Grice e Catalfamo: l'implicatura conversazionale della metafisica
della libertà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania).
Filosofo italiano. Grice: “I love Catalfamo; his ‘metaphysics of freedom’ is
better than anything that soi-dissant Dame Mary Warnock wrote on
‘existentialism’! Catalfamo, like most Italian philosophers, take, as Strawson
and I do, the concept of a ‘person’ seriously – indeed, so seriously that he,
along with a few other Italian philosopher, turn it into an –ism: his is a
critical personalism, though, best defined as an expansion from scepsis to
hope. Della corrente del "personalismo storico o critico". Si laurea in Pedagogia e in Scienze
Politiche. Prima assistente volontario di Galvano Della Volpe (che definisce
unico filosofo a livello di Croce), poi discepolo di Vincenzo La Via (che si
era formato alla scuola di Gentile, del quale era stato assistente), e suo
collaboratore dal 1946, diviene libero docente, incaricato di Pedagogia e
infine ordinario di Pedagogia. Fonda e diviene direttore dell'Istituto di
Pedagogia all'Messina. Il suo pensiero
si snoda in quattro fasi: dell'epistemologo, del personalista storico ed
antidogmatico, dello scettico, dell'uomo di fede. La formazione filosofica (fu
Assistente di ruolo di Filosofia e scrisse sulla rivista "Teoresi",
fondata dai suo maestro La Via) traspare nel suo pensiero pedagogico,
concepito, e nel tempo modificato, all'insegna dell'apertura e dell'innovazione
anche didattica. Nel suo personalismo, che ha come principi critici la
storicità, la trascendenza e la problematicità "egli rintraccia nuovi
aspetti... e incomincia a fare i conti con la storia e le sue fenomenologie",
" il personalismo... lentamente ma inesorabilmente si qualificherà come
«storico»; la persona assume una significanza fenomenologica di unità... in
costruzione", "Catalfamo collega l'esserci e il farsi della persona
al flusso della realtà oggettiva, nel doppio senso: nell'influenza e
stimolazione di questa verso quella e della trasformazione della realtà
oggettiva ad opera della persona". "L'uomo come soggetto agente
impedisce che l'esperienza sia un limite, cerca di oltrepassarla vedendo in
essa quello che non è e quello che potenzialmente è. La persona, dunque, è una
realtà trascendente". L'aspetto problematico del suo pensiero, infine, fa
riferimento alla "posizione stessa della persona, la quale, costituita
nell'esperienza, è radicata nella problematicità di essa, perché "il mondo
per la persona è sempre un problema, così come un problema è il suo essere nel
mondo". Catalfamo è stato fondatore
e direttore della rivista "Presenza" assieme al prof. Gianvito Resta;
fondatore e direttore di "Prospettive pedagogiche", dal 1964 fino al
1988. È stato anche Prorettore
dell'Messina. Gli è stata conferita dal Presidente della Repubblica, la
Medaglia d'oro al merito della Scuola, della Cultura, dell'Arte. Il 12/02/, la
Giunta del Comune di Messina gli ha intitolato un tratto di strada nei pressi
dell'Università, all'Annunziata alta. Più recentemente, a Messina, si è tenuta
una solenne cerimonia, nel corso della quale è stata scoperta una targa
commemorativa, che riporta una sua rilevante riflessione, e gli è stato
intitolato un Istituto Comprensivo. Altre
opere: Kant, Lezioni di pedagogia, Ed. Messina Empirismo pedagogico e
filosofia, "Teoresi", anno IV, nn.1-2 Pedagogia e Filosofia,
"Biblioteca dell'educatore", AVE, Milano Marxismo e Pedagogia, Avio,
Roma Il fondamento della pedagogia. Disegno di una pedagogia personalistica, Sessa,
Messina Personalismo pedagogico, (1958), Armando, Roma La pedagogia contemporanea
e il personalismo, Armando, Roma L'educazione fondamentale, Armando, Roma I
fondamenti del personalismo pedagogico, Armando, Roma La pedagogia
dell'idealismo (corso universitario), Providente, Messina Elementi di
psicopedagogia e pedagogia sperimentale (corso universitario), Providente,
Messina Storia della pedagogia come scienza filosofica, Barbera, Firenze
Criteriologia dell'insegnamento: la didattica del personalismo, Bemporad
Marzocco, Firenze Personalismo senza dogmi, Armando, Roma Giuseppe Lombardo
Radice, Ed. La Scuola, Brescia La pedagogia marxista sovietica (in
collaborazione con Salvatore Agresta), Edizioni dell'Istituto, Messina La
filosofia contemporanea dell'educazione, Istituto di Pedagogia, Messina
Compendio di psicopedagogia e pedopsichiatria (in collaborazione con M.
Vitetta), Parallelo 38, Reggio Calabria L'individualizzazione dell'insegnamento
(in collaborazione con Salvatore Agresta), Peloritana editrice, Messina Lo
spiritualismo pedagogico, EDAS, Messina Introduzione alla psicologia dell'età
evolutiva (in collaborazione con L. Smeriglio), A. Signorelli Editore, Roma
Ideologia e pedagogia, EDAS, Messina La pedagogia del personalismo storico, EDAS,
Messina L'ideologia e l'educazione, Peloritana, Messina Aspetti della
socializzazione, Peloritana, Messina Le illusioni della pedagogia, Milella,
Lecce Fondamenti di una pedagogia della speranza,La Scuola, Brescia
L'educazione politica alla democrazia, Pellegrini Editore, Cosenza Educazione
della persona e socializzazione, EDAS, Messina Preliminari ad una dottrina dell'apprendimento,
Catalfamo e il personalismo critico. "Nuove Ipotesi" D.U.E.M.I.L.A.,
Palermo. Il personalismo Catalfamo, Accademia Peloritana dei Pericolanti. Di qui ap- punto si può anticipatamente scorgere, che
le dif- ficoltà più profonde incluse nel concetto di liberta, si
potranno risolvere coll’ idealismo in sè preso, tanto poco quanto con
qualunque altro sistema parziale. L’ idealismo invero porge, della
libertà, da un lato il concetto più generale, dall’altro quello
meramente formale. Ma il concetto reale ’e vivente è, che essa consista
in una facoltà del bene e del male. Questo è il punto della
difficoltà più grave, che, in tutta la dottrina della libertà, è stata da
lungo tempo avvertita, e che tocca, non solo questo o quel sistema,
bensì, più o meno, tutti 1 : nel modo più spiccato di cerio il concetto
dell’immanenza; poiché, o si ammette un male reale, e allora è
inevitabile collocare il male nell’ infinita sostanza o nell’ originario
volere stesso, con che si distrugge interamente il concetto di un essere
perfettissimo; o bisogna negare in qualche maniera la realtà del
male, e con ciò svanisce insieme il concetto reale di libertà. Non minore
è l’intoppo, anche se inten- diamo nel modo più esteso la relazione tra
Dio e gli esseri mondani; poiché, dato pure che essa venga limitata
al cosiddetto concursus, o a quella necessaria cooperazione di Dio all’
agire delle crea- ture, che dev’ esser accettata grazie alla
essenziale dipendenza loro da Dio, anche se vuoisi del resto
affermare la libertà: in tal caso però Dio apparirà innegabilmente come
cooperatore del male, giac- ché il permetterlo in un essere in tutto e
per tutto dipendente non vai meglio che il contribuire a produrlo;
o anche qui, in un modo o nell’altro, dovrà esser negata la realtà del
male. La propo- sizione, che tutto il positivo della creatura venga
da Dio, anche in questo sistema dev’essere affer- mata. Ora, se si
ammette che nel male vi sia al- II sig. Fed. Schlegel ha il merito
di aver fatto valere questa difficoltà specialmente contro il panteismo
nel suo scritto sugl’ Indiani e in parecchi luoghi; ma è a
deplorare soltanto che quest’ acuto erudito non abbia creduto
oppor- tuno comunicare la sua propria veduta sull’ origine del male
c sul suo rapporto col bene. cunchè di positivo, anche questo positivo
deriverà da Dio. Qui si potrà opporre: il positivo del male, in
quanto positivo, è bene. Con ciò il male non viene a sparire, benché non
venga neppure spie- gato Infatti, se ciò che nel male sussiste' è
bene, donde mai nasce ciò, in cui questo sussistente è, la base,
che forma propriamente il male? Tutta diversa da quest’affermazione
(sebbene spesso, anche di recente, confusa con la prima) è 1’
altra, che nel male, in ogni caso, non vi sia nulla di positivo, o,
per usare un’espressione diversa, che esso non esista affatto ( neppure
con e in un altro elemento positivo), ma che tutte le azioni siano
più o meno positive, e che la differenza tra loro consista in un semplice
plus o minus di perfezione, con che non si stabilisce alcuna opposizione,
e però il male svanisce interamente. Sarebbe questa la seconda
possibile ipotesi in rapporto alla propo- sizione, che tutto il positivo
scaturisca da Dio. Allora la forza, che si mostra nel male, sarebbe
sì, al paragone, più imperfetta di quella che appare nel bene, ma,
considerata in sé, o fuori del para- gone, sarebbe una perfezione pur
sempre, la quale dunque, come ogni altra, dev’ esser derivata da
Dio. Ciò che noi in tal caso chiamiamo un male, è solo il minor grado di
perfezione, il quale però solo per il nostro bisogno di comparazione
appare come difetto, mentre nella natura non è punto. Che questa
sia la vera opinione di Spinoza, non è possibile negare. Qualcuno
potrebbe tentare di sfuggire a quel dilemma, rispondendo: che il
positivo derivante da Dio sarebbe la libertà, la quale è in se stessa
indifferente verso il male e il bene. Ma, se egli concepisce questa
indifferenza, non in modo puramente negativo, bensì come una
1 Nel testo: « Seietide. » vivente e positiva facoltà di
determinarsi al bene e al male, non si vede come da Dio, che vien
considerato come pura bontà, possa mai seguire una facoltà di eleggere il
male. È evidente da ciò, per dirla di passaggio, che, se la libertà è
real- mente quel che in conformità di questo concetto deve essere
(ed è immancabilmente), non si può essa giustificare con la già tentata
derivazione della libertà da Dio; poiché, se la libertà è un potere
di far il male, essa dovrà avere una radice indipendente da Dio. Così
incalzati, si può esser tentati di gettarsi in braccio al dualismo. Ma
questo sistema, se dev’ esser concepito effettivamente come la
dottrina di due principii opposti e tra loro indi- pendenti, non è se non
un sistema del suicidio e dello sconforto della ragione. Se poi il
principio cattivo è pensato come dipendente in un certo senso dal
buono, tutta la difficoltà della deriva- zione del male dal bene è certo
concentrata in un solo essere, ma viene così ad essere accresciuta
anziché diminuita. Anche supponendo che questo secondo essere fu
dapprincipio creato buono e per propria colpa si staccò dall'essere
originario, resta sempre inesplicabile in tutti i sistemi, che si
son avuti finora, la prima facoltà di un atto di ribel- lione a
Dio. Perciò, anche se noi finiamo col sopprimere, non solamente
l’identità, ma ogni le- game degli esseri mondani con Dio,
considerando la loro esistenza attuale e quella del mondo con essa
come un allontanamento da Dio, la diffi- coltà è solo spostata di un
punto, ma non tolta. Infatti, per potere scaturire da Dio, essi
dovevano già esistere in un certo modo, e non si potrebbe
menomamente opporre al panteismo la dottrina dell’emanazione,
presupponendo essa un’originaria esistenza delle cose in Dio e quindi
naturalmente il panteismo. A spiegare quell’ allontanamento, si
potrebbe solo addurre quanto segue. O esso è involontario da parte
delle cose, ma non da parte di Dio: e allora, siccome esse da Dio furono
get- tate nello stato d’ infelicità e di malizia, Dio è 1’ autore
di un tale stato. O è involontario da ambe le parti, cagionato forse da
esuberanza dell’ essere, come alcuni affermano: rappresentazione
insoste- nibile affatto. O è volontario da parte delle cose, uno
svellersi da Dio, dunque la conseguenza di una colpa, alla quale segue
una sempre pivi pro- fonda caduta: e allora questa prima colpa è
già per se stessa il male, e non dà alcuna spiega- zione dell’
origine di esso. Senza un tale espe- diente poi, che, se spiega il male
nel mondo, estingue viceversa, e interamente, il bene, e invece del
panteismo introduce un pandenionismo, sva- nisce precisamente nel sistema
dell’ emanazione ogni proprio contrasto di bene e male; il Primo,
si perde per infiniti gradi intermedii, mediante un graduale attenuarsi,
in ciò che non ha più alcuna parvenza di bene, suppergiù allo stesso modo
in cui Plotino, 1 con sottigliezza bensì, ma senza lasciar
appagati, descrive il transito del bene ori- ginario nella materia e nel
male. Invero, da un costante processo di subordinazione e di allonta-
namento, vien fuori un Ultimo, di là dal quale il divenire è impossibile,
e questo appunto (ciò che è incapace di produrre ulteriormente) è il
male. Ovvero: se qualche cosa è dopo il Primo, dev’ es- serci anche
un Ultimo, che del Primo non ha più nulla in sè, e questo è la materia e
la necessità del male. Dopo tali considerazioni, non sembra
giusto rovesciare tutto il peso di questa difficoltà su di un solo
sistema, specialmente se ciò che di più alto si pretende di opporgli, è
così poco soddi- 1 Ennead. I. L. Vili, c. 8.
sfacente. Anche le generalità dell’ idealismo non ci possono dare qui
alcun aiuto. Con dei concetti lambiccati di Dio, come /’ actus
purissimùs, del genere di quelli che stabiliva la filosofia antica,
o di quelli, che la moderna cava fuori pur sempre, con la
preoccupazione di tenere Dio a gran di- stanza dall’ intiera natura, non
si riesce a nulla di nulla. Dio è qualcosa di più reale che un sem-
plice ordinamento morale del cosmo, ed ha in sè ben altre e ben più vive
forze motrici di quelle che P arida sottigliezza degl’ idealisti astratti
gli attribuisce. L’orrore per ogni realtà, quasi che lo spirituale
possa contaminarsi in ogni contatto con essa, deve naturalmente produrre
anche la cecità per l’origine del male. L’idealismo, se non ha per
base un realismo vivente, diviene un sistema altret- tanto vuoto e
lambiccato, quanto il leibniziano, lo spinoziano, o qualunque altro
sistema dogmatico. Tutta la nuova filosofia europea dal suo
principio (con Descartes) ha questo comune difetto, che la natura
non esiste per essa, e che le manca un vivo fondamento. Il realismo dello
Spinoza è per- tanto così astratto, come l’idealismo del Leibniz.
L’idealismo è l’anima della filosofia; il realismo n’ è il corpo; solo
tutti e due insieme fanno un tutto vivente. Il secondo non può mai
offrire il principio, ma bisogna che sia la base ed il mezzo, in
cui quello si realizza, prendendo carne esangue. Se ad una filosofia
manca questo fondamento vivo, il che d’ ordinario è segno che anche il
principio idea'e aveva originariamente in essa una debole
efficacia: essa verrà a perdersi in quei sistemi, i cui distillati
concetti di aseità, modificazioni ecc. stanno nel più acuto contrasto con
la forza vitale e la pienezza della realtà. Dove poi il principio
ideale è fornito davvero e in alta misura di forza operativa, ma non può
trovare una base di conci- liazione e di mediazione, produrrà un torbido
e selvaggio entusiasmo, che finirà nella macerazione di se stessi,
o, come accadeva ai sacerdoti della dea Frigia, nell’ evirazione, la
quale in filosofia si compie abbandonando la ragione e la scienza.
È parso necessario incominciare questo trattato con la
giustificazione di concetti essenziali, che da lungo tempo, ma in
particolare ultimamente, sono stati ingarbugliati. Le osservazioni fatte
si- nora debbono perciò considerarsi come semplice introduzione
alla nostra indagine vera e propria. Noi l’abbiamo già dichiarato: solo
con i prin- cipii d: una vera filosofia della natura si può
svolgere quella veduta, che dà completa soddisfa zione al tema che ci
proponiamo. Noi non ne- ghiamo perciò che una tale esatta veduta sia
stata già da lungo tempo anticipata da alcuni intelletti. Ma erano
anch’ essi appunto quelli, che senza te- mere gli epiteti ingiuriosi di
materialismo, pantei- smo ecc., usuali da un pezzo contro ogni
filosofia realistica, cercavano il principio vivente della na-
tura, e, in contrapposto ai dogmatici ed agl’idea- listi astratti, che li
respingevano come mistici, erano filosofi naturali (nell’ uno e
nell’altro senso). La filosofia naturale dei nostri tempi ha per la
pri- ma volta introdotta nella scienza la distinzione tra l’essere,
in quanto esiste, e l’essere, in quanto è semplice fondamento di
esistenza. Tale distin- zione è vecchia quanto la prima esposizione
scien- tifica di essa. 1 Nonostante che proprio in questo punto
essa diverga nel modo più reciso dalla via di Spinoza, pure in Oermania
si è poiuto fin adesso affermare che i suoi principii metafisici siano
tut- t’uno con quelli di Spinoza; e sebbene quella distin- zione
appunto porti nello stesso tempo la più recisa 1 Si veda nella
Zeitschrift tur spekul. Physik Bd. II, Heft 2, § 54 nota, [IV, S. 146],
inoltre nota 1 al § 93 e la spiegaz. a p. 114 [S. 203). distinzione
della natura da Dio, ciò non ha im- pedito che la si accusasse di
confondere Dio con la natura. Poiché sulla medesima distinzione si
fonda la presente ricerca, sia detto quanto segue a fine d’
illustrarla. Non esistendo nulla prima o fuori di Dio, con-
viene che egli abbia in se stesso il fondamento della sua esistenza. Cosi
dicono tutti i filosofi; ma essi parlano di questo fondamento come di
un puro concetto, senza farne alcunché di reale e di effettivo.
Questo fondamento della sua esistenza, che Dio ha in sé, non è Dio
assolutamente con- siderato, cioè in quanto esiste; poiché esso non
è se non il fondamento della sua esistenza, esso è la natura in Dio; un
essere inseparabile, è vero, ma pur distinto da lui. Questo rapporto
si può chiarire analogicamente con quello tra la forza di gravità e
la luce nella natura. La forza di gravità precede la luce, come suo
eternamente oscuro fondamento, il quale per se stesso non è actu e
si dilegua nella notte, mentre la luce (l’esistente) sorge. 11 suggello,
sotto cui essa è chiusa, non è sciolto interamente neppur dalla
luce. ' Appunto perciò essa non è nè l’ essenza pura nè l’essere attuale
dell’ assoluta identità, ma non fa se non seguire dalla sua natura;* * o
essa è, considerata in altri termini nella potenza deter- minata:
poiché del resto, anche ciò, che relati- vamente alla forza di gravità
appare come esistente, in se stesso poi appartiene al fondamento, e
la natura in genere è pertanto ciò che rimane di là dall’essere
assoluto dall’identità assoluta. 3 Per quanto del resto concerne quella
precedenza, essa non è a concepirsi nè come precedenza di tempo, nè
come priorità di essenza. Nel circolo, da cui ogni cosa deriva, non v’ è
alcuna contradizione ad ammettere che ciò, da cui 1’ Uno è
prodotto, sia alla sua volta prodotto da esso. Non v'è qui un primo
ed un ultimo, perchè tutto si presuppone a vicenda, nessuna cosa è 1’
altra e tuttavia non è senza l’altra. Dio ha in sè un intimo
fondamento della sua esistenza, che in questo senso precede lui
come esistente; ma Dio a sua volta è del pari il Prius del fondamento,
giacché questo, anche come tale, non potrebbe essere, se Dio non
esistesse actu. Alla medesima distinzione porta la
riflessione scaturiente dalle cose. Primieramente è da lasciare
affatto in disparte il concetto dell’ immanenza, in quanto esprima per
avventura una morta compren- sione delle cose in Dio. Noi riconosciamo
piut- tosto, che il concetto del divenire sia l’unico ap- propriato
alla natura delle cose. Ma queste non possono divenire in Dio,
assolutamente conside- rato, mentre sono tato genere , o per parlare
più giusto, infinitamente diverse da lui. Per essere staccate da
Dio, occorre che divengano in una base differente da lui. Ma nulla
potendo essere fuori di Dio, la contradizione si scioglie solo am-
mettendo, che le cose abbiano la loro base in ciò che in Dio non è Egli
stesso ', ovvero in ciò che è base della sua esistenza. Se
vogliamo accostare maggiormente quest’ es- sere all’ intelletto umano,
possiamo dire : che egli sia il desiderio, che sente l’Eterno Uno, di
generare 1 È questo l’unico vero dualismo, cioè quello che
nello stesso tempo concede un’unità. Più su era in questione il
dualismo modificato, secondo cui il principio malvagio è, non coordinato,
ma subordinato al buono. C’e appena datemere che qualcuno confonda il
rapporto stabilito qui con quel dualismo, in cui il subordinato è sempre
un principio es- senzialmente cattivo, e appunto perciò rimane
totalmente incomprensibile nella sua origine da Dio. se stesso. Non
è l’Uno stesso, ma pure è coeterno con lui. Vuol generare Dio, cioè
l’impenetrabile unità, ma in questo senso non è in se stess’o an
cora V unità. È dunque, considerato per sè, anche volere; ma volere in
cui non c’è intelligenza, e però anche, non autonomo e perfetto volere,
perchè l’in- telletto propriamente è il volere nel volere. Tuttavia
esso è un volere che si dirige all’ intelletto, cioè desiderio e brama di
esso; non un conscio, ma un presago volere, il cui presagio è
l’intelletto. Noi parliamo dell’essenza del desiderio in sè e per
sè considerata, che dev’essere ben tenuta d’occhio quantunque sia stata
da gran tempo sop- piantata dal principio superiore, che si è
elevato da essa, e quantunque non possiamo afferrarla
sensibilmente, ma solo con lo spirito e col pen- siero. Secondo l’eterno
atto dell' auto- rivelazione, tutto invero nel mondo, come lo scorgiamo
adesso, è regola, ordine e forma; ma nel fondo c’è pur sempre
l’irregolare, come se una volta dovesse ricomparire alla luce, e non
sembra mai che l’ or- dine e la forma siano l’originario, ma che
qual- cosa di originariamente irregolare sia stata solle- vata ad
ordine. Questo è nelle cose l’inafferrabile base della realtà, il residuo
non mai appariscente, ciò, che, per quanti sforzi si facciano, non si
può risolvere in elemento intellettuale, ma resta nel fondo
eternamente. Da questo Irrazionale è,- nel senso proprio, nato l’
intelletto. Senza il precedere di questa oscurità, non v’è alcuna realtà
della creatura; la tenebra è il suo retaggio necessario. Dio solo —
egli medesimo l’Esistente — abita nella pura luce, poiché egli solo è da
se stesso. La presunzione dell’ uomo si ribella assolutamente a
quest’origine, e anzi va in cerca di principi! morali. Tuttavia non
sapremmo che cos'altro po- tesse maggiormente spinger l’ uomo a tendere
con tutte le sue forze verso la luce, che la coscienza della
profonda notte, da cui egli è stato tratto al- l’esistenza. I lamenti
feminei, che in tal modo si ponga F inintelligente come radice
dell’intelletto, la notte come principio della luce, si fondano in parte
su di un’equivoca interpretazione della cosa (in quanto non si capisce,
come con questa ve- duta la priorità dell’intelletto e dell’essenza
secon- do il concetto possa tuttavia sussistere); ma essi esprimono
il vero sistema degli odierni filosofi, che volentieri produrrebbero
fumum ex fulgore, al che non basta la potentissima precipitazione
fich- tiana. Ogni nascita è nascita dall’ oscurità alla luce; il
seme dev’essere profondato nella terra e morire nelle tenebre, affinchè
la bella e luminosa forma vegetale si aderga e si spieghi ai raggi
del sole. L’uomo vien formato nel corpo della madre; e dal buio
dell’irrazionale (dal sentimento, dalla brama , 1 splendida madre della
conoscenza) germo- gliano i luminosi pensieri. Noi pertanto dobbia-
mo rappresentarci la brama originaria, come diri- gentesi verso
l’intelletto, che essa non ancora conosce, così come noi nell’aspirazione
aneliamo ad un bene ignoto e senza nome, e agitantesi pre- saga,
come un mare che ondeggia e ribolle, simile alla materia di Platone,
secondo una legge oscura ed incerta, senza la capacità di formare
qualcosa che duri. Ma, rispondendo alla brama, che, quale
fondamento ancora oscuro, è il primo segno di vita dell’essere divino, si
genera in Dio stesso un’ intima riflessiva rappresentazione, mercè
la quale, poiché non può avere altro oggetto che Dio, Dio contempla
in una immagine se stesso. Tale rappresentazione è la prima forma in cui
si realizza Dio, assolutamente considerato, benché solo in lui stesso
; è in Dio inizialmente, ed è Dio 1 Nel testo: « Sehnsucht
». stesso generato in Dio. Tale rappresentazione è ad un tempo l’
intelletto — il verbo di quell’ aspi-, razione,* e l’eterno spirito, che
sente in ih il verbo e insieme l’infinita aspirazione, mosso dal-
l’amore, che è egli medesimo, esprime il verbo, che oramai, accoppiandosi
l’intelletto all’aspira- zione, diviene volontà liberamente creativa e
onni- potente, e nella natura, dapprincipio sregolata, pro- duce
come in un suo elemento o strumento. 11 primo effetto dell’ intelligenza
in essa è la separa- zione delle forze, potendo egli solo così
dispie- gare l’unità che vi è contenuta inconsciamente, quasi in un
seme, eppur necessariamente, a quel modo stesso che nell’ uomo la luce s’
insinua nel- l’oscuro desiderio di cercare qualcosa, per il fatto,
che nel caotico tumulto dei pensieri, che tutti s’intrecciano, ma ognuno
impedisce all’altro di sor- gere, i pensieri si scindono e sorge l’unità,
che è nascosta nel fondo e che tutti li comprende sotto di sè; o
come nella pianta, solo nel rapporto del di- spiegarsi e propagarsi delle
forze, si scioglie l’o- scuro vincolo della gravità e viene a
svilupparsi l’unità nascosta nella materia distinta. Poiché in-
vero quest’essere (della natura primordiale) non è altro che l’eterno
fondamento dell’esistenza di Dio, perciò deve contenere in se stesso,
benché chiara, l’essenza di Dio, quasi un lume di vita risplendente
nell’oscurità. II desiderio poi, eccitato dall’ intelligenza, tende ormai
a conservare quel lume di vita che ha accolto in sè, e a
rinchiudersi in se stesso, per rimanere pur sempre come fon-
damento. Quando perciò l’intelletto, o il lume posto nella natura
primordiale, spinge alla sepa- razione delle forze (all’abbandono
dell’oscurità) il desiderio che si ritira in se stesso, facendo
sor- 1 Nel senso in cui si dice: la parola dell’enigma.
gere, appunto in questa separazione, l’unità in- clusa nel
distinto, il nascosto lume di vita, nasce in tal modo per la prima volta
alcunché di com- prensibile o di singolo, e in verità, non per via
di rappresentazione esterna, bensì di vera imma- ginazione , ' poiché
quel che sorge nella natura è figurato di dentro; o, più esattamente
ancora, per via di un risveglio, in quanto che l’intelletto fa
sorgere l’unità o l’idea occultata nel fondamen- tale distinto . 1 2 Le
forze separate (ma non comple- tamente staccate) in tale distinzione son
la materia, onde poi è configurato il corpo; invece il legame
vivente che nasce nella distinzione, e però dall’imo fondo naturale, come
centro delle forze, è l’ani- ma. Siccome l’intelletto originario trae
l’anima, come elemento interiore, da un fondo indipen- den e da
esso, rimane perciò anch’essa indipen- dente, come un’essenza speciale e
sussistente di per sé. È facile vedere, che nella resistenza
del desi- derio, necessaria alla perfetta nascita, il legame
strettissimo delle forze si scioglie in uno svolgi- mento che avviene per
gradi e, ad ogni grado della separazione delle forze, sorge dalla natura
un nuovo essere, la cui anima sarà tanto più perfet- ta, quanto più
contiene distinto ciò, che negli altri è ancora indistinto. Mostrare come
ogni suc- cessivo processo venga ad avvicinarsi sempre più
all’essenza della natura, finché nella massima separazione delle forze si
schiude il più intimo centro, è ufficio di una perfetta filosofia
della natura. Per lo scopo presente è essenziale quanto segue.
Ognuno degli esseri, sorti nella natura 1 Nel testo ; Ein-Bildilng,
onde un gioco di parole intra- ducibile nella nostra lingua. Alla
lettera; « nel fondamento distinto »; in dcm geschie- denen Grande. (N.
d. T). secondo la maniera indicata, ha in sè un doppio principio,
che è uno e identico in fondo, ma si- può considerare sotto due aspetti.
Il primo prin- cipio è quello, per cui essi son distinti da Dio, o
per cui sono nel solo fondamento; ma, siccome tra ciò, che è esemplato
nel fondamento, e ciò, che è esemplato nell’intelletto, ha pur luogo
una originaria unità, e il processo della creazione tende solo a
trasmutare internamente o a rischiarare nella luce il principio
originariamente oscuro (perchè l’intelletto, o la luce introdotta nella
na- tura, cerca in fondo propriamente la luce affine, rivolta a
loro): così il principio tenebroso per sua natura è appunto quello, che è
insieme rischia- rato nella luce, ed entrambi, sebbene in determi-
nato grado, son uno in ogni essere naturale. Il principio, in quanto
nasce dal fondo ed è oscuro, è il volere individuale della creatura, il
quale però, in quanto non è ancora assurto (non comprende) a
perfetta unità con la luce (come principio del- l’intelletto), è mera
passione o brama, ossia vo- lere cieco. A questo volere individuale della
crea- tura si contrappone l’intelletto come volere univer- sale,
che si serve del primo, subordinandolo a sè come semplice strumento. Se
infine, proce- dendo la trasformazione e separazione di tutte le
forze, è messo in piena luce il punto più interno e profondo della
primordiale oscurità in un es- sere, allora il volere di quest’essere è
bensì, in quanto esso è un individuo, egualmente un vo- lere
particolare, ma in sè, o come centro di tutti gli altri voleri
particolari, è uno col volere origi- nario o coll’intelletto, cosicché di
entrambi si fa ora un unico insieme. Quest’elevazione del più
profondo centro alla luce non accade in nes- suna delle creature a noi
visibili fuorché nel- l’uomo. Nell’uomo è tutta la potenza del
principio tenebroso e ad un tempo tutta la potenza della luce. In
lui è il più profondo abisso e il più alto cielo, o entrambi i centri. Il
volere dell’uomo è il germe occultato nell’ eterna brama di un Dio
esistente ancora nel fondamento; il divino lume di vita chiuso nel
profondo e che Dio vide, quando concepì il volere di crear la natura. In
lui soltanto (nell’ uomo) Dio ha amato il mondo; e la brama accolse
nel suo centro appunto quest’immagine di Dio, quando entrò in conflitto
con la luce. L’uomo per ciò, che egli scaturisce dall’ imo fondo (è
una creatura), ha in sè un principio indipen- dente per rapporto a Dio;
ma per ciò, che sif- fatto principio — senza cessare tuttavia di
essere tenebroso nel suo fondo — è chiarificato nella luce, si
schiude insieme in lui qualcosa di più alto, lo spirito. Infatti l’eterno
spirito esprime l’unità o il verbo nella natura. 11 verbo espresso
(reale) poi è solo nell’unità di luce e tenebre (vocale e consonante).
Ora in tutte le cose vi sono bensì i due principii, ma senza piena conso-
nanza, a causa della manchevolezza di ciò che è elevato dal fondo. Solo
nell’uomo dunque è piena- mente espresso il verbo, che in tutte le altre
cose è ancora arrestato e incompiuto. Ma nel verbo espresso viene a
rivelarsi lo spirito, cioè Dio, esi- stente come actu. Essendo poi l’
anima identità vivente dei due principii, essa è spirito; e lo spi-
rito è in Dio. Ora, se nello spirito dell’ uomo l’identità dei due
principii fosse altrettanto indis- solubile che in Dio, non vi sarebbe
alcuna diffe- renza, cioè Dio, come spirito, non si rivelerebbe.
Quella medesima unità, che in Dio è inseparabile, deve essere adunque
separabile nell’ uomo, — ed ecco la possibilità del bene e del male.
libertà Capacità del soggetto di agire (o di non agire) senza costrizioni
o impedimenti esterni, e di autodeterminarsi scegliendo autonomamente i fini e
i mezzi atti a conseguirli. La l. può essere definita in riferimento a tre
elementi: il soggetto o i soggetti di l. (chi è libero), i campi entro cui essi
sono liberi (definiti dai vincoli), gli scopi o i beni socialmente riconosciuti
che si è liberi di perseguire (che cosa si è liberi di fare). Come vi sono vari
tipi di agenti che possono essere liberi (persone, associazioni, Stati), così
vi sono molti tipi di condizioni che li vincolano e innumerevoli generi di cose
che essi sono liberi o non liberi di fare. In questo senso esistono molte l.
diverse (morale, giuridica, politica, religiosa, economica, ecc.). Di
conseguenza, quando cerchiamo di definire stati di l., abbiamo a che fare con
questioni relative all’identificazione di chi, sotto quale descrizione
pertinente per il riconoscimento collettivo, è libero di fare che cosa,
rispetto a quali vincoli, entro quale campo di azione e significato sociale. La
riflessione sul tema della l. accompagna tutta lo storia del pensiero
filosofico, dall’antichità all’epoca contemporanea, con accenti e approcci
diversi. Il tema della libertà nella filosofia antica. Nel pensiero
di Socrate hanno un grande rilievo i due motivi, strettamente connessi tra
loro, della involontarietà del male e dell’attraenza del bene. Socrate è
convinto che nessuno fa il male volontariamente, cioè per il gusto di fare il
male, e che ognuno agisce sempre in vista di quello che egli crede sia il bene
e il meglio per lui. Se per questo verso Socrate resta all’interno del
cosiddetto soggettivismo dei sofisti, nel senso che anche per lui non è mai
possibile uscire dall’ambito delle valutazioni, dei gusti e delle preferenze
individuali, tuttavia questi vengono continuamente giudicati, criticati e
discussi attraverso il διαλέγεσϑαι («il disputare») e ciò permette di ritrovare
criteri comuni e validi universalmente. Fare il male, per Socrate, vuol dire
seguire un bene apparente invece del bene reale; infatti, se uno conoscesse il
bene, lo farebbe anche, perché il bene è tale che, una volta conosciuto, attrae
irresistibilmente la volontà dell’uomo e si presenta senz’altro come ciò che è
preferibile. Di qui l’equazione socratica di scienza e virtù, strettamente
connessa all’eudemonismo che caratterizza tutta l’etica socratica. Di qui,
implicitamente, una concezione della l. come meta raggiungibile attraverso la
scienza. Questa concezione ritorna anche in Platone, sia pure all’interno di
una prospettiva escatologica: si pensi al mito di Er (Repubblica,X), il
guerriero che ha passato dodici giorni nell’Ade e che può ricordare ciò che ha
visto. L’anima, che è immortale, deve reincarnarsi ciclicamente per espiare i
peccati che ha commesso, e poiché essa ricorda le sue vite precedenti, può
scegliere fra vari «modelli di vita». Ciascuna anima è responsabile della
propria scelta, «la divinità non vi ha minimamente parte», e ognuna avrà, per
guidarla nella sua vita, il demone che si sarà scelto. Una volta avvenuta la
decisione, non ci sarà più possibilità di sottrarvisi. Ma solo chi ha ascoltato
la filosofia sa riflettere con discernimento: se la scelta, dunque, è libera,
di questa l. è possibile fruire nel migliore dei modi solo attraverso la
filosofia. Anche in Aristotele troviamo il consueto rapporto greco tra l. e
conoscenza. Secondo l’analisi svolta nell’Etica nicomachea (III, 1),
involontarie sono quelle operazioni «che avvengono per costrizione» o «per ignoranza»;
la costrizione ha luogo ogni volta che «il principio dell’azione sia esteriore,
di modo che l’agente, o paziente, non vi contribuisca per nulla». Quanto alle
azioni commesse per ignoranza, l’involontarietà deriva dal fatto che «ogni
malvagio ignora ciò che si deve fare e ciò da cui ci si deve astenere». Pare
dunque, conclude Aristotele, che «sia volontario ciò il cui principio si trova
nell’agente che conosce tutte le circostanze particolari dell’azione». In
questo modo Aristotele congiunge strettamente la l. del volere alla scelta
volontaria. Un’ampia analisi dei problemi connessi con la libertà ci dà Plotino
nelle Enneadi (VI, 8). Egli si chiede «se sia qualche cosa rimessa alla nostra
libertà», e poiché moltissime sono le passioni che ci trascinano, «noi ci
domandiamo perplessi», dice Plotino, «se non siamo, per avventura, altro che
nulla, e nulla sia rimesso alla nostra libertà». Plotino riconduce la l. del
volere non a un impulso sensibile, bensì «al retto ragionamento e alla giusta
tendenza»; è necessar io, insomma, che «la ragione e la conoscenza si
rivolgano proprio contro l’impulso e lo vincano». Perciò esse devono rifarsi a
un principio non-sensibile, a una non-sensibile tendenza al bene. Coloro che
sono guidati da impulsi sensibili, non potremo considerarli, sostiene quindi
Plotino, «compresi sotto un principio di l., perché anche agli incapaci, che
agiscono per lo più in quel modo, non riconosceremo mai l. del volere: a chi,
invece, per la virtù operosa del suo intelletto, è immune dalla passionalità
del corpo, attribuiremo veramente la libera indipendenza». Cristianesimo e
Riforma. Sul concetto di l. influisce in modo profondo l’avvento del
cristianesimo. Hegel osservava a questo proposito (Enciclopedia delle scienze
filosofiche in compendio, 482) che intere parti del mondo, l’Africa e
l’Oriente, non avevano mai avuto questa nuova idea della l.; i Greci e i
Romani, Platone e Aristotele, e anche gli stoici sapevano solo che l’uomo è
realmente libero in virtù della nascita (come cittadino spartano, ateniese,
ecc.) o in virtù della forza del carattere e della cultura, in virtù della
filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Ma una nuova
idea di l. si afferma per opera del cristianesimo; per il quale l’individuo
come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell’amore di Dio, è
destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e a far sì che
questo spirito dimori in lui: cioè l’uomo in sé è destinato alla somma libertà.
Se il concetto di l. del volere diventa centrale per il cristianesimo, perché
senza la l. dell’uomo non sarebbe concepibile il peccato, e dunque non avrebbe
senso alcuno la redenzione, tuttavia il concetto di l. deve congiungersi
strettamente a quello di grazia divina, a un qualcosa cioè di esterno e
indipendente. Agostino sente la necessità di affermare la responsabilità umana
e insieme un prestabilito disegno divino. A Pelagio, che asseriva che il volere
umano, dopo il peccato, può anche volgersi al bene, Agostino risponde che
certamente «può»; ma la maniera in cui riesce concretamente a volere quel bene
che «può» volere è che le reali forze di volerlo gli siano date da quello
stesso vivente Bene a cui volse le spalle. E a Giuliano d’Eclano Agostino
risponde che la predeterminazione divina non annulla ma include il libero
arbitrio umano e le sue scelte, e che, se Dio concede il suo aiuto a chi vuole,
ciò non toglie che con un volere libero, sebbene ridestato dall’aiuto divino,
l’uomo riesca a volere il bene, sicché un reale merito, per quanto reso
possibile solo dalla grazia, è premiato con la salvezza. Tommaso, a sua volta,
sostiene che il poter fare il male proviene sì dalla l., ma da un suo difetto,
non da una sua perfezione: «che il libero arbitrio possa scegliere oggetti
diversi rispettando l’ordine delle finalità, appartiene alla perfezione della
l.: ma che scelga alcunché travolgendo tale ordine – ciò che è peccare – questo
appartiene a un difetto di libertà» (Summa theologiae). Dopo il Medioevo, nel
quale la soluzione agostiniana è accolta da taluni con più intensa
accentuazione dell’onnipotenza della grazia nel volere umano, da altri con
maggiore preoccupazione di mostrare che il libero arbitrio non è tolto neppure
dall’onnipotenza della grazia, il Cinquecento è il secolo nel quale la
questione è ridiscussa interamente. Da un’interpretazione di Agostino sorgono
le dottrine di Calvino e di Lutero, entrambe negatrici di ogni libero arbitrio
umano, entrambe affermatrici di una l. nel bene che coincide con la più
rigorosa necessitazione del volere umano da parte della grazia. Per i rifor-
matori la l. cristiana è una realtà ‘spirituale’: essi avversano con decisione
la sua interpretazione distorta in termini politici. Se Lutero, tornando a
un’interpretazione di Paolo, si impegna a fondo nella critica della l.
cristiana come libertas ecclesiae, che nient’altro diviene se non l’insieme dei
privilegi, delle immunità e delle rivendicazioni dell’istituzione
ecclesiastica, Calvino sottrae al regimen politicum o all’ordinamento civile il
concetto della l. cristiana, che viene invece ascritto all’ambito autonomo
della teologia. La tesi della l. della coscienza vincolata soltanto alla parola
di Dio, in quanto tale non sottoposta ad alcuna autorità ecclesiastica o
secolare, e l’aperta protesta contro una simile coartazione della coscienza, il
rigetto delle pretese mondane di potere della Chiesa e della sua
sovraordinazione all’ambito statuale-secolare prepareranno la strada alla
concezione moderna della l. e al dibattito sul suo significato politico-giuridico.
Il dibattito su libertà e necessità. Nel Seicento, Spinoza ripristina il
concetto stoico dell’universale necessità e il concetto parimenti stoico di una
l. che non presuppone, anzi nega il libero arbitrio, ed è fatta consistere nel
riconoscimento e nell’accettazione della necessità universale stessa. Nel
secolo seguente abbiamo la concezione di Kant, con la sua distinzione tra leggi
della necessità, che regolano i fenomeni dell’Universo naturale, e le leggi
morali o leggi della libertà. Per «l. morale» si deve intendere, secondo Kant,
la facoltà di adeguarsi alle leggi che la nostra ragione dà a noi stessi. Noi
possiamo dunque scegliere tra il seguire la causalità empirica, che rende il
nostro volere eteronomo, e l’obbedire alla legge morale che, esprimendo
l’essenza più profonda del nostro Io, rende il nostro volere autonomo e, così,
libero. E come l’essenza profonda del nostro essere è la l., così all’origine
dell’intero Universo che alla scienza si presenta determinato, è il libero
volere di un Essere intelligente, che ordina teleologicamente ciò che alla
conoscenza scientifica appare invece meccanicamente causato. La l. come
autonomia morale dell’uomo e sua intima dignità è il grande concetto che Fichte
svolge, riprendendolo da Kant. Al concetto, elaborato da alcuni scolastici, di
«l. o arbitrio d’indifferenza» (facoltà di volere, immotivatamente o
indifferentemente, l’una o l’altra di due cose contrarie o anche nessuna delle
due), che, non sapendo o non potendo risolvere la propria indifferenza, resta
in fondo un’inerte possibilità d’azione, Hegel oppone un concetto più concreto
della l., quello della l. come autodeterminazione e intima spirituale
necessità. Al determinismo positivistico reagiscono tutte le filosofie del
«ritorno a Kant», intese a salvare la l. della condotta morale. E, nel quadro
del ritorno all’idealismo classico dei primi decenni dell’Ottocento, i
movimenti neohegeliani insistono sulla hegeliana coincidenza di l. e necessità,
rinnovando la polemica contro il mero arbitrio o l. d’indifferenza. Il rifiuto
della concezione hegeliana della l. come processo speculativo della ragione
universale distingue invece il pensiero di Marx, che identifica la l. con un
processo di liberazione economica, politica e sociale volto ad affrancare l’uomo
dal bisogno e dalla lotta di classe e a creare le condizioni per una concreta
autorealizzazione materiale e spirituale. Per tutt’altra via passa
l’opposizione all’hegelismo intrapresa dal contingentismo, per il quale nella
l. è da vedere anzitutto indeterminazione; e spontaneità, piuttosto che
autodeterminazione, cioè autonomia, è la l. per la filosofia dello «slancio
vitale» (Bergson). Nell’esistenzialismo la l. viene a coincidere con la stessa
necessità della situazione, di fronte alla quale l’uomo non ha altra scelta che
accettarla consapevolmente o piombare nella «esistenza inautentica», come in
Heidegger. In L’essere e il nulla Sartre sostiene che l’uomo è «essenzialmente»
libero di scegliere, in quanto sua caratteristica è la «mancanza», il «nulla» di
essere, ed è perciò continuamente teso alla scelta di possibilità esistenziali.
L’equivalenza, di qui derivante, di tutte le scelte viene tuttavia eliminata
nelle opere successive. Il dibattito contemporaneo. Il significato
politico-giuridico del concetto di l. è al centro del dibattito contemporaneo.
Particolarmente influente è stata a questo riguardo la distinzione espressa da
Berlin fra l. negativa e l. positiva, fra l. da e l. di: la prima concerne
l’area entro la quale una persona è o dovrebbe essere lasciata fare o essere
ciò che è in grado di fare o essere senza interferenze da parte di altre
persone. La seconda riguarda l’area in cui si situa la fonte del controllo e
dell’interferenza che può determinare che qualcuno faccia o sia una cosa piuttosto
che un’altra. La l. negativa corrisponde alla l. dei ‘moderni’ di Constant, che
ne definisce appunto il senso e il valore nella celebre contrapposizione con la
l. degli ‘antichi’; essa è l’indipendenza individuale difesa da J.S. Mill: il
soggetto della l. negativa è l’individuo, e l’arena della l. negativa è
circoscritta da un confine che, per quanto mobile e variamente tracciato,
separa la sfera ‘privata’ dalla sfera ‘pubblica’, la sfera individuale da
quella collettiva. L’assenza di vincoli o interferenze va quindi interpretata
principalmente come assenza di vincoli o interferenze da parte dei detentori di
autorità legittima, che è tale se e solo se non viola o viola il meno possibile
l’autonomia individuale. Contro la distinzione analitica dei due concetti di l.
si è espresso Rawls nella sua teoria della giustizia come equità. La l. o,
meglio, il sistema delle l. è oggetto del primo principio di giustizia. Esso
prescrive che il sistema delle l. sia per ciascuno il più ampio possibile,
compatibilmente con il sistema delle l. di ciascun altro. Nella prospettiva di
Rawls, la massimizzazione del sistema delle l. individuali è prioritaria
rispetto a quanto prescritto dal secondo principio di giustizia, il cosiddetto
principio di differenza, che deve modellare le istituzioni responsabili della
distribuzione di una classe particolare di risorse, considerate come beni
sociali primari spettanti a tutti i cittadini. Accettare la priorità
dell’eguale sistema delle l. implica accettare un principio di equità nella distribuzione
dei beni sociali primari, in quanto un eguale sistema di l. non ha, di regola,
eguale valore per individui diversamente dotati. Proponendo un ordinamento fra
l. ed equità, espresso dalla priorità del principio di l. sul principio di
differenza, Rawls ha di mira la soluzione di un conflitto fra la l. e un altro
valore sociale quale l’uguaglianza. A questa prospettiva, e ai suoi importanti
sviluppi ad opera di Sen e di Dworkin, si contrappone radicalmente la tesi sui
diritti negativi propria della teoria libertaria. In partic., Nozick ha
confutato la pretesa di teorie della giustizia distributiva di proporre criteri
o modelli di distribuzione giusta. Se ci si basa sull’assegnazione di valore
intrinseco alla l. individuale, qualsiasi precetto distributivo è inaccettabile
perché non può che violare la l. individuale stessa. Nella più recente
controversia nell’ambito della teoria normativa, il conflitto distributivo ha
finito per lasciare spazio ad altro tipo di conflitto, il conflitto di identità
o conflitto per il riconoscimento. E questioni relative all’assegnazione di
valore alle l. si sono così connesse a questioni di riconoscimento di nuove
identità o di identità prima escluse, a questioni di inclusione in o esclusione
da comunità di ‘pari’ dai differenti confini.Elzeviro Catalfamo. Il
personalismo di Catalfamo. Giuseppe Catalfamo. Keywords: metafisica della
libertà, il concetto di persona, la transubstanziazione dell’umano nella
persona, identita personale, il concetto di persona, pronome personale, la
prima persona duale --, il ‘noi’ -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Catalfamo”
– The Swimming-Pool Library.
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