti", Lampedusa,
Firenze, Vitello, I Gattopardi di Donnafugata, Palermo, Vitello, Giuseppe
Tomasi di Lampedusa: il Gattopardo segreto, 2008. Luca Alvino, Il paradigma del
rosario nel Gattopardo, su Nuovi Argomenti, 2021. Voci correlateModifica La
Sicilia del Gattopardo Il Gattopardo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Edizioni e traduzioni di Il Gattopardo, su Open Library,
Internet Archive. Il Gattopardo, su Goodreads. Modifica su Wikidata Riduzione
radiofonica de "Il Gattopardo" (dal programma Ad alta voce di Rai
Radio 3) Audiolettura del dialogo tra Don Fabrizio e Chevalley, su elapsus.it.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Opera su Italialibri.net, su italialibri.net.
Audiolibro letto da Pietro Biondi Portale Letteratura Portale
Risorgimento Ultima modifica 6 giorni fa di Marcel Bergeret PAGINE CORRELATE Il
Gattopardo (film) film diretto da Visconti Giuseppe Tomasi di Lampedusa
scrittore italianoIl Gattopardo (film) film diretto da Visconti Lingua Segui
Modifica Il Gattopardo Fotogramma ballo Il Gattopardo.png Cardinale eLancaster
nella celebre scena simbolo del ballo finale Paese di produzione Italia,
Francia Durata187 min 205 min ca. (versione estesa) Rapporto2,21:1 (stampa 70
mm) 2,35:1 (stampa 35 mm) 2,25:1 (negativo) Generestorico, drammatico Regia Visconti
Soggetto Giuseppe Tomasi di Lampedusa (romanzo) Sceneggiatura Suso Cecchi
D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli, Massimo Franciosa, Luchino
Visconti ProduttoreGoffredo Lombardo Produttore esecutivoPietro Notarianni Casa
di produzioneTitanus, S.N. Pathé Cinéma, S.G.C. Distribuzionein italianoTitanus
Fotografia Giuseppe Rotunno Montaggio Mario Serandrei MusicheNino Rota
ScenografiaMario Garbuglia CostumiPiero Tosi, Reanda, Sartoria Safas Interpreti
e personaggi Burt Lancaster: don Fabrizio Corbera, principe di Salina Delon:
Tancredi Falconeri Claudia Cardinale: Angelica Sedara/Donna Bastiana Paolo
Stoppa: don Calogero Sedara Rina Morelli: principessa Maria Stella di Salina
Lucilla Morlacchi: Concetta Romolo Valli: padre Pirrone Terence Hill: conte
Cavriaghi Pierre Clémenti: Francesco Paolo di Salina Serge Reggiani: don Ciccio
Tumeo Maurizio Merli: Fulco, un amico di Tancredi Giuliano Gemma: generale di
Garibaldi Ida Galli: Carolina Ottavia Piccolo: Caterina Carlo Valenzano: Paolo
Brook Fuller: principe Ivo Garrani: colonnello Pallavicino Anna Maria Bottini:
Mademoiselle Dombreuil, governante Lola Braccini: donna Margherita Marino Masè:
tutore Howard Nelson Rubien: don Diego Tina Lattanzi: cuoca Ernesto Almirante:
generale Marcella Rovena: contadina Rina De Liguoro: principessa di Presicce
Valerio Ruggeri: colonnello Giovanni Melisenda: don Onofrio Rotolo Vittorio
Duse: colonnello Vanni Materassi: sergente Olimpia Cavalli: Mariannina Winni
Riva: cameriera Stelvio Rosi: sergente Leslie French: cavaliere Chevalley Gino
Santercole: uomo di Donnafugata Lou Castel: generale Michela Roc: contadina
Pino Caruso: giovane patriota Tuccio Musumeci: giovane patriota Doppiatori
originali Corrado Gaipa: don Fabrizio Corbera Solvejg D'Assunta: Angelica
Sedara/Donna Bastiana Carlo Sabatini: Tancredi di Falconeri Franco Fabrizi:
conte Cavriaghi Lando Buzzanca: don Ciccio Tumeo Pino Colizzi: Francesco Paolo
di Salina Gianni Bonagura: generale di Garibaldi Isa Bellini: Mademoiselle
Dombreuil, governante Ferruccio De Ceresa: cavaliere Chevalley Il Gattopardo è
un film diretto da Visconti. Il soggetto è tratto dall'omonimo romanzo di
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e la figura del protagonista del film, il
Gattopardo, si ispira a quella del bisnonno dell'autore del libro, il Principe
Giulio Fabrizio Tomasi di Lampedusa, che fu un importante astronomo e che nella
finzione letteraria diventa il Principe Fabrizio di Salina, e della sua
famiglia in Sicilia (a Palermo e provincia e precisamente a Ciminna e nel feudo
agrigentino di Donnafugata, ossia Ciminna Palma di Montechiaro e Santa
Margherita di Belice in provincia di Agrigento). Il film ha vinto Palma
d'oro come miglior film al 16º Festival di Cannes. Trama Nel maggio 1860, dopo
lo sbarco a Marsala di GARIBALDI (si veda) in Sicilia, Don Fabrizio CORBERA
assiste con distacco e con malinconia alla fine dell'aristocrazia. La classe
dei nobili capisce che ormai è prossima la fine della loro superiorità. Infatti
gl’amministratori e i latifondisti della nuova classe sociale in ascesa
approfittano della nuova situazione politica. Don Fabrizio di
Salina in una scena del film. Don Fabrizio, appartenente a una famiglia di
antica nobiltà, viene rassicurato dal nipote prediletto Tancredi che, pur
combattendo nelle file garibaldine, cerca di far volgere gl’eventi a proprio
vantaggio e cita la famosa frase. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna
che tutto cambi. Specchio della realtà siciliana, questa frase simboleggia la
capacità di adattamento che i siciliani, sottoposti nel corso della storia
all'amministrazione di molti governanti stranieri, hanno dovuto per forza
sviluppare. E anche la risposta di Don Fabrizio è emblematica: E dopo sarà
diverso, ma peggiore. Quando, come tutti gli anni, il principe con tutta la
famiglia si reca nella residenza estiva di Donnafugata, trova come nuovo
sindaco del paese Sedara, un borghese di umili origini, rozzo e poco istruito,
che si è arricchito e ha fatto carriera in campo politico. Tancredi, che in
precedenza manifesta qualche simpatia per Concetta, la figlia maggiore del
principe, s'innamora di ANGELICA, figlia di Sedara, che infine sposa,
sicuramente attratto dal suo notevole patrimonio. Episodio significativo
è l'arrivo a Donnafugata di un funzionario piemontese, il cavaliere Chevalley
di Monterzuolo, che offre a Don Fabrizio la nomina a SENATORE del nuovo Regno
d'Italia. Il principe però rifiuta, sentendosi troppo legato al vecchio mondo
siciliano, citando come risposta al cavaliere la frase. In Sicilia non importa
far male o bene. Il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è
semplicemente quello di fare. Il connubio tra la nuova borghesia e la
declinante aristocrazia è un cambiamento ormai inconfutabile: Don Fabrizio ne
avrà la conferma durante un grandioso ballo, al termine del quale inizierà a
meditare sul significato dei nuovi eventi e a fare un sofferto bilancio della
sua vita. Produzione Modifica Difficoltà produttive Il produttore
Lombardo, patron della Titanus, acquistò i diritti del romanzo di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, quando Il Gattopardo sta riscuotendo un grande successo
editoriale. La regia venne affidata inizialmente a Soldati e poi a Giannini,
che però vennero entrambi licenziati da Lombardo per divergenze sulla
realizzazione della pellicola e sostituiti con Visconti. Giannini scrive
addirittura una bozza di sceneggiatura che approfonde le vicende
risorgimentali, allontanandosi però dal romanzo di Tomasi di Lampedusa e
mettendo in secondo piano la STORIA D’AMORE tra Tancredi e Angelica. Per queste
ragioni, Lombardo, con la mediazione di Visconti, incarica Amico, Campanile,
Medioli e Franciosa di scrivere una nuova sceneggiatura, accantonando quella di
Giannini, che rimane molto offeso dal comportamento del produttore e per questo
si ritira per sempre dal mondo del cinema. Al cinema Barberini di Roma,
il film usce in anteprima dopo una lavorazione che aveva richiesto quindici
intensi mesi, iniziata alla fine del dicembre 1961, mentre il primo ciak ebbe
luogo lunedì 14 maggio 1962. Nell'autunno precedente, il regista, insieme allo
scenografo Mario Garbuglia e al figlio adottivo di Giuseppe, Gioacchino Lanza
Tomasi, aveva effettuato un sopralluogo in Sicilia, che non era certo valso a
dissipare le preoccupazioni del produttore Goffredo Lombardo. Lo stesso
Lombardo raccontò in un'intervista che, recatosi sui set per raccomandare a
Visconti di contenere i costi che crescevano sempre di più, ricevette questa
risposta dal regista: "Lombardo, io questo film lo posso fare solo così.
Se lei vuole, mi può sostituire". L'investimento richiesto da questo
colossal italiano si rivelò infatti presto superiore a quanto previsto dalla
Titanus allorché ne aveva acquistato i diritti cinematografici. Dopo un mancato
accordo di co-produzione con la Francia, la scrittura di Burt Lancaster nel
ruolo di protagonista, nonostante le iniziali perplessità di Luchino Visconti
(che avrebbe preferito che a vestire i panni di Don Fabrizio fosse Laurence
Olivier o l'attore sovietico Nikolaj Čerkasov), e forse dello stesso attore,[5]
permise un accordo distributivo per gli Stati Uniti d'America con la 20th
Century Fox. Ciononostante, le perdite subite dal film Sodoma e Gomorra e
da questo film, costato quasi tre miliardi di lire, causarono la sospensione
dell'attività della Titanus come produttrice cinematografica[6].
RipreseModifica Per quanto, come si è detto, la narrazione oggettiva degli
eventi sia oscurata e marginalizzata nel film dallo sguardo soggettivo del
protagonista-regista, un grande impegno fu posto nella ricostruzione degli
scontri tra garibaldini ed esercito borbonico. A Palermo nei vari set prescelti
(piazza San Giovanni Decollato, piazza della Vittoria allo Spasimo, piazza Sant'Euno,
piazza della Marina) "l'asfalto fu ricoperto di terra battuta, le
saracinesche sostituite da persiane e tende, pali e fili della luce
eliminati".Tutto questo per iniziativa di Visconti, poiché il produttore
Lombardo si era raccomandato che non vi fossero scene di combattimento.
Villa Boscogrande Si rese inoltre necessario il restauro, avvenuto in 24
giorni, della villa Boscogrande, nei pressi della città, che sostituì, per le
scene iniziali del film, il palazzo dei Salina, le cui condizioni ne
sconsigliavano l'utilizzo. Anche per le scene girate nella residenza
estiva dei Salina, Castello di Donnafugata, che nel romanzo sostituiva Palma di
Montechiaro, si scelse un sito alternativo, Ciminna. "Visconti s'infatuò
per la Chiesa Madre e il paesaggio circostante. L'edificio a tre navate
presentava uno splendido pavimento in maiolica. L'abside decorata con stucchi
rappresentanti apostoli e angeli di Scipione Li Volsi era inoltre provvista di
scranni lignei del 1619 intagliati con motivi grotteschi, particolarmente
adatti ad accogliere i principi nella scena del Te Deum. Il soffitto originale
della chiesa, in parte danneggiato durante le riprese è stato poi rimosso e
oggi non è più in sito. Inoltre la situazione topografica della piazzetta
di Ciminna sembrava ottimale, mancava solo il palazzo del principe. Ma in 45
giorni la facciata disegnata da Marvuglia fu innalzata davanti agli edifici a
fianco della chiesa. L'intera pavimentazione della piazza fu rifatta eliminando
l'asfalto e rimpiazzandolo con ciottoli e lastre". Gran parte delle
riprese ambientate all'interno della residenza furono girate a Palazzo Chigidi
Ariccia. Infine, varie scene sono state girate internamente ad alcune sale del
palazzo Manganelli a Catania. Gli interni di Palazzo
Valguarnera-Gangi Il balloModifica Ottimo era invece lo stato di manutenzione
di palazzo Valguarnera-Gangi, a Palermo, in cui fu ambientato il ballo finale,
la cui coreografia venne affidata ad Alberto Testa. In questo caso, il problema
da affrontare era l'arredamento degli ampi spazi interni. Contribuirono
generosamente all'opera gli Hercolani e lo stesso Gioacchino Lanza Tomasi con
mobili, arazzi, suppellettili. Alcuni quadri (la stessa Morte del giusto) e
altre opere artigianali furono commissionate dalla produzione. Il risultato
finale valse uno scontato Nastro d'argento alla migliore scenografia. Un
altro Nastro d'argento andò alla fotografia a colori di Rotunno (che lo aveva
vinto anche l'anno precedente con Cronaca familiare). Degna di note, in
particolare, l'illuminazione dei locali cui, per volontà del regista che voleva
ridurre al minimo l'uso delle luci elettriche, contribuivano migliaia di
candele, che costituirono un ulteriore problema logistico, poiché dovevano
essere riaccese all'inizio di ogni sessione di riprese e frequentemente
sostituite; inoltre non di rado la cera fusa colava addosso alle persone
presenti in scena. La preparazione del set, la necessità di vestire centinaia
di comparse richiesero per queste scene turni estenuanti. La scena del ballo
(oltre 44 minuti) a Palazzo Gangi-Valguarnera è diventata famosa per la sua
durata e opulenza. Distribuzione Modifica Ulteriori informazioni Questa
voce o sezione ha problemi di struttura e di organizzazione delle informazioni.
Accoglienza Il film registra un ottimo successo al botteghino in Italia,
risultando campione d'incassi assoluto nella stagione con un ricavato di
2.323.000.000 di lire dell'epoca; detiene a oggi il nono posto nella classifica
dei film italiani più visti di sempre con 12 850 375 spettatori paganti. Tuttavia
il mancato successo negli Stati Uniti non permise alla pellicola di rientrare
nelle ingenti spese di produzione, decretando il fallimento finanziario della
Titanus. Al momento della sua uscita nelle sale, la maggior parte della
critica americana stroncò il film, complice soprattutto uno sciagurato
montaggio che venne realizzato senza il consenso del regista, con un taglio di
quasi mezz'ora di pellicola dall'edizione definitiva. Lo stesso Lancaster
s'impegnò, con scarso esito, nel montaggio della versione americana,
illudendosi di poter salvare quello che considerava, a ragione, un capolavoro. Il
film è osteggiato anche dal Partito Comunista Italiano (al quale era legato
Visconti) che non vede di buon occhio il romanzo di Lampedusa, ritenuto
espressione di un'ideologia reazionaria e politicamente conservatore. Per
questo motivo il regista monta una versione alternativa per la critica
cinematografica della sinistra di area comunista, che include alcune scene del
tutto estranee al romanzo originale ma molto conformi alla sua salda fede
marxista, come conflitti di classe e fermenti di rivolta contadina, poi tagliate
nella versione definitiva presentata al Festival di Cannes. Questo non basta a
risparmiare le critiche di alcuni intellettuali di sinistra che bollarono il
film di anti-storicismo. Con il passare degli anni, il film è stato rivalutato
in maniera positiva dalla critica di tutto il mondo. Sul sito aggregatore
Rotten Tomatoes registra il 98% delle recensioni professionali positive, con un
consenso che recita, "sontuoso e malinconico, Il gattopardopresenta
battaglie epiche, ricchi costumi e un valzer da ballo che si candida per la più
bella sequenza trasposta in cinema". Su Metacritic ha invece un punteggio
di 100 basato su 12 recensioni. Scorsese lo ha inserito nella lista dei suoi
dodici film preferiti di tutti i tempi. Il film è stato inoltre selezionato tra
i 100 film italiani da salvare. Riconoscimenti Festival di Cannes 1963
Palma d'oro a Visconti David di Donatello 1963 Miglior produttore a Goffredo
Lombardo Premio Feltrinelli 1963 Premio per le arti - Regia cinematografica
National Board of Review Awards Migliori film stranieri Golden Globe Candidato
per il Miglior attore debuttante ad Alain Delon Premi Oscar Candidato per i
Migliori costumi a Piero Tosi Nastri d'argento 1964 Migliore fotografia a
coloria Giuseppe Rotunno Migliore scenografia a Mario Garbuglia Migliori
costumi a Piero Tosi Candidato Regista del miglior film a Luchino Visconti
Candidato Migliore sceneggiatura a Suso Cecchi D'Amico, Luchino Visconti,
Massimo Franciosa, Pasquale Festa Campanile ed Enrico Medioli Candidato per la Migliore
attrice non protagonistaa Rina Morelli Candidato per il Migliore attore non
protagonistaa Romolo Valli CommentoModifica Il Gattopardo rappresenta nel
percorso artistico di Luchino Visconti un cruciale momento di svolta in cui
l'impegno nel dibattito politico-sociale del militante comunista si attenua in
un ripiegamento nostalgico dell'aristocratico milanese, in una ricerca del
mondo perduto, che caratterizzerà i successivi film di ambientazione
storica. Palazzo Filangeri di Cutò, a Santa Margherita di Belìce
dimora estiva di Giuseppe Tomasi di Lampedusa descritta, col suo giardino, nel
romanzo. Il regista stesso, a proposito del film, indicò come propria
aspirazione il raggiungimento di una sintesi tra il Mastro-don Gesualdo di
Giovanni Verga e la Recherche di Marcel Proust. Sotto il profilo della critica,
è stato notato che «Visconti traduce le pagine di Lampedusa in termini
puramente cinematografici, sia a livello drammaturgico (larghe ellissi,
sintesi, analogie temporali e tre flashback dedicati al principe), sia come
regia: l’uso del tempo antinaturalistico, la pausa, il silenzio, la
reiterazione, l’alternarsi di totali e scene più raccolte, di protagonisti e
comprimari, la funzione narrativa del paesaggio, la disposizione dei corpi e
degli oggetti, la scenografia. La rivoluzione mancata Il principe di
Salina Fabrizio Corbera interpretato da Burt Lancaster. La pubblicazione del
romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa aveva aperto all'interno della sinistra
italiana un dibattito sul Risorgimento come rivoluzione senza rivoluzione, a
partire dalla definizione utilizzata da GRAMSCI (si veda) nei suoi Quaderni del
carcere. A chi accusa il romanzo di aver vituperato il Risorgimento si oppone
un gruppo d’intellettuali che ne apprezza la lucidità nell'analizzarne la
natura di contratto, all'insegna dell'immobilismo, tra vecchia aristocrazia ed
emergente classe borghese. Visconti, che affronta la questione risorgimentale
in Senso e che era stato profondamente colpito dalla lettura del romanzo, non
esita ad accettare la possibilità di intervenire nel dibattito offertagli da
Lombardo, che si era assicurato, per la Titanus, i diritti cinematografici del romanzo.
Nel film, la narrazione di questi eventi è affidata allo sguardo soggettivo di
CORBERA, Principe di Salina, sulla cui persona vengono raccordati "come in
un inedito allineamento planetario, i tre sguardi sul mondo in trapasso: del
personaggio, dell'opera letteraria, del testo filmico che la visualizza. Lo
sguardo di Visconti viene a coincidere con quello di Lancaster, per il quale
questa esperienza di doppio del regista varrà una profonda trasformazione
interiore, anche sul piano personale. È qui che si può cogliere la cesura
rispetto alla precedente produzione del regista: gli inizi di un periodo in cui
nella sua opera nessuna forza positiva della storia...si profila come
alternativa all'epos della decadenza cantato con struggente nostalgia. È
determinante nell'esprimere questo passaggio, il ballo finale, cui Visconti
assegna, rispetto al romanzo, un ruolo più importante sia per la durata -- da
solo occupa circa un terzo del film -- sia per la collocazione (ponendolo come
evento conclusivo, mentre il romanzo si spingeva ben oltre, sino a comprendere
la morte del principe e gli ultimi anni di Concetta dopo la svolta del secolo.
In queste scene tutto parla di morte. La morte fisica, in particolare nel lungo
e assorto indugiare del principe dinanzi al dipinto La morte del giusto di
Greuze. Ma soprattutto la morte di una classe sociale, di un mondo di LEONI E
GATTOPARDI, sostituiti da SCIACALLI EDIENE. I sontuosi ambienti, vestigia di un
glorioso passato, in cui ha luogo il ricevimento, assistono impotenti
all'irruzione e alla conquista di una folla di personaggi mediocri, avidi,
meschini. Così il vanesio e millantatore colonnello Pallavicini (Ivo Garrani).
Così lo scaltro don Calogero Sedara (Stoppa), rappresentante di una nuova
borghesia affaristica, abile nello sfruttare a proprio vantaggio l'incertezza
dei tempi, e con cui la famiglia del principe si è dovuta imparentare per
portare una nuova linfa economica nelle sue esauste casse. Ma è
soprattutto nel nuovo cinismo e nella spregiudicatezza dell'adorato nipote
Tancredi, che dopo aver combattuto coi garibaldini non esita, dopo Aspromonte,
a schierarsi coi nuovi vincitori e ad approvare la fucilazione dei disertori,
che il principe assiste alla fine degli ideali morali ed estetici del suo
mondo. Awards, su festival-cannes.fr. Il Gattopardo di Giannini che non vide
mai la luce, in la Repubblica, Il cinema coraggioso dell'ultimo Gattopardo, su
osservatoreromano. Boschi, La valigia dei sogni, LA7, Caterina D'Amico, La
bottega de "Il Gattopardo", Marsilio.Edizioni di Bianco e Nero,
Ancora a distanza di anni, Lombardo attribuisce la crisi al costo eccessivo di
due film i quali, nonostante il successo di pubblico, non sono riusciti a
coprire il costo di produzione: Sodoma e Gomorra di Aldrich e Il Gattopardo di Visconti".
Callisto Cosulich, L'"operazione Titanus", in "Storia del cinema
italiano", Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, Caterina D'Amico, op.cit.
^ All'epoca il premio veniva aggiudicato separatamente per la fotografia a
colori e quella in bianco/nero ^ "...i costumi approntati (oltre agli otto
per gli attori principali) furono 393: gli abiti femminili erano tutti diversi
tra di loro e per almeno cento di questi si prevedevano cappotti e sorties
varie". Ibid. ^ "La vestizione iniziava alle due del pomeriggio, alle
otto di sera cominciavano le riprese, che duravano fino alle quattro del mattino,
talora alle sei". Ibid ^ Stagione 1962-63: i 100 film di maggior incasso,
su hitparadeitalia.it. I 50 film più visti al cinema in Italia dal 1950 ad
oggi, su movieplayer.it Quando gli Usa bocciarono 'Il Gattopardo' di Visconti,
in la Repubblica, Tony Thomas, Burt Lancaster, Milano Libri E il Pci cercò di
levare gli artigli al «Gattopardo», in il Giornale, Torna in sala «Il
Gattopardo» con i 12 minuti mai visti tra rivolte e conflitti di classe, in
Corriere della Sera, Visconti e il Pci quel tira e molla sul Gattopardo, in La
Stampa, Il Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Fandango Media,Il Gattopardo, su
Metacritic, Red Ventures. Scorsese’s 12 favorite films, su miramax. Rete degli
Spettatori ^ Luchino Visconti, Il Gattopardo, Bologna 1963, p.29 ^ Piero Spila,
Quell'Ossessione che piacque anche a Togliatti, in "Bianco e
nero" Antonello Trombadori (a cura
di), Dialogo con Visconti, Cappelli, Bologna, Giusti, La transizione di
Visconti, Marsilio, Edizioni di Bianco e Nero, Gosetti, Il Gattopardo, Milano,
Luciano De Giusti, op.cit. ^ Così nel film, il principe di Salina a Chevalley
Bencivenni, Luchino Visconti, Ed. L'Unità/Il Castoro, Milano, Antonio La Torre
Giordano, Luci sulla città - Palermo nel cinema dalle origini ASCinema -
Archivio Siciliano del Cinema, prologo di Goffredo Fofi, prefazione di Nino
Genovese, Caltanissetta, Edizioni Lussografica,
Suso Cecchi D'Amico, Renzo Renzi, Il Gattopardo di Visconti, collana Dal
soggetto al film, Cappelli editore, Bologna (Alberto Anile, Maria Gabriella
Giannice, Operazione Gattopardo: come Visconti trasformò un romanzo di
"destra" in un successo di "sinistra", Le Mani editore,
Genova. Il Gattopardo, su CineDataBase, Rivista del cinematografo. Modifica su
Wikidata Il Gattopardo, su MYmovies.it, Mo-Net Srl. Modifica su Wikidata Il
Gattopardo, su ANICA, Archivio del cinema italiano Il Gattopardo, su Internet
Movie Database, IMDb.com. Il Gattopardo, su AllMovie, All Media Network Il
Gattopardo, su Rotten Tomatoes, Flixster Inc. Il Gattopardo, su FilmAffinity.
Il Gattopardo, su Metacritic, Red Ventures. Il Gattopardo, su TV.com, Red
Ventures Il Gattopardo, su AFI Catalog of Feature Films, American Film
Institute. Portale Cinema Portale Risorgimento Tancredi Falconeri
Il Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa Principe
Fabrizio SalinaGiuseppe Tomasi di Lampedusa scrittore italiano Lingua Segui
Giuseppe Tomasi di Lampedusa Tomasi di Lampedusa.jpg Giuseppe Tomasi di
Lampedusa in una fotografia d'epoca Principe di Lampedusa Stemma In carica Altri
titoli Duca di Palma Barone della Torretta Barone di Montechiaro Grande di
Spagna Nascita Palermo, Morte Roma SepolturaCimitero dei Cappuccini, Palermo
DinastiaTomasi di Lampedusa Padre Giulio Maria Tomasi Madre Beatrice
Mastrogiovanni Tasca di Cutò Consorte Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee
Religione Cattolicesimo. Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che
tutto cambi. -- Tancredi Falconeri, nipote materno di Don Fabrizio CORBERA,
Principe di Salina, Duca di Querceta, Marchese di Donnafugata, ne "Il
Gattopardo") Premio Strega Giuseppe Tomasi di Lampedusa (Palermo –
Roma) è stato un nobile e scrittore italiano. Letterato di complessa
personalità e autore del noto romanzo Il Gattopardo, è un personaggio taciturno
e solitario e trascorse gran parte del suo tempo nella lettura. Ricordando la
propria infanzia scrisse: ero un ragazzo cui piaceva la solitudine, cui piaceva
di più stare con le cose che con le persone. BiografiaModifica
InfanziaModifica Don Giuseppe Tomasi, 11º principe di Lampedusa, 12º duca di
Palma, barone di Montechiaro, barone della Torretta, Grande di Spagna di prima
Classe (titoli acquisiti alla morte del padre), nacque a Palermo, figlio di
Giulio Maria Tomasi e di Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutò. Rimase figlio
unico dopo la morte della sorella maggiore Stefania, avvenuta a causa di una
difterite. Fu molto legato alla madre, donna dalla forte personalità, che ebbe
grande influenza sul futuro scrittore. Non lo stesso avvenne col padre,
un uomo dal carattere freddo e distaccato. Da bambino studiò nella sua grande
casa a Palermo con l'ausilio di una maestra privata, della madre (che gli
insegnò il francese) e della nonna, che gli leggeva i romanzi di Emilio
Salgari. Nel piccolo teatro della residenza di Santa Margherita Belice, ereditata
dai Cutò e molto amata da sua madre, dove passava lunghi periodi di vacanza,
talora anche in inverno, assistette per la prima volta a una rappresentazione
dell'Amleto, recitato da una compagnia di girovaghi. Il casato dei Tomasi
di Lampedusa è una diramazione della famiglia Tomasi da cui discendono anche i
Leopardi di Recanati e che la tradizione indica di origini bizantine.
Caratterizzata da grande fervore religioso, non condiviso dallo scrittore, la
famiglia vanta nell'albero genealogico un santo, san Giuseppe Maria Tomasi, e
una venerabile, Isabella Tomasi. In epoca recente lo zio Pietro Tomasi della
Torretta fu Ministro degli esteri e presidente del Senato. Sotto le armi
a Caporetto, Tomasi di Lampedusa FREQUENTA IL LICEO CLASSICO A ROMA e in
seguito a Palermo. Sempre a Roma, s'iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza. Viene
chiamato alle armi, partecipa alla guerra come ufficiale d'artiglieria e nella
disfatta di Caporetto è catturato dagl’austriaci, che lo imprigionarono in
Ungheria. Riuscito a fuggire, torna a piedi in Italia. Dopo le sue
dimissioni dal Regio Esercito con il grado di tenente, ritorna nella sua casa
in Sicilia, alternando al riposo qualche viaggio, sempre in compagnia della
madre, che non lo abbandona mai, e svolgendo studi sulle letterature straniere.
Insieme al cugino Piccolo, si reca a Genova, dove si trattenne collaborando
alla rivista letteraria Le opere e i giorni. Il matrimonio con Licy von
Wolff-Stomersee, A Riga sposa in una chiesa ortodossa la studiosa di
psicanalisi Alexandra, baronessa von Wolff-Stomersee, detta Licy, figlia del
barone tedesco del Baltico Boris von Wolff-Stomersee e della cantante italiana
Alice Barbi, la quale aveva sposato in seconde nozze il diplomatico Tomasi,
marchese della Torretta, zio di Giuseppe. Andano a vivere con la madre di lui a
Palermo. Ben presto l'incompatibilità di carattere tra le due donne fa tornare
Licy in Lettonia. Muore Giulio Tomasi, e così Giuseppe eredita il titolo. Venne
richiamato alle armi, ma, essendo a capo dell'azienda agricola ereditata, è
presto congedato. Si rifugia così con la madre a Villa Piccolo (Capo
d'Orlando), dove poi li raggiunse Licy, per sfuggire ai pericoli della guerra. È
nominato presidente provinciale della Croce Rossa Italiana di Palermo e poi
presidente regionale. La madre, che è da poco tornata a Palermo, muore. Inizia
a frequentare un gruppo d’intellettuali, dei quali fanno parte Orlando e
Mazzarino. Con quest'ultimo instaura un buon rapporto affettivo, tanto da
adottarlo. Da quel momento in poi Mazzarino è ribattezzato Tomasi.
L'incontro con Montale e Bellonci
Statua a grandezza naturale dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa
situata in piazza Matteotti a Santa Margherita Belice Tomasi di Lampedusa è spesso
ospite presso il cugino Piccolo, col quale si reca a San Pellegrino Terme per
assistere a un convegno letterario, cui il parente poeta è stato invitato per
ritirare il primo premio di un concorso letterario. Lì conobbe Montale e Bellonci.
Si dice che è al ritorno da quel viaggio che inizia a scrivere Il
Gattopardo. All'inizio il manoscritto del Gattopardo non è preso in
considerazione dalle case editrici Mondadori e Einaudi, alle quali è inviato in
lettura, e i rifiuti riempirono Tomasi di Lampedusa di amarezza. Il manoscritto
è giudicato negativamente da Vittorini, influente lettore per Mondadori e
curatore della celebre collana "I gettoni" per l'editore Einaudi, che
non s'accorse di aver letto un capolavoro della letteratura italiana e
mondiale. Vittorini successivamente rifiuta la pubblicazione de Il dottor
Živago di Pasternak e Il tamburo di latta di Grass. La morte e il
successo postumo Francobollo per il cinquantenario della morte. Gl’è diagnosticato
un tumore ai polmoni. Muore, non prima di aver adottato come erede l'allievo e
lontano cugino Gioacchino Lanza di Assaro. Il romanzo è pubblicato POSTUMO quando
Elena Croce lo invia a Bassani, che lo fa pubblicare presso la casa editrice
Feltrinelli. Il romanzo vince il Premio Strega. Curiosamente, anche Giuseppe
Tomasi di Lampedusa muore lontano da casa come il suo antenato protagonista de
Il Gattopardo, a Roma, nella casa della cognata in via San Martino della
Battaglia n. 2, dove è andato per sottoporsi a particolari cure mediche che si
rivelarono inefficaci. La salma è tumulata nella tomba di famiglia al Cimitero
dei Cappuccini di Palermo. Non avendo eredi, i titoli nobiliari (duca di
Palma, principe di Lampedusa, barone di Montechiaro, barone della Torretta e
Grande di Spagna di prima Classe) andano allo zio paterno Pietro Tomasi della
Torretta, che muore senza lasciare discendenti diretti, ma solo collaterali.
Gli succedette il cugino Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi di Lampedusa,
suo congiunto maschio più prossimo, che eredita con due cugine figlie di Chiara
anche parte dei beni. Ascendenza Genitori Nonni Bisnonni Trisnonni
Giulio, VIII Pr. di Lampedusa Giuseppe Tomasi, III, VII Pr. di Lampedusa
Carolina Wochinger e Greco Giuseppe, IX Pr. di Lampedusa Maria Stella Guccia e
Vetrano Giovan Battista Guccia e Bonomolo VetranoGiulio, X Pr. Lampedusa
Salvatore Papè e Gravina Pietro Papè e BolognaIppolita Gravina MassaStefania
Papè e Vanni Vittoria Vanni e FilangieriFrancesco Vanni e InvegesRosalia
Filangieri Giuseppe, XI Pr. di Lampedusa Lucio Mastrogiovanni Tasca e Nicolosi
Paolo Mastrogiovanni TascaRosa NicolosiLucio Mastrogiovanni Tasca e Lanza
(1842–1892)Beatrice Lanza Branciforte Giuseppe Lanza Branciforte
StefaniaBrancifortee Branciforte Beatrice Mastrogiovanni Tasca e Filangieri
Alessandro IV Filangieri e Pignatelli Niccolò Filangieri Margherita Pignatelli
Aragona Cortes Giovanna Nicoletta Filangieri e Merlo Teresa Merlo Clerici
Francesco MerloGiovanna ClericiFilm biografici Giuseppe Tomasi in età
giovanile, nel 1936 La macchina per scrivere di Tomasi (Museo del
Risorgimento, Santa Margherita Belice) La tomba nel Cimitero dei
Cappuccini (Palermo) La storia dell'ultimo periodo della sua vita e della
stesura de Il Gattopardo è raccontata nel film del di Andò, Il manoscritto del
Principe. Gregoretti gira il documentario La Sicilia del Gattopardo in cui
ricostruisce la vita e i luoghi di ispirazione del romanzo. In occasione della
quattordicesima edizione della Festa del Cinema di Roma è stato proiettato il
Docufilm Die Geburt des Leoparden (La nascita del Gattopardo), regia di
Falorni. Un viaggio alla scoperta della vita dell'ultimo principe di Lampedusa
raccontato dalle voci e dalle testimonianze delle persone care[6].
DedicheModifica Nel 2011 Alitalia gli ha dedicato uno dei suoi Airbus. Gli è
stato dedicato un asteroide, il Lampedusa. A Santa Margherita di Belice è stato
allestito presso il Palazzo del Gattopardo, ex proprietà dei Lampedusa il Museo
del Gattopardo. Nasce a Santa Margherita di Belice il parco letterario Giuseppe
Tomasi di Lampedusa che dà il via al Premio letterario internazionale Giuseppe
Tomasi di Lampedusa. Viene fondata nel comune di Palma di Montechiaro
l'istituzione comunale Giuseppe Tomasi di Lampedusa, con direttore scientifico
Gioacchino Lanza Tomasi. OpereModifica Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, I
ed. novembre 1958; nuova edizione riveduta sul manoscritto a cura di Gioacchino
Lanza Tomasi, Milano, Feltrinelli. Racconti, Prefazione di Giorgio Bassani,
Collana Biblioteca di Letteratura: I Contemporanei n. 26, Milano, Feltrinelli;
edizione riveduta a cura di Nicoletta Polo, prefazione di Gioacchino Lanza
Tomasi, Milano, Feltrinelli; Nuova ed. rivista e accresciuta, Collezione Le
Comete, Feltrinelli; Collana UE, Feltrinelli Lezioni su Stendhal, Palermo,
Sellerio. Invito alle Lettere francesi del Cinquecento, Collana I Fatti e le
Idee, Milano, Feltrinelli, Il mito, la gloria, a cura di Marcello Staglieno,
Roma, Shakespeare et Company, Letteratura inglese, Dalle origini al Settecento;
II: L'Ottocento e il Novecento, a cura di Nicoletta Polo, postfazione di
Gioacchino Lanza Tomasi, Milano, Mondadori. Opere, introduzione e premessa di
Gioacchino Lanza Tomasi, a cura di Nicoletta Polo, Collana I Meridiani, Milano,
Mondadori; Nuova edizione aumentata, Collana I Meridiani, Mondadori, Licy e il
Gattopardo. Lettere d'amore, a cura di Sabino Caronia, Roma, Edizioni
associate, Viaggio in Europa. Epistolario, a cura di Gioacchino Lanza Tomasi e
Salvatore Silvano Nigro, Milano, Mondadori, La sirena, Milano, Feltrinelli [con
cd audio contenente una registrazione a voce dell'autore]. Ah! Mussolini!,
Postfazione di Gioachino Lanza Tomasi, Milano, De Piante I racconti, 5ª ediz.,
Milano Gilmour, L'Ultimo gattopardo ^ Indro Montanelli, La stanza di
Montanelli. Elio Vittorini fascista? Lo eravamo tutti, Corriere della Sera,
Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su premiostrega. Morire, come ogni altra cosa, è
un'arte». Due scomparse indecenti e una morte ambiziosa, su elapsus. Tomasi di
Lampedusa e il Gattopardo, genesi di un capolavoro in DVD, sul sito Luce
Cinecittà, Museo del GATTOPARDO LEOPARDO LEOPARDI, su comune. Santa margherita di
belice. ag.i Anile - Maria Gabriella Giannice, Operazione Gattopardo, Genova,
Le Mani, Manuela Bertone, Tomasi di Lampedusa, Palumbo, Palermo, Bertolucci, Il
Principe dimenticato, Sarzana, Carpena, Salvatore Calleri, La zampata del
Gattopardo. I luoghi dell'anima: solitudine e ricerca interiore in Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, a cura dell'Istituto di Pubblicismo, Scialpi, Roma
(Calleri) Ciccia, Tomasi di Lampedusa in Profili di letterati siciliani dei
secoli XVIII-XX, Centro di Ricerca Economica e Scientifica, Catania, Arnaldo Di
Benedetto, Tomasi di Lampedusa e la letteratura e La «sublime normalità dei
cieli»: considerazioni sulla parte prima del «Gattopardo», in Poesia e critica
del Novecento, Liguori, Napoli, Benedetto, Elementi di onomastica lampedusiana,
in O&L. I nomi da Dante ai contemporanei, a cura di B. Porcelli e B.
Bremer, Baroni, Viareggio, Benedetto, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, «La
Sirena», in L'«incipit» e la tradizione letteraria italiana, vol. IV (Il
Novecento), a cura di P. Guaragnella e S. De Toma, Pensa MultiMedia, Lecce.
Margareta Dumitrescu, Sulla parte del Gattopardo. La fortuna di Lampedusa in
Romania, Giuseppe Maimone Editore, Catania. Franco La Magna, Lo schermo trema.
Letteratura siciliana e cinema, Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria,
Gioacchino Lanza Tomasi, Introduzione a "Opere" di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, Mondadori Editore, Milano, coll. I Meridiani. Salvatore Silvano
Nigro, Il Principe fulvo, Palermo, Sellerio editore, Orlando, Ricordo di
Lampedusa seguito da Da distanze diverse, Torino, Bollati Boringhieri, Basilio
Reale, Sirene siciliane. L'anima esiliata in «Lighea» di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, Moretti et Vitali,. Giuseppe Paolo Samonà, Il Gattopardo. I
racconti. Lampedusa, Firenze, La Nuova Italia, Salvatore Savoia, Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, Ed. Flaccovio, Palermo, Trebesch, Giuseppe Tomasi di
Lampedusa. Leben und Werk des letzten Gattopardo, NORA, Berlin, 2012. Nunzio
Zago, Tomasi di Lampedusa, Bonanno, Acireale-Roma, Price, Lampedusa, a novel, New
York, Farrar, Straus and Giroux, Ferraloro, Giuseppe Tomasi di Lampedusa - Il
Gattopardo raccontato a mia figlia, La nuova frontiera junior, Roma, Il
Gattopardo Tomasi di Lampedusa (famiglia) Tomasi di Lampedusa, Giuseppe, su
Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Arnaldo Bocelli, TOMASI, Giuseppe, duca di Palma, principe di Lampedusa, in
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Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Opere di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su Open Library,
Internet Archive. Modifica su Bibliografia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, su
Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff. Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, su Goodreads. Bibliografia italiana di Giuseppe Tomasi di Lampedusa,
su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giuseppe
Tomasi di Lampedusa, su Internet Movie Database, IMDb Parco letterario Tomasi
di Lampedusa, su parcotomasi.it. Portale Biografie Portale
Letteratura Tomasi musicologo italiano Il GATTOPARDO – IL LEOPARDO e I
LEOPARDI romanzo scritto da Tomasi di Lampedusa Tomasi di Lampedusa
(famiglia) famiglia aristocratica italianaTomasi di Lampedusa (famiglia)
famiglia aristocratica italiana Lingua Segui Modifica Tomasi di Lampedusa Coat
of arms of the Family of Tomasi.svg spes mea in deo est D'azzurro al leopardo
d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde cucito. Stato Bandiera
del Regno di Sicilia 4.svg Regno di Sicilia Flag of the Kingdom of the Two
Sicilies svg Regno delle Due Sicilie Flag of Italy crowned.svg Regno d'Italia
Italia Italia Casata di derivazioneTomasi TitoliCroix pattée.svg Principe di
Lampedusa Croix pattée.svg Duca di Palma Croix pattée.svg Barone di Montechiaro
Croix pattée.svg Barone di Falconeri Croix pattée.svg Barone della Torretta
Croix pattée.svg Grande di Spagna FondatoreMario Tomasi Data di fondazioneXVI
secolo Etniaitaliana I Tomasi di Lampedusa sono una famiglia storica siciliana,
diramatasi dai Tomasi, che deve la propria notorietà in particolare al suo
esponente Giuseppe Tomasi di Lampedusa e al successo editoriale da questi
ottenuto, postumo, con la pubblicazione del romanzo IL GATTOPARDO (LEOPARDO E
LEOPARDI). Stemma dei Tomasi di Lampedusa StoriaModifica Origini: studi e
leggende Il castello di Palma di Montechiaro Le prime notizie storiche
sui Tomasi risalgono al VII secolo, mentre, per quanto concerne i secoli
precedenti, sono state prospettate ipotesi diverse. Secondo la tradizione è
originaria di Bisanzio. Alcuni studiosi (Sansovino, Villabianca, Palizzolo
Gravina) sostengono che LA FAMIGLIA DE’LEOPARDI DA ROMA SI TRASFERE A
COSTANTINOPOLI AL SEGUITO DELL’IMPERATORE COSTANTINO. Filadelfo Mugnos afferma
che la famiglia discende da Leopardo, figlio di CRISPO, PRIMOGENITO dell'imperatore
Costantino. Archibald Colquhoun ritiene che il capostipite dei Tomasi è Thomaso
il Leopardo, figlio dell'imperatore TITO (si veda) e della regina Berenice. Vitello,
autore che ha approfondito gli studi sulla famiglia, fa discendere i Tomasi da
Irene, figlia dell'imperatore bizantino TIBERIO (si veda), che sposa Thomaso
detto il Leopardo, principe dell'Impero e comandante della guardia imperiale. Come
segnala Buonassisi, è condivisa l'opinione che individua in due fratelli
gemelli, Artemio e Giustino, gli artefici del ritorno in Italia dei
Leopardi-Tomasi. La discendenza dai due gemelli, approdati ad Ancona e
provenienti da Bisanzio, è stata confermata da Vitello, studioso della
genealogia della famiglia Tomasi di Lampedusa, e ribadita da quanti, dopo la
pubblicazione degli scritti di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, si sono
interessati alla sua ascendenza. TEMENDO PER LA LORA VITA a causa delle lotte
al vertice dell'Impero, LASCIANO COSTANTINOPOLI dopo la morte dell'imperatore
Eracleo, stabilendosi ad Ancona. Dal ramo rimasto nelle Marche discenderebbero
i Leopardi nei rami di Recanati, come pure sostene Monaldo padre di Giacomo LEOPARDI
(si veda), e di Amatrice, da cui discende la schiatta, tuttora esistente anche
in linea femminile [ de Sanctis di Castelbasso e Rosati di Monteprandone de
Filippis Delfico] di Pier Silvestro Leopardi. Titoli nobiliari In Sicilia
non vige la legge salica ed i titoli nobiliari si trasmettevano anche in linea
femminile. In forza delle norme dettate nel Liber Augustalis (III, 27 “de la
successione de li nobili in li feudi") e nei capitula "de successione
feudalium", "de alienatione feudorum","de successione
feudorum"[9] e della prammatica 14 novembre 1788 i titoli venivano
trasmessi al collaterale maschio vivente più prossimo e più anziano e, in
mancanza di maschi, alla femmina più prossima privilegiando le nubili. Il primo
titolo nobiliare dei Tomasi di Sicilia, la baronia di Montechiaro, fu acquisito
per via materna come, in epoche successive, anche le baronie di Franconeri e
della Torretta. LetteraturaModifica Il casato dei Tomasi di Lampedusa,
ramo staccatosi dai Tomasi di Capua, trasferitosi da Siena nel Regno di Napoli
al seguito di Alfonso V d'Aragona è stato immortalato nel romanzo Il Gattopardo
scritto dal principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il successo dell'opera
ha determinato il diffondersi di due neologismi: il sostantivo
"gattopardismo" e l'aggettivo "gattopardesco.” Stemma L'arma dei
Tomasi (Palazzo ducale, Palma di Montechiaro) BlasonaturaModifica D'azzurro al
leopardo d'oro, illeonito, sostenuto da un monte di tre cime di verde
cucito.[12] MottoModifica spes mea in deo est GenealogiaModifica
Baroni di Montechiaro e duchi di PalmaModifica Il capostipite dei Tomasi
siciliani, Mario, capitano d'armi, si trasferì dalla Campania in Sicilia, a
Licata[13], dove sposò Francesca Caro baronessa di Montechiaro. Mario Tomasi e
Francesca Caro ebbero due gemelli, Ferdinando e Mario, governatore del Castello
di Licata e capitano dell'Inquisizione. Ferdinando (1597-1615), barone di
Montechiaro[14], appena sedicenne sposò Isabella La Restia; i coniugi ebbero
due gemelli, Carlo e Giulio, rimasti orfani del padre a nove mesi; quando i gemelli
avevano diciassette anni morì anche la madre e lo zio Mario li chiamò presso di
sé a Licata dove restarono circa sei anni. Carlo venne nominato duca di
Palma (il duca è l'artefice della fondazione del paese oggi denominato Palma di
Montechiaro) ma cede baronia e ducato al fratello e prese gli ordini diventando
uno dei chierici regolari teatini studioso di teologia. Scrisse numerose opere
in latino e italiano, cinquantuno delle quali pubblicate. Dopo la sua morte,
essendogli stati attribuiti diversi miracoli, venne avviato un processo di
beatificazione e fu proclamato Servo di Dio. La famiglia annovera anche tre
cardinali nel periodo bizantino (Fabio, durante il papato di Gregorio III,
Vibiano durante quello di Alessandro II e Pietro durante il Patriarcato di
Gerusalemme di Sergio III). Duca SantoModifica La venerabile Maria
Crocifissa (Isabella Tomasi), Giulio I, duca di Palma e barone di Montechiaro
venne nominato principe di Lampedusa, sposò Rosalia Traina, baronessa di
Falconeri, dalla quale ebbe otto figli: Francesca, suor Maria Serafica,
badessa del monastero di Palma; Isabella, suor Maria Crocifissa, beata (nel
romanzo è ricordata come "Beata Corbera"); Ferdinando, che morì a tre
mesi; Antonia, suor Maria Maddalena; Giuseppe I, cioè San Giuseppe Maria
Tomasi; Rosaria; Ferdinando; Alipia, suor Maria Lanceata. I coniugi impartirono
ai figli una rigida educazione religiosa; tutti, fatta eccezione per
Ferdinando, si indirizzarono alla carriera ecclesiastica. Tale fervore
religioso si perpetuò anche nei secoli successivi, tanto che i Tomasi
rischiarono spesso l'estinzione. Isabella, che visse come Suor Maria
Crocifissa, entrò nel monastero, per lei e le sorelle fondato dal padre, il
giorno dell'inaugurazione e con lei entrarono Francesca e Antonia: Isabella
aveva quattordici anni, Francesca quindici ed Antonia undici. Anche la madre
Rosalia entrò in convento di clausura come oblata insieme alla figlia
diciottenne Alipia (l'unica che avendo solo sei anni quando vi entrarono le
sorelle non le aveva seguite); fu costretta, per amministrare i vassalli, ad
uscire dalla clausura quando il nipote Giulio II restò orfano. Giulio I
dedicò l'intera sua vita alla beneficenza e ad opere pie con tale assiduità ed
impegno da essere definito il Duca Santo; costruì numerose chiese, un asilo per
le orfanelle, un ospedale, un reclusorio per meretrici pentite, istituì un
Monte di Pietà per contrastare gli usurai, avviò bonifiche e si dedicò a
numerose opere sociali ed umanitarie. Il terzo principe di Lampedusa fu Ferdinando
I, al quale spettarono i titoli nobiliari del padre, in quanto prima di lui
erano nati solo due maschi, Ferdinando morto a tre mesi e Giuseppe I che,
rinunciando ai suoi diritti dinastici, si era indirizzato alla carriera
ecclesiastica. Tutte e quattro le figlie vollero entrare come suore di clausura
nel Monastero Benedettino. Il fervore religioso di Giulio I e dei suoi
congiunti era tale che a Palma l'intera famiglia era nota come "una razza
di Santi"; è ancora conosciuta a Palma una deliziosa nenia "Il testamento
del Duca di Palma. Come il fratello Carlo alla sua morte Giulio I venne
proclamato Servo di Dio. l Principi di Lampedusa, duchi di Palma, baroni
di Montechiaro e FalconeriModifica Ferdinando I morì a soli ventun anni, l'anno
successivo alla nascita del figlio Giulio II, nato dal matrimonio con
Melchiorra Naselli e Carlo. Anche Giulio II, morì giovane, a ventisette anni;
dalla moglie Anna Maria Fiorito e Tagliavia, ebbe due figli maschi Antonino
morto in tenera età e Ferdinando II, che visse quasi ottant'anni, sposò Rosalia
Valguarnera e Branciforte e, rimasto vedovo, Giovanna Valguarnera e La Grua.
Giulio II restò sino all'età di sette anni nel monastero che ospitava la nonna
Rosalia (suor Seppellita) e le zie; compiuti i sette anni assunse l'onere della
sua educazione il nonno materno Luigi, principe d'Aragona. Nonostante sia morto
giovane riuscì a fondare l'Istituto delle Scuole Pie, affidato ai Padri
Scolopi. Fu allievo dell'Istituto, la cui sede è oggi occupata dal comune di
Palermo. Ferdinando II ebbe dieci figli, otto maschi e due femmine, Maria,
suor Maria Crocifissa monaca del monastero di Palma e ANNA MARIA che sposò
Antonio Lucchesi Palli, principe di Campofranco. I figli maschi fatta eccezione
per il primogenito Giuseppe II e per Gaetano morto in tenerissima età, si
diedero alla carriera ecclesiastica o a quella militare: Giulio, Abate di Santa
Maria di Roccamadore e Prelato domestico di Clemente XIV, Salvatore prete
dell'Olivella, Carlo, gentiluomo di camera del duca di Savoia e capitano
dell'esercito sardo, Gioacchino esente guardie del corpo, Elia, capitano di
artiglieria, Pietro, cavaliere di Malta. Ferdinando II potenziò il patrimonio
della famiglia e la istituzione dell'Accademia dei Pescatori Oretei con
finalità letterarie, il terzo seminario dei Nobili retto dai padri Scolopi, e
l'assunzione di rilevanti ruoli politici. Fu nominato da Carlo VI grande di
Spagna, fu presidente dell'arciconfraternita della Redenzione dei Cattivi,
capitano di Giustizia di Palermo, pretore di Palermo, deputato del Regno,
Vicario generale del Regno, maestro razionale di cappa corta del Regio
Patrimonio. Giuseppe II sposò Antonia Roano e Pollastra dalla quale ebbe tre
figli Francesco morto in tenera età, Rosalia, moglie di Gioacchino Burgio del
Vio, Duca di Villafiorita e Giulio III. Giuseppe II, cavaliere di Malta, fu
governatore della Compagnia della Pace, ambasciatore del Senato di Palermo
presso Carlo III, governatore del Monte di Pietà, capitano di Giustizia di
Palermo, deputato del Regno, presidente dell'Arciconfraternita per la
Redenzione dei Cattivi, Intendente Generale degli eserciti. Il figlio
Giulio III sposò Maria Caterina Romano Colonna figlia del duca di Reitano, con
la quale ebbe tre figli Baldassarre cavaliere di Malta, Antonia moglie di
Francesco Arduino Ruffo marchese di Roccalumera e Giuseppe III. Giulio III è
governatore della Pace, senatore di Palermo, rettore dell'Ospedale Grande,
deputato del Regno, pretore di Palermo, governatore del Monte di Pietà,
cavaliere di San Giacomo. Giuseppe III si sposa due volte. La prima
moglie, Angela Filangeri e la Farina figlia del principe di Cutò muore di parto
insieme al nascituro. Dalla seconda moglie Carolina WOCHINGHER ha due femmine
Caterina che sposa Giuseppe Valguarnera e Ruffo, principe di Niscemi e duca
dell'Arenella e Antonia che sposò Francesco Caravita principe di Sirignano. L’UNICO
MASCHIO, Giulio IV CORBERA, è il protagonista del romanzo IL GATTOPARDO.
Giuseppe III dovette affrontare una situazione disastrosa sotto il profilo
economico. La moglie Carolina, rimasta vedova, è costretta ad affrontare
numerose vertenze giudiziarie e a varare un progetto di contenimento delle
spese. IL GATTOPARDO e i suoi discendentiModifica Giulio Fabrizio Maria
Tomasi Caro Traina IV, pari di Sicilia, principe di Lampedusa, duca di Palma,
barone di Montechiaro e Falconeri, sposò Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia
del marchese di Ganzaria e zia del matematico Giovanni Battista Guccia,
fondatore del Circolo Matematico di Palermo. Diedero alla luce dodici figli,
sette femmine e cinque maschi. È il principe di Salina, protagonista del
romanzo del bisnipote. Giuseppe Tomasi di Lampedusa Salvatore,
decimo figlio, morì giovane, come la sesta, Caterina e la dodicesima, Maria
Rosa. Linea maschile Giuseppe, primogenito del GATTOPARDO, sposa Stefania
Papè e Vanni, dalla quale ebbe cinque figli maschi: Giulio, Pietro, Francesco,
Ferdinando e Giovanni. Francesco ebbe un figlio, Giuseppe, morto ventenne. Si
sposarono, ma non ebbero figli, Pietro, Ferdinando e Giovanni, mentre il
primogenito Giulio V ebbe, oltre all'autore del romanzo, una femmina,
Stefania. Giuseppe, lo scrittore, principe, duca e barone, sposò
Alexandra Wolff Stomersee, figlia di un nobile baltico e dell'italiana Alice
Barbi, che in seconde nozze aveva sposato Pietro Tomasi della Torretta, zio di
Giuseppe. Alla morte dell'autore del romanzo, lo zio Pietro, il parente maschio
più prossimo, eredita i titoli di principe di Lampedusa, duca di Palma e barone
di Montechiaro e Falconeri. Come secondogenito è già barone della Torretta,
conosciuto però come marchese (di cortesia secondo gli autori), titolo che usa
ufficialmente nella carriera diplomatica. Pietro è Ministro degli Esteri,
Senatore del Regno, ultimo presidente del Senato del Regno e presidente del
primo Senato della repubblica. Con Pietro Tomasi Della Torretta si estinse la
linea maschile. Linea femminile Pietro muore a Roma, nominando
eredi di quanto possede a Ginevra le figlie della defunta moglie, una delle
quali, Alexandra Wolff Stomersee, sposa Giuseppe, il nipote scrittore. I suoi
beni residui, tra i quali un lussuoso appartamento a Roma, andarono agli eredi
legittimi, suoi cugini di primo grado: Garofalo, figlio di Maria Antonia Tomasi
di Lampedusa, che sposa Garofalo, e le sorelle Giovanna e Maria Carolina
Crescimanno, figlie di Chiara Tomasi di Lampedusa, che aveva sposato Francesco
Paolo Crescimanno di Capodarso. Fra i diversi discendenti in linea
femminile rimasti in Sicilia, vi era Isabella Crescimanno di Capodarso, la
quale scrisse Memorie, libro in cui venivano raccontati aneddoti della
famiglia. Rimangono il fratello Cesare Crescimanno e i figli di lui Mario e
Maria Laura, entrambi con figli ed altri discendenti. Il secondogenito di
Giulio Fabrizio Tomasi e di Maria Stella Guccia, Giovanni, barone di
Montechiaro, (Palermo - Baden Baden) sposò la cugina prima Carolina Guccia, Il
figlio Giuseppe sposò Rosa Agliata;
portava il titolo di conte di Celona ed aveva un grande biglietto da visita in
cui dichiarava di essere il solo ed unico cugino in secondo grado di Pietro
Tomasi della Torretta, senatore del Regno. Dal matrimonio nacquero quattro
figli, due maschi e due femmine. Tre non ebbero discendenti; soltanto Carolina
ebbe un figlio dal marito Giuseppe Lo Piccolo (Palermo 1947). Carolina era
vivente quando Pietro Tomasi della Torretta morì, Era la parente più prossima
in via femminile, poiché suo padre Giovanni era il secondogenito di Giulio
Fabrizio. Da questo matrimonio fra Maria Giovanni Tomasi e Guccia e la cugina Carolina
Guccia nacquero una figlia Maria Stella e un maschio Giuseppe che sposo Rosa
Agliata ed ebbe due figli maschi e due femmine. Erano molto poveri ed i maschi
morirono di tisi lavorando nelle miniere di Montegrande, una figlia era monaca
e sua sorella Carolina Guccia e Marasà sposò l'avv. Giuseppe Lo Piccolo. Quando
Pietro Tomasi della Torretta muore questo divenne il parente più prossimo in
linea femminile. Ha fatto cognonomizzare Tomasi ed ha invertito il cognome in
Tomasi Lo Piccolo. È seguito dai discendenti di Antonia Tomasi e Guccia la
figlia più anziana di Giulio Fabrizio, che andò sposa a Garofalo. I discendenti
per via femminile di questo matrimonio sono i Di Rella Tomasi di Lampedusa.
Anche loro hanno fatto cognonomizzare il cognome Tomasi di Lampedusa e sono
discendenti di Garofalo, l'unico cugino maschio di primo grado vivente alla
morte di Pietro Tomasi della Torretta. Nessuno dei discendenti viventi
avrebbe comunque avuto diritto - anche se la repubblica non avesse abolito i
titoli nobiliari - al riconoscimento dei titoli in capo a Pietro (principe di
Lampedusa, duca di Palma e barone della Torretta), poiché, dopo l'Unità
d'Italia ed il riconoscimento negli anni venti dei titoli borbonici, poiché ad
essi era stata estesa la legge salica, che escludeva le donne dalle linee
dinastiche. Secondo il diritto borbonico, invece, come si evince
dall'esame dei Capitula Regni Siciliae, il capo della dinastia sarebbe
diventato Giuseppe Lo Piccolo Tomasi, il parente maschio più prossimo in linea
femminile. Quando Giuseppe Garofalo morì, era vivente il figlio della sua unica
figlia Maria, coniugata Di Rella, quindi Aurelio Di Rella Tomasi ed i suo
successori sarebbero i successori secondo il diritto borbonico. In verità sono
preceduti da Giuseppe Lo Piccolo Tomasi, che non ha discendenti.
Aurelio Di Rella Tomasi di Lampedusa, avvocato, cavaliere dell'Ordine
della Corona d'Italia e componente della Consulta dei Senatori del Regno, ha
tre figli, due dei quali maschi, che si trovano immediatamente dopo di lui
nella linea dinastica femminile. Garofalo ha due sorelle: Marietta, che
rimase nubile, e Giulia, coniugata con Pietro Trombetta, che ebbe cinque figli
(tre maschi e due femmine). Uno dei maschi, Giovanni Trombetta, avvocato, fu
vice comandante militare della Resistenza ai nazisti in Liguria e. in onore
della famiglia materna, assunse il nome di battaglia di "Colonnello
Tomasi". La regolamentazione dei titoli araldici vigente nel Regno
d'Italia. Consulta araldica, Libro d'Oro Con la soppressione degli
ordinamenti feudali, negli Stati dove le distinzioni nobiliari sopravvissero
vennero costituite speciali commissioni consultive per l'esame di questioni
araldiche. Si ebbero così il tribunale araldico in Lombardia, la commissione
araldica a Venezia e Parma, la congregazione araldica capitolina a Roma ecc..
Analogamente a quanto era avvenuto negli stati preunitari, anche nello stato
italiano venne istituito, con il Regio Decreto 313 del 10 ottobre 1869, un
organo collegiale, denominato Consulta araldica. Con il Regio Decreto venne
istituito il LIBRO D’ORO della nobiltà italiana. Questo registro ha man mano
raccolto le concessioni di giustizia o di grazia approvate dalla consulta
araldica. L'estratto del Libro d'oro fac fede del loro riconoscimento da parte
del Regno d'Italia. Le successioni sono regolamentate secondo la legge
vigente nel Regno di Sardegna, ed è quindi ammessa soltanto la SUCCESSIONE PER
VIA MASCHILE secondo le norme della legge salica: maschi primogeniti. La consulta
fu varie volte mutata nella composizione e nelle attribuzioni fino al Regio
Decreto. La consulta esamina tanto le pratiche di giustizia che quelle di
grazia. Le prime sono le successioni che segueno i principi della legge salica,
le seconde quelle successioni che hanno bisogno di una sanatoria concessa con
decreto reale: successioni per via femminile, in favore di membri della
famiglia diversi dai maschi primogeniti. Queste successioni per grazia avevano
il carattere di una rinnovazione. I titoli venivano concessi sul cognome ed
erano soggetti alla legge salica nella ulteriore trasmissione. Vennero di fatto
privilegiate le successioni che sanavano contenziosi all'interno delle grandi
famiglie e assistita la loro sopravvivenza. I criteri erano piuttosto
restrittivi, anche se il Regno d'Italia conservò spesso le regole presenti al
momento della loro concessione, per cui i titoli austriaci erano riconosciuti a
tutti i componenti maschili del casato. Il Libro d'oro stabilisce anche una
imposta di concessione per l'iscrizione ed in assenza di questa vari titoli
rimasero esclusi dall'inclusione per motivi fiscali. Era questo il caso di
famiglie che avevano molti titoli e non corrisposero la tassa per tutti quelli
che potevano rivendicare. Queste situazioni rimasero insanabili, in quanto
Umberto II non ritenne di dover sanare situazioni fiscali in vigore nel Regno
d'Italia. La trasformazione in REPUBBLICA italiana e la successiva costituzione
abolisceno qualsiasi titolo nobiliare. La XIV disposizione transitoria e finale
demanda a una legge ordinaria le modalità di soppressione della consulta
araldica. Per molti anni non sopraggiunse alcun atto al proposito e perciò si
presume che l'organismo persistes formalmente, pur non avendo più titolo né
scopo. Infatti la sentenza della corte costituzionale dichiara ILLEGITTIMA
qualsiasi legislazione araldico-nobiliare italiana. Ancora la consulta sentenzia
che i titoli nobiliari non costituiscono contenuto di un diritto e, più
ampiamente, non conservano alcuna rilevanza. Il D. L. (convertito in legge) e
il Decreto legislativo abrogarono espressamente, rispettivamente, il R. D. e il
R. D., che regolano i titoli nobiliari, e la consulta araldica. Dopo tali atti
abrogativi, dunque, non esiste più alcuna norma giuridica relativa alla consulta
araldica e detta consulta è soppressa a tutti gli effetti. La consulta
araldica dopo la proclamazione della Repubblica La decisione di
abbandonare l'Italia da parte di Umberto II non determina una rinuncia totale
alle sue prerogative. Umberto ritenne di mantenere in vita la fons honorum
spettante a casa Savoia. Umberto II rilascia numerosi titoli nobiliari,
attenendosi alle prassi in essere ai tempi del Regno. Sono sanate molte
vertenze e il LIBRO D’ORO della nobiltà italiana continua ad essere stampato
come documento di una associazione privata. Questa si struttura in associazioni
regionali e in una giunta centrale. Molti titoli sono anche assegnati a vari
sostenitori della monarchia ed alla borghesia imprenditoriale, in particolare
nel settore dell'edilizia. All'interno di questa prassi, Tomasi, avendo
richiesto alla corte di appello di Palermo di adottare il suo cugino in secondo
grado Gioacchino Lanza di Mazzarino e di Assaro, si presentava assieme ai
genitori dell'adottando Fabrizio Lanza di Assaro e Conchita Ramirez di
Villarrutia in tribunale e veniva registrato l'assenso all'adozione. Alla
registrazione del decreto da parte della Corte di Appello, Tomasi di Lampedusa
scrive a Lucifero, Ministro della Real
Casa, del suo desiderio di trasmettere i titoli della famiglia al figlio
adottivo, in assenza di una discendenza maschile. La lettera reca anche
l'adesione e l'appoggio di Tomasi della Torretta. Successivamente Fabrizio
Lanza di Assaro si reca a Villa Italia a Cascais ed Umberto II comunica per
iscritto a Lucifero la sua adesione alla proposta di trasmettere il titolo di
duca di Palma sul cognome all'adottando. I restanti titoli della famiglia
Tomasi, secondo il regolamento araldico del Regno d'Italia, tornano alla
Corona. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber, (anche
centrale/mango online: vanta discendere dalla famiglia dei LEO-PARDI
(GATTO-PARDI) di Costantinopoli che si vuole passata in Ancona sin cambiando il
cognome in quello di Tomasi.Tommasi di Vignano, Notizie storiche e genealogiche
sulla nobile famiglia Tommasi: Tommasi e Tomasi, rami di Siena, di Capua e di
Sicilia V. Palizzolo Gravina segnala quanto segue: sull'origine della famiglia
Tomasi dal Villabianca appoggiato al Sansovino rileviamo essere l'antica de’
LEO-PARDI (GATTO-PARDI) di Roma, è passata con Costantino imperatore in
Costantinopoli, ove è grande e potente sino al tempo di Eracleo imperatore, per
la cui morte ella passa in Italia, fermandosi in Ancona. La si dice Tomasi dal
greco trauma, che vuol dire mirabile, però che si sa i due gemelli Artemio e
Giuliano aver mostrato un ingegno meraviglioso. Tutti gl’altr’autori concordano
nel ritenere che uno dei due gemelli si chiamasse Giustino e non Giuliano
Mugnos, al riguardo precisa: «Tuttavia non lascio di dire che Artemio e Giustino
fratelli gemelli, ovvero nati ambedue da un parto, cavalieri nobilissimi
costantinopoliani dell'antichissima famiglia LEO-PARDI (GATTO-PARDI) originata
da LEO-PARDO (GATTO-BARDO) o da Licino LEO-PARDO (GATTO-PARDO) figlio di Crispo
primogenito dell'imperatore Costantino il grande Colquhoun, A dilemma of
Princes, Go, Vitello, I gattopardi di Donnafugata, Capostipite della gens
Thomasa-LEO-PARDI (GATTO-PARDI) è il generale Thomaso detto il LEO-PARDO
(GATTO-PARDO), principe dell'Impero Bizantino e comandante della guardia
imperiale. É lui a sposare Irene, figlia dell'imperatore TIBERIO (si veda).
Tuttavia Gilmour, biografo inglese dell'Autore del libro, ritiene prive di
prova le tesi di Vitello e fantasiose tutte le ricostruzioni dell'albero
genealogico anteriori al ritorno in Italia della famiglia (Gilmour, L'ultimo
Gattopardo, Feltrinelli, Milano Buonassisi, scrive: Tutti si accordano in dire,
che ella sia greca di origine, e della città di Costantinopoli non essendo però
si chiaro, se ella già di antico è passata in essa al tempo di Costantino, o è
passata di poi. Venne ella primieramente in Ancona in due fratelli Artemio e
Giustino, nati di un parto, e tanto simiglianti nelle fattezze che è una
meraviglia (trauma) il vederli: onde anche si vuole che a cagione di questa
stupenda simiglianza venissero chiamati i tomasii, perché di prima Leopardi
dice si, spiegando l'insegna d’un LEO-PARDO (GATTO-PARDO), scrive Vitello,
Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Sellerio della comune origine era convinto il
padre del poeta che fu in corrispondenza con il padre dell'astronomo; nella
Istoria gentilizia di casa Leopardi di Recanati il conte Monaldo sostenne
appunto la discendenza dei Leopardi dai Thomasi bizantini" ^ . I Capitula
qui citati ed altri relativi al tema della successione dei feudi sono
reperibili nei Capitula Regni Siciliae dei quali è stata pubblicata una
ristampa anastatica dall'editore Rubbettino Gigli, Diario Sanese, Siena Il VI
volume del Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia edito
dall'UTET non riporta le due voci che compaiono invece al supplemento. I due
termini non risultano riportati neppure nell'edizione del Vocabolario
illustrato della lingua italiana, di Devoto-Oli, editrice Selezione dal
Reader's Digest. Entrambi i vocaboli sono invece riportati nel Dizionario
essenziale della lingua italiana di Sabatini-Coletti pubblicato dalla casa
editrice Sansoni Compare solo il termine “gattopardismo” ne Il grande
italiano-vocabolario della lingua italiana di Gabrielli, edito da Hoepli. Nel
linguaggio aulico, ha ingresso soltanto di recente (Mimmo Muolo, LA REGOLA
D’ORO, Avvenire, in ordine alle resistenze nella Curia: "il Papa ne ha
evidenziate di tre tipi: aperte in quanto derivanti dal dialogo sincero,
nascoste o GATTOPARDESCHE, e malevole, queste ultime ispirate dal demonio. Mango
di Casalgerardo, Nobiliario di Sicilia, Reber anche centrale/mango vanta
discendere dalla famiglia dei LEOPARDI di Costantinopoli che si vuole passata
in Ancona cambiando il cognome in quello di Tomasi. Francesco Gaetani marchese
di Villabianca, Della Sicilia nobile, Palermo Mario di Tomasi che da Capua passa
in Sicilia, con il viceré Colonna, ed è capitan d'armi nella Licata,
rispondendo in quei tempi un tal uffizio al grado di vicario generale regio
d'oggidì Marchese di Villabianca, è quella baronia recata in dote da Francesca
di Caro e Celestre, primogenita figlia di Ferdinando ultimo barone di essa a
Mario di Tomasi" Tutti gli scritti di Tomasi sono enumerati e
sinteticamente descritti nella seconda parte dell'opera di Vezzosi I scrittori
de' chierici regolari detti Teatini, Roma Bonifacio Bagatta Vita del venerabile
Servo di Dio D. Carlo de' Tomasi e Caro della Congregazione de' chierici
regolari Roma Cabibbo - M. Modica, oraccontano che la beata Isabella usa
flagellarsi a sangue sin dalla più tenera età. Secondo Gilmour, a Capua su otto
figli sei si fecero sacerdoti o monache
da Volker, LE GRANDI FAMIGLIE ITALIANE, LE ÉLITE CHE FANNO CONDIZIONATO
LA STORIA D’ITALIA di Horst Reimann Tomasi di Lampedusa, Neri Pozza Volker,
Biagio della Purificazione, Vita e virtù dell 'insigne Servo di Dio D. Giulio
Tomasii e Caro, duca di Palma, Prencipe di Lampedusa, barone di Monte Chiaro e
cavaliere di San Giacomo, Roma, Bongiorno, Curbera, Giovanni Battista Guccia,
Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer, Heidelberg Gian
Evangelista Blasi, Opuscoli di autori siciliani alla grandezza di Tomasi, Caro,
Traina e Naselli, Palermo. Bonifacio Bagatta, Vita del venerabile servo di Dio
D. Carlo De' Tomasi della Congregatione De' Chierici Regolari, Roma Domenico
Bernino, Vita del venerabile cardinale D. Giuseppe Maria Tomasi de' Chierici
regolari, Roma. Buonassisi, Sulla condizione civile ed economica della città di
Siena, Moschini, Cabibbo, Modica, La Santa dei Tomasi, storia di Suor Maria
Crocifissa, Einaudi, Torino. Caravita di Sirignano, Memorie di un uomo inutile,
Mondadori. Isabella Crescimanno Tomasi, Memorie, fondazione Piccolo di
Calanovella. Giovanni Battista di Crollalanza, Dizionario storico blasonico
delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, rist. an., Forni,
Sala Bolognese. Gigli, Diario Sanese, Siena, Gilmour, L'ultimo Gattopardo,
Feltrinelli, Leptailurus serval, internet. Mango di Casalgerardo, Nobiliario di
Sicilia, Reber. Mattoni, Sul sentiero della pazienza, vita di San Tomasi,
cardinale di santa Romana Chiesa, Vicenza. Filadelfo Mugnos, Teatro genologico
delle famiglie del Regno di Sicilia, rist. an., Forni, Sala Bolognese. Vincenzo
Palizzolo Gravina, Il blasone in Sicilia, Visconti et Huber, Volker Reinhardt,
Le grandi famiglie italiane. Le élites che hanno condizionato la storia
d'Italia, Neri Pozza, Savoia, Tomasi di Lampedusa, Palermo, Tosi, L 'eredità
morale del Gattopardo, Salerno, Vitello, I Gattopardi di Donnafugata,
Flaccovio, Vitello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Il Gattopardo segreto,
Sellerio. Nunzio Zago, Tomasi, Palermo, San Giuseppe Maria Tomasi Pietro Tomasi
Della Torretta Tomasi di Lampedusa Palazzo Lampedusa Villa Lampedusa Palma di
Montechiaro Castello di Montechiaro (Palma di Montechiaro) Tomasi (famiglia)
Portale Sicilia Portale Storia di famiglia; Pietro Tomasi della
Torretta diplomatico e politico italiano Tomasi di Lampedusa scrittore
italiano Tomasi nobile italiano CORBERA protagonista del romanzo Il
Gattopardo Lingua Segui Modifica Don Fabrizio Corbera, principe di Salina Il
gattopardo salina01.jpg Il principe di Salina Fabrizio Corbera interpretato
da Lancaster nel film Il gattopardo.
Universo Il Gattopardo Lingua orig. Italiano Soprannome Il Gattopardo Autore Tomasi.
Interpretato da Lancaster Voce orig. Gaipa Sesso Maschio Etnia Italiana
Professione nobile Don Fabrizio CORBERA, principe di Salina, duca di Querceta,
marchese di Donnafugata, è il protagonista del romanzo Il Gattopardo di Tomasi
di Lampedusa e dell'omonima trasposizione cinematografica di Visconti. Il
personaggio La figura di don Fabrizio, in parte autobiografica e in parte
ispirata al personaggio storico di Tomasi, rappresenta la disillusione e
l'impotenza di un'intera classe sociale di fronte ai cambiamenti della
storia. CORBERA è la figura di un uomo che seppure dotato di una forza
epica e di una statura intellettuale superiore a quella dei suoi pari, non
riesce a integrarsi nella società a lui contemporanea, cui guarda con
scetticismo e altera lucidità. Emblematico è il suo RIFIUTO ad accettare la
carica di SENATORE del neo-regno SABAUDO, non certo perché mosso da lealismo
borbonico, ma per una sostanziale incapacità intellettuale, che lo scrittore
chiama rigidità morale, ad assumersi la responsabilità politica di un
cambiamento di cui, in fondo, non si sente partecipe. Il personaggio
storico. Nella storia il personaggio di don Fabrizio è ricalcato su quello
realmente esistito di Giulio Tomasi, bisnonno dello scrittore italiano.
Il personaggio tra realtà e finzione Sarebbe sbagliato credere che la figura di
Salina sia quello di un personaggio reale: di Tomasi, oltre al nome, alla
statura, al colore biondastro dei capelli e alla passione dilettantesca per
l'astronomia, ha ben poco. Lo stesso Tomasi di Lampedusa se ne è accorto,
e nella ormai celebre lettera a Merlo dichiara che il personaggio del romanzo
dove apparire molto più intelligente di quanto non lo sia stato nella realtà.
In effetti Tomasi, bisnonno dello scrittore, come Salina, non prende mai parte
alla vita politica del suo tempo e con la sua morte, avvenuta senza aver mai
fatto testamento, inizia la lunga vicenda giudiziaria fra i suoi eredi che
porta al totale disfacimento del patrimonio dei Lampedusa. Anche la
passione per l'astronomia, che nel romanzo diventa un elemento epico,
effettivamente si traduce nel ripiegamento in un interesse puramente personale
e dilettantistico di un aristocratico siciliano. Conosciamo anche il catalogo
delle sue osservazioni astronomiche, ma nulla fa intravedere la possibilità di
una reale scoperta di corpi celesti. Insomma, sulla figura di Tomasi pesa
un giudizio critico sostanzialmente negativo che nemmeno le sue doti in campo
matematico-astronomico son riuscite a cancellare: il Salina de Il Gattopardo è
invece un personaggio puramente letterario, che in certe sfumature psicologiche
deve assomigliare molto di più al suo autore che non al modello storico. Scrive
in proposito Citati. Con una leggera vanità, Lampedusa immagina di
assomigliargli. Non gli assomiglia affatto. Salina è soltanto un sogno o una
remota proiezione di eleganza e di grandezza inattingibili. Lampedusa non a la
sua autorità, prepotenza, crudeltà, orgoglio di classe. Non ha la pelle bianca,
i capelli biondi, né la mitomania. Non conosce il suo ardore carnale, l'allegra
felicità fisica, il dono di afferrare e possedere la vita. Non condivide il suo
spirito mondano, portato anche nelle esperienze spirituali. Solo qualche volta
l'antenato avidissimo e il discendente passivo si incontrano e si abbracciano
nello stesso sentimento. Quando Salina rivela il proprio desiderio di
contemplazione, l'indifferente bontà, e la sconfitta. Quello che appare un
trittico di personaggi, il Tomasi storico, il Salina del romanzo e l'autore
stesso, è in realtà un unico quadro la cui chiave di lettura è per l'appunto
l'autobiografismo. Tomasi di Lampedusa, come il suo avo, vive un'epoca di
transizione. L'uno si rifugia nella scrittura, l'altro nell'astronomia.
Entrambi, rifiutano di partecipare alla vita politica del tempo. E va qui
ricordato che Tomasi rifiuta dopo una prima adesione, la carica di presidente
regionale della C.R.I., proprio durante l'ultimo periodo bellico. Questa è la
sua unica esperienza politica, insieme alla giovanile partecipazione alla
grande guerra. Eppure lo scrittore Lampedusa, attraverso il suo romanzo,
che a distanza d’anni dalla sua uscita continua ad essere uno dei capolavori
della narrativa italiana, come è stato giustamente ribadito da Orlando, eterna
un'epoca e il disfacimento totale di un'intera classe sociale attraverso il suo
autobiografismo, che non scade mai nel memorialismo grazie al fatto che i suoi
personaggi, come per l'appunto Salina, non sono mai abbastanza realistici,
senza per questo essere meno veri, per irretire il racconto in uno schema
narrativo di stampo verista, simbolista o ancor meno decadentista. Il gattopardo
è un'opera moderna, senza per questo essere un romanzo epocale. Forse in
ritardo rispetto a certi modelli europei, cui comunque l'autore si rifà, il gattopardo
è quanto di più squisitamente SICILIANO si possa immaginare. Anche l'ANTI-ITALIANISMO
di Lampedusa che si traduce nel rifiuto del melodramma, diventa un modo per
affermare l'IDENTITÀ INSULARE dell'autore. Il cane Bendicò è la chiave del
Gattopardo, su Repubblica Salina principe e gigante, su Repubblica; Tomasi, G.
Tomasi di Lampedusa. Una biografia per immagini, Palermo, Sellerio, Tomasi, I luoghi
del gattopardo, Palermo, Sellerio, Orlando, Ricordo di Lampedusa, Torino,
Bollati Boringhieri, Principe Fabrizio Salina, su Internet Movie Database,
IMDb.com. Portale Letteratura: accedi alle voci di Wikipedia che
trattano di letteratura UIl Gattopardo romanzo scritto da Giuseppe Tomasi di
Lampedusa Villa Lampedusa Tomasi nobile italiano Lingua Segui Modifica
Ulteriori informazioni Questa voce sull'argomento nobili italiani è solo un
abbozzo. Tomasi (Palermo – Firenze) è stato un nobile italiano. Giulio
Fabrizio Maria Tomasi, appartenente alla famiglia Tomasi di Lampedusa, è
bisnonno di Tomasi di Lampedusa nonché la figura storica a cui lo scrittore si
ispira per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo
Il Gattopardo. Di lui sappiamo relativamente poco e la sua figura storica
è ricostruibile principalmente da quanto riferito dallo stesso scrittore e da
quanto rimane della sua biblioteca, oggi in parte conservata a Palermo, presso
l'archivio privato della famiglia Lanza Tomasi. Tomasi nasce a Palermo,
erede di quella che è un'importante famiglia dell'aristocrazia siciliana. dal
padre, Tomasi e Colonna, eredita il titolo di Principe di Lampedusa e di Duca
di Palma. È anche Grande di Spagna e sedette fra i Pari del Regno di Sicilia.
Dalla madre, Wochinger, di origini tedesche, eredita invece una certa
attitudine teutonica al rigore intellettuale e allo scientismo illuminista.
Sposa Maria Stella Guccia e Vetrano, figlia del marchese di Ganzaria e zia del
matematico Guccia, fondatore del Circolo Matematico di Palermo. Personaggio
difficilmente catalogabile, Tomasi è certamente un aristocratico dotato di una
cultura e di una curiosità intellettuale superiori alla media, come dimostra la
sua ricca biblioteca, dove troviamo testi di astronomia, matematica, geometria,
meccanica e fisica, fra i quali preziosi esemplari della Meccanica Analitica di
Lagrange e uno dei primissimi volumi stampati del celebre Kosmos di Alexander
von Humboldt. Totalmente autodidatta, Tomasi è un astronomo dilettante, ma che
riusce ad ottenere sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosissime gioie
private" (Il Gattopardo) come ne ha a ricordare il pronipote scrittore.
Sappiamo che crea un proprio osservatorio astronomico, in una sua villa nella
Piana dei Colli, a nord di Palermo: conosciuta come Villa Lampedusa, per questa
innovazione era all'epoca nota soprattutto come "Osservatorio ai Colli del
Principe di Lampedusa". Alla sua morte, avvenuta a Firenze, l'Osservatorio
ai Colli è frazionato fra gl’eredi e la strumentazione astronomica
venduta. Bongiorno,
Curbera, Guccia, Pioneer of International Cooperation in Mathematics, Springer,
Heidelberg. Il Gattopardo tra gli astri. Portale
Astronomia Portale Biografie Portale Letteratura
Principe Fabrizio Salina protagonista del romanzo Il Gattopardo Tomasi di
Lampedusa (famiglia) famiglia aristocratica italiana Villa Lampedusa
Villa Lampedusa Lingua Segui Modifica Ulteriori informazioni Questa voce o
sezione sull'argomento ville d'Italia non cita le fonti necessarie o quelle
presenti sono insufficienti. Ulteriori informazioni Questa voce sugli argomenti
ville della Sicilia e architetture di Palermo è solo un abbozzo. Contribuisci a
migliorarla secondo le convenzioni di Wikipedia. Villa Lampedusa Localizzazione
Stato Italia Italia Regione Sicilia Località Palermo Coordinate 38°09′45.72″N
13°19′44.04″E Informazioni generali Condizioni In uso Villa Lampedusa è una
villa che si trova a Palermo, costruita come residenza suburbana all'epoca di
Ferdinando IV di Borbone, che aveva una residenza estiva, la cosiddetta Casina
Cinese, nei pressi della quale la nobiltà siciliana costruiva le proprie ville
di campagna. All'inizio del XVIII secolo venne fatta edificare da don Isidoro
Terrasi vennero effettuati alcuni lavori di ristrutturazione su progetto di
Giovanni Del Frago, architetto. Degne di note le decorazione eseguite da
Gaspare Fumagalli. La villa appartenne poi ai Principi Alliata di Villafranca
ed infine ai Tomasi di Lampedusa. All'epoca del romanzo Il Gattopardo era
più noto come "Osservatorio ai Colli del Principe di Lampedusa"
dall'attività prediletta dell'allora proprietario, Giulio Fabrizio Tomasi,
bisnonno di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e figura storica a cui lo scrittore si
ispirò per il personaggio di Principe Fabrizio Salina, protagonista del romanzo
Il Gattopardo. Appariva come una costruzione a due piani, alle spalle del corpo
principale della villa; il primo piano costituiva probabilmente lo studio,
mentre il secondo, con la copertura a cupola, la specola vera e propria. Alcuni
degli strumenti in uso del principe sono oggi conservati presso il Museo
dell'Osservatorio astronomico di Palermo. Fra questi i più rilevanti sono il
telescopio azimutale Merz, il telescopio equatoriale di Lerebours et Secretan e
il telescopio altazimutale di Worthington. Alla sua morte, avvenuta nel 1885,
l'Osservatorio ai Colli fu frazionato fra gli eredi e la strumentazione
astronomica venduta. Oggi all'interno della proprietà, sono ospitate
delle attività commerciali. All'interno del Baglio della foresteria di
Villa Lampedusa si trova una struttura alberghiera Villa Lampedusa Hotel et Residence
gestita dal Gruppo Guccione. Nelle Antiche Scuderie invece, oggi viene
svolta un'attività di ristorazione dai fratelli Cottone, con il loro Ristorante
Pizzerie La Braciera in Villa. L'Attività astronomica di Giulio Fabrizio
Tomasi, Principe di Lampedusa Indice Strumenti Villa Lampedusa – Hotel and
Residence, su hotel villa lampedusa. Villa Lampedusa, su La Braciera.
Collegamenti esterniModifica scheda su un sito del turismo a Palermo, su
palermoweb.com. storia della proprietà attuale, su hotelvillalampedusa.it.
informazioni sul restauro, su mobilitapalermo.org. Portale
Architettura Portale Palermo Principe Fabrizio Salina protagonista
del romanzo Il Gattopardo Giulio Fabrizio Tomasi nobile italiano Palazzo
Lanza Tomasi Lingua Segui Modifica Palazzo Lanza Tomasi Palermo jpg Facciata
Localizzazione StatoItalia Italia RegioneSicilia LocalitàPalermo
IndirizzoKalsa, Mura delle Cattive Coordinate 38°07′04.5″N 13°22′18.52″E
Informazioni generali CondizioniIn uso CostruzioneXVII secolo Usoprivato Il
Palazzo Lanza Tomasi di Lampedusa è un edificio patrizio del XVII secolo,
ubicato sulle Mura delle Cattive e affacciato sul Foro Italico, lungomare di
Palermo. Panoramica. StoriaModifica Epoca spagnolaModifica L'edificio -
altrimenti definito Palazzo Lampedusa alla Marina, con accesso in via Butera -
sorge nel quartiere Kalsa, la cittadella eletta degli Emiri, adiacente
all'Hotel Trinacria. L'attuale costruzione fu edificata alla fine del Seicento
sui bastioni spagnoli, fortificazioni erette a difesa degli attacchi e delle
incursioni perpetrati da ciurme pirata o corsare, nel contesto storico in cui
imperava il bisogno primario di assicurarsi la supremazia navale nel
Mediterraneo. Dopo la vittoriosa impresa di Tunisi, Carlo V d'Asburgo
predispose la costruzione di nuovi bastioni per la difesa della città. Dopo il
transito dell'imperatore in molte località dell'isola, i viceré di Sicilia
Ferrante I Gonzaga prima, e Vega poi, gestirono imponenti cantieri di
fortificazioni alla moderna. La Marina era protetta a nord dal Forte di
Castellamare, a sud dal bastione di Vega, e fra i due fu eretto il bastione del
Tuono. In prossimità delle mura la zona era densamente militarizzata e soltanto
nella seconda metà del Seicento si cominciarono ad edificare i palazzi a
ridosso delle mura. Il bastione del Tuono fu demolito, quello di Vega sul
finire del secolo. I primi edifici furono il palazzo Branciforte di Butera
e la chiesa di San Mattia Apostolo con l'aggregato noviziato dei Crociferi. I
Branciforte furono i proprietari dell'intera cortina muraria da Porta Felice al
bastione del Tuono. Gli edifici a ridosso del bastione furono ceduti ai Gravina
e da questi affittati ai Padri Teatini che li adibirono a Collegio Imperiale
per l'educazione dei nobili. Il Collegio fu chiuso nel 1768 e il palazzo fu
acquistato d’Amato, principe di Galati. Questi intervenne unificando in un
unico prospetto di stile vanvitelliano la facciata sul mare, formata da dieci
finestre con terrazza. Epoca unitaria Il principe Giulio Fabrizio Tomasi
di Lampedusa, astronomo dilettante, lo acquistò con l'indennizzo versatogli
dalla corona per l'espropriazione dell'isola di Lampedusa. Gl’armatori De
Pace acquistarono metà del palazzo e lo trasformarono secondo il gusto del
tempo, realizzando il grande scalone d'ingresso e il parquet a doghe di
ciliegio e noce per la Sala da ballo. Il manufatto marmoreo, come tanti altri
elementi d'arredo, proviene dal convento delle Stimmate, abbattuto in seguito
alla costruzione del Teatro Massimo Vittorio Emanuele. Epoca
contemporanea Giuseppe Tomasi di Lampedusa, dopo la perdita del palazzo di
famiglia nei bombardamenti, ricomprò la proprietà dai De Pace e vi risiederà
fino alla morte. Oggi è residenza del musicologo Tomasi e della consorte
duchessa Nicoletta Polo Lanza Tomasi. Il figlio adottivo dello scrittore ha
riunificato l'intera proprietà e compiuto un completo restauro
dell'edificio. L'ultimo piano è sede della struttura ricettiva Butera 28
Apartments. Stile Prospetto verso la marina con dodici finestre e
terrazza, quest'ultima un vero e proprio giardino pensile con fonte, ricco di
essenze mediterranee e subtropicali. La costruzione presenta
quattro livelli, di cui tre elevazioni oltre il pianoterra su via Butera. Il
solo piano nobile sul fronte mare. Piano nobile del palazzo costituisce
in gran parte la casa museo dello scrittore: Biblioteca storica di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa. Nell'ambiente sono presenti due grandi bocce di
Caltagirone del primo Settecento, sulla parete sopra il caminetto, un San
Girolamo, opera di Jacopo Palma il Giovane. Sala da ballo, ambiente in cui sono
esposti tutti i suoi manoscritti: il manoscritto completo de Il Gattopardo,
quello della quarta parte del romanzo contenente una pagina che con compare
nella pubblicazione, il dattiloscritto, i manoscritti della Lezioni di
Letteratura Francese e Inglese e dei Racconti, una prima stesura de La Sirena.
Nella sala è presente un piccolo quadro di Domenico Provenzani raffigurante la
famiglia del "Duca Santo" Giulio Tomasi di Lampedusa. Scalone
monumentale in marmo. Tra gli ambienti che raccorda si trovano: Sala delle
Conferenze: ambiente con soffitto affrescato ed una splendida collezione di
ventagli francesi del Settecento; Sala del Mediterraneo, l'ambiente ospita una
collezione di carte nautiche redatte dalla Marina Inglese nel 1870, di
proprietà del nonno di Gioacchino Lanza Tomasi; Museo della famiglia Tomasi di
Lampedusa; Sale di ingresso e un secondo scalone. Opere I restanti arredi del
piano nobile provengono da Palazzo Lanza di Mazzarino. Tra questi uno tavolo in
marmo intagliato della metà del Cinquecento, originariamente nella Villa
Palagonia, due rari cassettoni siciliani in ebano e avorio del primo
Settecento, due lampadari a gabbia di Murano modello Rezzonico e uno centrale
di epoca Luigi XVI. Quadri di Pietro Novelli, Antonio Catalano, Federico
Barocci. Opere moderne come bozzetti di Robert Wilson (regista), Arnaldo Pomodoro
e Mimmo Paladino, oltre a due ritratti a penna di Pablo Picasso, raffiguranti
la marchesa Anita, nonna di Gioacchino. Palermo Gaspare Palermo, Gaspare
Palermo Gaspare Palermo Blasi, "Storia del regno di Sicilia", Volume
III, Palermo, Stamperia Orotea, Arredamento proveniente dal distrutto Palazzo
Lampedusa e dal Palazzo Filangeri di Cutò di Santa Margherita di Belice, la
residenza estiva dei Filangeri di Cutò, la famiglia materna dello scrittore,
distrutta dal terremoto della valle del Belice. Palermo, "Guida istruttiva
per potersi conoscere ... tutte le magnificenze della Città di Palermo,
Palermo, Reale Stamperia, . Gaspare Palermo, "Guida istruttiva per potersi
conoscere tutte le magnificenze della Città di Palermo", Palermo, Reale
Stamperia. Alcuni riferimenti al presente non sono più esistenti oppure
risultano modificati o ricostruiti con tecniche moderne. A Palermo:
Bar pasticceria Mazzara; Caffè Caflish; Pasticceria del Massimo; Casa del
critico musicale Bebbuzzo Sgadari di Lo Monaco, in corso Scinà; Palazzo
Lampedusa, distrutto nel bombardamento aereo, oggi parzialmente ricostruito da
privati con la primitiva denominazione di Casa Lampedusa; Tomba di Giuseppe
Tomasi di Lampedusa nel cimitero dei Cappuccini. Per la trasposizione cinematografica
de Il Gattopardo: Palazzo Valguarnera Gangi, Quartiere Kalsa; Villa
Boscogrande. Santa Margherita Belice: Palazzo Filangeri di Cutò o Palazzo
Gattopardo: è un edificio danneggiato dal terremoto. Nelle immediate adiacenze
è ubicato il Parco del Gattopardo. Palma di Montechiaro: Chiesa di Maria
Santissima del Rosario: la chiesa madre citata più volte, in particolare
all'arrivo della famiglia Salina a Donnafugata. Monastero delle Benedettine.
Alcuni luoghi cari ispirarono Giuseppe Tomasi di Lampedusa nelle ambientazioni
e nella stesura del manoscritto. Bagheria, con Palazzo Cutò; Capo
d'Orlando, con Villa Piccolo; Ficarra con Casa Gullà, presso l'abitazione
esiste tuttora una lapide a ricordo, ove tra i tanti angoli suggestivi e scene
di vita ficarrese trovò fonte di ispirazione nella creazione del romanzo Il
Gattopardo, in particolare del personaggio del "campiere". Palazzo
Lanza Tomasi Portale Architettura Portale Arte
Portale Palermo Palazzo Mirto palazzo storico di Palermo Giuseppe
Tomasi di Lampedusa scrittore italiano. Vittorio Frosini. Frosini. Keywords:
gattopardo, interpretazioni filosofiche del gattopardo, Gramsci, riduzione
teatrale, Visconti, la rivoluzione perduta, l’ordine morale, l’ordine legale,
Hart, diritto naturale, diritto artificiale, filosofia del diritto, fascismo,
risorgimento. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Frosini” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.