Speranza
Il gruppo scultoreo del Laocoonte ed i suoi figli, noto anche semplicemente come
Gruppo del Laocoonte, è una scultura in marmo (h 242 cm) degli scultori
Agesandro, Atanodoro e Polidoro, databile al I secolo d.C. e conservato nel
Museo Pio-Clementino dei Musei Vaticani, a Roma.
Raffigura il famoso episodio
narrato nell'Eneide che vede il troiano Laocoonte ed i suoi figli assaliti da
serpenti marini.
Plinio raccontava di aver visto una statua del
Laocoonte nella casa dell'imperatore Tito, attribuendola a tre scultori
provenienti da Rodi: Agesandro, Atanodoro e Polidoro.
La tradizionale
identificazione della statua dei Musei Vaticani con quella descritta da Plinio è
ancora generalmente accettata, visto anche che la residenza privata di Tito si
doveva trovare proprio sul colle Oppio, dove la statua venne poi ritrovata.
Accettata è anche l'attribuzione ai tre artisti rodii, autori anche dei
gruppi statuari con storie di Ulisse della grotta di Sperlonga.
Varie date
sono state proposte per questa statua, oscillanti tra metà del II secolo a.C.
alla metà del I secolo d.C.
Bernard Andreae, in alcuni studi, ha ipotizzato
che il Laocoonte sia una copia di un originale bronzeo ellenistico, come
dimostrerebbero alcuni dati tecnici e stilistici.
Sulla parte posteriore
della statua si trova infatti del marmo lunense, non utilizzato prima della metà
del I secolo a.C., inoltre alcuni dettagli rimandano inequivocabilmente alla
fusione a cera persa: ad esempio il mantello che ricade sulla spalla del giovane
a destra fino a toccargli il ginocchio deriva quasi certamente da un espediente
tecnico necessario a costituire un passaggio per il metallo fuso.
Si è
ipotizzato che l'originale fosse stato creato a Pergamo, come suggeriscono
alcuni confronti stilistici con opere della scuola locale: i pacifici rapporti
tra la città dell'Asia minore e Roma erano infatti rafforzati dai miti legati a
Troia, dai quali discendevano le leggende di fondazione di entrambe le
città.
Plinio comunque attesta la presenza a Roma della statua marmorea a
metà del I secolo d.C. attribuendola a scultori attivi un secolo prima.
Infatti
alcune iscrizioni trovate a Lindos, sull'isola di Rodi fanno risalire la
presenza a Roma di Agesandro e Atanodoro ad un periodo successivo al 42 a.C., ed
in questo modo la data più probabile per la creazione del Laocoonte deve essere
compresa tra il 40 ed il 20 a.C., per una ricca casa patrizia, o più
probabilmente per una committenza imperiale (Augusto, Mecenate), anche se il
Laocoonte sembra lontano dallo stile neoattico in auge nel periodo.
Visto il
luogo di ritrovamento è anche possibile che la statua sia appartenuta, per un
periodo, a Nerone.
La statua fu trovata il 14
gennaio del 1506 scavando in una vigna sul colle Oppio di proprietà di Felice de
Fredis, nelle vicinanze della Domus Aurea di Nerone: l'epitaffio sulla tomba di
Felice de Fredis in Santa Maria in Aracoeli ricorda l'avvenimento.
Allo
scavo, di grandezza stupefacente secondo le cronache dell'epoca, assisterono di
persona, tra gli altri, lo scultore Michelangelo e l'architetto Giuliano da
Sangallo inviato dal papa a valutare il ritrovamento, secondo la testimonianza
di Francesco, giovane figlio di Giuliano, che, ormai anziano, ricorda l'episodio
in una lettera del 1567.
Secondo questa testimonianza fu proprio Giuliano da
Sangallo ad identificare i frammenti ancora parzialmente sepolti con la scultura
citata da Plinio.
Esistono comunque testimonianze coeve che danno la stessa
identificazione della scultura appena rinvenuta.
La statua fu acquistata subito dopo la scoperta dal papa
Giulio II, che era un appassionato classicista, e fu sistemata, in posizione di
rilievo, nel cortile ottagonale ("Cortile delle Statue") progettato da Bramante
all'interno del complesso del Giardino del Belvedere proprio per accogliere la
collezione papale di scultura antica.
Tale allestimento è considerato l'atto
fondativo dei Musei Vaticani.
Da allora il Laocoonte, assieme all'Apollo del
Belvedere, costituì il pezzo più importante della collezione, e fu oggetto
dell'incessante successione di visite, anche notturne, da parte di curiosi,
artisti e viaggiatori.
Quando il gruppo scultoreo fu scoperto, benché in buono
stato di conservazione, presentava il padre ed il figlio minore entrambi privi
del braccio destro.
Dopo un primo ripristino, forse eseguito da Baccio
Bandinelli (che ne eseguì una delle prime copie, intorno al 1520, oggi agli
Uffizi, per Cosimo I de' Medici), del braccio del figlio minore e di alcune dita
del figlio maggiore, artisti ed esperti discussero su come dovesse essere stata
la parte mancante nella raffigurazione del sacerdote troiano.
Nonostante alcuni
indizi mostrassero che il braccio destro fosse, all'origine, piegato dietro la
spalla di Laocoonte, prevalse l'opinione che ipotizzava il braccio esteso in
fuori, in un gesto eroico e di forte dinamicità.
L'integrazione fu eseguita,
probabilmente in terracotta, da Montorsoli ed il restauro ebbe un successo
duraturo tanto che Winckelmann, pur consapevole della diversa posizione
originaria, si dichiarò favorevole al mantenimento del braccio
teso.
Intanto, tra il 1725 e il 1727, Agostino Cornacchini eseguì un
restauro del gruppo scultoreo che versava in condizioni di degrado. Vennero
sostituiti il braccio di terracotta del Laocoonte e quello in marmo del figlio,
evidentemente rovinati con altri dall'identica posa.
La
scoperta del Laocoonte ebbe enorme risonanza tra gli artisti e gli scultori ed
influenzò significativamente l'arte rinascimentale italiana e nel secolo
successivo la scultura barocca.
Straordinaria fu infatti l'attenzione suscitata
dalla statua, e se ne trova traccia nelle numerose lettere degli ambasciatori
che la descrivono, nei disegni e nelle incisioni che subito dopo iniziarono a
circolare per l'Europa.
Il forte dinamismo e la plasticità eroica e tormentata
del Laocoonte ispirò numerosi artisti, da Michelangelo a Tiziano, da El Greco ad
Andrea del Sarto.
Michelangelo ad esempio fu particolarmente impressionato
dalla rilevante massa della statua e dal suo aspetto sensuale, in particolare
nella rappresentazione delle figure maschili.
Molti dei lavori di Michelangelo
successivi alla scoperta, come il San Matteo, lo Schiavo ribelle e lo Schiavo
morente, furono influenzati dal Laocoonte.
Molti scultori si esercitarono sul
gruppo scultoreo facendone calchi e copie anche a grandezza naturale.
Il re
di Francia insistette molto per avere la statua dal papa o almeno una sua copia.
A tal fine, lo scultore fiorentino Baccio Bandinelli ricevette l'incarico dal
cardinale Giulio de' Medici papa Clemente VII Medici, di farne una copia, oggi
agli Uffizi.
Il re di Francia, però, dovette accontendarsi di inviare, intorno
al 1540, lo scultore Francesco Primaticcio a Roma per realizzare un calco al
fine di ricavarne una copia in bronzo destinata a Fontainebleau.
Un'altra copia
si trova nel Gran Palazzo dei Cavalieri di Rodi a Rodi. Una copia in gesso,
appartenuta al Mengs, si trova nell'Accademia di belle arti di Roma.
Il
fascino della scultura coinvolse per secoli artisti ed intellettuali come Gian
Lorenzo Bernini, Orfeo Boselli, Winckelmann e Goethe, diventando il fulcro
della riflessione settecentesca sulla scultura.
La tragica mobilità di
questa statua è uno dei temi del saggio Laokoön, di Lessing, uno dei primi
classici di critica dell'arte.
La statua fu
confiscata e portata a Parigi da Napoleone dopo la conquista dell'Italia del
1799.
Fu sistemata nel posto d'onore nel Museo del Louvre dove divenne una delle
fonti d'ispirazione del neoclassicismo in Francia.
Dopo la caduta di Napoleone,
fu riportata in Vaticano nel 1815, sotto la cura di Antonio Canova e nuovamente
restaurata.
Nel 1906 fu rinvenuto il braccio destro originario, piegato a
gomito e mancante della mano, nella posizione quindi che era stata ipotizzata da
Michelangelo.
Un intervento di restauro, effettuato tra il 1957 ed il 1960, ha
ripristinando l'aspetto originario riunendo il braccio ritrovato alla
statua.
Il
gruppo statuario raffigura la fine di Laocoonte e dei suoi due figli Antifante e
Timbreo mentre sono strangolati da serpenti marini, come narrano varie leggende,
tra cui la più nota è quella contenuta nell'Eneide virgiliana, in cui è
descritto l'episodio come la vendetta di Atena per il tentativo del sacerdote di
Apollo di opporsi all'ingresso del cavallo di Troia nella città.
La sua
posa è instabile perché nel tentativo di liberarsi dalla stretta dei serpenti
Laocoonte richiama tutta la sua forza, manifestando con la più alta intensità
drammatica la sua sofferenza fisica e spirituale. I suoi arti e il suo corpo
assumono una posa pluridirezionale e in torsione, che si slancia nello spazio.
L'espressione dolorosa del suo viso unita al contesto e la scena danno una resa
psicologica caricata, quasi teatrale, come tipico delle opere del "barocco
ellenistico". La resa del nudo mostra una consumata abilità, con l'enfatica
torsione del busto che sottolinea lo sforzo e la tensione del protagonista. Il
volto è tormentato da un'espressione pateticamente corrucciata. Il ritmo
concitato si trasmette poi alle figure dei figli[4].
La statua è composta da
più parti distinte, mentre Plinio, in effetti, descrisse una scultura ricavata
da un unico blocco marmoreo (ex uno lapide). Tale circostanza ha creato sempre
molti dubbi di identificazione ed attribuzione[17].
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Note
^
Plinio il Vecchio, Naturalis Historia, 36, 37
^ Plinio, Naturalis Historia,
XXXVI, 37, "... Quorundam claritati in operibus eximiis obstante numero
artificum, quoniam nec unus occupat gloriam nec plures pariter nuncupari
possunt, sicut in Laocoonte, qui est in Titi imperatoris domo, opus omnibus et
picturae et statuariae artis praeferendum. Ex uno lapide eum ac liberos
draconumque mirabiles nexus de consilii sententia fecere summi artifices
Hagesander et Polydorus et Athenodorus rhodii..."
^ a b AA.VV. Laocoonte:
alle origini dei Musei Vaticani, 2006
^ a b De Vecchi-Cerchiari, cit., p.
88.
^ Laocoonte e la fondazione di Roma, Il Saggiatore, 1989
^ Salvatore
Settis, Op. cit., 1999
^ De Vecchi-Cerchiari, cit., p. 89.
^ A.VV.
Laocoonte: alle origini dei Musei Vaticani, 2006
^ AA.VV. Laocoonte: alle
origini dei Musei Vaticani, 2006.
^ "Questo è Hilaoconte, che fa mentione
Plinio".
^ Salvatore Settis, Laocoonte, fama e stile, 1999.
^ A. Conti,
Storia del restauro e della conservazione delle opere d’arte, 1988, p. 33.
^
J. W. Goethe, Sul Laocoonte, 1798, trad. it. di M. Cometa, in Laocoonte 2000,
Palermo, 1992, pp.94-102
^ M. Cometa, Laocoonte 2000, Palermo, 1992
^
Virgilio, Eneide, II libro, versi 40 ss.
^ cfr. Timeo Danaos et dona
ferentes
^ Salvatore Settis, cit., 1999.
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Bibliografia
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Gisela
M. A. Richter, L'arte greca, Torino, Einaudi, 1969.
Ranuccio Bianchi
Bandinelli; Enrico Paribeni, L'arte dell'antichità classica. Grecia, Torino,
UTET Libreria, 1986. ISBN 88-7750-183-9.
Giuliano A., Storia dell'arte greca,
Carocci, Roma 1998 ISBN 88-430-1096-4
Pierluigi De Vecchi ed Elda Cerchiari,
I tempi dell'arte, volume 1, Bompiani, Milano 1999. ISBN 88-451-7107-8
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Voci
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Scuola di Pergamo
Scultura
ellenistica
Gruppo di Polifemo
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