Speranza
GIASONE è un personaggio
ambiguo già in Euripide e Seneca.
GIASONE si muove nella vicenda in Corinto
incerto tra richiami al dovere di capo famiglia, calcoli politici e amori ingestibili.
Ancora Pietro Corneille fonde in modo inscindibile i due aspetti secondo le consuetudini
del cortigiano secentesco.
Ma già Longepierre ne fa amante sincero e appassionato
della PRINCIPESSA CREUSA.
Glover, addirittura, redime GIASONE immaginandolo restio alle
nuove nozze impostegli da un accordo tra Creonte e suo padre Esone, re di IOLCO.
Solo alla
fine, ma ormai troppo tardi per sventare la vendetta dell’amata Medea, troverà
la forza di ribellarsi ai voleri paterni.
Nel Settecento il passaggio di GIASONE
da capofamiglia intenzionato a promuovere
socialmente se stesso e i figli, anche a scapito della moglie, ad amante tenero
decreta una CADUTA MORALE del personaggio, ma consente alcune scene
sentimentali care al gusto dell’epoca.
Di questo genere sono quelle di Noverre, Giotti, Marinelli, Balsamo, e
Morosini.
Gli ultimi tre -- Marinelli, Balsamo e Morosini -- rendono conto dell’amore di GIASONE in un monologo.
Quello di Morosini sarà poi
ripreso ed adattato da Giovanni Felice Romani alla fine del second’atto.
La caratterizzazione
più accurata di Creonte, per questo eccezionale, è quella di Glover, che ne fa
(e non Medea) il vero MOTORE della tragedia.
È Creonte che ha combinato le nozze tra GIASONE e la PRINCIPESSA CREUSA, è Creonte che persegue
questo progetto nonostante le incertezze di GIASONE, le minacce della
sacerdotessa di Giunone e di Medea.
Alla fine, il progetto diventa vero e proprio
puntiglio per affermare la propria autorità sui sudditi e sugli dèi, fino a
spingerlo ad un attacco armato al tempio, durante il quale soccomberà per mano
dei sudditi.
Di un Creonte così ferocemente caratterizzato restano tracce nel
libretto di CASTIGLIA, oltre che nella tragedia di Lamartine.
Negli altri testi
Creonte è re severo, intimorito da Medea, che oscilla tra una ironia feroce nei
confronti della maga (Seneca, Corneille), l’aspra durezza del sovrano
(Longepierre), e una sostanziale comprensione del suo dramma di donna abbandonata:
è in forza di questa comprensione che proroga l’ordine d’esilio d’un’ultima fatale
giornata e, in Della Valle, intercede con PRINCIPESSA CREUSA perché acconsenta
all’incontro tra Medea e i figli, che si rivelerà esiziale. In generale, però,
il personaggio è poco caratterizzato, se non, talora, trascurato.
Il solo
compito è intimare, o comunque decretare, l’esilio di Medea e di avallare le
nozze tra PRINCIPESSA CREUSA e GIASONE.
Così accade per esempio nei -- B.
Benincasa, Riflessioni sulle tragedie che hanno trattato il soggetto di
Medea. Cfr. A. Caiazza, Medea: fortuna di un mito -- libretti di
Marinelli e Balsamo, in cui Creonte compare solo all’inizio per comunicare la sentenza
e alla fine per piangere la morte della figlia (con relative arie in Marinelli,
aria e duetto con GIASONE nel
rifacimento di Balsamo).
Solo Gambara tenta un Creonte equilibrato, forse
ingenuo, non tiranno, votato al bene pubblico di Corinto nella scelta sia di concedere
la mano di PRINCIPESSA CREUSA a GIASONE , sia di esiliare Medea, cui cerca di
comunicare il decreto con toni concilianti. La tradizione classica prevede che
il dramma si apra con Medea e GIASONE già ospiti a Corinto con i due figli. Solo le esigenze di maggiori peripezie
necessarie al ballo pantomimico spinsero Noverre ad anticipare anticipa l’inizio
del dramma all’arrivo di Medea e GIASONE a Corinto e ai primi approcci dello sposo con PRINCIPESSA
CREUSA, durante la festa di accoglienza degli Argonauti: l’antefatto è comunque
immaginato in termini analoghi.
La prima importante variante a questo modello è
invece introdotta da Richard Glover, e la sua innovazione avrà ampio seguito
nei testi successivi.
Glover immagina che GIASONE fosse fuggito, inorridito, dalla sposa già a
Iolco, dopo che Medea aveva assassinato suo zio per restituirgli il trono
usurpato, e si fosse rifugiato in Corinto solo.
La tragedia inizia così quando
Medea giunge in Corinto, con seguito e figli, alla sua ricerca.
Quest’idea
verrà ripresa da Gotter, leggermente modificata dal fatto che Medea giunge sola
in Corinto mentre i figli vi erano erano già giunti con il padre all’epoca
della fuga da Iolco. Da Gotter viene poi ripresa da Giotti, Hoffman, Milcent, Della
Valle e Legouvé; in forma diversa è sfruttata anche da Lamartine, Castiglia e
Grillparzer: i primi due immaginano Medea in Corinto assieme a GIASONE ma incognita tanto a Creonte che a PRINCIPESSA
CREUSA; l’ultimo fa sì che GIASONE e
Medea tornino assieme a Corinto dove GIASONE era cresciuto e dove serbava ricordi di vita
con PRINCIPESSA CREUSA.
La variante introdotta da Glover consente a tutti
questi testi o il capovolgimento di ruoli, per cui è Medea ad intromettersi in una
situazione affettiva già consolidata tra GIASONE e PRINCIPESSA CREUSA, o due coups de
théâtre di grande efficacia: il disvelamento o l’apparizione improvvisa di
Medea con conseguente sorpresa generale (Hoffman, Della Valle, Castiglia,
Grillparzer, Legouvé, Pini; Gotter posticipa il disvelamento alla scena ultima,
a delitti commessi), e l’incontro sereno e confidenziale tra PRINCIPESSA CREUSA
e Medea, prima che quest’ultima scopra che l’oggetto d’amore della principessa
è GIASONE stesso (Lamartine, Della
Valle, Legouvé). Per mettere al corrente gli spettatori di tutto ciò, le
esposizioni seguono pochi modelli: a) dialogo iniziale: tra GIASONE e confidente (Corneille, Longepierre,
Morosini, Lamartine), tra due confidenti (Marinelli, in forma diversa anche
Glover e Milcent), tra Medea e confidente (Clément, Niccolini); b) come lungo
monologo di Medea (Gotter, Giotti); c) avvio in medias res che consente
di mettere in azione l’esposizione: confront tra Medea e Creonte (Balsamo), tra
GIASONE , Creonte e Glauce che concertano le nozze (Gambara, Troilo), come
annuncio al popolo da parte di Creonte delle nozze imminenti, con ampia
introduzione con PRINCIPESSA CREUSA (Della Valle, Legouvé) e coro che si
concentra sulle preoccupazioni della principessa (Hoffman, Romani).
Va da sé
che quest’ultimo modello è seguito dai testi lirici, o da tragedie modellate
sul teatro musicale.
Lo scioglimento, nella nostra lettura la decisione di
Medea di sopprimere i figli, è naturalmente l’episodio del dramma più soggetto
a varianti, quello che meglio caratterizza le diverse versioni, sia per
posizione, sia per costruzione. Con l’eccezione dei testi che intendono calcare
i toni ‘terribili’ della perversione di Medea, quasi tutti gli autori cercano un
motivo scatenante, un modo per rendere plausibile un atto tanto innaturale ed
estremo.
Alcuni testi giustificano l’esplosione della vendetta di Medea con la
certezza di non poter più scongiurare le nuove nozze: lo fa Glover (IV,3: Medea
è informata che il contratto di nozze è già firmato), e lo seguiranno pure Clément
(II,5), Hoffman (III,1-2, dopo che il second’atto era terminato con le nozze di
GIASONE e PRINCIPESSA CREUSA), Milcent
(III,4: Medea, ignara che GIASONE finge
soltanto di accettare l’obbligo di nozze imposto da Creonte sente i canti
nuziali e, in un accesso di follia, uccide i figli), Troilo (II,3) e Pini
(I,10). Normalmente però, sull’esempio di Seneca, la decisione delle nuove
nozze è collocata nell’antefatto e l’evento scatenante diventa la decisione di GIASONE
di tenere con sé i figli: accade in
Corneille (III,3), Longepierre (III,5-6), Giotti (II,3-5), Niccolini, (III,3- 4),
Della Valle (IV,1-2, dopo che il terz’atto era finito con il dialogo sui figli
con GIASONE ), Gambara (II,5-6, dopo un analogo dialogo con Creonte), Lamartine
(IV,2-3, «Eh bien! Ce dernier coup me rend tout mon courage»), Legouvé (III,5-6,
fa sì che, crudelmente, GIASONE chieda a
Medea di scegliere quale figlio tenere; al rifiuto del prescelto di andare con
la madre, questa risolve per la vendetta: la scena è preparata prima con
dialoghi affettuosi tra PRINCIPESSA CREUSA e i figli, sorpresi da Medea).
Solo
Marinelli, Balsamo e Morosini scelgono di seguire Euripide ed immaginano che
sia Medea ad affidare spontaneamente la prole a GIASONE: un espediente per
rendere verosimile il dono della veste (o cinto, o diadema) a PRINCIPESSA
CREUSA. Noverre e Gotter, invece, non chiariscono a chi sia spettata la
decisione di lasciare i figli con GIASONE , e neppure danno ampio risalto alla
risoluzione di GIASONE di sposare PRINCIPESSA
CREUSA: la pantomima che nel primo effigia l’abbandono di GIASONE (II,6-7) e I canti nuziali che nel secondo
(sc. 5) Medea sente da dentro non sono a ridosso dello scioglimento. In questo
modo Noverre, Marinelli e Balsamo, così come Morosini, colorano di terribile
tutta la pièce, fedeli al motto Sit Medea ferox (che Morosini per
primo appone come exergo sul forntespizio della tragedia): arrivano
all’epilogo in un crescendo di ferocia di Medea; in questi casi è difficile individuare
un vero punto di svolta del dramma perché l’evento cruciale sembra anticipato
all’antefatto o alle primissime scene, così che Medea è fin dall’inizio
personaggio abnorme.
In Balsamo e Marinelli la prima comparsa di Medea (I,2 e
I,1) è già all’insegna del progetto di vendetta; il passaggio dall’omicidio di PRINCIPESSA
CREUSA all’infanticidio è ‘giustificato’, per dirla parafrasando un verso di
Morosini, dal fatto che pur la sua sete estinta ancor non era. Morosini, poiché
ha a che fare con dimensioni più ampie e regole più stringenti, non può
naturalmente limitarsi al solo epilogo, come fanno le due opere. Distribuisce
così la catastrofe su tutto il terz’atto: il punto cruciale è descritto da
Tideo a GIASONE quando in III,1 racconta
di aver visto Medea guardare il figlio maggiore in silenzio e smarrita «Disse
al maggior: oh, come nel tuo volto Sta il volto di Giason! Lungo
silenzio| seguì tai detti». Segue il teso dialogo tra Medea e GIASONE ,
«l’ultimo assalto» da lei tentato per riconquistare lo sposo, l’invio della
veste avvelenata a PRINCIPESSA CREUSA e la risoluzione d’uccidere i figli,
vòlta esclusivamente a colpire GIASONE . L’espressione di Medea, descritta da
Tideo silente e turbata non è una novità: uno degli elementi del sublime drammatico
di questi anni erano le frasi concise, la riduzione del livello retorico fino
al silenzio.
In tutte le Medee di fine Sette e inizi Ottocento, il
momento cruciale non necessita di parole, al più è espresso con frasi frammentate
e versi interrotti sul modello alfieriano.
In generale alla riduzione del
livello retorico, corrispondono anche indicazioni gestuali precise: la scena si
fa carico di riverberare e amplificare la tensione del climax drammatico.
Accade nelle opere di Marinelli e Balsamo, dove in II,4 e II,5 il -- In tutte le Medee italiane,
rigorosamente in endecasillabi, lo stile alfieriano con la successione di versi
spezzati subentra nelle scene dove la tensione drammatica giunge al sublime, soprattutto
ogni qual volta vengono citati i figli. Si veda Troilo Malipiero II,3. MEDEA
Quanto ardisca non sai!. CREONTE Ma il don d’un figlio? MEDEA Nol curo! GIASONE
Il mio furor… MEDEA Nol temo! CREONTE
Morte? MEDEA La bramo! CREONTE Il figlio tuo? MEDEA Nol conosco! GIASONE L’infamia? MEDEA La dispregio! PRINCIPESSA
CREUSA Il ciel? MEDEA Lo sfido! GIASONE A Medea dunque, or chi più resta? MEDEA Io! (con
somma forza). Ma un altro caso si trova anche in I,4. Se ne possono poi
osservare esempi anche in Giotti, II,1 (Medea, GIASONE , PRINCIPESSA CREUSA,
Creonte, alla comparsa a sorpresa di Medea), V,ultima (Medea, GIASONE , Creonte);
Morosini, I,3 (Creonte-Medea), II,3, III,2 (GIASONE -Medea), II,4 e III,1 (GIASONE
-Tideo con descrizione dello stato di abbattimento di Medea), IV,3 (Medea-Climene
con la risoluzione all’infanticidio); Niccolini, II,5 (Medea-Rodope, con
risoluzione alla vendetta sui figli), V,6 (Popolo- Rodope-GIASONE -Medea);
Della Valle, II,2 (Creonte-Medea), III,2 (GIASONE -Medea, con la sorpresa dello
sposo di vederla in Corinto), IV,2 (Medea-Licisca con risoluzione alla
vendetta), IV,4 (Creonte- Medea), V,2 (GIASONE -Medea-figli) -- montare della
furia di Medea è evidenziato dal suo sguardo verso i figli, che passa dalla tenerezza
al furore alla tenerezza, e poi ancora al furore275; analoga è la calma
tremenda descritta in Niccolini dalla confidente di Medea (IV,1)276 o lo stato
in cui «Misera! Il suo dolor non ha parole Medea tien fise a terrale attonite
pupille» come fa dire Niccolini ad Adrasto (I,5). Nella drammaturgia del tardo
Settecento la forza scenica di questi gesti ha grande efficacia: possiamo
quindi intenderlo come un adattamento all’estetica del sublime dell’espediente
che Corneille aveva introdotto con la scena di magia per rafforzare il dénouement.
La scelta di Gotter è invece differente da quella di Noverre, Marinelli Balsamo
e Morosini, sebbene, come loro, anch’egli non preveda un episodio scatenante
alla furia di Medea. I canti nuziali che Medea sente da dentro, preludono infatti
ad una scena di delirio: Medea immagina la morte dei figli in modalità analoghe
a quelle poi riprodotte nel dénouement. Il delirio però è episodico, e
non costituisce una vera svolta della breve azione, che infatti immediatamente
dopo riprende con un tenero incontro tra Medea e I figli. Il delitto, per
essere tale, deve essere consapevole: l’obnubilamento della coscienza non
costituisce così il rivolgimento catastrofico; lo sapeva bene Glover che
sfrutta il delirio in cui Medea colpisce i figli per salvare la purezza della
madre assassina, formalmente decretata poi dall’oracolo di Giunone.
L’importanza del delirio è dimostrata anche, e contrario, dalla Vendetta
di Medea di Giotti che in II,5 imita la scena di Gotter ma senza accennare
al delirio: di fatto anticipa così il dénouement. Da quel momento in poi
tutte le azioni di Medea sono volte alla vendetta, ed entrambi i due rimanenti
incontri con i figli (II,6 e IV,7) sono tentativi (falliti) di omicidio. Come
abbiamo visto nel caso di Marinelli e Balsamo, anticipare tanto lo scioglimento
contribuisce a rendere la pièce un epilogo dell’antefatto, rinunciare ad
un percorso drammatico articolato e ridurre lo spettacolo ad una semplice
esibizione di effetti ‘terribili’. L’espediente del delirio iniziale in cui
l’idea di uccidere i figli si affaccia alla mente di Medea, subito respinta con
orrore, è invece ripresa da Gambara (I,4) e da Hoffman (II,4), in analogia con
Gotter, come stigmatizzazione del dénouement: quando avverrà, in stato
di coscienza, avrà già impressi i tratti dell’abnorme. La catastrofe prevede
due fasi necessarie: la realizzazione dell’infanticidio e il chiarimento della
sorte di Medea e GIASONE . I figli di Medea muoiono infatti quasi sempre: fanno
eccezione Balsamo, come detto sopra, e Troilo che chiude la tragedia con un tableau
sospeso con Medea che «alza il braccio armata di pugnale sopra il fanciullo. GIASONE
275 Balsamo, coerentemente, si ferma
alla tenerezza per giustificare il mancato infanticidio finale. Il libretto ne
risulta certamente con meno nerbo, ‘censurato’. 276 «Ohimé conoscoDell’ira
antica i segni, e mai non vidiPiù tremende sembianze; il suo dolore Già divenne
crudele; ed or mi sembrach’ella vagheggi una feroce idea.Allor che il nome ascolta!Dell’infedel
consorteMedea sorride, e quel sorriso è morte. --retrocede inorridito». Fa
eccezione anche Lessing a cui è sufficiente far morire PRINCIPESSA CREUSA per concludere
tragicamente il dramma, visto che il personaggio della ingenua fanciulla innamorata
aveva spodestato Medea del ruolo di protagonista. Negli altri testi, la
vendetta è compiuta a freddo (Clément, Noverre, Gotter, Giotti, Marinelli,
Lamartine, Morosini, Gambara) o su pressione dei corinzi che cercano Medea per
vendicare su lei o sui figli la morte di PRINCIPESSA CREUSA e Creonte
(Longepierre, Hoffman, Gambara, Niccolini, Della Valle, Bertocchi, Pini,
Legouvé). Generalmente è compiuta fuori scena, ma in Noverre, Marinelli, Bertocchi,
Legouvé avviene davanti agli spettatori inorriditi. Un finale aperto
come quello dei due testi classici di Euripide e Seneca, con la fuga di Medea e
lo smarrimento di GIASONE , soddisfacevano poco, tuttavia, la tradizione
classica sei e settecentesca, così come la tradizione ‘terribile’. Per la prima
era troppo immorale l’impunità dei delitti e troppo irregolare la chiusura della
tragedia senza una Chiara collocazione finale di GIASONE , per la seconda
l’efferatezza del delitto di Medea necessitava d’una adeguata evidenziazione
scenica, per rientrare nei canoni delle scene terribili. Corneille, dunque, fa
suicidare GIASONE , seguito in questo da Longepierre, Lessing, Gotter, Noverre,
Morosini (quest’ultimo, con l’esagerata osservanza del decoro degli epigoni, si
affida alla variante dello svenimento) e Romani (nella versione romana del ’24
il suicidio è compiuto, nelle altre impedito all’ultimo istante); Glover si
deve affidare alla discesa di Giunone che perdona i due sposi l’attimo prima
del suicidio; Clément introduce il suicidio di Medea, seguito da Della Valle,
Niccolini, Lamartine e Pini (oltre che dalla versione romana del libretto di
Romani); a partire dal ballo di Noverre, prende anche quota l’amplificazione
scenica del finale, talvolta con infanticidio in scena e comunque con presenza
attiva di furie che terrorizzano gli astanti dentro e fuori dal palcoscenico.
Seguono questa variante laterale, dettata dalle particolari poetiche musicali
del tempo, tutti i testi con musica: Gotter (nelle traduzioni per la scena,
quella di Borroni e quella napoletana, non nelle traduzioni letterarie di de’
Giorgi Bertòla e delle Novelle Letterarie»278), le opere di -- 277 Cfr. M.
Garda, Da «Alceste» a «Idomeneo»: le scene terribili nell’opera seria. Si
confrontino i diversi epiloghi. B. Borroni: «GIASONE – Scellerata! Mel disse il cor presago.| I miei
figli ove son? Poveri figli! Dal palazzo sortono quattro furie, due coi
figli trucidati, e due con fiaccole accese; quelle gittano i figli su i
gradini in faccia a GIASONE , e partono; e queste scendono a
circondarlo. Egli al ravvisare que’ cadaveri dà un grido spaventoso e tenta di
correre verso di essi, ma è trattenuto dalle furie. MEDEA, gittandogli
il pugnale ai piedi – Eccoli pel sepolcro. Ah! pera di Esone la schiatta
reaVivan, Vivan gli de. viva Medea. Sale in trionfo. GIASONE – Tanto dunque a’ miei danni è il cielo
irato?| Furie d’averno orribiliUccidetemi voi, son disperato! In questo istante
precipita il palazzo, GIASONE precipita
colle furie, e si abbassa il sipario». Napoli 1790: «GIASONE – Terribil vista! I figli miei … MEDEA –
Eccoli, ma pel sepolcro! Getta lo stile, e sparisce. Escono quattro furie,
due coi cadaveri dei figli, quali gettano su gli scalini del palazzo, e
partono, e le altre impediscono a GIASONE d’avvicinarsi. GIASONE – Ferma, t’arresta, dà morte anche a me pria
di fuggire …. Ah! voi la cui fredda spoglia non posso ora abbracciar, innocenti
vittime, perdonate, perdonate al vostro genitor… La destra del vindice
Onnipotente faccia le vostra vendetta. Cava uno stile, e si ferisce. Oh
Dio! io vi seguo, io muoio. (Muore)». «Novelle Letterarie»: «GIASONE – Terribil presentimento! … I miei figli?
MEDEA –Va’ e sotterrali. Se ne va trionfante. L’ingresso del palazzo
s’apre da per se. GIASONE – Ferma!
ti arresta! dà morte anche a me prima di fuggire! Vede i cadaveri, vuol
gettarsi sopra; torna indietro tremante. Ah! voi, … le cui fredde membra
non oso abbracciare, Marinelli, Balsamo e Hoffman. Giotti, Marinelli e Hoffman
aggiungono anche il crollo dell’intero palazzo o della città per terremoto o
incendio (in Giotti con «musica analoga».); Gambara si toglie d’impiccio e fa
fuggire Medea di nascosto, affidando alla confidente il compito di rivelare
l’infanticidio a GIASONE ; Milcent opta invece per un improbabile lieto fine,
con la Giunone di Glover che, oltre a perdonare Medea e GIASONE , rende loro
anche I figli misteriosamente sfuggiti ai colpi della madre. Così come le
sezioni portanti del dramma, anche i diversi episodi previsti per tratteggiare
i caratteri della tragedia possono essere molto vari col variare del tono
generale che il drammaturgo intende dare alla sua Medea.
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