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Wednesday, July 6, 2011

Trissino, "Il Castellano" (1529): key text in the "questione della lingua"

Luigi Speranza


Giovan Giorgio Trissino “riscopre” il De vulgari eloquentia (1529)

A Giovan Giorgio Trissino (Vicenza 1478 - Roma 1550) si deve il recupero del "De vulgari eloquentia", di Aligheri (1304), ignorato o negletto per due secoli.

Umanista provetto, Trissino non ritenne che il testo di Alighieri potesse vincere l’impazienza di lettori ormai assuefatti a un latino tutt’altro.

Già si stentava in Italia a leggere il latino di Petrarca.

Quello di Dante doveva considerarsi illeggibile da un umanista (non naturalmente dal frate Moncetti, editore della Quaestio).

Pertanto Trissino allestì e pubblicò un volgarizzamento (Vicenza 1529), premettendo
una lettera dedicatoria al cardinale Ippolito de’ Medici, da lui senza dubbio scritta ma firmata da un suo giovane amico, Giovan Battista Doria, forse figlio di quell’Arrigo Doria che compare in altra opera di Trissino, "il Castellano".

È probabile che Trissino stimasse compito indegno di un letterato del suo rango il volgarizzamento di un’opera, che per il contenuto era importante, ossia utile, ma che non si prestava a un uso retorico.

Onde l’anonimato del volgarizzamento e l’attribuzione ad altra persona della dedica.

Comunque sulla responsabilità e proprietà di Trissino non poteva sorgere dubbio, perché il volume faceva corpo con quelli delle altre sue opere, stampate via via in quello stesso anno a Vicenza dal suo stampatore domestico, Tolomeo Ianicolo.

La finzione tuttavia bastò perché un qualche dubbio sorgesse sull’autenticità dell’opera attribuita a Alighieri.

Mancando il riscontro dell’originale, era possibile, se non lecito, supporre
che Trissino lo avesse, volgarizzando, rimanipolato a suo modo, o che addirittura avesse perpetrato un falso.

Era una supposizione assurda, ma che faceva comodo a quelli che nella
scottante questione della lingua repugnavano alla tesi di Trissino e che, facendosi essi stessi forti dell’autorità di Aligheri, volevano a ogni costo impedire che questa, inaspettatamente, risultasse favorevole alla parte avversa.

Si spiega così che non soltanto in Toscana, dove l’interesse e la passione erano più forti, ma anche altrove la riesumazione del De vulgari
eloquentia non riuscisse a mutare i termini del dibattito, e che finalmente a Parigi, non in Italia, sia pure a opera di un geniale filologo fiorentino, apparisse il testo originale del De vulgari eloquentia, poco meno di quarant’anni dopo la stampa del volgarizzamento.

Questo fu ristampato a Ferrara nel 1583, luogo e data notevoli, quando si pensi a Tasso e ai rapporti dell’opera di lui con quella di Alighieri da un lato, di Trissino dall’altro.

Il dibattito che si appuntò sul Trissino, sulle sue idee e proposte linguistiche, piuttosto che su Aligheri e sul De vulgari eloquentia, indirettamente però contribuì, come nel Tasso per l’appunto si vede, a
rinvigorire l’influsso dell’opera maggiore di Dante sulla nuova letteratura.

Trissino fu indotto a riesumare il De vulgari eloquentia perché ne risultava
autorevolmente confermata, con un sorprendente anticipo di due secoli, quella dottrina di una lingua e letteratura volgare, ma non dialettale, aristocratica e aulica, comune all’aristocrazia e alle corti di tutta Italia, che da più parti era stata proposta fra Quattro e Cinquecento e alla quale Trissino stesso era propenso.

Nell’ambito di questa dottrina o scuola, comunemente detta cortigiana, si era da ultimo aperta una frattura a opera di Bembo, le cui

"Prose della volgar lingua",

stampate a Venezia nel 1525, ma offerte in esemplare di dedica al papa l’anno prima e senza dubbio già allora
note e discusse a Roma, dove il Trissino si trovava, includevano un violento attacco polemico
alla dottrina cortigiana e la proposta di una letteratura rigorosamente fedele, nella lingua e
nello stile, ai modelli toscani del Trecento, con assoluta preferenza per Petrarca e per
Boccaccio e con forti riserve su Aligheri.

Per più motivi Trissino era risolutamente, se anche
rispettosamente, avverso a Bembo.

A Roma, in quello stesso anno 1524, con altre sue opere
in verso e in prosa, egli pubblicò una proposta di riforma ortografica da cui risultava la sua
adesione alla scuola cortigiana e il proposito, esemplificato da altra sua opera (la tragedia
Sofonisba) di battere una via diametralmente opposta a quella raccomandata da Bembo.

Al
tempo stesso, come risulta dalle reazioni che la sua proposta ebbe, egli dovette nella
discussione orale addurre l’autorità del De vulgari eloquentia e in genere di Dante.

Si spiega
che poco dopo il dibattito letterario fosse interrotto dalla tragica crisi politica abbattutasi su
Roma e conseguentemente su Firenze, e che, riaprendolo nel 1529 con la stampa o ristampa a
Vicenza delle sue opere, Trissino attenuasse la sua adesione alla scuola cortigiana e
insistesse invece nel dialogo Il Castellano sul carattere italiano della sua tesi linguistica e sulla conferma che il De vulgari eloquentia gli forniva.

Allora e poi sempre, come risulta dal poema L’Italia liberata (1547-48) e dalle ultime
due parti della Poetica, apparse postume (1562), Trissino perseguì con scarso successo poetico ma con eccezionale vigore e rigore critico il miraggio di una letteratura italiana che,
pur sviluppandosi secondo i modelli classici raccomandati dalla nuova scuola umanistica,
riconoscesse in Dante, non nell’amoroso Petrarca e nel lascivo Boccaccio, il suo primo e
maggiore maestro di lingua e di poesia.

Dante che, com’è detto nei Dubbi grammaticali (ediz.
Maffei, p. 217), «per dottrina, ingegno et arte ottiene ne la nostra lingua il principato» e che,
come è conclusivamente detto nella Poetica (p. 112), sta nel novero degli «eccellentissimi
poeti di ogni lingua» con Omero e Virgilio.

Il rapporto fra Dante e Omero, al di sopra
dell’intermedio Virgilio, torna e si precisa e giustifica nella Poetica del Trissino, che erede in
ciò dell’umanistica riscoperta di Omero nel tardo Trecento (e per quanto attiene Dante, del
commento di Benvenuto), in ciò anche anticipa la successiva riscoperta dell’uno e dell’altro
poeta nel tardo Settecento.

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