Monday, April 8, 2024

GRICE ITALICO A/Z B

 

numero dell'uno, o, dell'altro figliuolo ſarà, à quelle fomigliante. Ben'è uero, che la forza di cia fcuna manierà, e ripoſta piu toſto nelle altre parti, che nel numero, eccetto, che nella bellezza, douc l'ornamento, e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, nella poesia, che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio, doue non biſogna riportandoti a gli orecchi, il giudicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo, quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza. Ma perche questa ſemplice forma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſia qualche impedimento, però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri, con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro, piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplice purità del dire, il qual'aiuto èpiù presto nell'artificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni SENTENZA CHIARA e aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della eleganza, o prima dello artificio, colquale ella lcuar fuole ogni SENTENZA nella mente riposta. AR. La ceeganza e maniera, che porta chiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, dove ella manca soccorre, quanto à ciascaduna forma opra intelligenza, o facilità, daquesto nasce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna cosa é differente. Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara, oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun sole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire,  leua, o diſgombra, o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori, le figure. L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto, acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DINARDO. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DINARDO. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, & l'altra il biaſimare alquanto altrui, ma prio che dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi il purfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti, Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to, che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante. Leggi. DINARDO. Ma per trattar del ben, ch'io vi trovai, Dico de l'altre coſe, ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in disgratia di Dio, non haur ebbe potuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato. Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di FIRENZE, auuertendo pri ma chi legge, in queſto modo. DINARDO. Mapercioche qualefuße la cagione, perche le coſe che appref fo Rileggeranno, aueniſſeno, non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare, quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe, fatta per le uare ogni impedimento, chepoteſſe offendereilrimanente. DINARDO. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti, alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto, comefoleui, & oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo, non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte, narrandole, ė artificio ſcelto, & elegante, però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DINARDO. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DINARDO. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’al Ciel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai. Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DINARDO. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppo licenza usata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DINARDO. La qual coſa io niego, percioche niuna cosa esi disonesta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſieme posto habbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbia fcufato, ma quelmodo non ha dello elegante, comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DINARDO. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui, come io fo. Altri più maturamente moſtrando di uoler dire, hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamo ſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente, àſtarmi con le Muse in Parnaso,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi. Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente, che ſauiamente parlando, hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare, donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui, che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autore ſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,come il primoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni, perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. AR. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle. Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DINARDO. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leua dalla mente ogni ſenienza,oraſi dirà con quai parole più acconciamente ella ragioni, oquesto brieuemente ſi farà.Vſa la eleganza le medeſime parole, che la purità,chiare,piane,natie,o tali,che niuna durezza in eſe ſi truoui. Et perònonſono eleganti,né con eleganza diſposte le parole che dicono, Amen due ſopra gli mal trattiſtracci caddero à terra,&quelle, Non curandofar gli falſ, o quelle che nellapurità dicemmo,Ghino di Tacco piglia l'Abba te di Clugni. Da quelloche ſi è detto delle parole, tu puoi uedere chedalla difpofitione di eſſe,le parti,i finimenti, &il numerononſono dalla purità lontani,anziſonole coſe steſſe. Leggerai,come gentilměteſi sbriga dalle co fe,come brieuemente rinchiuda il ſentimento, come puramente elegga, o temperatamenteſi muoua questa nouella di Ricciardo de' Manardi,otro uerai parole parti, chiuſe,numerio fiti diparole purißime, oelegantisſa me. Ma le figure di queſtaforma fono diuerſe molte, tra lequali ottiene il primo luogo la ordinatione, laquale è unafigura,che da quello cheſi dia ce,dimostra altro ſeguirne, come qui. DÍN. Et accioche quello chemi par difare,conoſciate,oper conſes guente aggiugnere, o menomare poßiate à uoſtro piacere,con pocheparo le we lo intendo di dimostrare. AR. Et ancora qui della fortunaparlando. DIN. Le quai noiſcioccamente nostre chiamiamo,ſeno nelle ſue ma ni, oper conſeguente da lei ſecondo ilſuo occulto giuditio ſenza alcuna po ſa, d'uno in altro,o d'altro in uno fucceßiuamente ſenza alcun conoſciuto ordine da noi,eſſer da lei permutate. AR. Egli ſf ordina, come ſi è detto anco nel proporre di quante coſe fha da dire,con lo auuertimento di dire prima una coſa,o poi un'altra.Il che inquanto abbraccia più coſe,ė Comprenſionedella qualeſi dirà. Main quanto diſpone, acconcia allo intendimento,epuro,eleganteo chiaro.Al trafiguraèſcelta,eelegante,oltra la predetta nominata Partitione, lde quale Afa,quando noi,due coſe è piùſepariamo parlando, come qui. DIN. Et il tacere,oil parlareoggimai mi ſonoegualmente diſcari, perciò che nè quello debbo,ne questo poſſo. AR. In molti modipuòpartitamente ragionare,come qui con mola ti efſempi ſi dimostra. DIN. Tra per la forza della peftifera mortalità, per lo eſſeremol ti infermimalſeruiti,& abbandonati. AR: Etqui ancora. DIN. Et tra che egli s'accorſe, si come huomo, che molto aueduto erd, Otrache da alcuno fu informato,trouò dal maggiore al minore Co. ART. Etaltroue. DIN. Carißime dore,siper le parolede fauijhuomini udite, o si per le cofe da me molte uedute or lette. AR. Appresso le dette figureit ripigliamento è bellißimo colore della eleganza, come quelloche alla obliuione,alla oſcuritafoccorra, in quca ſto modo, DIN: E perche mifogliate immantenente Del ben,che adkor’adhor l’anima fente? Dico che ad hord ad bora, Vostra mercede, iofento in mezo l'alma Vna dolcezza inufitata e noua AR. Et nella proſa, come qui. - DIN. Ilchemanifestamente potrà apparire nella nouella, laquale dl raccontare intendo,manifeſtamente dico,non il giuditio di Dio, maquello de gli huominiſeguitando. · AR. Queſto ripigliamento appreſſo la chiarezza e di non poco peſo alla oratione, come figura molto uicina al raddoppiamento, ilquale è di for za marauiglioſanell'arte deldire,o,òinterpretado,ò interrogado,ò riſpon dendodi ſubito alla eleganzaconuerrà grandemente.Etper contrarioRfan ra nella oſcurità,la quale naſce da confuſione,& diſordine, nel’animofia tà, o ne gli affetti grandementeſi ricerca,perche in eſil'animo dallo ema pito traportato ogni coſa difordina,o la mente confonde. E adunque la confufione alla ſcelta,& elegante oratione contraria,come la meſcolanza, alla purità, da ambedue, cioè confufione, meſcolanza, naſce la oſcurità, come da quell'altre due la chiarezza del dire. Della quale pora uoglio che à baſtazaſa detto,o dimoſtrato.Resta chefi ragioni del la grădezzadel dire,acciò che il pericolo della baſſezza,odell'umilità,che Hella chiarezza ciſopraſta,con l'autorità della orationeſ leui in tuttó. DELLA GRANDEZZA DEL DIRE, prima della Maeſtà. ESSEND'O la grandezza del dire unamaniera, che oltra l'uſato modo di ragionare inalza, ø follicuala oratione, è di neceßità di molte parti compoſta delle quali altre faranno daſe ſteße altreinſieme alcune co fe raccommunando faranno un tutto magnifico, generoſo. E adunque la grandezzafatta dalla maestà,dalla comprenſionedalla ucemenza, dalla ui uacità,dallo ſplendore,o dall'apprezza.La maeſtà, ola comprenſione da ſeſtanno,ohanno le parti loro dall'altre ſeparate.Etperò di clje prima di rò, poi dell'altre partitamente. La maestà del dire é maniera conueniente alle coſe grandi,o Rfa quan do di eſſe con dignità,o ornamento ſi ragiona.Leſentenze ueramentedela la maeſtàſono prima quelleche appartengono à Dio, o alle diuine coſe,co uerità e decoro efpreffe,come queſte.Leggi, DIN. Conueneuole coſa è carißimeDonne,che in ciaſcuna coſa, che l'huomo fa,dallo ammirabile,oſanto nome di colui,ilquale di tuttofufate tore, le diaprincipio. AR.  AR. Dapoi,le coſe appartenenti alla natura umana, come qui. Leggi. DIN. Natural ragione è di ciaſcuno che ci naſce, la ſua uita quantū que può,aiutare,e conferuare, & difendere. ART. Et appreſſo quelle,oue le ſecrete cagioni delle coſe inuestigane do, & dimoſtrando ſt uanno,lequai poco appartengono alla uita ciuile, po co dico, perche alcuna uolta ſi diconoperfare alcuna fede à quellochedicia mo,come qui. DI N. Andiamo adunque,& bene duenturoſamente aſſagliamo la nde ue, che Iddio alla noſtra impreſa fauorcuole ſenza uento prestarle,la citien ferma. AR: La maeſtà è uſata per lo più ne i proemij delle nouelle. Perció che in eßi fi contiene il fine, perlo qualeſi racconta il tutto,& percheil fi ne, per utile,a giouamento de gli huomini ſi ricerca,però di coſe al uiucre appartenenti con grandezza maeſtaſiragiona.Leggi queſto principio, come è pieno di alta,o degna ſentenza. DIN. Credefi permolti filoſofanti,che ciò che s'adopra de mortali, Rade gli Dij immortali diſpoſitione,& prouedimento. AR. Degne adunque di riuerenzaſono le coſe di Dio, però chiunque di quelle altramente ragiona,ė dalla maeſtà del dire lontano, perche chida ramente da te comprenderai,che niuna maeſtàſi truoua là,doue il mutamē to in Angelo, d’un frate ſi narra, &doue in alcuni altri luoghi non ſi dicon no coſe alla religione conformi,con quella uerità e decoro, che ſi conuica ne, &però aliena dalla maeſtà équcũa comparatione, chedice, DIN. Si come eterna uita é ueder Dio, Ne più ſ brama,né bramarpiulice, Cosi me, Donna, il uoi ueder, felice Fa in queſtobreue, efrale uiuer mio: AR. Lo affetto di chi ragiona ſcuſa chiunque parla in tal modo, pere che lo acceſo deſiderio acciecal'intelletto,ela lingua come di ebbri uacil la,ofa dire che gli Angeli aſpettano di uedere il bel uiſo delle amate los rou che la preſenza di quelle adorna il Paradiſo, altre coſe,le quai pe rò ſotto altra form !,che questa ſi riduranno.Sarà dunque ſeuera,o degna, epiena di maeſtà la ſeguente ſentenza. DIN. La gloria di colui che tutto mouc Per l'uniuerjo penetra, e riſplende In una parte più, e meno altroue. ART. Et per la più parte degno e il preſente poema,dalquale aj na turali, co umane,o diuine ſentenze,ſecondo la macià delle coſe leggendo  ne ritrarrai, come qui, DIN. Le coſe tutte quante Hann'ordine tra loro,e queſto è forma Che l'uniuerfo à Diofa ſomigliante. Qui ueggion l'altre creature l'orma De l'eterno ualore, ilqualefine, Al qual'èfatta la toccata forma. A R. Et finalmente pieniſono i uolumi de i buoniſcrittori. Leggi. DI. ciaſcuno, che bene, o onestamente unol uiuere, dee in quan topuò, fuggire ogni cagione, laquale ad altrimenti fare il potere cons durre AR. Et qui, D I N.Manifesta coſa è cheogni giuſto Re,primo oſſeruatore dee eſſe re delle leggifatte da lui. AR. Baſtiti queſto d'intorno alle ſentenze della formapredetta. Ord, con che artificio dal lor ſoggiorno leuareſi debbano,intenderai.Percheadū que piene di maestà ſono quelleſentenze,che di Dio, & delle diuine coſe, delle umane,& naturali, peròfanno con fiducia O certezza è afferman do,ò negando,ſarà l'artificio della maestà. Negando,come qui. DIN. Ne creator,necreatura mai Cominciòci, figliuolfu ſenzaamore O ' natural, o d'animo, e tu'l ſai. AR. Affermando,come qui, DIN. Lo natural fu ſempre ſenza errore Ma l'altro puote errar, per mal'oggetto oper poco, ò per troppo di vigore. A R. Leggi pure,chenon mancano effempi. DIN. Le coſe, che alferuigio di Dio N fanno, deono far tutte nete tamente. AR. Et qui, DIN. Chiunque fouente fa male,egli certamente non é Iddio,& chii que Iddio e,egliſenza dubbio non puòfar male. AR. Laeſpreßione ha gran forza nell'artificio di quella forma com me qui. DIN. Veramente fiam noi poluere eombra, Veramente la uoglia cieca,e ingorda, Veramente fallaceè la ſperanza, AR. Et qui ancora DIN. 57 DE LL A DIN. Nel ciel, che più de la ſua luce prende, Fu'io, euidi coſe, che ridire Nésà, ne può, chi di la sù diſcende. A R. Hanno in queſta forma le allegorie peſo, or forzagrandißima, eperò le ſacre lettere di allegorie ſono ripiene,etutto il preſente poema è quaſi una continuata allegoria,coſa molto alla ſuamaeſtà diprofitto,co d'ornamento, &però la leonza,il leone,la lupa, e tutto quello chein tute ta l'opera gli appariſce,èuna raunanza di allegorie, degna « grande for pra modo.Conſidera come queſt'altro poeta uolendo innalzar le coſe baſe, Qumili grandemente ſi dà alle allegorie,facendo con quelle i cotidiani aue nimenti si grandi apparire che ifatti d'arme, ole coſe marauiglioſe di na tura si grandi nonſono.Ecco, DIN. Quando dal proprio ſito ſi rimoue L'arbor, che amogià Febo in corpo umano, Soſpira e fudaà l'opera Vulcano, Per rinfreſcar l'afpre ſaette à Gioue. AR. Questa grandezza di coſa, altro non uuol dire,ſenon,che nel partiredi un luogo ad un'altro della donnafua, fieramente era il Cielo tura bato da uenti, « da tempefta.Et cosi il reſtante di questo fonetto, omolti de gli altri,che ſeguono per l'artificio delle allegorie,ode gli enigmi, mis rabili appariſcono,à chi gli legge.ENIGM Iſono modi oſcuri di dire, come qui, Fortuna, chi t'intende, non t'intende, Efa chiſei,chi non ſa chi tufa. Tale adunque é l'artificio della maestà. Reſta óra à dirſi delle altre par tijeg prima delle parole.Sono alcune lettere, lequali fanno leparole ampie, e di ſpirito sforzeuole,come la A la 0,però quelle parole, che ſono di tai lettere, odiRllabe di eſſe fatte,ſaranno alla maestà del dire conucnicne tißime,tanto più diforza haueranno,quanto auanzeranno le duefillas be,odi maggiorſignificatione faranne.come qui. DIN. Quel, che infinita prouidenza, o arte, Moſtrò nel ſuo mirabil magistero, Che creò questo, e quell'altro emiſpero, E manſueto più Givue, che Marte. ART. Et ancora in un'altro luogo. Perſeguendomi Amor’al loco uſato Ristretto, in guiſa d'huom, ch'aſpetta guirra, Che prouede,e ipaßi intorno ferra, Di mici antichi penſier mi saua armato. AR. Sono ancora le parole traportate,di grandezza, e maestà mdo rauiglioſa, «perche molti credono il loro dritto pagare,ſe degni, ogran di riputando,poi gonfi fono o freddiper la troppa licenza,cbe piglia no nel trasferire,però alcuna coſa ti ſcoprirò d'intorno alle traslationi, bel lage degna,o di profitto non mediocre. Voglio,che dalla bruttezza del uitio ſpauentatoda quello alla uirtù ti riuolga,o però di quelli dirò, i qua li cosi gonfiamente,o cosi freddamente parlando, come fanno,ſono da ogni ſaldo giuditio abborriti. Alcuni di queſti hanno ardire di fingere,odi co por nomi,oparoleſenza alcuno raffrenamento di conſideratione,chiamar do il Cielo oculoſo,il mare ueligante, la terra granifera, o di queſte s'eme piono ifogli.Altri danno à nomi ſtranieri,dalla antichità rifiutati,nuoui, oſcuri,o di niunſentimento,coſa fpenta,o agghiacciata, comeeßiſono, che uuoi tu più freddo,che'l continuare in fimili inuentioni? Tuſei l'ombra del l'angustia,il diadema della mestitia,un'atto fatale,o si fatti. Peccano mola ti dando ad ognicoſa i loro aggiunti, ilche quando nonſifa per diletto, o con circonfpettione,come per condimento del dire,affettato,inſipido,o rin creſceuoleſ truoua, comeſe in luogo diſudoreſi diceſſe,il liquoredelle car niperlo caldo ſtillato,o non le feſte,ma la celebrità delle feſte,ne i triona fi,ma la grandezza de i trionfi,&alere gonfiezze, ilqual uitio in alcuni ė ucnuto al fommo,o però parlandoeßi più che pocticamente & fuor di të po,fannocoſe degne di riſo, o di compaßione,fono oſcuri &ociofiſatiano, Orincreſcono fieramente.Leggi. DIN. Potrei,poſcia che il vento della licentia datami di ragionare ba tanto inantifpinta la naue del mio parlamentoper l'ampio pelago di si fat ta materia,conducerui distintamente à uedere checoſa è difpofitione. AR. 1o mene rido di tai coſe, guarda quanto meglio ſi èdetto qui nel uerfo, o con più modestia. DIN. O'uoi, che ſete in piccioletta barca, Defideroft d'aſcoltar ſeguiti Retro almio legno,che cantando uarca, Tornate à riveder inoſtri liti Non ui mettete in pelago, cheforſe Perdendo me rimarreſteſmarriti. AR. Ecco,chedi più ampia materia ragionaua il Poeta, & non diffe la naue del ſuo parlamento,o altroue diſſe, Per correr miglior’acqua alza le uele Ormai la nauicella delmio ingegno Che laſcia retro à ſe mar si crudele, Etquandopurepiù arditamenteegli baueſſe alcuna traslatione uſata, dico,che egli era Poeta, o hauea ſotto la penna materia,ſe altra ne è,gră dißima, o d'ogni parte degna; o poteua ben laſciarſi portare(dirò cosi) dal uento della licenza,ma uedi ancora nella proſa in miglior modo ridotta laſopradetta traslatione. DIN. Madonna,aſſai m'aggrada,poi che ui piace, per questo campo aperto Wlibero, nel quale la uoštra Magnificenza ci ha meßi,del nouella. re,d'eſſer colci, che corra il primo arringo. AR. Ma riuolgiti à queste fredde,çocioſe maniere,& leggi, DIN. La real conditione del quale ſaria stata di più felice uita,odi più beata memoria,che uerun'altra mai,ſe il generoſo della bontà di lui,hax uelle men creduto al maligno della fraudealtrui. AR. E' ancora più ſpento qui. DIN. Nel finedelle parole cadendogli giù per le gote alcune lagrie me non men groſſe,che calde, le compaßioni delle ſuepietadi transformaro. no l'ira in manſuetudine. 1. AR. Di che giudicio dotati,di che eſperienza ammaestrati,e di quan ta gratia eſſer deono adornati coloro, i quali uogliono traportare le paro. le nate à ſignificar’una coſa, alla di chiaratione d'un'altra, nonſi può cosi brieuemente eſporre.Baſtiti per tuo ammaeſtramento,che tu fugga le ridic cole,perche ſono de' comici,le gonfie, percheſonode' tragici, le austere dure,perchenon ſono euidenti, & infine quelleche dallalunga ſi uanno tra endo,comeſe alcuno chiamaſſe la ſapienza lo ſteccato della anima, l'acqua loſpecchiodi Narciſo, ò che diceſſe le faccende qui uerdeggiano,o altre coſe sifatte. Biſogna adunque deriuare le parole da coſe facili,& di pres fta intelligenza, con queste i due pocti le loro fittioni mirabilmente innale zarono, delle quali piene ormai ne ſono tutte le carte.Alte parole appreſſo ſi odono quelle del nome,or del uerbo partecipi comeAmante, Ardente,co quelle ancora Andando, Vergognando,percheſono di ampio o largo fpiris to.Et nel loro andare ſonoadagiate graui. Et di queſta ſia detto aſſai. Ora con quai colori, ofigure adornar ſi debba la maeſtà delle parole, ſi di rà,o prima,che alle coſe clgne unafalda confirmatione del proprio gilidi tio, come un fermo tratto di pennello,rileua mirabilmente la oratione.Pere che non è uera grandezza quella, della qualeſi tiene alcuna dubitanza,cu però grande è quella parte. Leggi. DIN. Chi il commendò mai tanto, quanto tu il commendaui in tutte quelle coſe laudeuoli,di che ualoroſo huomodee eſſer commendato? certo. certo non a torto. AR. Ma quel giuditio,cheſeguc,ė fatto con timore na dubbioſamente te proferito,però non ha del grande,benche al modeſto dire, grandemente fi conuegna. DIN. Che ſe i miei occhi non mi ingannarono,niuna laude da te data glifu, ch'io lui operarla,o più mirabilmente chele tue parole non poteca no eſprimere,non uedeßi. ART. Conſidera quanto togliedella maeſtà di quel ſonetto,che con mincia, Perſeguendomi Amoral loco uſato, quel timido o ſoſpetto giudicio che dice, quella che ſe'l giudicio mio non erra,Era più degna d'immortaa le ſtato, Et tanto più quanto quest'ultimo uerfo non ha quelſuono,che gli al tri hanno.Douea ſenza temenza giudicare ancora questo autore. Leggi, DIN. Et perciò che la gratitudine,ſecondo ch'io credo,fra l'altre uir tùėfommamente da commandare. AR. Perche la ſentenza è degna, a ricercaua un colore,che terminaf se il ſentimento.Nequesta figura ſolamentealla maeſtàſ conuiene, ma tut te quelle che alla purità ſirichieggono,delle quai di ſopra ſe ne è detto afa ſai.Et ciò ſifa,perche la maestànon entri in tumidezza, o cada (diroco. si )in quella infermità che idropiſia é nominata. Le parti, le membra eſſer deono bricui ſenza alcuna lunghezza di giriyil che ſi uede ne'ſauij huomini, iquali breuißimamente uanno raccom gliendo le coſe loro in fentenza, & detti,come oracoli.Leggi, DI N. Giuſtitia moſſe il mio alto fattore. Fecemi la diuina potestade, Laſommaſapientia,e'l primo amore. A R. Et qui ancora. DIN. Iſon Beatrice, che tifaccio andare, Vegno dal loco oue tornar diſo, Amor mi moſſe, che mifa parlare. ART. Etqui. DIN. Gli animi noſtri ſono eterni,perche difuggeuole uaghezza gli inebriate.Mirate uoi come belle creature ci ſiamo,o penſate quanto dee of ſer bello colui, di cui noi ſiamo miniſtre. AR. Inſomma,degno è ilſeguenteparlare in ogni ſua parte. Leggi, DIN. Et queſto altrimenti non ſi fa,che à quello Iddio gli noſiri ani mi riuolgendo,che ce gli ha dati. Ilchefarai tufigliuolo,ſe me udirai, o penſerai,che eſſo tutto queſtoſacro tempio,chenoi mondo chiamiamo,di ſe empiendolo hafabricato. ART. AR. Et qui ancora dicoſeumane. DIN. La uirti primieramente noi,che tuttinaſcemmo, o naſciamo equali,ne distire,o quegli, che di lei maggior parte haucuano, o adopee rauano, nobili furon detti, e il rimanente rimafe non nobile. A R. La diſpoſitione o il ſito delle parole nella maestà del dire dee tal mente ordinarji,che non ui ſia concorſo di uocaboli, onde la bocca ſi apra ſconciamente. Voglio poi,che le paroleſdruccioloſe, con più libertà uilica no,che nella parità, o tal ſuono eſſe legate inſieme diano, quale ft deſides raua,che da ſe steſſo diſciolte faceſſero.Il ſimileſi dice nella chiuſa, o nel finimento,operò il fine in parole manche non deeper alcun modo hde uer loco in questa forma, deſidero la uarietà de' finimenti,o de i princia pi, ma fieno di parole cheauanzino le dueſilabe, oquello cheper la più ſarà tale in tutto il giro, farà il numero, che in queſtaforma ft ricere ca. Leggi tutto il ſopra detto effempio, che ciò chen'ho detto, chiaramena' te wedrai. Et ciò della maeſtà ti può bastare. Eſſendo la comprenſione alla grane dezza del dire comela eleganza alla chiarezza, e eſſendoſi della male stà detto, come di forma, che da ſemedeſima di tutte le ſueparti era cone tenta, nè ad altra maniera, Òſentenze,ò numeri, ò parole, ò artificio, o ale": tra qualità concedeuia,nėda altri alcuna coſa pigliaua, non è fuori dira. gione che ſi dica ora della comprenſione, uera, ounicaforma da folleuare ogui baiſao umile maniera della oratione. Et pero delleſueſentenze fi dirà prima, poi delle altre parti. Le ſentenze di queſta forma,ſono quel le, che chiamano altro ſentimento, o che raccolgono,operò in queſtapar te la comprenſione è oppoſta alla purità del dire,nella quale dicemmo,non eſſer’alcuno raccoglimento. Raccoglimento intendo,quando quello che piis i riſtringe nel meno,come una coſa commune in generale, alla ſpecialità ė ristretto. Leggi, Certißima coſa é adunque,ò Donne, che di tutte le perturbationi dell’d nimo,niuna coſa é cosi noceuole, cosi graue, niuna cosiforzeuole o nio. lenta, niuna che cosi ci commoud,ogiri,comequellafa,che noi amore chia mia mo. Eccoti che la perturbatione è un genere commune ſotto il quale ſi rac coglie l'amore, che è una ſpecie di perturbatione. Raccoglieſi ancora lo in determinato v oſcuro,allo aperto & terminato,comequi. Molte nouelle,dilettoſe Denne à douer dar principio à cosi lieta gior. nata,come questa ſarà,per douere eſſere da me raccontate miſi parano das uanti,delle quali una più nell'animo me ne piace. Et qui ancora molto più lines. $ 9 fi uede per due raccoglimenti. Et come che à ciaſcuna perſona stia bene, à coloro maßimamente éria chieſto,li quali già hanno di conforto hauuto mestieri, & hannolo trouato in altrui.Fra quali ſe alcuno mai ne hebbe,ò gli fu caro,ò già ne riceuette piacere io ſono uno di quegli. Riduceſt tutto il tutto alla parte ſia quel tutto è del tempo, ò del luogo, ò d'altra coſa. Del tempo,come qui, · 10 amaiſempre,ey amo forte ancora. Del luogo ancora, come qui, In Frioli, paeſe quantunque freddo,lieto di belle montagnedipiù fiumi e di chiarefontane,è una terra chiamata Vdine. Suole ogniſentenza, che chiama o ricerca ſentimento alcuno, eſſere di quella forma,o appreſſo tutte quelle che alla purità ſono repugnanti nelle quali ogni circostanza di luogo,di tempo dimodo, oogni accidente, che preceda,accompagni,ófegua,alle coſe ſiſuoleaggiugnere.Come fe egli R diceſſe in queſta guiſa, in sù la meza notte con molti'armati al luogo del le guardieſoprauenne,fdegnato per la ingiuria fattagli il precedente gior no.Ecco checon molte circostanze ſi narra il fatto,oR amplifica mirabil mente la coſa.Come in queluerſo ancora, Giouane incauto,diſarmató, e ſolo. Chiamano altroſentimento alcuni in questo modo, Ma si come àlui piacque,il quale eſſendo egli infinito, diede per legge incommutabile à tutte le coſe mondane bauer fine, il mio amore oltre ad ogn'altro feruente,o il quale. AR. Non legger piùche da teſteſſo poi nel predetto luogo potraiper comprenſione eabbracciamento uedere tantagrandezza di oratione che niente più. Abbracciano alcuneſentenze mirabilmente,o ſono quelle, che la ragio nedella coſa in ſe ſteſſe ritengono,come s’io diceßi,L'ira de'mortali immor tale eſſer non dee,e queſta, Aſai dimanda chi feruendo tace. Et quell'altra. Un bel morir tutta la uita onord. Etſimiglianti. Senza timor uiue chi le leggi teme.: Che il perder tempo, à chi più sàpiù piace. Queste fonole ſentenze,che abbracciano a comprendono, ma l'arte H 2 difolleuareè prima in ogni tramezamento. Leggi, Alla qual coſa fare (come'chein ciaſcuna età stia bene il leggere « l'u dire le giouenili coſe, & c. Etſopra l'altre questa. Percioche non amare,come che ſia,in uoſtra stagione nonſi può, quane doſi uede, che da Natura inſieme col uiuere a tutti gli huomini è dato, cbe ciaſcuno alcuna coſa ſempre ami, oſempre diſii,pure io, che giouane fono, gligiouani buomini,« le giouani donne conforto oinuito. Maggiormente queſti tramezamenti inalzano la oratione comeuedi, i quali uanno meſcolando le ragioni con le coſe, o fanno la oratione ampia ecircondotia, o uſanſiſpeſſo da queſto Autore nelle fentenze baſſe, co me qui, Le quai coſe,quantunque molto affettuoſamente le diceſſe, conuertite in uentocome le piu delleſue impreſefaceano,tornarono in uano. AR. Lo andare per gli gradi raccogliendo,ė artificio di quella fora md, come qui, Figliuola miaio credo,che gran noiaſa ad una bella edelicata donna come uoi ſiete,bauere per marito un mentecatto,ma molto maggiore la cre do eſſere d'hauere un geloſo. Et queſta ancora. Leggi, Drmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. 40 DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DINARDO. Queſto ordine à me sommamente diletta, però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. AR. La necessità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno, oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento, miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti essempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole, piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, « diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità. Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giudicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera, cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben, ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze, avvertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il simigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda seguita la solutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? AR.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. AR. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſiderare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parlamento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſenten F DEELLA za dimostrano. La qual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpo medeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo, uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza, laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno. gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi. Leggi. DIN. Io son Manfredi, Nipote di Costanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella sentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 AR DEL LOA: ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino, o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo, DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta восс, uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’essere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc  le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C. perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DI N. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento, chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire, hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente, àſtarmi con le Muse in Parnaso,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita.  Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. AR. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima Ειοο ν Ε Ν Ζ Α. dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, uuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & del'intendimento,fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. AR. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar sarebbe ocioso, ò mancheuole. Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che laſentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. AR. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareva eßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. A solo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia,doue ſi dice Arneſe,uoce ſtraniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta восс,  uoce,riſonante,onde lo ſpirito di eſſa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc  le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà, o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante.Ben'è uero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, « nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poiſeguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. A R. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. AR. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? A R.Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuarmare ciaſcheduna delle dette maniere, accion che io ueda il fine della deſiderata catena dell'anima delle coſe, e del parlare. DE Ï Ï Á parlare. A R. Bendi. Dei dunque ſapere che comenell'Anima,al. tra parte è quella che apprende la ragione,alfra quella, che é da gli effetti commoſſi, come dicemmo, o nellaNatura altre ſono le coſe allo inſegnare altreal muouere appartenenti, cosi alcune formedels la orationeſaranno, le quali conuerranno alle coſe dello intelletto,als cune alle coſe della uoglia, odello appetito, o quando queſto non fuſſe, né uia, nė ragione alcunaſarebbe di poter acconciamente indurs re opinione è affettione con la forza della fuuella. Però auuertiſci, che nel trattamento delle forme da te ſtesſo potrai intendere qual forma à qual coſaſi confaccia. DIN. Ricorditi difarmi ogni coſa chiara con glieſſempi, eio mi obligo di leggerli ſecondola occaſio ne,in qualunque libro di queſti,che tu uorrai. Ma prima deſidero ſa per alcuna coſa d'intornoal Numero, o numeroſo componimento. ART. Laſciati à me guidare cheil tutto ſaperai ſecondo il biſogno. Sappi adunque, è Dinardo, chequalhora alcuno ſi rivolga à conſi= derare il modo, es la ragione del medicare, che ritrouando alcus na bella coſa nella medicina, uoglia giudicioſamente applicarla all’are te del dire, non è dubbio, che egli non ſia per uedere tra la medicina, o l'arte di che ſiragiona,grandiſsima ſimiglianza. Ecco la medicina cerca di indurre ſanità, oue ella non ė, ò di conſeruarla doue ella fi truoua.Ilſimile fa queſt'arte,d'intorno alla buonaopinione, perche conogni ſtudio s'affitica di metterla,ò di mantenerla oue ſia biſogno. La medicina conoſce qual parte del corpo con qualrimedio eſſer debs bia riſanata, o preferuata,cosi queſt'arte opracon l'anima, e con le partiſue con le formedel parlare.La medicina quantopiù può fugge la noia chepotrebbe alcuno medicamento recar'atl'infermo,con mele ò con zucchero, ò con altra coperta mitigando il peßimoſapore, ego l'odore delle medicine, ne da queſta gentilezza ſi parte la mia figlis uola, cercandodinon offendere quelſentimento,che prende iſuoi ris medij,il qualſentimento é negli orrecchi ripoſto,per le qualiſotto la ſoauità delſuono fa trapaſſar’inſino all'anima la opinione, quantun que ſia di coſa dalla Natura aborrita. Etfinalmente la medicina nelle ſue compoſitioni alcune coſe ui mette, non tanto gioueuoli alle parti offeſe, quanto preſte apportatrici delle uirtù dell'altre coſe al luogo infermo, il chequãtoſi conuenga all'artificiofa fauella,non ti posſo in poca hora dichiarare, perche troppo grande é la forza delſuo nus meroſo componimento; il quale portando ſeco ageuolißimamente il ualor delle parole, o delle ſentenze,paſa,e penetra per ogni parte dell'anima,deſ leroſa di queſta foauicà, e benche gli orecchi del uolgo neſentano aſſai, non è però da dimandare alcuno Idiota,onde ella proceda, ò come ſi faccia, perche queſto giudicio è più proprio dell'intelletto, che delſentimento umano. Giudicando adunque, o conſiderando lo intendente huomo quale ſia la cagione, che le parole più ad un modo, che ad un'altro diſposte fieno diletteuolio numeroſe, ritrüoua iltutto eſſere alla Natura, quanto alſuo principio, conueniente, ma quanto alla perfettione non cosi; però che io ne ho grandißima parte.Et perche tuſappia quello che la Nde tura, a quello che io ti poßiamo prestare,dico,che la Natura ha posto alls cor nelle orecchie ilſuo piacere & diletto, vuole chequelle affaticate fi folleuino con la ſoauità, a dolcezza del dire; al che fare niuna coſa è più potente nel uostro ragionare, che'l numero, ola fosnità delle parole. Il qual numero biſogna, che di ſua uoglia uegna nella oratione, si perchefa oratione, e non muſica,si perfuggir la fofpitione dello artificio, la quae le con luſingheuole inganno pare, che uoglia abbagliar l’animo de gli aſcol tanti, operò leua loro ogni perſuaſione, o fede. Ma quando con ine certo, & non conoſciuto numero,dolce però, e foaue,ſi compone il parld. -mento, oſi lega inſieme il faſcio della ſentenza, & dell’intendimento, fena za dubbio il tutto con credenza, o diletto ſi riceue. Fuggafi dunque il ucrſo, « ogni regola continouata del uerſo; continouata dico, peroche lo ſteſſo numero più volte replicato facilmente ſiriconoſce, o fache gli os recchi aſpettanti l'ordinato, « conſueto ritorno, più alſuono,che alſentia mentoſi diano,coſa aſſai chiara, oatteſa ne i uerſi,il numero de' quali ufae to,e conoſciuto,più dall'arte,che dalla Natura procedente. Ma percheſenza legge di numero alcuno, o ſciolta del tutto non dee restare l'oratione, che oſcura, cu piaccuole ne rimarrebbe,però numeroſa o compoſta ella fi dis fidera grandemente. Ora da che naſca, o per qual cagione diuerſamente offer conuenga numeroſa l'oratione, quanto à me s'appartiene dirò bries uemente,dichiarando prima,che coſa ſia NVMERO, ò numeroſo come ponimento. DIN. Queſto ordine à meſommamente diletta,però di cuore ti prie go,che più diſtintamente che puoi,me lo dimostri. A R. La neceßità uuole, che le parole ſieno pari alla ſentenza,perche à queſto fine ſi ragiona,comeſi è detto,accioche quanto habbiamo di dene troſi dimoſtri di fuori,doue mancando o accreſcendo parole, o il concetto interno non ſarebbeeſpreſſo, come nella mente dimora, ò il parlar ſarebbe ociofo,ò mancheuole.Maperche la ſentenza nell'anima è finita Otermina ta,però debbon’eſſerfinite,os terminate in quantità le parole, che la sentenza dimostrano. Laqual quantità inſieme ragunata, Giro, o circuito nos mineremo ilquale altro non ſarà,chepieno operfetto abbracciamento del la ſentenza. Questo abbracciamento di pari accompagnando la uirtù di ef la ſentenza,puòhauere una ò piu parti, o maggiori, o minori, ſecondo le parti della ſentenza;@ ciaſcuna parte é composta di parole, oſi chiama Membro, ó Nodo; osi come ogni parte del corpo ha il ſuo principio, il ſuofine, e il ſuo mezo, o il corpomedeſimo e terminato, & finitocosi, le parti dello abbracciamento, welfo abbracciamento ſarà finito, otermina to. In tutto queſto ſpatio adunque,che è tra il principio,il fine di ciaſcu na parte, e tra il cominciamento, es la chiuſa,che s'è detto chiamarſigia ro,ė forza,che la lingua alcuna uolta s'adagi,o ſi ripoſi ſecondo il biſoa gno,oſi muoua più ueloce,ò piu tarda ſecondo laqualità del concetto. Et questo ripoſo, oqueſto mouimento,miſurato col tempo del proferire, para toriſce ilnumero, del qual ragioniamo,uero figliuolo della compoſitione, o de i termini del parlare, omoltopiu nel fine,chenel cominciamento e più apparente ne gli eſtremi chenel mezo.Etperche di eſſo Numero gli orecchi fanno giudicio in quanto al ſentimento del piacere, o del diſpiaa cere,per eſſer naturale à ciaſcuno la dilettatione de' ſenſi, ol'intellettofos lo come ti dißi,ne cerca la cagione però, hauendoſifin'ora in parte dimoſtra to quello cheall'intelletto s'appartiene,in parte dico,perciò che l'intelletto in questo caſo molto alle orecchie deferiſce, odiuerſe maniere hanno dia uerfo numero.Però cominciando a trattare delle forme del dire daremo a ciaſcheduno il ſuo numeroſo componimento,o con effempi ancora ritroue remo quello che con ragioneſfarà dimostrato. DIN. Molto bene auif di farmicapace di questa magnifica oillus ſtre compoſitione; però ſegui,che con maggior deſiderio, cheprima,fono apparecchiato di aſcoltarti,perche mi pare,che ora tu facci di me pruoua marauiglioſa. AR: La primaformae nominata Chiarezza,laqual naſce da purità, og da eleganza,come s'è detto. Pero eſſendo ella quaſi un tutto, acciò che meglio ſi manifeſti,ſidirà delle parti fue,&prima della mondezza opile rità,poidella ſcelta, o eleganza. Deefl dunque dare allapurità del dire quelle ſentenze, le qualiſono di piana intelligenza, & non hanno biſogno di piu conſideratione,come per lo pia fono,o effer deono le narrationi delle co fe,come qui. Leggi. DIN. Tancredi, Principe di Salerno, fu Signore affai umano, di benigno aſpetto. A R. Eccoti, che ſenza alcuna fatica di diſcorſo ogni mediocre in. gigno gegropuò capire ilſentimento della ſentenzagià letta, come ancora in questi uerfi.Leggi. DIN. Io ſon Manfredi, Nipote di Coſtanza Imperatrice. ART. Et molti eſſempi ſono della purità nelle nouelle, la ſentenza delle quali per la maggior parte è molto alla uolgar’intelligenzafottopo sta,pur che partitamenteſa ciaſcheduna inſe conſiderata, percio che pua re nonſarebbono, quando adalcun fineſi riguardaſſe, oueroaltro attendes fero per fornir'il ſentimento loro, comeſe in questa guifa ſi diceſſe. Eſſendo Tancredi principe di Salerno Signore aſſai umano, per che queſta ſentenza non ſarebbe terminata,o finita,douendo attendere a quel io, che ſegue, o però più preſto oſcura ſarebbe chemonda enetta. Non aſpetti adunque altro intendimento,chi uuoleſſer puro nella ſentenza, las quale stando nell'anima,dee cljer con tal'artificio leuata, che ſolaſi tirifuo riga come di dentro dimostra il concetto,cosi di fuori fa fatto paleſe,ſen. za alcun accidente che quella accompagni,o conſegua. Et però daquesta formaſia bandita ogni circoſtanza di tempo diluogo, di perſona,o di mo. do,ò d'altro auenimento.Vedi questa parte quanto, é pura nella ſentenza: DIN. La quale percioche egli,sicomei mercatanti fanno, andava molto in tornoapoco con lei dimoraua,s'inamoród’uno giouane chiama to Roberto. AR. Non laſcia eſſer pura cotestaſentenza,quel trammezamento,che dice,percioche egli,si come i mercatanti fanno,andaua molto intorno, o questo adiuiene,perche ſospeſoſi tiene l'animo, di chi ode. Fuggi adunque ogni raccoglimento ſe uuoi eſſere nel tuo dir mondo, &neto; &narra le co Se partitamente come ſtanno,ma de i raccoglimenti quãti,o quali ſieno, dirà poi.Delle parole ueramente con le quali ſi dee uestire 'la purità breue ammaeſtramento ſi daràperche, tutte le parole,piane,facili,ufitate, bricui, O communi ſonoall'anima della purità molto proportionate, onde le trae portate,le ſtraniere,le lunghe, & quelle, che la lingua pena à proferire, o l'intelletto a capirefono dalla purità lontane,però purisſime ſono queste. DIN. Cheà me pareuaeßer’in una bella, diletteuole ſelua,& in quella andar cacciando ehauer preſo una cauriola, parcami, che ella fuſſepiu che la neue bianca,or in brieueſpatio diucniſſe si mia domeſtica, che punto da me nonſi partiua,tutta uia à meparcua hauerla, si cara, cbe accio che da me non partiſſe,le mi pareua nella gola hauer meſſo un cola no d'oro,e quella con una catena d'oro tener con le mani. F 2 AR ARTE Non è poco hauer giudicio di ritrouar le parole adognima niera conformii,mamolto più ſi deue auuertir' nel diſporle, o colorirle,on de ne naſce il deſiderato aſpetto.Et però ſappi che la figura delle parole,al la puritàſottopoſte,é il dritto,ecco. DIN. Nicolò Cornacchini fu nostro cittadino,o ricco huomo. ARTE Et quiancora DIN. Aſolo adunqueuago, « piaceuole caſtello poſto ne gli eſtremi gioghi delle nostre Alpiſopra il Triuigiano ecfi come ogn’uno deeſapere) Arneſe della reina di Cipri. ARTE Non cosipuro ſarebbe ſe da gli obliqui caſi haueſſe comine ciato, Dicendo,DiAſolo,uago &piaceuole caſtello poſſeditrice fu la Reie na di Cipri. Ma puro e per la figura del dritto, auegna che ſecondo quella: parola puro non ſia, doue ſi dice Arneſe,uoce straniera, ancora nello are. tificio non é puro per quello tramezamento, che dice (si come ogn’uno dee ſapere) o per quelle circoſtanze del caſtello uago, piaceuole, pera che ritarda il ſentimentode gli aſcoltanti, oui mette le circonſtanze del luogo. DI N. Dunque erra chi uolendo cßer puro uſa parole non pure, artificio,ò figura d'altra maniera,della oratione? ÁR: Errerebbe ſe egli credeſſe,otentaſſe d'eſſere in ogni parte puro, &netto, & non uſaſſe quello che ſi conuiene,ma non erra uolendo alla pu rità del dire porgere «grandezza o dignità.Ma ancora uoglio che ogni maniera ſia in ſe ſteſſa conſiderata, e però lapurità del dire haurà le. parti ſue distinte,os ſeparate dalle altre;nė ſolamente il dritto è figura, di questaforma, o maniera,ma anche ogni altro colore, che ſia contrario als la comprenſione della quale ſi dirà poi,ora trattiamo delſito, odellacom poſitione delle parole, Dico nella purità,cs mondezza del dire douerſi met: tere le parole inſieme con quel modo,che piu uicino ſia al fauellare, uſitae coſenza molta cura,caffettatione ſemplicemente quantoſi può. Et si cos me in ciaſcheduna parola di queſta forma biſognaua leuar'ogni durczza, Cogni difficultà di lettere,o di ſillabe,accioche la uoce di ſuono e quale, temperato, « non impedito ufciſſe fuori,cosi nella compoſitione biſos gna guardare di acconciare talmente, che pine tosto nate, che fabricate appariſcano,come nello eſempio già letto del ſogno ſi conoſceud. Conſided ra tu poi la forza, & lofpirito di ciaſcuna lettera, e di ciaſcuna fillaba, come la natura in tutte ha posto la ſuapiaceuolezza, durezza, & tifa rai queſto giudice del ſuono delleparole, della loro diſpoſitione,ucdi che la A ſi forma nella più profonda parte del petto,o eſce poifuori con alta voce,riſonante,onde lo ſpirito di essa grande,oſonoroffente,odi laſe guente, ch'é,B. LA B é puraſnella,deſpedita,come è afpra'la C.quando è fine della fillaba,ISA C, órauca quando è posta inanzi la A à la V come per lo contrario e di dolce,ſpeſſo, o pieno ſuono,precedendo alla I. @alla E.co. me qui.Salabetto mio dolce iomi ti raccomado o cosicome la mia perſona è al piacer tuo, cosi é ciò che ciė, o cio che per me ſi può fare al comando tuo. Conſidera poi da te ſteſſo il restante delle lettere, in che maniera eſſa natura diſua propria qualità ha ciaſcuna dotata, & uederai onde nde ſce più questa,chequella compoſitione.Le parti, &le membra, della purie. rità effer deono breui,& ciaſcuna dee terminar'ilſuo ſentimento,non ritar: dando con lunghezza de' giri, o di raccoglimenti la intelligenza del poe polo,come qui, D. Suol’eſſere a' nauiganti caro,qualhora da oſcuro o fortuneuole nembofofpinti errano,otrauagliano la lor uia,colſegnodella indiana pie tra,ritrouare la trammontana, in modo che qual uentoſoffi conoſcendo,non Ria lor tolto il potere, & uela,ogouerno,là doue eßi di giugner procaca ciano,ò almeno doue più la loro ſaluezza ueggiono, indirizzare. Bifox gna parimente in minoreſpatio raccogliere il ſentimento di ciaſcuna para te,oueſt uuole eſſer puro, ofare in questo modo,benche le parolefieno ale quanto dure.Leggi. DIN. Chino di Tacco piglia l'Abbatedi Clugni,a medicalo del ma le di ſtomaco, « poi il laſcia,L'abbate ritorna, in corte di Roma,o il rico cilia con Bonifatio Papa,o fallofriere dell'oſpedale. A R. Etnel uerſo ancora eſſer dee la predetta norma oſſeruata,come, qui. Leggi. DIN. Pace non trouo,e non ho da farguerra, E temo, eſpero, & ardo, e for’un ghiaccio. Ilche non quiene in queſta altra parte. DIN. Voi, ch'aſcoltate in rimeſparſe il ſuono. Perciò che ilſenſo è troppo ritardato,o con lunghißime parti rattenuto. Haſi dunque della purità quello chebiſogna d'intorno alle ſentenze, allo artificio, aile parole, alla figura, alla compoſitione, & alle parti di cſa. Reſta,che ſi tratti del numero, & del finimento,cioè della chiuſa,odel ter mine della ſentenza,o delle parti ſue.Dico adunque, che nello andare, ego nello ſpatio di queſta forma non ſi dee eſſere néueloce,ne tardo, mateme perato, & ne i ripoſi,one i mouimenti, operche il numero naſce dalla compoſitione,co dal fine,peròſapendo quale eßer dee la compoſitione delelc le parole, quale il fineztutto quello,cheſotto di queſte partiſ contiene darà ad intender quellocheſi è detto, perche quantoſi ricerca alla com pofitione ſi é dichiarito reſta che ſidica del finimento.ogniſentenza, ogni giro puòfinire,ò in alcunaparola tronca,oin parola piena,ſienoque ſte parole,ò di due,ò di tre,ò di piu ſilabe,o ancora di una. Le parolepie ne,e compiute ò ſonoſdrucciolofe, & uolubili,o ſalde,oferme, opers che non ſoloRidce conſiderar l'eſtrema parola di tutta la chiuſa, ma anco la uicina, o proſima,però partitamente ſi dirà di ciaſcun finimento al luo go ſuo.Comeadunque uoglia la purità terminare le chiuſeſue, aſſai chiaro ofer dee.Perciò cheaßimigliandoſi elle al dire cotidiano,fuggirà il fine del le parole tronche, comeſono quelle andò,corfuftarà,o C.perche le mede. fime dee nella diſpoſitione fuggire,come ramarico, o render florido. Et A contenterà di quelfine,cheper lo più la Natura a’uolgari dimostra,ma io non uoglio, che con tanta religioneſifiniſca in parole piene, &perfete te,fuggendo le tronche,ole fdruccioloſe,che alcuna uolta nonſimetta fie nealtrimenti alſuo parlare,perche quello cheſi dice, ſi dice per la mage gior parte de ifinimenti,e delle chiuſe della purità. Da questi adunque odalla diſpoſitione riſorge quella miſura,che noi numero addimandiamo. Eſſendo adunque lachiuſa ſimile alla diſpoſitione, «la diſpoſitione non isforzeuole,matemperata,& naturale,fcguita che il numero dell'uno, o, dell'altro figliuoloſarà, à quelle fomigliante. Ben'è vero,che laforza di cia fcuna manierà,e ripoſta piu toſto nelle altre parti,che nel numero, eccetto, che nella bellezza,douc l'ornamento,e il numero grandementeſ cerca, as molto piùè ne i uerfi, nella poeſia,che altroue, o questo dico, acciò che fu non metta piu ſtudio,doue nonbiſogna riportandoti a gli orecchi,il giu. dicio delle quali da eſſa natura é ſommamente aiutato. Ecco adunque, è Dinardo,quanto giouala mondezza, opurità del dire alla chiarezza; ma perche questa ſempliceforma non può daſefola si chiaramente parlae re che non uiſiaqualche impedimento,però biſogna ouunque le ſia di aiua. to mestieri,con la eleganza aiutarla, come con maniera chepiù un modo, che un'altro,piu questo ordineche quello ſecondo il biſogno adoprando eleg ge et fouegna alla ſemplicepurità del dire,ilqual'aiuto èpiù presto nell'ar. tificio, che nelle ſentenze ripoſto. Però che ella ſi sforzafar ogni ſentenza chiara &aperta,non che le pure già dichiarite di ſopra. Parliamo adune que della cleganza,o prima dello artificio,colquale ella lcuar fuole ogni ſentenza nella mente riposta. AR. La cleganza e maniera,cheportachiarezza à tutte le maniere della oratione, operò non tanto alla purità, douc ella manca foccorre, quanto à ciaſcaduna forma opra intelligenza, o facilità,daqueſto nafce, che la eleganza dalla purità del dire in alcuna coſa é differente.Perciò che la purità da ſe ſteſſa è chiara,oaperta,ma la eleganza nella grandezza, e magnificenza del dire ecomeun ſole, che ogni oſcurità, che per quella poteſſe uenire, leua,o diſgombra,o però in ogniſentenza ella può molto, si con l'artificio fuo, si co i colori,«le figure.L'artificio adunque di les uare ogniſentenza dallo intelletto,acciò che ella ſia inteſa, cogni auuerti. mento innanzi fatto di quello che ft ha da ragionare. Leggi. DIN. Canterò com’io uißi in libertade Mentre Amor nel mio albergo à ſdegno s'hebbe Poi seguirò si come à luim'increbbe Troppo altamente: AR. ilſimigliante R fa nella proſa,comequi. DIN. Mipiace à condiſcendere à conſigli d'huomini, de' quai dicena do mi conuerràfar due coſe molto a' miei costumi contrarie,l'una fia alqua to me comendare, &l'altra il biaſimare alquanto altrui, maprioche dal uc ro nė dall'una,ne dall'altra non intendo partirmi ilpurfarò. AR. Vedi quanto gentilmente | sbriga lo intelletto dello aſcoltare con tali auuertimenti,Appreſſo i quali aſſai bello artificio, s'intende quela to,che per chiarezza dialcune coſe altre ne narra fenza le quali non ſi in tenderebbe ageuolmente il reſtante.Leggi. DIN. Maper trattar del ben,ch'io ui trouai, Diró de l'altre coſe,ch'io ui ho ſcorte. AR. Se il poeta qui non doueſſe dimostrare le pene de dannati e i tormenti di quegli,che ſono in diſgratia di Dio, non haurebbepotuto dare ad intendere facilmente il beneche ne riuſci poi,per hauer lo inferno cers Cato.Ecco qui dalla medeſima neceßità costretto quest'altro deſcriue la pee ſtifera mortalità peruenuta nella egregia Città di Firenze,auuertendo pri ma chi legge,in queſto modo. DIN. Mapercioche qualefuße la cagione,perche le coſe che appref fo Rileggeranno,aueniſſeno,non ſi poteua ſenza queſta rammemoratione dimoſtrare,quafi dineceßità coſtretto à ſcriuerla miconduco. A R. Ecco qui ancora un'altra bella preparatione di coſe,fatta per le uare ogni impedimento,chepoteſſe offendereilrimanente. DIN. Ma io mi ti uoglio unpoco ſcuſare,che di que' tempi, che tu te n'andaſti alcuneuolte ci uoleſti uenire, e non poteſti,alcune ci uenisti, onon fosti cosi lietamente veduto,comefoleui,& oltre à questo di ciòche io al termine promeſſo,non ti rendei gli tuoi danari, AR. AR. In fine ogni precedente auifo, & ogni ordine di coſe, e ſecondo, che elte ſon fatte,narrandole,ė artificio ſcelto, & elegante,però tutte le propofitoni de' poeti ſono elegantißime. Leggi. DIN. Veramente quant’io del regno fanto Ne la mia mente poteifar teſoro Sarà ora materia del mio canto, AR. E qui ancora DIN. Et canterò di quel ſecondo regno, Que l'umanoſpirito ſi purga E di ſalir’alCiel diuenta degno. ART. il fimigliante modo è oſſeruato ne i principij di ogni nouelld, come da tefteſſo uedrai.Suole ancora la Eleganza porre artificioſamente le oppoſitioni con le riſpoſte partitamentecome qui. Leggi. DIN. Saranno per auentura alcuni di uoi, che diranno,ch'io habbia nello ſcriuere queste nouelle troppolicenza uſata. ART. Eccola dimanda ſeguita la ſolutione. DIN. La qual coſa io niego,percioche niuna coſa esi difoneſta, che con oneſte parole dicendola ſi diſdica ad alcuno. ART. Et cosi di paripaſſo alle obiettioni riſponde, benche altre fide te inſiemepostohabbia ogni accuſa di ſefatta, opoi s'habbiafcufato, ma quelmodo non ha dello elegante,comeilpredetto poſe prima le oppoſitioni tutte inſieme allora quando diſſe, Leggi. DIN. Sono adunque, diſcrete Donne, stati alcuni, che queſte nouelle leggendo hanno detto cheuoi mipiacete troppo, eche oneſta coſa nonė, che io tanto diletto prenda di piacerui e di confolarui.Et alcuni han dete to peggio,di coinmendarui,come io fo.Altri più maturamente moſtrando di uoler dire,hannodetto, che alla mia età non stà bene l'andar'omai dietro queſte coſe, cice à ragionare di Donne,o à compiacer loro.Et molti molto te neri della miafamamoſirandoſi dicono,ch'io farei più ſauiamente,àſtarmi con le Mufe in Parnaſo,che con queſte ciance meſcolarmi tra uoi.Etſon di quegli ancora,che più difpettoſamente,che ſauiamente parlando,hannodete to,cl’io farei più diſcrettamente à penſare,donde io poteßi hauer del pae ne, che dietro a queste fraſche andarmi paſcendo di uento. Et certi altri,in altra guiſa eſſere state le coſe da me raccontateui,che come io le ui porgo s'ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. AR. In queſto luogo molte accuſe contra dello autoreſi mettono, pri ma che ad alcunaſi riſponda, ilche non è cosi elegante,comeilprimoartife cio,ben che in tanta confuſione egli ſtudiaſſe di eſſer chiaro, cinteſo, eso auiſaſje quiſaſſe auanti lo aſcoltante,come fa doue dice,roppo alquanto dalle predet te oppoſitioni,perche non di ſubito riſponde, ilche ancora é dalia cleganza lontano. Ma leggi. DIN. Ma quanti, ch'io uegna à far la riſpoſta ad alcuno,mipiace in fauore di me raccontare, non una nouella intera,ma parte di una. A R. Et ne poeti ancora fi oſferua,ſecondoche meglio lor ben uiene di fare cosifatti partimenti.Vedi. DIN. Tu argomenti,ſe'lbuon uoler dura, La uiolenza altrui,per qual cagione Di meritar mi ſcema la miſura? AR. Queſta éuna propoſta,alla quale ſecondo l'arte della eleganzaſ doueá prinia riſponderemaſi è poſta ancora la ſeconda, doueſeguita. DIN. Ancor di dubitar ti dà cagione Parer tornarſi l'anima àleſtelle Secondo la ſententia di Platone. A R. Ben che tu ueda qui le propoſte effer'inſieme collocate, non è per ròſenza cleganza quella parte,per quello cheſegue. DIN. Queſteſon le question,che nel tuo uelle Pontano egualemente, e però pria Tratterò quella chepiù ba di felle. ART. In queſto luogo non tanto la eleganza dimoſtra lo artificio fuo per lo auuertimentofatto di quelloche ſi dee dire, quanto per la elettione di riſpondere prima ad una domanda,che ad un'altra.Euui ancora un'altro artificio della ſceltezza,ilqualeè quando ſi ripiglia quello,che ſi è detto, et ſi dimostra,di che poi ſi ba da dire,come in queſti luoghiſegnati. DIN. Ma hauereinſino à qui detto della preſente nouella, uoglio che mi basti,o à coloro riuolgermi,a' quali ho la nouella raccontata. Ilqual luogo acciò chemeglio quelloche è detto,equellocheſegue, co me stefje ui moſtrerò. AR. Aſaiſi èdetto fin qui,con che arte la eleganza leuadato per ſostegno la grandezza o magnificenza del dire,cosi nella grandezza è pericolo di uſcire in forma che non habbis ornamento, proportione,o peròſe le darà per miſura, o bellezzafua unaforma diligente,accurata,o ben composta, laquale in termini conuc. nienti richiudendo l'ampiezza della oratione,o ſangue, o colore amabi le en gratioſo le donerà,ondeil tutto miſurato, & temperato marauigliofan mente ſipotrà uedere.Questa forma nėſentenze, ne artificio ſeparato dal l'altreforme ritiene,ma ogniſuaforza nelle parole,nelſito di oſſe, ne i luo mi,onelle altre parti e ripoſta.Seperò dare non le uogliamo quellefenten ze, che acuti fono,o diſottile intendimentodelle qualiſi dirà poi. Le paro le adunque di queſtaforma ſono le foaui,leggiadre,bricui, difacile intelli. genza,iſchiette,o con gran circoſpettione traportate. Perciò che le trasla tioni in queſtaforma eſſer deono rarißime, o lefigure di questa miſurata Oben compoſta manieraſono le repetitioni. Leggi, Per meſ ua ne la Città dolente, Per me ſi ua ne l'eterno dolore, Per mefi ua tra la perduta gente. AR. E molto bella eornata queſta figura, os tanto più ha di ornde mento,quantoquello che ſi replica,augumenta,o creſce. Come qui. Amor, che à cor gentil ratto s'apprende, Preſe costui de la bella perſona Che mifu tolta,e'l modo ancor m'offende. Amor che a nullo amato amarperdona, Mipreſe del coſtui piacer si forte Che, come uedi ancornon m'abbandona. amor conduſſe noi ad una morte. A R. Se alla repetitione aggiugnerai la interrogatione, ſenza dubbio tu entrerai nella maniera forte ucemente comequi. Qual'amore,qual ricchezza,qualparentado baurebbe le lagrime, o i K sospiri pospiri di Tito con tanta efficaciafatti à Gilppo nelcuorfentire, che egli perciò la bellaſpoſa,gentile,&amata da lui haueße fatta diuenir di Tito, fe non coſtei? Quai leggi.Quaimi nacce?oc. AR. Tu da te stesſo poi quanto ornata ſa ducemente queſta parte conſiderando uedrai; tanto più ſeappreſo le dettefigure ancora ui porrai la conuerſione della quale di ſopra s'è detto.Nėti marauigliarefe(una me defimafiguraſia da altrefigure ornata willustrata.Pero che la lingua di queſtiornamenti é capacißima. Laſcia che à fuo modo altri ragioni, tu neſarai giudice,ola coſa iſteſſa te lo dimostra. La conversione adunque è figura di queſta idea, a Rſuol fare quando in quella ſteſſa parola pià membri ſ laſciano terminare,come nello eſempio ora letto. Bella è ancora la ritornatacheſi fa quando la parola cheſegue, comincia da quella in che la precedente finiſce,come qui. Leggi, Di me medeſmo meco miuergogno. Et qui, Et confoauepaſſo a campi difcefa,per l'ampia pianura sùper le rua giadoſe erbe in fine à tanto che, & c. AR. O uero in questo modo. Infiammò contramegli animi tutti, Egli infiammati infiammar si Auguſto, che lieti onor tornaro in tristi lutti. AR. Et ancora il Bifquizzo come nell'uno Poeta ſi dicra Ch'io fuiper ritornar più uolte uolto, Et l'altro. Il fiorir queſte innanzi tempo tempio. Da poi la predetta ui ſono anco altre ornatisſimefigure, come è illoro aſcendimento,ala tradottione o altre. Lo ascendimento R fa quando le parti che ſeguono,cominciano dalle parole medeſime,nelle quali uan tere minando le parti precedenti,con questa conditione che ſi mutino, le cadenze di esse parole. Come qui, Nel dir l'andar,ne l'andar lui più lento. AR. Ouero in queſt'altromodo. Luſca, io non poſſo credereche queſte parole uengano dalla mia donnd, eperciò guarda quello che tu di.Et ſe pure da lei ueniſfono,non credo che con l'animo fermo dire le tifaccia.Etſe pure con l'animo le diceſſe, il mio Rignore mi fa più onorecheio non merito: A R. La tradottione ė figura,che replicando la steſſa parola,nonfolde mente dimoſtra la intentione di chi parla,ma mirabil'ornamento accreſce oue ella ſtruoud.come qui, Laurd, che'l uerde lauro,e l'aureo crine. AR. Molto diligente as accurata figura e quella cheſifa quädo due, • più partifraſecongiunteſi ſogliono proferire.Leggi, Et utile conſiglio potrannopigliare, & conoſcere quello che fa dáfug gire,o che ſia fimilmente da ſeguitare. AR. Et qui, A cui grandi ey rade,o à cui minute pelje. AR. Forza ė,che onunque in una bella,& adornata figura s'abbatta un bel giuditio, egli conoſca es ſenta dentro difealcuna dolcezza; com meſe uno udirà in questo modo ragionare. Riſpoſemi non huomo,huomo giàfui, E li parentimiei furon Lombardi, Mantovani per patriambedui, Nacqui ſub Iulio ancor che foſſe tardi, E uißi à Romaſotto il buon ’Auguſto, Al tempo de gli dei falſie bugiardi Poetafui,e cantaidi quel giusto Figliuol d'Anchife,che uenne da Troia, Poi che'lſuperbo Ilion fu combuſto. AR. Non ſentirai tu per queſta diſgiuntione,per la quale ogni parte ſotto ilſuo uerbo è rinchiuſa,una diligenza gentile del Pocta:si comelà,do we dice, Io ſon Beatrice,che ti faccio andare, Vegno dal loco, oue tornar diſſo, Amor mi molle, che mifa parlare. Et molto piùſe nella proſa detto ritrouaſi A que' tempi che i noſtri maggiorihaueano l'occhio al gouerno di que ſta Republica,eta riconoſciuta la uirtù de'buoni, dauanſ i compenſi dei danni riceuuti per la patria,chi robaua il publico,era castigato; fioriua dia na giouentù dedita alla mercantia, oucro alle lettere, laſciauaſi il facerdos: tio, la militia da' noſtri queſta,per che i cittadini non pigliaſſero l'arme contrafe ſtoßi,quello,acciochefuſſero più finceri i parenti afar giudicio delle coſe importanti. ART. Vedi,che narrando partitamente, oſenza congiugnimene to alcuno, il parlareè ſpedito, la figura ornata, odiletteuole ſopramo do il ſuono di eßa oratione. Al cui ornamento il traportar delle parti di oßa gioua mirabilmente, come quando ſi dice, Al costei foco,alcolei grido. K 2 Giouin Giouinettopoß'io nel coſtui regno. Et qui. Vſate le colei bellezze. In queſto caſo nonf dee di tanto leuar dall'ordine loro le parole, che la ſentenza oſcura deuenti,come diſſe, Che i belli,onde miſtruggo,occhi mi co la, di che èquaſ piena quella canzone. Verdi panni,ſanguigni,oſcuri,operſ. Bello alquanto èquel tranſportamento chedice. Or non odio per lei, per mepietade Cerco, che quel non uo,questo non poſſo. Concedeſ però a ' Poetimaggior licenza per riſpetto della neceßità del uerfo,nel quale ancora più ampio luogo fanno gli ornamenti che nella profa.pure non èche del bello nonhabbiano aſſai quelle figure, che per le negationi affermano,come s'egliſi diceffe, io nol niego, cioè io il confefe fo.Et quella,non è alcuno,che nol creda,cioè ogn’uno il crede.Poi non taca que,cioè parlò, e diſſe. Suole ancora chi fcriue amaggior bellezza circoſcriuendo le coſe, con più parole,quello che conuna può eſprimere come qui, Era giàl'hora,che uolge il deſio, A'nauiganti,e inteneriſceil core, Il di,che han detto à i dolci amici,A Dio, AR. Et cosiA chiama il Sole Pianeta,che distingué l'hore, e diceft. laprudenza di Mario,la fapienzadi Catonein luogo di dire Mario prila dente, o Catone faggio,&éappreßo bella figurala innouatione i com me qui, Parte preſ in battaglia,e parte ucciſt. Et quia Taciti ſolieſenza compagnia, N'andauan l'un dinanzi e l'altro dopo. AR. Ecco come la bellezza ogni formaabbelifce,ne per tanto auenga che ella moltefigure, molti lumidimoſtre,di quelle ſolamenteſt contene ta,ma ſtudioſa del diletto sforza di ragionare uariamente. Là onde per fuggir la fatietà con mirabile artificio è uſata di uariare la oratione. Et questo ſuolfare primieramente doppo molte uoci di piene «ſonore lettere ponendonealcune dibaſſe U rimeſſe.Dapoifuggendo la continuatagiacia tura de gli accentiſopra una medeſimafillaba,ora nelle ultime,ora in quet le,che uanno innanzi adeffe gliſopramette,o di più in mezo delle lunghe le corte parole framettendo gratia &adornamento le giunge. Bella coſa ė si come tra cittadini vedere gli ſtranieri, cosi tra le nostre parole alcuna adirai che alicna fa,o meſcolare le ifquifite con alcuna detle popolari, le BMOWE huone con le uſate, finalmente la elettiöne in queſta parte può aſai, la quale ritrouandofi in ſaldo w ſottilgiudicio, dimoſtra in un'eſſere tutto quello che col conſiglio di molti eletto a ricolto effer potrebbe però non degnale uili,ſcaccia le brutte,fugge le aſpre, abbracciale eleganti ſceglie leſignificanti, o con copia marauigliofa uaria la difpofitione, i të pi,ilnumeroje i finimenti;nė di pari lunghezza formeràle parti delparlaa re,nėripiglierà una'steßa figura,un tempo medeſimo,un modo Amile, una perfona pari,ma quaſi un'adorno pratola oratione di molta varietà fora mando, diletto, o gioia,recherà ſempremai.Leggiprima qui, comeil Poce ta i medeſimi nomi non ridice in uno steßo luogo. Io credo checi credette,ch'io credeßi, Che tante uoci uſciße da quei bronchi, Da genti cheper noiſi naſcondeffc., Però diſſe il maeſtro,ſe tu tronchi Qualchefrafchetta d'una deste piante, Penſter c'hai ffaran tutti monchi. Allor porfi la mano un poco duante, E colfi un ramufcel da un gran pruno, E'l tronco fuo gridò perche miſchiante. Da chefattofupoi diſanguebruno, Rincominciò à gridar,per che mi ſterpiš Non hai tu ſpirto di pietade alcuno? Huominifummo, oorfemfatti sterpi, Ben douerebbe la tua man più pia, seſtatefoßim'anime di ferpi? Comed'un ſtizzo uerde,che arfo Ria, Dal'un de lati cheda l'altro geme, Bi cigolaper uento che ua uia. Cosi di quella ſcheggia ufciua inſteme, Parole,e ſangue,ond'io laſciai la cima Cadere,e dette come l'huom che teme. A R. Tu puoiuederein quanti modiilPoeta ha uoluto variar leparon ko con quanta felicità egli lo habbia ottenuto. Il che in molti luoghi può in elo uedere.si come là,doue parlando del lago gelato, lo chiamaora ghiaccio,era uetro, ora gelozora groſſo,o duro uello,ora ghiaccio, ora geld ti guazzi, ora eterno uzzo,oragelata,ora cristallo orafaſcia gelata, ora fredda crostázora lagrime inuetriate, &fimili altre parole ufa variando il poema. Il fimigliante hannofatto,fono perfare tutti gliſcrittori di non D B 1 L me. Leggerai mirabili eſſempi della narietà in tanti principij di giornar Odi nouelle cheſono in quell'autore, o leggerai anco l'ultima parte del ſecondo libro di quest'altro che comincia. Che andiamo noipure tutta uia di molti amanti et diletti ragionando. Maė tempo di ritornar’omai alle altre parti della formapredetta,ope ró d'intorno alle membra dei ſapere chela lunghezza di eſſe in queſtafor. ma èpix deſiderata,chela breuità ocortezza,non però uoglio, che si lo ftremo ti fermi,macon più disteſe parti che nella eleganza uorrei,che leſue ſentenze liportaſjero,che le parole di effe in tal guiſa ſi collocaſſero,et ſ terminajſe queüa oratione,che uariate alſopradetto modoil faſtidio o la satietà ſi fuggiſſe, oin grado ogni sprezzata coſa ci ueniſſe. Il numero al uerfo uicino in questaforma ci uuole,il qual numero primaſarà di quel la maniera,che di ſopra ti ho detto, cioè ripoſo o mouimento, ouero tempo di proferire,ò da poi di un'altra,che ora io ti dimoſtrerò. Perciò chemolto bene all'oratione può dar formanumeroſa et bella, la qualeſia nata da ue na certa neceßità delle coſe ben composte, o conſiderate, come il contra. porre i contrarij, o le coſe diſcordi l'una all'altra con miſura corriſpone denti,ritrouare i ſimiliipari, o altre coſe ſomiglianti à queste,delle quali partitamente e con eßempio ne dirò, Sono alcune membra,ò nodi della oratione,iquali hanno le lor ſentenze oppofte,ma con una corriſpondenza tra loro mirabile temperate. Ilprimo cfſempioſarà di quello che ſi chiama Pare,il qualeſi fa quando le parti che Äihanno à corriſpondere ſono quaſi di pare numero di ſilabe, odi tempi, quafi dico,però che queſta parità di ſillabe, o di tempi con ſaldo intendie mento o giuditiodeue eſſereſtimata, et nõ del tutto pari.L'eßempio di que ſta forma e questo. Dou’elladifonestamente amica ti fu, ch'ella oneſtamente tua moglie diuenga. ART. Nel predetto effempio in duemodi ſiuede effer fatta numero, ſa la oratione primaper la parità delle ſillabe,la quale nelle parti ſi uede poi per la contrarietà corriſpɔndenteperche amica omoglie, ſono contra rij, oneftamente o difonestamente fo:10 contrarij, oppoſti,ſolodi pari ud queſto. Leggi, Quiui à niunoſi cerca inganno,a niunoſifa ingiuria. ART. I contrarij adunque fanno la oratione offer numeroſa,come an cora qui, Et di gran lunga é da eleggerpiù toſto il poco oſaporito, che il mola to o infipido. ART. tornare. 2 ! TAR. Ne i ſimili ancora cade il numeroſo concento in modochequando in fimil ſuono la chiuſa finiſce,ne rinſulta il numero. Quel roſſore, che in altri ha creduto gittare,ſopra di ſe l'ha ſentito A R. Speſſo auiene,che per fuggire il ſoſpetto di cotesto artificio, la simiglianza de ifinimenti delle parole in mezo delle parti ſi ponga, com me qui, Poi ueggendo,che questoſuo, conſumamento,più tosto che emendamento della cattiuità del marito potrebbe eſſere. Et qui. Che più dispettosamente,che fauiamente,parlando. Molti eſempi ritrouerai da teſteſſo di queste numeroſe maniere, nate dalla corriſpondenza delle parti.Ora vorrei, che bene aucrtißi di non re. plicare piùuolte cotesti adornamenti,di non affettar tanto la conſonana za delle parti,che cadeßi in fastidio,ouero infospetto de gli aſcoltanti. Et per queſta reggerai medeſimamente il uerfo,nel quale caduto in più luoghi Ruede l'autore delle nouelle,il quale à mepare che di ciò molto curato nõ habbia.Beneuero,che con mirabile perfettione riempie le parti ele měs bra della ſua fauella quando diuide i nodi de' ſuoi giri in tre parti, come qui Percioche niun'altro diletto,niun'altro diporto, niun'altra confolatione laſciata ti ha la tua eſtremafortuna.Etqui, Et ſe qualunque di quelle fuſſe in Salomone,ò in Aristotile,ò in Seneca, 'haurebbe forzadi guastar'ogni lorſenno,ogni lor uirtů, ogni lor ſantità. Et qui. Maquantoſenfante, quanto poderoſe,di quantoben cagion le fore ze d'Amore,& c. Conſidera la distintione de' membri in quella nouella, doue introduce to ſcolare,la uedoua,perche cosirichiedeua la dotta perſona dello ſcolare. AR. E degno di conſideratione il numero delle fillabe, chenelle parti, che hanno à riſpondere l'una all'altra,ſ mette. Perciò che quando una pare te di troppo l'altra auanzaſſe,non ne ſeguiterebbe alcuna numeroſa compo Rtione,però buone onumeroſe appaiono eſſer queſte. Accioche come per nobiltà d'animo dall'altre diuiſe fiete, cosi ancora per eccelentia di coſtumiſpartite dall'altre ui dimostriate. ART. Maqui appare alquanto lunghetta la riſpondenza, &la die fagguaglianza demembri.Leggi. Quanto piùſ parla de' fattidellafortuna,tantopiù à chi uuole lefue co fe ben riguardare,ne reſta da poter dire, ÄR. ART. Può eſfer’ancora,che non ſi gusti il numeroper la lunghezza delleſueparti,benche fieno quaſi paricomequi, Egli auieneſpeſſo, che sicomela fortunafotto uili artialcuna uolta grandi teſori di uirtù naſconde,cosi ancoraſotto turpißime forme d'huo. miniſtruowa marauiglioſ ingegni dalla natura eſſere stati ripoſti. AR. S'io ti uoleßi ogni coſa moſtrare d'intorno alla bellezza del dire, troppo ritarderei gli ſtudij che hai afare,o pocoti laſcerei da eſercia tarti d'intorno allaeloquéza umana.Peròp trapaſſare alle altre forme,par lerò della ueloce e pronta maniera della oratione; la forza della quale è nello artificio,più tosto,onelleſeguenti parti,che nelle ſentenze riposta. L'artificio adunque della prestezza eà brieui dimande brieuementeria fpondere.Leggi. S'amor non èche èdunque quel ch'ioſento?:: Ma s'egliè amor,per Dio che coſa è quale? Se buona,ond'ċ l'effetto afpro e mortale? Se ria,ondési dolce ogni tormento? ART. Ouero il fare molte dimande, con forze di ſpirito obrer uits: Non era egli nobile giouane? Non era egli tra gli altri ſuoi cittadini bello? Non eraegli valorofo in quelle coſe che d' giouani s'appartengono? Non amato? Non bauuto caro?Non uolentieri ueduto da ogni huomo? AR. Le membra,quaſ parole eſſerdeono bricui «uolubili, oche pa ia che in eſſe fail monimento del parlar noſtro, oltre alla ſignificatione delle parole nelle quali ėripoſta la forza dela efpreßione di ogni forma. Leggi. Soli bastano, accompagnati creſcono, und mille nefå, odelle mille in brieue tempo mille ne naſcono,per ciaſcuna ſono aſpettate giocondißime,no aſpettate uenturoſe, ſono cari ageuoli,ma diſageuolivia più care inquanto le uittoric acquiſtate con alcuna fatica fanno il trionfo maggiore, donare, rubbare, guadagnare, guiderdonare, ragionare,ſoſpirare, lagrimare, rotte, reintegrate,prime ſeconde,falje,o uere,lunghe bricui, tutte fonodiletteuo li tutte ſono gratiofe. AR. Vedi che mouimento apporti ſeco questo parlamento, il quale quando l'huomo è riſcaldato s'aſcolta con marauiglia delle genti. Confia Ate anco nellaforzadelleparole, o nelſuono, onella compoſitione. com mequi. E già uenia sì per le torbid onde, Vn fracaſſo d'un ſuon pien difpauento, Per cui tremauan' amendue le ſponde, Non altramente fatti,che d'un uento: Impetuofo per gli auuerſardori, Chefier la ſeluaſenza alcun rattento Gli ramiſchianta,abbatte, e porta i fiori Dinanzipolucroſo uaſuperbo Etfafuggir lefiere e gli pastori. ART. Tanto uoglio che tu ſappia della preſtezza del dire. Perciò che date medeſimopuoi comprendere quanto « ilconcorſo delle uocali,ore forezza delle fillabe pa lontana da questa forma,esfapere che ogni ina dugio di proferire, ogni raccoglimento,ogni giro, impediſce il mouimento fuo. Reſta adunque a dire della formaaccostumata,o delle fueparti, la. quale e, cheſi conuiene alle cocoalle perſone in tal modo chequello che ſi chiama Decoro, molJa chiaramente ſi ueda Et però la detta forma ſota to di ſe quattro maniere principaliſ uede contenere. La primaė la unilta ubaſſezza. L'altra é la piaceuolezza o il diletto. La terza e l'acutezza Uprontezza. Et l'ultima la moderatezza della oration. Delle quai fore menecessariamente in queſta forma si ragiona, perche cosi porta la natua rade gli huomini,i quali sono ó uili, o riputati, è piaceuoli, o moderati. La bajezze dangue e forma infima, e dimessa del dire, alle roze, o idiote persone convenicnte, à femine, fanciulli non diſdiceuole: da Comici, rie chieſta ouſata pia toſto che da Oratori, o eloquenti buomini,o piu tom Ho nelle cauſe de priuati, che ne i communiconſigli ricercata,quando uor rai attribuire il parlar a quella perſona, cui non ſidifdice la baffizza. Cá dono in queſta ſimplicita di dire i paſtori, aquelli che le coſe.boſcarecce Man deſcriuendo,o però le ſentenze di queſtaformaſonopiu baſſe Qumi li, opiùfacili che quelle della purità oſcioltezza del dire. Là onde ala cuni giuramenti ſciocchi à qneſtamaniera ſi confanno. O Calandrino mio dolce, culor del corpo mio, quanto tempo t'ho defide Tatob’dauerti edi poterti tenere a mio fenno.Tu m'hai con le piaccuoa lezza tuațratto il filo delacamicia, tu m'hai aggrattigliato il cuore con la tua ribecca. Può egli eſſer che io titenga? Leggeraila tutta, otutto che in questa formauiſabaſſezza, non è però ela ſenza artificio, percioche per dimoſlrarla pulefe,fi fuole alcuna fista minutamente ogni coſa deſcriuere,u ogni particolarità chia rire, introdurre alcune ſcioccheriſpoſte, ò ſemplici contentioni di coſe, che non rileuano con detti, le ſentenze de quali ſono grandi, ma le parole ſciocche, at rozze. Leggi. L Cominciò à dire ch'egli era gentilhuomo per procuratore, roy. Begli bauea diſcudi più di milantanouefenza quellich'egli hauea àdarealtri che erano anzi piùche meno e che egliſapeus tale coſe fare; ct dire che domine pure unquanche. ART.. A tuo agio nie leggerai ilrestante,mauedi la contentione: Guatatala un poco in cagneſco per amoreuolezza la riniorchiaua '; ege ella cotale ſaluatichetta, facédo uiſtadi non auederſene andaua pure oltra in contengo. Seguita che tutta ëbaſſa per li giuramenti, per le beffe, con per alcuni rabbuffi, come qui. Vedi bestial buomo che ardiſce, là doue io Pid, parlar prima di me, laſcia dir à me, Et alla reina riuolta diſſe,Madonna, costui mi uuol far. conoſcer la moglie di Sicofanta,ne più ne meno come scio con lei ufata nor, fußi, che mi uuol dar' à uedere chela notte prima che Sicofanta giacque con lei meſſer Mazza entraffe in monte nero per forza,e con ſpargie mento di fangue oio vi dicoche non é ucro,anzi u’entró pacificamente: La deſcrittione del fante di fracipolld;& della fante,ėbaſſa,er propria di queſta formaa alcuni lameti cô parole ufitate & popolari. Leggi. Dime,oimė Giãnel mio io fon morta,ecco ilmarito mio,chetri fto il faccia Dio,che ſi tornò, « non ſo che queſto ſi uoglia dire. ART. Et alcuni prouerbiemodiſono dimeßi. Leggi.: Et cosi al mododeluillan matto doppo il danno fece il patto, muoia. foldo, oniua amore, e tutta la brigata. ART. Dalle fentenze di queſta forma ſipuò far congettura quai parole, ochenumero, oquaichiuſe ad effali conuengonc, Però cheari tificioſamente da ogni artificio lontana offer deue ogni ſua parte, & imie tare la ſemplicità, ogroſſezza delle perſone. Io non uorrci queſtaforma in unpocma grande, o genoroſo; o dubito che per questa ragione da ale cuni ripreſo noſia uno de i piùcarifigliuoli ch'io habbia,ilqualefpeſo per dire ognicoſaminutamente cade in parole baßißime,come quando dife. Vn’amme non faria potuto dirſt, Quero. Etmentre che la giù con l'occhio cerco, o quello che ſegue Trale gambe pendeuan le minuggia La corata parea, e il tristo ſacco. Et il reſto. E non uidi già mai menare ſtregghia A ragazzo aſpettato daſignorfo, Et la doue diſſe che Tencuan bor done alle ſue rime. Md ora al diletto paſſando, dirò, che per diletto de gli aſcoltanti ale cuna uolta l'oratione ad una forma s'inchina la quale tutta e riposta nellä, bautentione delpoeta,però gioconda diletteuolemanieras'addimanda ĝrellache la ſemplice edimeſſa alquanto più rileua ealla fauola, ó fala uoloſa narratione ſi uolge. Là onde leſentenze di questa formafaranno contrarie alla forma della dignità del dire; &però diletteuoli o gior conde ſono quelle, doue ragionano inſieme la Diſcordia, o Gioue, o in quel dialogo d'Amore, oue R dimostra in che guiſa difcendeſſe fra more tali Amore.Sonoanco grate,ga dolci quelle ſentenze chehanno quelle coſe ntinutamente deſcritte, lequali per natura loro hanno onde piacere difense timenti umani, es però la deſcrittione dell'amenißima valle delle Donne a molto grata ad udire. Conſidererai di quanta dolcezzaſia ſtato amaeſtro Simone il ragionaméto di Bruno, quando egli deſcriſſe la brigata, che giudi in corſo,og de i loro follazzi, opiaceri,e delle altre coſe diletteuoli che egli uedeus in udiua. Ma è bene che tu ſappia, come di quelle coſe, che a ſenſi ſono ſottoposte, alcune fono oneste, alcune diſoneste. Le diſor Heiste ſe paleſamentesi ſcuoprono co iloroproprij uocaboli, offender for gliono le caſte orecchie;benche non offendano quelliche nė di dirle, ne di farle R logliono tergognare,maſe con diſcretomodoleggiadramente cura prono la bruttezza loro,non pure non perdono il diletto quando ſono inteſe, ma molto più di ſoauird ſeco recano à gli aſcoltanti: Narra lo amore di due cognatiilpoetaDante,o uolendo il finedieſſo quantopiù poteua onestan mente ſcoprir diffe. Quel giorno pia non ui legemmo auante, cioé attena demmo ad altro che à legger quello, che fu cagione del nostro amore, o cosi quá lo l'altro poeta diſſe, Con lei fuß'io da cheparte il ſole. E non ci Medeß'altri che le ſtelle.Ocosi in mille modi ó per le coſe antecedenti, per quelle cheſeguono,eſſendo meno diſoneste,le difoneſtißimèappalefar ft poſſono ne è pocalode dichi ſcriuezin tale occaſione abbattědofi,ſenza offen fione anzi con diletto delle oneſte perſone deſcriuer le coſe meno che oneſte. Intělaſi adunque la coſa, ofuggaſi la bruttezza delle parole,o in queſto modo ſarà foaue, &diletteuole il parlar uoſtro. Alquale gli amori,le bele lezze de i luoghi,igiardinizi prati,i fiori le fontane,la prima uera, le pite ture, o altre coſe piaceuoli aggiungendoſi,ſenzadubbio ſi dimoſtrerà la predetta forma,della quale anco di ſopras é detto aſſai, quando del diletto, della gioia tiragionxi,che naturalinēte inuouc ogni coſa creata. Et cosi ſecondo l'affettione di ciaſcuno ſi porge ſolazzo opiacere col ragionare. L'artificio,et le parole della giocõdità tolteſono dalla primaformadel dire chiamata purità, onettezza. Voglio bene in queſto paſſo,che co più licen zoufigliaggiunti,ſegno e che i pocti loſtudio de' quali è proprio il dilet? tare, allora più dilettano quando più belli;eacconiodatiaggiunti- fono? wfati di porre ne' verſi loro, ecco Leggi. L & Giace nella fommità di Partenio,non'umile monte della pastorale Arct. dia,un diletteuolepiano di ampiezza non molto patioſo,peròche'l ſito del luogo nol conſente ma,di minuta, o uerdisſima, crbetta si ripieno, cbe fe: le lafciue pecorelle congli auidi morſi non uipafceffero,ui ſi potrebbe dom gni tempo ritrouar merdura. ART. Tutti i principii delle giornateſono à proua fatti per dileta tarc, eperò inshi 13 ziunti uiſono meſcolati come tu potrai uedere. Egli lliſuole anchora interporre de i ucrſi per. dilettare, ma con destro modo, Perciò che non mipareche bence ſtia, che la compoſitionc babbia del uer fo come qui. Cofi detto, et riſposto,e contentato, doppo, un brieue.filentio di ciaſcuno. ART. Ecco che nella proſa ui è il uerlo,ſenza quel propoſito che: io ti diceua,però, biſogna rompere i ucrſi con alcuna parola,eccoti uer: foc, Postbaueafine alſuo ragionamento, madicendo. Pofthauca fine Lau, retta.al ſuo.ragionamento non è più verſo, benche queſto.autore altrowe: non foſſeſchifatodal uerfo,come quando diſſe. Poſcia che molto commendata l'hebbe, Disleale, o spregiuro, e traditore, Etpoi con un ſospir aſſai penſoſo, Luogo moltoſolingo, ofuor. dimano.. Et questi uerſi quanto ſono migliori,tanto più ſono da.cſfer fuggiti nel fic lo della oratione, fenon quando,o per eſſempio, o per autoritade, o per di: letto ſono tolti da poeti. Ora delle figure di questa faperai,che alla giocondaforma, oltra le fi gure che alla purità,Q umiltà. conuengono quelle ancora non disd.cono, che alla bellezza ſi danno,o peròle membra pari di ſimili cadimenti le rime, i biſguizzi, itramutamenti; i circoli, le uoci.ſimiglianti, il fingeri: de i nomi ſonofigure di questaforma. Leggi i ſimili cadimenti. Tranquilla lite de'giudicanti ristora.le fettche gucrreggianti, in quel le con le ſeuereleggi de gli huomini, la pisceuolezza della natura,meſcoa. lando a queſti nel mezo de gli nocentisſimi guerreggiantipure, ø inno.. centisfime paci recando. Nellefſempio letto ui troucrai anco la bellezza di contrari, la parità de'membri, perche niente ci uicta,che una ſtela figura da molti lumi ancora illuminata, fi poffa fare illuſtre e luminoſa. Laura, che il ucrde lauro,c l'aurco crine.. Eſcherzo di upci ſimiglianti. Il mormorar dett'onde,bisbiglio, ſpruzza.. reribombo,gracidare, fonoparolefinte,cha con diletto cfprimeno il fatto,  ecco quando colui diffe,Filli, Filli,fonando tutti i calami, parue ueram mente che i calami fuſſono tocchi col fiato di dettopaftore, o quello ſem zafar motto alcuno. Rimafu quella di coſtui che diſſe. Tanto d'intorno à quel più bello, quanto pià de Thumido fenting di quello, Et perpiù adornamento et diletto, diſſe anco. L'acqua laquale alla ſua capacità ſoprabondaua. Et comei falli meritano punitione, Cosi i beneficii meritano guidero: done. Nella rima è pofta. la dolcezza de' Poeti di questa lingua, dallaqual.rima chi ardiſſe ò tentaſje per alcun mododidipartirf, toſto ſi pentirebbe. Le rimepiùuicine fono più dolci: Qucta licenzadel rimaremoderatamente Bplglia de proſatori, purche di affettata dilettatione: disoneſto ſegno non porga. Voglio bene la compoſitione di questa forma,numeroſa epiù al uerſo uicina che l'altre, ma il uerfo per ogni modo le tolgo. Guarda con chefacilità ſipotrebbe coteſta proſa alla dolcezza deluerfo ridurre.Leg. Vna fede medeſimatraloro per le menti unafermezza, unoamore in agni faſo, in:ogni tronco,inognirina,,uede l'amante la faccia dolce delld. fua.belladonna,o ella quella del ſuoſignore. Ma.ora non: voglio che tantoti piaccia la forma predetta che tralaſcian do la dignità,o grandezzadeldire, procuri.con ogni ſtudio il diletto piacere cheda quella fola procede, Perciò che io non uorrei che alcuna. parte del tuo ragionamento ſenza piacer s udiſſe, di.che l'aſcolta,ilqual pia cere naſce ancora. dalla Idea dell'altreforme, o dalle orecchie allo animo, trapaſſando ogni parte di eſſo fparge di diletto marauiglioſo, perche moe. uendo diletta, o dilettando li mouc, inſegnando ſimilmente fi.moue,, odiletta.in quanto che lo inſegnare il mouere,o il dilettare, ſono opera. tioni non distinte l'una dall'altra. Mi. laſciamo queſta quiſtione. ad altro, tempo, o ancora nonstiamo troppo in.questa forma tutta.di altra confla deratione, come quella.cbe al Posta.grandemente conuenga, alquale pocta. i giuochi, po le coſe ridicole ſi confanno, operò di. cße ora non te ne dia 60, e tanto piu adietro di buon cuore ti laſcerà queſta matcria ', quanto di: ſacopioſamente damoltine è ſtato ſcritto,etragionato. Larifponfione: ad ogni parte è anco figura di diletto. Leggi. Laquale ciiba fattinc i corpi.delicate,o morbide, negli animi. timide opaurofe,ne le menti benignc, opietoſe, obacci dute le corporalifora ze leggieri, le uoci piacsuoli, o imouimenti de imembrifoaui.. Ms or a pasfiamo all'acutezza del.dire, forma inucro egregia. &. piùalto penfamentoche altra meriteuple. Peroche ella contiene le ſentenza fic,deltuttocontrarioalla umiltà, «baffezza della oratione, ej in uero altro dicendo,altro intende.Percioche è dicoſeche hanno in ſeforza,et uds Forela onde lo artificiaė proferire le alteodifficili intentioni pianaměte, o con facilità, e le umili &abictte che paianoalte,o degne: onde i primo modo é,quandofi piglia una parola in altra ſignificatione che nella ufata confueta maniera,ne pcro e meno conuencuole et propriafe gli wiguardaalla forza della uoce,che la uſala, « conſucta, come qui. Non creda donna Berta oſer Martino * -Prueden un furar altro offerine. 9. Wedergli dentro al conſiglio diuino. Che quel puo furger,oquel può cadere. C: il  secondo modo e quello cheſi fa non mettendo la parola, doueela berie Starebbe, ilche abufione s'addimanda; come ė à dire allegrezza inſanabile, in luogo di dire allegrezza grandißima. Seguita il terzo modo di porre. una þarola pia uolte'., ma che ſempre ſia ad un modo istefjo pigliata, come dicendo,ſecglimuore, morirà tutto, perche uiuendo non uiue.Vſaſi ancora biquestaforma un altro artificio aljai degno di conſideratione ilquale ft fa quando il parlare ſi fa pieno ditraslationi,o per la moltitudine di quelle lifa ogn'horpiùmanifesto. Leggi. Eeleggi fon,ma chiponmanoad eſſe Nullo, percheil paſtor, che precede i Ruminar può,manon ha l'ugne. foffe, Perche la gente che ſua guida uede ** Pur à quel bel ferir on fella é ghiotta Di quelfi paſce, opiù oltre non chiede. ART. Et in queſto altro loco ancora Nel mezo del camin di noſtra uita Mi ritrouai in unaſelua oſcura Che la diritta uia craſinarita. ART. Acuti ſono ancora quei rimedij,che uanno quafi medicando le dile rezte delle Tralationi con alcune altre piu chiare, ecco dire il fiato della morte é duratralatione. Ma dire della morte, e ſpigne col ſuo fiato il noe ſtro lume,e acutamente raddolcita la aſprezza fua. O qui.Con altezza di: animo propoſe di calcar la miſeria della fori una.Voglio ancora,che acuto fa ilporre inanzi yliocchi le coſe con bella colligatione di ſignificantißia me parole,Vuoi tu ucdere la celerità del tempo. Leggi. a Delaurco albergo con l'aurora istanzi E to 1vs K $ *** siratto ufciua it ſol cinto di raggi, Che detto baureſt',.' Apur corcò dianzi. Jo uidi il ghiaccio, e li preſſo la rofa, Quaſi in un tempo il granfreddo, e ilgran caldo. Che pure udendo par mirabil cofa Veggo la fuga del miouiuerpresta. Anzi di tutti, et nel fuggir delſole, La ruina del mondo manifesta Voi tu uedere dipinta la oſcurità. Leggi. Buio d'inferno, o di notte priuata D'ogni pianeta ſotto pouer ciclo Quant'eſſer puo di nuuol tenebrata: ART.No ſolaměte leparolefanno l'effetto,ma te fllabe, et le lettere steffe Vedi quáte fiate uie replicata la quinta lettera come lēte baſſa,co oſcura. Sotto queſtaforma i beidetti ſi coprendono, et quei mottiurbani,che co dimeſe parole dicono altißime coſe.Là onde alcune ſentēze, la ragione delle quali in effe ſi conticnejacute ſono, o di ſuegliato ingegno ſegnimanifesti. come à dire, le minacce fon arme del minacciato. sēdotu huomo penſa alle coſe humane o offendo mortale nõ hauerl'odio immortale, o quello.Rade volte è ſenza effetto quello che uuole ciaſcuna delle parti. Queſte ſono le parti principali dellaforma ſublime; & acuta,nellealtre haida ſeguitare la purità o eleganza del dire. Ma della Modestia,o Circonfpettione del parlarenelquale conſiſte quanta gratia tuti puoi con gli aſcoltanti acqui Atare,dirò,pregandoti caraméte,che tu uoglia questaſopra tutte l'altre ele gere,abbracciare,et fauorire in ogni tuo ragionamēto. Modesta è adunque quella forma del dire che le proprie coſe abbaſſando innalza le altrui, o quaſi cede e toglierſi laſcia del ſuo, il che opinione acquista di grābone tade appreſſo chi ode.Le ſentezedi quellafono quelle che dimostrano l'ani mo di chi parla alieno dalle contētioni, il deſiderio di fuggire, o terminar le coteſe,ildiſpiacere d'accufar altrui, il poter dimoſtrar maggiorpeccati dell'auuerfario,«nõfarlo,et quello che ſi fafarlo sforzatamēté,ė astretto dalla uerità,o p no laſciar opprimere gl'innocēti,uerfo de'quali,chi dice, A deue dimostrare cõ queſta formaofficiofo,et benigne,comefece coſtui. Leggi. Mi piace condiſcendere a' conſigli de gli huomini,de quai die cendo mi conuerrà far due coſe molto a' miei coſtumi contrarie;luna fia al quanto me commendare o l'altra il biaſmar alquanto altrui,o auilire. ART. Molti huomini eccellenti nelle lodi, che date hanno a i loro cittadini uſati ſono di dire, uoi faceſte, uoi uinceste,mánel dimoſtrare alcana coſa meno che oneſta de' fatti loro,hanno detto per modeftia.Noi perdesſimo, noi malefi portasſimo, noialquanto imprudentemente to gließimo la guerra. A questeſentenzeſi aggiugne l'artificio, ilquale con Rate nel dire di fero delle proprie coſe modeſtamente, con dubitatione facendolegrditamente minori di quello cheſono; eſcuſando per lo contras rio gli auuerfarii,oucro con ragione, conalquanto di timore accufando li,permettendoli alcuna coſa a fuomodoin loro diffeſa pronuntiare,acció sonſi dia ſoſpetto al giudice dioffer contentiofo,& amicodelle liti, in que ſto caſo voglio,che tu uſ parole baſſe, et pure, oquelle che hanno manco forza nelle tue lodijonel biaſimo de gli auuerfari, però quelle figure a questaformaſono accomodate,nellequali con deliberato conſiglio alcuna coſaſ pretermette,quiſando però l'aſcoltante di tale deliberationc.Inbrie ue ti dico, cbe la disſimulatione, che ironia s'addimanda, quenga, che ale cuna volta morda cu pungasėperò artificio,o figura di queſta materia,nel laqual alcuni Greci riuſcirono mirabilmente. Lacorrettione, oil giudi cio con timore ſonocolori di questa idea. Come quando ſi dice, S'io nca sn'inganno,s’io non erro, cosi mipare,ofimiglianti modi, i quali quanto più banno del leggiadro, tanto più dilettano,o fanno l'effetto, che ſi ricer 14. La correttione e in quel luogo. Si come prima cagione di queſto peccato, fe peccato é, perciò che io t'accerto. ART. Et la disſimulatione iui. Godi Fiorenza, poi che ſei si grande. ART. Belmodo e modešto é quando o il biaſimo, o la lote ſi fa dar da una terza perſona, perche meno ha d'innidia il teſtimonio altrui, che'l noftro, operò in queſto Poeta nel dire la origine fua, uedrai modestia ma rauiglioft, Leggi ancora qui. Nobilisfime giouuni, à confolatione delle quai io mi ſono meſſo à cosi lunga fatica io mi creda aiutandomi la diuina gratis ſi come io auiſo, per gli uostri pictofi preghi non gia per i mei mcriti quello compiutamente ha Herfornito, che io nel principio della preſente opera promiſi di douer far. ART. Etil principio della quarta giornata i ripieno di queſti modi. Ma tempo è di ucnire all'ultima forma di queſto ordine, ma prima in die gnità o perfettione,comequella, ſenza laquale niuna delle altre può nel l'animo entrare de gli aſcoltanti,dico della uerità, a laquale benche la moc desta e dimeſſaforma piu che l'altre s'auicinano,nientedimeno non è da di Te,che ella debbia dall'altre offer abbandonata, imperoche non è opinione, òaffetto,che ſenza eſſa indurre ſi poſſa, queſta fa credere che cofiſia,come Adice,questa moſtra l'animo di chiragions, queſta èfrutto diquella uir ta che tùche noi chiamiamo imaginatione,cosi potente nel porre le coſe dinanzid gli occhi,et cosi efficace ad ottenere ogni nostra intenţione.Dimoftrafl adia que l'aniino di chi parla in questo modo,cioèſenzamezo alcuno rompendo in uno effetto,perche la natura in queſta guiſa ui diſpone chequandoſiete iņuno affetto ſenza altra ragione in quello entrando le dimoſtrate, cosi l'a ra,lo ſdegno, il diſo, il dolore,o ogniaccidente ſi fa paleſe. In ſommaſe je fidate,o diffidate, c teneteſperanza d'alcuna coſa ſe allegrezza uimuoue 'ò noia alcuna,ueracißimi pareranno gli affetti uoftri,ſe da quello che defe derateſenza porui tempo di mezo cominciante. Leggi. Fiamma del ciel si le tue trecce pioua Equi doue il Poeta dimanda aiuto Quando uidi costui nel gran diferto. Miferere di me cridai à lui. A R. Come qui è uitiofo, doue un nụncio corre al palazzo à dan nog ua alla Regina della preſa della città, es ardere etſaccheggiare ogni coſa, o incomincia con lunga narratione,dicendo, id ui dirò diffuſamente il tutto. Ma ritorniamo, hauendo il Porta di mandato aiuto à Virgiliopiù bricue che può gli da notitia diſco perche l'affetto lo pronaua à chiedergli pohc cagione egli ſi trouaſje in quel luo. soſeluaggio,dice. Ma tu perche ritorni à tanta noia? Etfa maggiore il ſuo affetto replia çando, perche non fali il dilettoſo monte. Là onde poiil Poeta pien di mara uiglia di ueder Virgilio, non gli riſponde, ma dà loco allo affetto,et dicca Leggi. orſe tu quel Virgilio, equella fonte, Che parge di parlar si largo fiume, Ripoſi lui con uergognofa fronte, Et piu ritornando all'effetto di primajo de gli altri poeti onor',e tume. AR. Vedi comele Discordia con Giove adirata in tal modo comincia. Parti Giove,che io, la qualeprodußi, et conſeruo il mondo,degna fia di doc uer’eßer biaſmata da ciaſcaduno. AR. Serbati in questo caſo à dimostrare che inte più uaglia la natur ra,che l'arte, o otterrai la credenza del uero che tu uuoi. Dire con uolubi li parolc é ſegno di uerità, l'infigner d'hauerſi ſcordato, il dimostrare die ſere dall'artificio lontario, o lo ejer dulla ucrità commoſſo,il correggerſ daſeſteſſo,lo cſclamare in alcune parti quafi rapito dal uero, o finalmene, te una diligente traſcuragine, & una traſcurata diligentia può far’apparenza diuero.Ecco quanto bene appare,ola modeftia, ola verità ufar la Discordia,doue dice, Etſel mio eſſere pien di miſeria mi ci rende in diſpetto l'effer Dea (coa me tuſei ) onata al gentilißimo modo delfangue two pieghi il tuo anis mo ad aſcoltarmi benignamente. oRati' stato ilmio minacciare più tos fto fegno di diſperatione, che cagion d'odio è di ſdegno che tu mi debbi portare. AR. Et poco dipoi. Io parlerò Gioueaffine di farti pietoſo alla mia miſeria,non con animo d'effer lodatacome eloquente;muoue il dolor la mia lingua,parte,et diſpone a fuo modo le mie parole, o quale id'l ſento nel core tale,à te uegnia allos recchie,cheſenza offer altramente artificioſa,Oornata,affai ti perſuaderà l'oration mia à dolerti di me,la qualedi tanto nonſon conformeallo affan nocleoue quello continuamente m’afflige,queſta toſto fi finirà, o ad ogni richiesta tua s'interromperà,però che qualunque uolta cofa dirò, che mena zogna ti paia ſon contenta di dichiararla,accioche picciolo error nel prin cipio nonſi faccia grande alla fine: AR. Vedi quanto efficaci ſtenote eſclamationi. O‘Amor quanti, o quali ſono le tue forze: AR. Et là doue dice, o felici anime,alle quali in unmedeſimo di auer re il feruente amore o la mortal uita terminare,o piú felicife inſieme ad uno medeſimoluogo n'antaſte, o felicissimi fe nell'altra uitaſi ama.com toi vi amate; come di qua faceste. Questa eſclamationefa parere la cofa uera, ilfalimento bella, la ſentent za degna,o grande,le parole aſpra, o acerba, oil numero fplendida,o generoſa.Al predetto artificio s'aggiungono le parole conuenienti alle cos feale appre nell'ira, le pure, o le fimplici nella comuniſeratione. Leggi. Ahi dolcißimo albergo di tutti imiei piaceri,maledetta fia la crudeltà di colui checon gli occhi della fronte or mi tifa uedcre. Affai m'ora con quelli dellu mēteriguardarti à ciaſcun’hora.Tu hai il tuo corſo finito, et di tale,come la fortuna tel concedette tiſe ſpacciato.Venuto ſe alla fine,alla quale ciaſcun corre,laſciate hai le miſerie del mondo, o le fatiche. AR. Conſidera le parti,le parole, o le figure di questa forma nella effempio ora letto, ote ſimili uſorai nelle occaſioni che ti ucrranno, et uce derai uſcirne opora maraniglioſa. Vodi che cömiferatione ſi truoua in que fe parole. Caro mio signore, fe la tua anima oralcmiclagrimc uede, oniuno i conoſcimentoóſentimento doppo la partita di quella rimane a corpi,rice. dei benignemoute l'ultimo dono di colei, laquale tu uiuendo cotato amasti. Vedi ancora qui la ſomiglianzadel ucro grandemente adopraſi in rio fpondere alle coſe,che potriano eſſer dimandate. Andreuccio,io ſuno molto certa, che tu ti marauigli, & delle carezze,le qualiiori.fo.a delle mie lagrime;si come colui chenon miconoſci,oper quentura mai ricordar nonm'udisti,matu udirai toſto coſa, la quale più tifarà forſe marauigliare, si come è ch'io ſia tua ſorella. AR. Eccoti,che con una coſa più incredibile fa parere il falſo eſer aero. Vſafi questo modo nel raccontare,nello amplificar le lodi, ouero i uituperii delle genti,ouero in narrare le coſe fuori dell'ordine naturali,e rare.Con una antiucduta eſcuſatio::e,come qui, Carißime Donne à me ſipara dinanzi a doucrmifi far raccontare una uerità,che ba troppopiù di quello che ella fu, dimenzognaſembianza. AR. Vera in ſoiamaè quella formadel dire, nella quale confiderata la natura delle coſe la uarietà de gli affetri,la uſanza del uiucre, con prue denza,riguardo dimostra le coſe fuggendo il coſpetto dello artificio, & però molto leggiadramente fidce procedere nell'accurata, obella forme del dire nella quale più vale il numero etl'artificio, che nell'altre.Sicno dun que gli ſpirtidi questa forma partiper tutto il corpo,accompagnati dal Sanguedella bellezza,odal mouimento della celerità del dire,che facila menteſi otterrà il deſiderato fine.Ne gl'affetti grandi,bricui ficno le mem bra,uiusci le parole,nel resto il giudi.io di chi parla habbia luogo.Et qui Na ilfine delleformc o maniere del direin quanto che di ciaſcuna partie samente ſi può dirc. Ma non sarà il finedi esse in quanto bisogna sapere il modo di usarle, ed accomodarle nella civile oratione. Perciò che colui ne oratore, ne erudito parcrebbe il quale come nouel cfſercitaßcle predette maniere daſe steſſe ignude, o inconipote, onde l'artefuafi manifestaffs, oegli di abomincus defatietà, ct fastidio ricmpicſſe le orecchie, o gli animi de gli aſcoltanti, Bella coſa é adunque il meſcolare inſieme le predette forme, o farne una ortima miſtura,dalla quale n'uſcirà l'ottima,o uniuerſale idea della oratio nc; appreſſo la qualeſarà quellà, che mancherà alquanto da quella ottima meſcolanza,cosi di grado in gradofcemundo ilterzo,il quarto, o l'ul timo luogo occuperà l'oratore. Della prima operfetta compofitione dela leformeio non ti trouerei per ls uerità chi in questa lingua potefje, pere che gli ſcrittori di efla hanno hauutaaltra intētione, cheformarela città M dincica dineſca minicra,ben che per quello ch'io ſtimo,non anderà molto, che alcu noci naſcerà atto a questa grandezza,alla quale più tosto manca la fatie ča,che il modo.Ora in quale forma debbia abondarc la eloquenzafaperaiz per che la chiarezza,la ucrità, quella cheaccoſtumata ſi chiama, fono le formeprincipali di tutta la manicra ciuile.Dapoi appreſſo io amerei la celerità del dire con quelle forme poi,che alla grandezzafi danno, tra le quali io eleggerei la comprenſione.Le altre ueramenteſecondo il tempo; er la occafione reggendomi abbraccerei con quella ſcelta, con quella di fcretione che uolentieri,ut non isforzate păreſſero ucnire riel parlar mio Ben'è uero, che molte ſono le intentioni de gli huomini, equelle con dilia genza offer dcono confiderate. Chi uuole de i ſecretidi natura parlare, bo delle coſe morali dee abondar'in grandezza senza alcuno volubile movimeto. Chi ueramente cerca narrare ifatti de mortali,comeſi fa nella iſtoria, elleggerà la ſchiettezza,ocleganza,nella quale è ripoſto l'ordine delle co fe,cu dei tempi,a riguarderà primai conſigli,ale deliberationi, poi le attioni, o ifatti,o finalmente gli auenimentio fucceßi. Neiconſigli di moſtrerà quelloche deue cffer lodato,o quello che merita biaſimo nelle at tioni,i fatti,ole parole,ilmodo, il fine. Et ne ifucceßi dimostrerà ció the alla uirtù,o ciò che alla fortunafi deve attribuire.Chi ne ifenati uud l'esprimere la forza dell’eloquenza,perche il peſo delle coſe ſară poſto fore. pra lepalle di chiragiona, biſogna abondare in grandezza,o dignità, di mostrar cura openſamento,il che non uale ne i giudicij, ſe non ſono di coi. Le graui,aimportanti,perche in eſſe più fimplicità,baſſezzaſi ricerca, eſſendo quegli per lo più di coſe edi buominipriuati. Nel difendere, ale fai uale la forma accoſtumata, obalfa,ſe non quando arditamente il fatto Rinega. Poco ancora ui ſi vedrà di uolubile,o presto mouimento. Ma non. cosi nello accuſare,douc oajpro, uecmente,o uiuo cſer dee l'accuſato re. Chi lola. fi dee dare alla bellezza,o al diletto, o apprezzare lo fplene dore fenza ucсmenza, o celerità. Et in brieuc,biſogna aprir gli occhi; eje nello imitare i dotti,o eccclenti huomini.ſi richiede conſiderare; di che for ma eßt ſieno più abondanti,o di che meno;accioche ſapendoper qual caz glorie eß istatilicno tali,ancora non ſia tolto il potere à gli studioſi di ace coſtarſi loro, o aguagliarli,o le poßibilc é,che pureé paßibile al modo già detto di ſuperargli. Et chi.pure non uoleſſe la fatica,poteße almeno giudicare i loro fecreti. Molti, o minuti ſono i precetti d'intorno a questo offercitio,maio non uoglio più affaticarmi,effendo quegli in molti,o gran di uolumi ordinatamente ripoſti, oltra che ilnostro diſcorſo à niunopuò på rere terc imperfitto,quando egli uoglia la noſtra intentione riguardare,laqua le è stata di fare i fondamenti della eloquenza, auuertire di quanta co gnitione elſer debbia chi à quella ſi dona; sopra i quali fondamenti ſono for date l'articelle de' maeſtri, o gli esercitij de' giovanetti. Baſtiti, ô Dinare do, che tu ſia giunto là, doue di giugnere deſideraui, o che tu habbi ueduto un circolo della tanto deſiderata cognitione. Però che dalle parti dell'anie ma incominciaſti,o in eſſe ſei ritornato,hauendo il corſo tuo ſopra di natů ra, ci sopradi me fornito, come sopra due rote di quel carro,cheper lo apet to cielo ti condurrà uittorioſo, o trionfante. Daniele Matteo Alvise Barbaro. Daniele Barbaro. Keywords: archittetura, palladio, prospettiva, retorica, ordine cronologico: Ermolao Barbaro il vecchio – Ermolao Barbaro il giovane – Daniele Barbaro – Temisto, index nominorum, interpretazione e commentario di Barbaro sul commentario di Tesmisto sull’analitica posteriora – manoscritto, Bologna. Manoscritto delle ‘Adnotationes ad analyticos priores’ – commentario diretto su Aristoele e no via Temisto – Villa Barbaro – lezione privati di Barbaro sull’organon di Aristotele – analytica priora e analytica posteriora, non al studio GENERALE, ma alla sua propria villa!. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barbaro – il vecchio – filosofia italiana – filosofia veneziana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano.  Umanista --. Grice: “As much as Speranza LOVES Daniele Barbaro, I prefer Ermolao Barbaro; after all, he was his uncle – I mean, Ermolao was Daniele’s uncle – and therefore HE taught HIM; I mean, Ermolao, as a good philosophical uncle, taught the ‘minor’ (literally, since he was his junior) Barbaro.”  "Some like Barbaro, but Barbaro's MY man." Ermolao Barbaro detto il Vecchio. Umanista e vescovo cattolico italiano.  Sendo stato uomo degnissimo, m'è paruto farne alcuna menzione nel numero di tanti singulari uomini, acciocché la fama di sì degno uomo non perisca (Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV). Ancora bambino comincia a studiare lettere conVeronese, e il successo di quest'accoppiata allievo-maestro fu tale che tradusse in latino le favole d’Esopo. Fece poi i suoi studi universitari a Padova dove si laurea. Successivamente si trasfee a Roma dove entrò al servizio della cancelleria papale. La sua carriera nella curia romana fu così fulminea che Eugenio IV lo nomina protonotario apostolico e gli concesse la diocesi di Treviso. Il rapporto con il pontefice, però, si interruppe bruscamente quando, dopo che gli era stata promessa la nomina a vescovo di Bergamo, il papa assegna il posto a Foscari.  Lascia Roma e viaggiò per l'Italia ma, dopo una serie di peregrinazioni, tornò a lavorare in curia. Si trasfere poi a Verona dove Niccolò V lo designa vescovo e dove si sistemò in pianta stabile, tranne una breve parentesi a Perugia come governatore. Messer Ermolao Barbaro, gentiluomo viniziano, fu fatto vescovo di Verona da papa Eugenio, per le sue virtù. Ebbe notizia di ragione canonica e civile, ed ebbe universale perizia di teologia, e di questi istudi d'umanità; ed ebbe nello scrivere ottimo stile. Fu di buonissimi costumi, e nel tempo di papa Eugenio si ritornò a Verona al suo vescovado, e attese con ogni diligenza alla cura, e vi accrebbe assai e onorò e multiplicò il culto divino. Era umanissimo con ognuno. Ridusse nel suo tempo il vescovado in buonissimo ordine, così nello spirituale come nel temporale. Aveva in casa sua alcuni dotti uomini, in modo che sempre vi si disputava o ragionava di lettere; ed era la sua casa governata, come si richiede una casa d'uno degno prelato. S'egli compose (che credo di sì) non ho notizia alcuna. Compose. Nulla se ne ha alle stampe trattane qualche lettera, ma più opuscoli manoscritti se ne hanno in alcune biblioteche, e fra essi la traduzione della Vita di S. Anastasio scritta da Eusebio di Cesarea. Note  Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze. Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed. Firenze, Vol. VI, pag. 808  Società storica lombarda, Archivio storico lombardo, ser.4:v.7, L'Umanesimo umbro: Atti del IX Convegno di studi umbri. Gubbio, 22-23 settembre, 1974, Perugia, Vespasiano da Bisticci, cit. pag. 195  Girolamo Tiraboschi, cit. pag. 808 Opere (alcune moderne edizioni italiane)  Ermolao Barbaro il Vecchio. Orationes contra poetas. Epistolae. Edizione critica a cura di Giorgio Ronconi.Firenze: Sansoni, Facolta di Magistero dell'Universita di Padova Ermolao Barbaro il Vecchio. Aesopi Fabulae. A cura di Cristina Cocco. Genova: D.AR.FI.CL.ET., Trad. italiana a fronte Hermolao Barbaro seniore interprete. Aesopi fabulae. A cura di Cristina Cocco, Firenze: Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2007. Il ritorno dei classici nell'umanesimo. Edizione nazionale delle traduzioni dei testi greci in eta umanistica e rinascimentale. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, ed. Firenze, Vespasiano da Bisticci, Vite di uomini illustri del secolo XV, ed. Barbera-Bianchi, Firenze, 1859. Pio Paschini, Tre illustri prelati del Rinascimento: Ermolao Barbaro, Adriano Castellesi, Giovanni Grimani, Roma, Facultas Theologica Pontificii Athenaei Lateranensis, 1957. Emilio Bigi, Ermolao Barbaro, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato il 6 luglio 2018. Voci correlate Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterniDavid M. Cheney, Ermolao Barbaro il Vecchio, in Catholic Hierarchy. Predecessore Vescovo di Treviso Successore Bishop CoA PioM.svg Lodovico Barbo Marino ContariniPredecessoreVescovo di VeronaSuccessoreBishopCoA PioM.svg Francesco CondulmerGiovanni Michiel · Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Treviso Portale Treviso Venezia Portale Venezia Categorie: Umanisti italianiVescovi cattolici italiani Nati a Venezia Morti a Venezia BarbaroVescovi di TrevisoVescovi di VeronaTraduttori dal greco al latino. Ermolao Barbaro, il vecchio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barbaro – il giovane – filosofia veneziana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice; “Very good.”, ermolao – the younger – il giovane, non il vecchio --  "Speranza likes Ermolao Barbaro the Younger, but Ermolao Barbaro The Elder is MY man." -- H.G. Ermolao Barbaro il Giovane. Avea profondamente meditato sopra i doveri che impone il carattere di legato a chi lo sostiene e sopra le avvertenze che devono servirgli di norma nella pratica degli affari, ónde servir con vantaggio il proprio governo e riportare onore anche da quello presso di cui risiede. Ei ne ha indicate le tracce in un pregevolissimo opuscolo  in cui la prudenza apparisce compagna della onestà del candore, ed è venuto a delineare in certa guisa il suo ritratto. Ma lo stesso suo merito fu a lui cagione di grave calamità. Cardinale di Santa Romana Chiesa Hermolaus Barbarus Ritratto di Ermolao Barbaro, opera di Theodor de Bry. Patriarca di Aquileia. Ordinato presbitero. Nominato patriarca da papa Alessandro VI. Consacrato patriarca. Creato cardinal da papa Innocenzo VIII. Ermolao Barbaro detto "Il giovane" -- è stato un umanista, patriarca cattolico e diplomatico italiano, al servizio della Repubblica di Venezia. Comincia l'educazione elementare con il padre Zaccaria Barbaro, politico e diplomatico veneziano, poi in tenerissima età e mandato a Verona dal pro-zio Ermolao Barbaro, vescovo della città e umanista di fama, per studiare lettere latine con Bosso. Per perfezionarsi passa a Roma dove ha come insegnanti prima Leto e poi Gaza. Un cursus studiorum concluso con successo. E laureato poeta, a Verona, da Federico III. Segue a Napoli il padre, titolare dell'ambasciata veneziana, e proprio nella città partenopea scrive la sua prima opera ovvero il “De Caelibatu”.  Traduce tutto Temistio, pubblicato poi, in parafrasi. Tornato in Veneto consegue a Padova il dottorato in arti e quello in diritto civile e canonico. Subito dopo fu nominato titolare della cattedra di etica. Come professore insegna soprattutto sulla Nicomachea di Aristotele, mettendo in guardia i suoi studenti dalle traduzioni in latino di Aristotele e predicando il ritorno alla traduzione diretta dal greco, proprio come face lui. Sono infatti di quegli anni i commentari all'Etica e alla Politica e la traduzione della Retorica. Abbandonato l'insegnamento  accompagna nuovamente il padre in missione diplomatica a Roma. E promosso senatore della Repubblica di Venezia e ma stavolta in veste ufficiale, si reca a Milano con il padre per una nuova ambasceria. Il primo incarico diplomatico arriva quando, insieme a Trevisano, rappresenta a Bruges la Serenissima in occasione dei festeggiamenti per l'incoronazione a ‘re dei romani’ di Massimiliano d'Asburgo e nell'occasione fu investito cavaliere. Dopo un'esperienza come savio di terraferma, e finalmente nominato ambasciatore residente a Milano dove si accredita e rimane in carica. Venne creato cardinale in pectore d’Innocenzo VIII nel concistoro, ma non venne mai pubblicato. L'ottima gestione della legazione veneziana a Milano, in tempi davvero turbolenti come quelli della reggenza di Ludovico il Moro, gli vale un anno dopo la nomina ad ambasciatore a Roma alla corte d’Innocenzo VIII. Ed e qui che avvenne la catastrofe.  Il giorno dopo la morte del patriarca di Aquileia Marco Barbo, Ermolao erasi recato all'udienza del papa, per fare istanza acciocché fosse differita la nomina del patriarca successore, finché il senato non gli e ne avesse presentato, secondo il consueto, la nomina. Ma il papa, senza punto badare a cotesta istanza, nomina lui appunto in patriarca di Aquileja; aggiungendogli, essere questa grazia una giusta ricompensa al suo sapere ed alla sua virtù. Il Barbaro in sulle prime si rifiutò dall'accettare la dignità, che il pontefice conferivagli; ma quando Innocenzo gli e lo comandò in virtù di santa ubbidienza, si vide costretto a sottomettervisi ed obbedire. Allora il papa sull'istante lo vestì del rocchetto, di cui, per darglielo, si spogliò uno dei cardinali colà presenti; e poscia in pieno concistoro fu preconizzato patriarca di questa Chiesa. La procedura era rigorosamente contraria alle leggi della repubblica che vietavano ai propri ambasciatori, senza la previa autorizzazione del senato, di ricevere incarichi o nomine dai principi presso i quali erano accreditati. Allora, per giustificare la violazione procedurale, il Papa scrisse una lettera al Doge chiedendogli di confermare la nomina, ma il Consiglio dei Dieci, competente in materia, delibera comunque che Barbaro deve rinunciare al patriarcato. Cosa che, dopo un po' di tira e molla, prontamente fa. Scelse, per farla più solenne, la circostanza del giovedì santo alla presenza del papa e di tutto il sacro collegio. Ma il papa non la volle accettare. Né l'obbedienza sua agli ordini del senato basta per anco a giustificarlo. Poco avveduto, non pensa di spedirne a Venezia la stessa sua dimissione al senato, ad onta dell'opposizione del pontefice; mostrandosi dal canto suo per tal guisa fedele ed obbediente alle leggi del suo governo. Più avrebbe inoltre dovuto lasciar Roma e ritornare a Venezia. Ov'egli si fosse regolato così, l'affare avrebbe cangiato di aspetto, e sarebbesi ridotta ad una semplice controversia di giurisdizione tra la corte di Roma e la Repubblica di Venezia. Ma essendo rimasto in quella capitale, ad onta della fatta rinunzia, né avendone dato avviso al senato, egli fu riputato veramente colpevole in faccia alla legge, e perciò costrinse il senato ad usare verso di lui ogni misura di rigore. Come risultato di questo pasticcio fu bandito perennemente dalla repubblica e interdetto da qualsiasi ufficio pubblico e privato. Quanto al patriarcato di Aquileia, tecnicamente, ne rimase titolare ma il senato oltre ad avergli impedito, con l'esilio, di recarvisi fisicamente, ne congelò le rendite patriarcali e nomina Donato in suo vece, anche se la nomina non fu ratificata dal papa. Ne deriva una situazione di stallo, durante la quale la diocesi patriarcale fu amministrata da Valaresso (anche Valleresso), vescovo di Capodistria, con il titolo di Governatore generale. Barbaro rimase a Roma dove decise di dedicarsi a tempo pieno ai suoi studi. Pparticolarmente importanti, oltre alla composizione di Orationes et Carmina in latino e alla pubblicazione delle “Castigationes Plinianae,” disputazioni scientifiche sulle imprecisioni e sulle invenzioni della Naturalis historia di Plinio,  sono l’epistolario filosofico che si scambiò con Poliziano e Pico, che, insieme, costituirono un vero e proprio «triumvirato, a que' giorni potente e celebratissimo nelle scienze e nelle lettere. E sventuratamente colto dalla pestilenza che serpeggia nell'agro romano. Giunta a Firenze la nuova del suo pericolo trafisse altamente il cuore dei due suoi celebri amici Poliziano e Pico. Si lagnavano essi che la sua perdita seco involge il destino delle buone lettere, sembrando loro che in un sol uomo pericolasse l'onere delle cose romane. Pico anzi volle tentar di soccorrerlo, inviandogli col mezzo di suo corriere un antidoto ch'ei medesimo componeva e che credeva atto a domare il morbo pestilenziale. Ma quando arriva a Roma l'espresso, era di già passato tra gli estinti. Note  De Legato, recuperato dal cardinal Quirini da un codice della Vaticana e stampato per la prima volta nelle annotazioni alla Deca II della sua Thiara et purpura veneta  Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, Contemporaries of Erasmus, op. cit.91  Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori, Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, Bettinelli, cit.219  Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988,67  Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Venezia, Cappelletti, Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, 1851,12  I secoli della letteratura italiana, Bettinelli, Risorgimento d'Italia negli studj, nelle arti, e ne' costumi dopo il mille, Bassano, Eugenio Albèri, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Firenze, 1846 Giuseppe Cappelletti, Le chiese d'Italia della loro origine sino ai nostri giorni, Vol. VIII, Venezia, 1851 Jacopo Bernardi, Ermolao Barbaro o la scienza del pensiero dal secolo decimoquinto a noi, Venezia, Giovanni Battista Corniani, Camillo Ugoni, Stefano Ticozzi, I secoli della letteratura italiana dopo il suo risorgimento, Torino, 1855 Vittore Branca, La sapienza civile: Studi Sull'umanesimo a Venezia, Firenze, 1988 Bruno Figliuolo, Il Diplomatico E Il Trattatista: Ermolao Barbaro Ambasciatore Della Serenissima, Napoli, Guida Editori, 1999 Antonino Poppi, Ricerche sulla teologia e la scienza nella scuola padovana del Cinque e Seicento, Rubbertino, 2001Thomas Brian Deutscher, Contemporaries of Erasmus: A Biographical Register of the Renaissance and Reformation, University of Toronto Press, 2003 Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Ermolao Barbaro il Giovane Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ermolao Barbaro il Giovane Collegamenti esterni Ermolao Barbaro il Giovane, su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Ermolao Barbaro il Giovane, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Ermolao Barbaro il Giovane, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Ermolao Barbaro il Giovane, su Open Library, Internet Archive.David M. Cheney, Ermolao Barbaro il Giovane, in Catholic Hierarchy.Salvador Miranda, BARBARO, iuniore, Ermolao, su fiu.edu – The Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. Ermolao Barbaro, in Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Emilio Bigi, BARBARO, Ermolao, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 6, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, PredecessorePatriarca di AquileiaSuccessorePatriarchNonCardinal PioM.svg Marco Barbo Nicolò Donà Biografie Portale Biografie: accedi alle voci di Wikipedia che trattano di biografie Categorie: Umanisti italianiPatriarchi cattolici italianiDiplomatici italiani Nati a VeneziaMorti a RomaBarbaroAmbasciatori italianiPatriarchi di AquileiaTraduttori dal greco al latino[altre] Ermolao Barbaro. Keywords: il celibato, lettera a Pico, lettera a Poliziano, traduzione della retorica, commentario all’etica nicomachea, comentario alla politica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barbaro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barcellona – i soggeti e le norme – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “Perhaps my favourite by Barcellona is “I soggetti e le norme” – vide my conversational norms – and ‘soggeto’ of course relates to ‘intersoggetivita,’ a pet concept of Italian phenomenology!” Grice: “Of course, for us British subjects (to the Queen), the idea of ‘soggeti’ cannot quite make sense! But Barcellona’s point is fascinating: the Romans did have the concept of a sub-iectum and an ob-iectum: they like a symmetrical expression formation, too! Barcellona shows that we have to speak of ‘soggetti’ to get intersoggetivita – and then the norma – a very Roman concept, which as J. L. Austin said (following John Austin), does not quite translate as ‘norm’ – “We don’t use ‘norm’ in ordinary language.””  Barcellona shows that it is ‘I soggetti’ i. e. at least a dyad that makes ‘the noi trascendentale’ adding up ‘l’io trascendentale’ with ‘il tu trascendentale’ and ‘l’altro trascendentale’ that we get the norm. Barcellona got to the idea after seeing the French film, ‘l’un et l’autre’!” --  Pietro Barcellona, deputato della Repubblica Italiana LegislatureVIII Gruppo parlamentarePCI Dati generali Partito politicoPartito Comunista Italiano Titolo di studioLaurea in giurisprudenza ProfessioneDocente universitario Pietro Barcellona (Catania ),  filosofo. È stato docente di diritto privato e di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza dell'Catania. È stato membro del Consiglio superiore della magistratura.  Si laurea in Giurisprudenza nel 1959. Nel 1963 consegue la libera docenza in Diritto Civile e insegna a Messina. Dal 1976 al 1979 è componente del Consiglio Superiore della Magistratura. Ha diretto il Centro per la Riforma dello Stato, fondato con Pietro Ingrao.  Nel 1979 è stato eletto deputato nelle file del Partito Comunista Italiano ed è stato membro della commissione giustizia della Camera fino al 1983.  A causa della sua formazione teorica materialista, ha suscitato nel  molto scalpore la sua conversione raccontata nel libro Incontro con Gesù.  Docente emerito di filosofia del diritto all'Catania. Altre opere: “Diritto privato e processo economico” (Jovene Editore); “L'uso alternativo del diritto, Laterza); “Stato e giuristi tra crisi e riforma, De Donato, Bari); “Stato e mercato tra monopolio e democrazia, De Donato); “La Repubblica in trasformazione. Problemi istituzionali del caso italiano, De Donato); “Oltre lo Stato sociale: economia e politica nella crisi dello Stato keynesiano, De Donato); “I soggetti e l’intersoggetivo della norma” (Giuffrè); “L'individualismo proprietario, Bollati Boringhieri); “L'egoismo maturo e la follia del capitale, Bollati Boringhieri); “Il Capitale come puro spirito: un fantasma si aggira per il mondo, Editori Riuniti); “Il ritorno del legame sociale, Bollati Boringhieri); “Lo spazio della politica. Tecnica e democrazia, Editori Riuniti); “Dallo Stato sociale allo Stato immaginario. Critica della ragione funzionalista (Bollati Boringhieri); “Laicità. Una sfida per il terzo millennio, Argo); “Diritto privato società moderna, Jovene); L'individuo sociale, Costa & Nolan); “Politica e passioni. Proposte per un dibattito, Bollati Boringhieri); “Il declino dello Stato. Riflessioni di fine secolo sulla crisi del progetto moderno, Ed. Dedalo); “Quale politica per il Terzo millennio?, Ed. Dedalo); “L'individuo e la comunità” (Edizioni Lavoro); “Le passioni negate. Globalismo e diritti umani, Città Aperta); “Le istituzioni del diritto privato contemporaneo, Jovene); “Tensioni metropolitane, Città Aperta); “I diritti umani tra politica, filosofia e storia, A. Guida); “La strategia dell'anima, Città Aperta); “Diritto senza società. Dal disincanto all'indifferenza, Ed. Dedalo); “Fine della storia e mondo come sistema. Tesi sulla post-modernità, Ed. Dedalo, “Il suicidio dell'Europa. Dalla coscienza infelice all'edonismo cognitivo, Ed. Dedalo); “Critica della ragion laica, Città Aperta); “Diagnosi del presente, Bonanno); “La parola perduta. Tra polis greca e cyberspazio, Ed. Dedalo); “L'epoca del postumano, Città Aperta); “La lotta tra diritto e giustizia, Marietti); “Il furto dell'anima. La narrazione post-umana, Ed. Dedalo); “L'ineludibile questione di Dio, Marietti); “L'oracolo di Delfi e L'isola delle capre, Marietti,  Elogio del discorso inutile. La parola gratuita, Ed. Dedalo); “Viaggio nel Bel Paese. Tra nostalgia e speranza, Città Aperta); “Incontro con Gesù, Marietti); “Declinazioni futuro/passato. Poesie, Prova d'autore, Il sapere affettivo, Diabasis); “Il desiderio impossibile, Prova d'autore”; “Passaggio d'epoca. L'Italia al tempo della crisi, Marietti); La speranza contro la paura, Marietti); “L'occidente tra libertà e tecnica, Saletta dell'Uva); “Parole potere, Castelvecchi,. Sottopelle. La storia, gli affetti, Castelvecchi);  La sfida della modernità, La Scuola,.Barcellona e la pittura Una delle più grandi passioni di Pietro Barcellona, è stata senza ombra di dubbio la pittura. Comincia a dipingere all'età di 20 anni. Due sue opere si trovano in esposizione permanente presso il "Museo dei Castelli Romani". Un suo quadro fa parte della collezione permanente della Salerniana, Galleria Civica d'Arte Contemporanea "Giuseppe Perricone". Vanta diverse personali:  1959"Mostra Città di Catania"; "Galleria Arte Club" di Catania, con testi critici di Manlio Sgalambro e Salvo Di Stefano; "Galleria Arte Club" di Catania. Espone un nucleo di ventiquattro opere sul tema "La città della donna" con testo critico di Giuseppe Frazzetto; 2002"Tensioni metropolitane" presso "Fondazione Luigi Di Sarro" di Roma; 2002"Galleria Quadrifoglio" di Siracusa; "Fondazione Filiberto Menna" di Salerno; 2003"Mitologia del quotidiano" presso "Galleria La Borgognona" di Roma, con testi in catalogo di Simonetta Lux e Domenico Guzzi; "Contrasti" presso "Galleria Tornabuoni" di Firenze, con testo in catalogo di Fabio Fornaciai e dello stesso Barcellona; 2004"Museo dell'Infiorata" di Genzano; "L'impossibile completezza" presso il "Museo Laboratorio di Arte Contemporanea" di Roma, Patrizia Ferri e Mario de Candia; "Il desiderio impossibile" presso "Le Ciminiere", Sala C2, di Catania, con testo critico di Mario Grasso. Saggi sull'opera di Pietro Barcellona  Su Pietro Barcellona, ovvero, riverberi del meno, Atti del Convegno di Studi su alcune opere di Pietro Barcellona, Mario Grasso. Prova d'Autore,.  154-4 W. Magnoni, Persona e società: linee di etica sociale a partire da alcune provocazioni di Norberto Bobbio, Glossa Edizioni, Milano,  M. De CandiaFerri, Pietro Barcellona raccontato dai suoi amici, Gangemi, Greco, Modernità, diritto e legame sociale, in «Materiali per una storia della cultura giuridica», Pegorin, Emergenza Antropologica. Pietro Barcellona e la lotta in difesa dell’umano Riconoscimenti Il 29 marzo, il Comune di Misterbianco (CT) gli intitola una piazza.  Note  Pietro Barcellona, su Camera VIII legislatura, Parlamento italiano.  "Barcellona: Mi converto, dal Partito Comunista a Gesù. Ragusa News.  l'Unità,  "Pietro Barcellona, Il Piacere di Dipingere"//archiviostorico.unita/cgi-bin/ highlightPdf.cgi?t=ebook& file=/golpdf/uni_2003_05.pdf/ 11CUL31A.PDF&query= Andrea%20 carugati Corriere della Sera. Omaggio a Pietro Barcellona pittore, giurista e filosofo.//archivio storico.corriere/2006/febbraio/01/ Omaggio_Pietro_Barcellona_pittore_giurista_co_10_06017.shtml  Inaugurata la piazza intitolata al prof. Pietro Barcellona | Misterbianco.COM. Napolitano: Pietro Barcellona fu un protagonista in Italia. Messaggio del Colle ai funerali del giurista, ex parlamentare Pci e membro laico del Csm[collegamento interrotto] articolo pubblicato da La Sicilia, 9 settembre, sito lasicilia. Filosofi italiani del XX secoloFilosofi. Pietro Barcellona. Keywords: i soggeti e le norme, filosofia siciliana, Barcellona, comune di Messina. Conte di Barcellona, lo stato imaginario, i soggeti, l’intersoggetivo della norma, communita intersoggetiva, discorso futilitario, societas, communitas, socius, seguire, ‘follow’, Toennies, communitario, stato keynesiano, stato imaginario, anima smartita, conflitto e cooperazione sociale, anima smarrita, communitas, immunitas, sociale, societas, discorso inutile, Grice, end of conversation, goal of conversation, deutero-esperanto, linguaggio privato, i soggeti, l’intersoggetivo. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barcellona” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barié – Enea – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “”My favourite of Barié’s is his parody of Apel: “il noi trascendentale”!” -- I like Barié; he commited suicide, which is not that rare among philosophers – same percentage than the general population – cf. Durkheim, “Le suicide: a sociological enquiry,””. Grice: “Barié tried to play with the idea of the transcendental, and he did – he applied it first to “I” (‘l’io trascendentale’). When I wrote my thing on personal identity, I preferred the pronoun ‘someone,’ to stand for ‘I’, ‘thou,’ and the allegedy THIRD ‘person,’ ‘he.’ – Barié has also edited Vico’’scienza nuova,’ and provided a ‘compendium’ of the SYSTEMATIC kind, favoured by some, of the history of philosophy, with sections on ‘roman’ philosophy (“l’epicureanismo romano,” “lo stoicism romano,”) --.”  Grice: “Perhaps the closes Barié  comes to me is in his ‘The concept of the ‘transcendental,’ since I struggled with that in “Prejudices and predilections,” where I feign to think that perhaps ‘transcendental’ is too transcendental an expression and should be replaced by ‘metaphysical,’ but my tutee, Sir Peter, being more of a Bariéian, disagreed wholeheartedly!” – Grice: “I cherish Apel’s comment on Barié: “Surely, if we are going to have ‘l’io trascendentale,’ we need at least ‘l’altro trascendentale,’ or as I prefer ‘il tu trascendentale.’” Partendo da posizioni kantiane pervenne a una posizione da lui stesso definita neotrascendentalismo, scuola di pensiero di cui fu il fondatore. Nato il 19 ottobre 1894, si avviò agli studi di diritto che concluse solo a seguito del primo conflitto mondiale, che lo vide impegnato inizialmente come ufficiale di cavalleria e poi come aviatore. Nel 1924 ottenne la laurea in filosofia.  Inizialmente attestato su posizioni kantiane (La dottrina matematica di Kant nell'interpretazione dei matematici moderni, 1924, e La posizione gnoseologica della matematica, 1925), nel corso del suo progredire intellettuale Barié perviene a una posizione filosofica critica nei confronti della dottrina kantiana. Di questo passaggio è emblematica l'opera Oltre la Critica, del 1929, che mette in luce le difficoltà della dottrina precedentemente sostenuta.  Il periodo metafisico Oltre la critica segna il punto di svolta dell'attività filosofico-intellettuale di Barié, che comincia a sviluppare un interesse metafisico, forse dovuto all'influenza di Piero Martinetti, del quale era stato allievo. In questo senso il filosofo, nel suo primo approccio alla metafisica, si pone su un binario che era già stato di Spinoza, salvo poi rendersi conto del fatto che anche la posizione spinoziana è in realtà insufficiente per tentare di risolvere il dilemma della relazione essere-pensiero. Si ha quindi l'approdo di Barié al pensiero leibniziano, testimoniato dell'opera del 1933 La spiritualità dell'essere e Leibniz.  L'approdo al neotrascendentalismo e Il Pensiero Libero docente dal 1929, ottiene la cattedra universitaria, spostandosi di conseguenza a Genova, Roma e infine Milano, nella cui università succede al suo maestro Martinetti nella cattedra di filosofia teoretica. Consapevole del fatto che, per quanto superata, la lezione antidogmatica di Kant non poteva essere completamente ignorata, Barié inizia una profonda revisione del proprio sistema teoretico che lo porta a diminuire drasticamente le sue pubblicazioni (di questo periodo sono il Compendio sistematico di storia della filosofia, 1937, e Descartes, 1947) e che culmina con la pubblicazione de L'io trascendentale (1948). Nel 1950 fonda l'istituto di filosofia dell'Milano con lo scopo di renderlo centro propulsivo di una discussione filosofico-culturale con le realtà filosofiche del tempo che si sarebbero confrontate con la nuova visione di Barié, adesso orientato verso una concezione di filosofia come metafisica, ossia di metafisica quale causa della realtà sensibile e del pensiero. Con lo stesso scopo nacque nel 1956 la rivista Il Pensiero. Altre opere: “La posizione gnoseologica della matematica – e dell’arimmetica in particolare” 7 + 5 = 12” (Torino, Bocca); “Oltre la critica della ragione e del giudizio, il criticismo (Milano, Libreria editrice lombarda); “Spirito e anima: La spiritualità dell'essere e Leibniz” (Padova, MILANI); “Compendio sistematico di storia della filosofia con particolare attenzione alla filosofia romana sino Cicerone” (Torino, Paravia); “L'io trascendentale non-psicologico” (Milano-Messina, G. Principato); “Il concetto trascendentale” “Il trascendentale” (Milano, Veronelli.  Note  Atti del V Congresso Internazionale di Filosofia, Napoli, 1924  riproduzione fotografica (p.1-109) da OpalLibri antichi  riproduzione fotografica. Assael, Giovanni Emanuele Bariè, Milano, CUEM, Assael, "Il neotrascendentalismo di Giovanni Emanuele Barié", in Rivista di Storia della Filosofia, 2009; (4),  731–759. Davide Assael, Alle origini della scuola di Milano: Martinetti, Barié, Banfi, Guerini e associati, Milano, 2009.  Milano Accademia scientifico-letteraria di Milano Università degli Studi di Milano Scuola di Milano  Giovanni Emanuele Barié, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Emanuele Barié, su sapere, De Agostini.  Giovanni Emanuele Barié, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giovanni Emanuele Barié, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Filosofia Università  Università. Giovanni Emanuele Barié. Keywords: Enea, lo stoicism romano, Enea, eroe romano, eroe stoico, Catone, il noi trascendentale, vico, storia vichiana, arimmetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barié” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Baricelli – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Marco dei Cavoti). Filosofo italiano. Grice: “Italian philosophers can be eccentric; Baricelli started commenting Plato but his masterpiece is a philosophical tract on sweat, as experienced by the athletes Plato was familiar with!”Medico, chimico e filosofo di fama italiana ed europea, Giulio Cesare Barricelli- nacque a San Marco dei Cavoti e fu da molti, pure erroneamente, ritenuto originario di Benevento o di San Marco Argentano in Calabria.  Erudito e studioso di poliedriche attitudini e capacità, studiò medicina e si interessò di filosofia, tanto che ancora giovanissimo fu autore di commenti alle opere di Platone, mentre nel pubblicò l'opera in quattro libri De hydronosa natura sive de sudore umani corporis, sulla natura e la terapia della sudorazione umana, nelscrisse l’Hortulus genialis, edito a Colonia e Ginevra ove raccolse antidoti e sudi sulle intossicazioni, e successivamente diede alle stampe il Thesaurus secretorum, opera in cui sono elencate le cure ed i rimedi per svariate malattie e problematiche quotidiane.  Nel 1623 pubblicò poi un trattato sull'uso del siero del latte e del burro come medicamento, intitolato De lactis, seri, butyri facultatibus et usu, e nello stesso anno gli fu conferita la cittadinanza beneventana. Cultore di studi umanistici Barricelli scrisse anche alcuni epigrammi latini e morì in Benevento tra il 1638 ed il 1640.  A San Marco dei Cavoti, nel corso degli anni, gli vennero intitolati un antico circolo ricreativo (sec.XIX-XX), la scuola elementare ed infine la strada ove si trovava l'abitazione in cui visse, già denominata Via Pastocchia, che ospita anche un monumento in suo onore, opera dello scultore Giulio Calandro A proposito dell'intitolazione della scuola, su espressa richiesta dell'allora commissario prefettizio Mario Jelardi, l'insigne storico Alfredo Zazo propose la seguente epigrafe che ne riassume le doti i meriti:  A GIULIO CESARE BARRICELLI CHE DEL RINASCIMENTO EBBE LO SPRITO INFORMATORE E LA VASTA ATTIVITA' PROFUSE NEL CAMPO DELLA SCIENZA MEDICA DELLE LETTERE E DELLE SPECULAZIONI FILOSOFICHE IL COMUNE DI SAN MARCO DEI CAVOTI A RICORDO ED INCITAMENTO PER LE GENERAZIONI CHE IN QUESTA SCUOLA SI EDUCANO NEL FERVORE E NELLA FEDE DEI NUOVI GRANDI, AUSPICATI DESTINI DELLA PATRIA XXVIII OTTOBRE 1942XX E.F.  Opere. “De hydronosa natura sive de sudore umani corporis”; “Hortulus genialis”; “Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu. Alfredo Zazo, Dizionario bio-bibliografico del Sannio, Napoli, Angelo Fuschetto, Giulio Cesare Baricelli, Andrea Jelardi, Dizionario biografico dei Sammarchesi, Benevento. nis Hortuli Genialise RERVM MEMORABILI VM, QVAE IN HORTVLO Geniali continentur elenchus. A Beſton accenfus,perpetuòarder. A cos. poribus effe &tus procreari. Admirandumauxiliuin advefica calculum, qwo abſque inciſione diffoluitur de expurgator Alapides renum vefica frangendos mirabile remedium Ammantium lac ab alimentis recipere qualita tem. Agricola nonſemel tempeftates e Serenitates pre dicunt. Abſyntbiumroborat ventry Abfynthij Romani mira i 170 Abſalonformararus. Acorescapitis bufonefanartit Achatis lapidismirabilis Acetum ad i &tus venenosov Acetiſcyllitici miraoperato Adam eratſapiennriſsimus Aegyptiſ in annimenfura 233 Aegyptiorum opinio de elementis. Isbe Aepyptij in morborum -Chrafacileadiguem recara 178 Aemorrhagia(electumprefidiuna Aegypti hierogliphicis vacabant Aegyptiorumarcana ait quartanam Aegyptijregesopera magnifica do admiranda an. Liquitus conftruxiffe.zi. Aegye MONACENSIS. REGLA BIBLIOTHECA Tunt. Aegyptiorum in condiendiscorporibus obferuatio. Levis ſalubritatem ad vite produktionem maxå moperè videmusconducere. 34 Aegyptiorum Auditim ir lapidis á vefsica extra Sione Aegyptij quomodoignea prefidia component Aerisnatura quomodo nofcatur Afflictionem tribuere intellettum. Agricolafilicibus in horreis cur vtantur. 200 Agricola cwufdam interitus. Alexandri mors.quo veneno fuexit caufata Alexandri ſudoredolens. 197 Alexandri uder.fanguineus. Alexandrimagnanimitas in ftudiofos Amazones mammas dextras ſecabant. Amoris originis controuerfia Amantes surfacile irafcantur, Ambarum vi ebrietatemfaciat Animalia quadam Arni tempora pradicero. An transformatio realis detur. An animal in igne viuere poſsie Anni computum diuerfimode fa &tum Animalia ex putri materia non ſemper extitiffe. Anicularum quarundam facinona. Antimony in vitrum redu & io. Anuli Bubali ad gramphum vtiles Anularis digitus cordi amicus Antora napello inimiciſsima Anginaprafocatina vt compefcatur Animalia a vteerikus Dis dicata, Anguil Anguillarum cum Aquilone affe &tus Animantiumcobur à cominé oritur. Anni climacterici quales. Annibalisſtratagema in boftes. Anniprefagia à quercus galiis: Ancitodorum aliquor obferuationes A priteftium virtus mirabilis Apri ægrotantes hederam quarunt. Api efum infauftum veteribus Apri dentes adanginan dompleuritidem vtiles Apes imminente pluuia adalucaria redeunt Apiumri usherbafcelerata; Apum mirabilisſagacitasdan officium Aqua mirabilis ad viſusdefectum Aquilinumlapidem partum accelerare, 126 Aquafrigidaqualiter apparetur. Arcades qualiter annum computabant Archelai Regis in populos immanitasi go Arboris ficusmirabilisnatura: Arietislingualantium ostendit. Araneorum reła in medicina vfurpata Arbores quandoquein lapides mutate Artemiſia quando in radicibus carbonem producati Articulares dolores quomodo curentur. Archelaus Rexaſtronomie ignarus Ariſtotelis opinio demularum ortu. Ariftotelis rerum indagator, Ariſtolochia piſces ftupidosfacit. Archelaus turrim incombuſtibilem fecit: Aſphaltirisla 'usmirabilis natura, Apronomia medicis neceſaria Ararum vomitu humores expurgat. Aparagor um 2u corporis nitorem producit. Afphespropè halico ibum fiupidi Aſparagi vi mirabiliter erefcant Ap.dum natura qualis. Athenien esfacerdotes cicutam comedebant Atrila canis instarlatrabat Athenienfium ura erga fiicos Aues vfu Taxi nigra fiunt. Auri vfus in medicina Aufonij locus de mecha uxore Afilici odor vermesgignis Bafilijanhabitat pelicudinibm Aphrice Ibid. Bafilifcum haudàgallo excludi. Bardana mira vis in affe& u uteri. Bituminis vis in hiſterica paſs. Braſsica, dorura fimul fatahereunt. Bruta aliquot lafciuiffe in fominas, Bryonia mira virtus in affe&tu-matricis. Braſsica fuccus contra ibrietatem. Britânnurum præfidium in furiofos. Bubuloftercore colicam,anari. Bufonis lapis cóntra vinena. Bufonis.mira propriet as in Aſcite. Arnes dura utfiant teneriores. Canes.obmutefcunt vmbra Hyena. Capramaximèepilepſia tentatur, Capillorum defluussm laudano curare Cani Canicula exortum à veteribus previſum, Carnes cocta,quomodo crude videantur Canes fabrorum exiguos habent lienes Cancri vini quomodo co &tifimulentur Capre in luftinis montibuseuomunt Capilli noftri plantis affimilantur Caftratilienem, dan vitella ouorum deglutire ne. queunt. Cauſtica remedia,qualia adftrumas Caryophillgte vis adcorporismacular Caftorei teftespropèrenes adeffe Caminus quo fumum non emittet, Calphurnius beftia uxores dormientes necabat.Catelli membrorum dolores confopiunt, Cacodamonem mali nnncijpraſagiumattuliffe Calendula folis amica. 341 Capiuacceiopinio de menftruofanguine Cantharidum mira vis nocendi Carthaginienfium prefidium ad deftillationes in. fantium. Cati.cerebrum hominesdementat. Cornilacrymaſworesſuſcitat, Corui renouantnr eſos ferpenris Cervi carnes ad vita produftionen Cepamab Hyppocrate deteftari Ceruorum vita longiſsima Cerius Alatus Francorum inſignie Cerninum penem.conceptum facere. Ceraforum aqua epilecticis vtiliſsima Chamedrij mira vis ad lienofos Chalcanti vfus quidoperetur Chymici forebantapud veteres: Cibm Chuslapidusquomodo apparetur. Cicutam uterinum furorem domare Cicuta virginum mammas detumat Cynorrhodi radix ad hydrophobiam Cyminum hominibupallorem inducere. Cyprinorum vfuspodlagricis infeftus Cyprini officulü caluarisad spilefiä mirabile Clarorum virorumexitus. Lorui morientiúm fæditatem fentiunt Colicu dolor quomodofanetur. 88 Collegium veterum pro tuendaſanitate Cotoneorumfeminaadcombufta Confedtio fenibuspraftantiſſima Corpusutglabrum reddipofit Corpora venenatá vtnofcantur. Coralline vis adlumbricos Corniplanta hydrophobiam ſuſcitat Consensus de disensus animantium Corneliu Celji valetudinis precepta. Creationis mundi opiniones. 10 Croci metallorum.compofitio.:  Crinesmulierum qua via denfiores fiant Cupreff folia Strumas auferre. Cur fit vtquis clauos vomere videatur. Cucumeres oleum abborrent. Cur quiti impronisè moriantur. D. Ature flores Defunium capillorum ab hydrargiro, Demoris afturia apud indos. IS Democrittfedulitas in olei caritare. Demofthenes quomodocuraffet lingue impedimen Denti Dentium dolores bufonis tibia janari:  Dentium ftupor àportulacaremouetur Dentium dolores paſtinaca marina radio conquieſterr Defipientia mulieribus familiaris, Digiti annularis ſympathia. E. EBura quoartificiocolorentur. Ebriy variafufcipiunt deliria Echini ſagacitas in ventorum mutationibus Elephant's in fæminam mirusamor Empiricorumremedi4periculofa Epistola quomodo in ouo celetur Equam grauidam marem admittere. Equagrauida fomas occiditur,abortit Equorum teftes ad ſecundas depellendas praftan. tiſsimi. Equusphaleris accinctus acrior.fot.Asies rugata quomodo emendentur. Faciem hominis diuerfimode alterari Familia in Creta mire faſcinatrices Faces ardentes ex Betula corticibus Fætor extin &ta lucerna grauidisperniciofu Febricitantium fitis qualiter compefcatur Febrem à quodum pifceillico exitari. Fæmina aliquot inrares mutate,, Fæmina pruritu corripiuntur in pudendis in prima menftriornm eruptione. -Fæcula Brionie in affecte vteri Feniculorum femina aliquando exitialia Filij Filij â parentibus figna recipiunt. Ficorum efumfudoremparerefætidum  Filices ab agris qualiter exterminentur. Flores in Aegypto fine odore. Flamma quomodo in aqua excitetur. Fluuij aliquot mirabilis natura. Fructum vinearum, iumentorumg interitus pre ſagium Ferarum natura in hominibus mirum in modum deft. 8a Fons mirabilis apud Garamantes. Frigida post pharmacü exhihita, felici fucceffu Fraxinum ferpentibus inimicum: Furiofi in pleniluno,magis infaniunt. Futi vulnera quomodo curentur. Fungi ubi in lapides mutentur.  fumus hydrargiri quid efficiat Galenu,Medicorum princeps Aline appenfo milui capite furisunt. Galega, defcordij vis contra peftem. Gallinarum.stercus adfungorum viru.  Gallinarum adeps quomodo diu ſeruetw.. 28% Gallina quomodofæcunda fiant. Gentium.don populorum ingenia. Germanorum mos circa coitum. Gigantes quando in orbe fuerint, Gymnofophifta apud Indos mirabiles. Grauidationis muliersus affertio.Grauida mulieres marein admittunt. Grauida conceptü quomodo valeant occisltare. Grauidaaliquando fætupariuntfine vnguibus. Gra  Greuide mulieres curpallida. Greci de Iudeorum monumentis nihiladduxe  H. Auftulus aqua matutinus falubris. Heclaignis aqua nutritur Hemicrania Gagate fubmouetur.  Homicrania à carduo benedi&to fanythr. Herfetes ceroro tabacci coufanari. Hellebori nigti ele&tio in Anticris. Hederam cumvino habere diſcordiam Hemorrboidailisherbe mira virtus, Hellebori nigriextra & nm.  Hybernie miraaerisſalubritas, Hidropsà viridi lacerto confanata Hydrophobosè poto catuli congulo aquam illico ap petere. Hippocratis opinio de balbisdefe&tiua, Hydrargiri minera quomodo reperiatur. Hyppiatriquo studioftellas albas in equorum fu cis confingant Hydrophobia rara dicuffion  Hydrargiri mira natura..Hydrargirum remedium eft advermes. Hydrargirum utilead celidolorem Hydrargirumremedium in pofte. Hydrargirum defluuium capillorum facere. Hominis vite longitudinis breuitatis figna, Homo repertus mira vaftitatis. Hominumcur aliquotfubtilioris, vel graffiorisin. genijfiant.  Homines Principis vitam imitantur. Horai. Homines inuenti miragracilitatis.  Hominis compofitionismirabilia Hominesquomodo fiant abfemy.  Hominum corpora olim vafta Ibis in degyptofolum moratur, Ignispraſidra admorbos fele &ta. 303 Infantes à quibusnutricibm ladandi. Infantis inumbilicum animaduerfio. Indi ante Hiſpanorum tranfitum variolas baud paffi funt. 88 Infania ex folano fyluatico quomodo emondetur.85 Indus quidam longiffime vite. Infantes eiulareautoladein mammillu, Infantium ruptura ut curentur.  Infantes vipreferuentur ab epilepfie. Infantes ànutricibus mores recipere  Infantis umbilicum conceptum facere.  Inser Lupum eAgnum diſcordia. Inter brafficam, de vitesfympathis.  Iumenta clitellaria fibilo, cantu á laboribus fubleuari Aminas aris& vitrileo extrahi Lapidis ignem redensis compofitio. Lapathiam camas duras,teneruofacit, Lacerta apudIndosmira magnitudinis, Lu,fanguisaliquandopluers viſs. Lepusannis decemviueredicitur. Letargicos à Satureia vigiles fieri. Leonardi vatri de partu opinio.  Leones Leonesaftatttertianam patiuntur.  Leporumnonomnes hermaphrodui, Leo timet Gallung. ISO Linteaapud Indos igne depurari, Littera aurei coloris quomodofiant: Lignum èviſco Latum diſcutita Lienem adcorporis turpitudinem valere  Lolium praun inducit ſyptomata. 86 Lolij nocumenta Aceto fanari. Ibid. Lups afpe&tu homines obmuteſcunt. Irupi pauci reperiuntur,ones autem multa Zapi quomodo ouibus nacere nequeant., Lumaca lapispartum,accelerat Ludi in conuinijsfeftiuiquales, Lupi,canes, doFeles ut curentur,  Lupi in fenio ſerpentesin renibus.generant.  Luna confinusad inferiora, mirabilis.  Lue gallica canis infeftus Lumbricosquandoquegenerari virulentos MAmirimum vitulum àfulmine non ladi, izg Aris yubri admiranda: Maleficas artesir Septentr. exerceri  Mascitius, quàm fæmina animatur, Maritimarumtempestatumprafagia Maculanigre in morbisquid portendant. Mădragoravitibus infundit vim ſoporiferam: Mares in mammillisſapè Lachabent.. Marina pallinace radiusad dentiumdelores yti lis. Mommarum sum vtero ſympathis Medicinepraktamsia quanta fit.. Menftrualisfanguinis immanita, Medea an fuerit venefica.  Memoriaquo prafidio augeatur. Mercury pojisura in hominūnatiuitatibus, quan tum valeat. Mergorum i anferum proprietas contraHydropho biam.. Mellis vfu vita vtiliffimus. Medicina multa abanimalibus capta. Meſpulilignum ab ab ortu preferuat. Menftrua plerifqs fæminis in fenio. Mirabiles in hominibusproprietates dari. Mithridates inculpatè venena bibebat. Mithridatis antidotum ad venena. Mirafontis inEpgroproprietas, Mille pedum preparatio adcalculos.  Mille folium aduulnera conſolidanda. Morborumprauorum natura, Morus planta prudentiffima. Morfusquidam à cane rabido latrauit.  Mors inArthritide quandofuccedat.  Mures futurorum praſcj. Muftela cur rutam comedat. Multa prafidia ab animalibus homines accepije.Mulierum capilli quomodo in vermes mutentur.zo Monftruofa Dæmonis apparitio. Mulieres pregnantes vt nofcantur. Muftella fanguisadepilepfiam. Mundi creatio.ornatus. Mullus sterilisatem producit. Mulierum pinguedoſuamis. Mutin  Mulieresrarò inebriantur. Mulorumgenuspropagare nequit. Mulieresin. Ponto animalibus.nocentes. N: Natura presidentia in brutis.. Natsuitates.hominum quando ob'eruende Natura arcanaprovira producenda. Neronis crudelitas quoque pads a nutrice wiginem fumpfit. Nero Tapfiam magnificauit. Nereides, Sirene lepe vifa fust: Nili proprietu admiranda Niues rubentes in Armenie. Nodi in vmbilico infantis quid sotentas Nuxairiftica quomodofiat vigore for O Learum fterilitatis preſagium: olei, vini,fegetumquefterilitatis prefagium. olei balneumproconkulfis laudatum. aleun amigdalarum dulcinm advariolarum veftigia probibendu. olea Minerka a yeteribu dicata:  slei cinemani raracampofis.  elina olinarum oleum adunguium pannas. tur. Par Oleum latris colicum affe& um domato  Oleum lixiuio miftum albeſcit. Opthalmia aliquando.folo afpe & u communicar  @ris ulceraquomodofanemtur: Oryalus viſu auriginoſos.sanat.. Orestis cadauer odto cubitorum. fa de corde Cersui.corina uznena.. Oxes capite mouentpluuialmininente. Quesalba ubi nigrefiant.  P Arimdi difficultasquandoqueà curto umbi lco prouenit. Paracelfafalſaopinio dehomunculipartu. 108 Panaritiumqualiter illico fanetur. Parthi, Scytheque quo venenofagittas linjrent.Pestilentitemporeinter precipua præfidia.neris  Aifcatio fummum iudicatur. Papauer agreſte contra pleuritidem, Papauer ſolisfpheraminfequitur, Perfa.aliis coquinas replebant: Pediculicorpora morientium relinquunt Beftem ex occulta antipashia oriti. Penna Ibidis ſerpentes-terret,  Perniones:quomodo fanentur: Phalangii'ueneni opera. Phrensuci cur fortiſsimifint, Phrenetidem exnigro-corallio quiefcere Bhreneticialiquando mirabilia loqui. Pharmacum dare, quando periculofum.  Philomenaà vipera deuoratut. Pifa  Piſces marinifalubres, japidi, Pifiesfrixi quomodo in venenum tranfeunt. Pici mirandulani ingenium;  Picem cum oleo habere colligantiam Pici opinio de fcientiarum varietate. 16 Portulæca foment contra lumbricosa Plurimamèterra furfum rapi iterumque deorfumi cumpluuiis precipitarz.  Polypodijmira viscontra cancrosa Porri caputquomodo augeri pofsit: Potentia imaginatiua in conceptu mirabilis. Planta fimileseffe&tu fimiles, vinute... Pluvia imminentisprofagia. Plumburglans in coli dolorepraffans. Prognoftica tempestatis pluusoſa. Prafodiam mirabile ad calculos Preſedia admiranda inangina. Pfli, do Marfi ferpentibus amici. Pulchritudo, deformitas afpeétuo quid portono. dat. Pulchritudo corporis quo termino confitna. $. Euella à teneris veneno odusara. Pulſus deficientes anfemper mali, Queen Vanium profit neris puritasin peffe.  Wartanarii improuifo rimore fananiky. Mr. Qua via volucrumpennacolorentur. Quartana quomododebellerur. Quibuscorpusflorsfcit,his lien decrefcit. Quo artificio es aduratur.  QuorumdamiAnimalium vitalongitado Quorumdam animalium naturl. Quorumdam homină virtutes, & ornamenta.  quo artificio mares ab. uxoribus. [tyfcipere vales Quo Artificio duriſsimafaxa frangerevaleamus. Quomodo in urdieriſomasexcitari valeamus.341 mks. R Aneterreftris oleum aditrumas ! Rexbarbarumcidoniatum gravidisfummum medicamentum.  Rerum Sympathiam in aliquot brutis Admirabi. lem effe;. Rută inter alexiteria medicaméta cõnumerari, Rores marini virtus miranda, Ruta mira. vis contra venenum. S jabbarici junijmiraproprietas, Sanguis menftruus quandoque ex oculis velgingi uis excluditur, Salis prunelle virtus,de compofitio. Sartyriam carnofum venerems excitat,flaccidum vero extinguat. Sanguis menstrualisexucis, ſcarabais venenū. Sanguis caninus hydrophobis vtilis. Saliua bominisfcorpionesnecat. Scarabei miraproprietas. Scarabai cornuti vis in febre ciendo. Sciffure laborum.usmanuum remed. Scythe quomodo diuabfque cibo vivant: Berpentesquibus fufficibusarceantur. Sene&tutisincommodah Sepermusinter mafculos meră retinet virtutã. Serpeniums ona, velgenitura in pornfumptaSerpenting gignunt. Singulis quopatto cohibeatar, Socij Diomedis in volucres conneri. Solis confuxm ad inferiora maximus. Solatri potencia contra parafitos.  fomniorsuspreſagia à Deoconcedi. Sodami -Gomorrbi fruétus vari. Solis defe & us quomodo comprehendatur. Spurij robuftiores legitimis fuus. 95 Spe& acula veterum vbi celebratamagis. Spuweis epilepticis non femper filo Spatiuwvil e fecundum Acryptias. Stygis Arcadiemortifera natura. Sirumarum mirum remediusa. Strumaper vrisano quandoquepurgalai Sterilituin bomine ytdiriwratur SAMIremedium temporepeffu. Succinum parium mulieris accelerare, Syrupus fpinæ infeftorie ad temelusume. SS SwimeisterSidera calidißima. T. sbacci vw apud Iudos. Talpeoleum ad Aruma. Taurifanguis inter VEREBANwerari. Taurilapillu veſice contracalcules. Taum Philoſopbw famen cabiberet. Ferro lenonia contra ventna. Tbagfia mira vis in facillasi. SO Thappa Thapſia veſsicas, do ademata excitat. Torpedinismira vis in capitis dolores. Trauli,cobalbi,do femilingues unde finns. Tuberum efufrequenti hominescadunt. Aleriane vis contra epilepfiam, V Variola,morbilli affe&tmnoni,  Verruce quomodo extirpentur. Verbena vis in capitis doloresi Verbena virtus contra frumas Vermium in corporibus hominum varia figura 18 periuntur Vermes rubei in cerebro adnati.  Verbafci florss Sole aecedente decidunt, Veterum fepulchra mitèconftrudia Veterum ruditasdo, in foribendovarietas. Vena ſarustella ſpleneticis auxiliatrix Veterum in nuptiisconfuetudo. Veteres equoram lacrymas admirabantur. Venenumà diſsimili extinguigecontra Vermes in cordis.capſula exorti Ventorum mutationes ab Echmo previderi. Vifusacies,in quibus fueritadmiranda. Víres collapſa odoribus reſarciri poffunt. Vitrioli, com fulphurisoleumad vermes. Vipera catellosfuosparit,utnutrit Vipera inter ſerpentes fola parit animal vinã.ibe Viperamorſus Hellebori nigri radicibus fanan. Vinum pro Afthmate ſele&tum Vito longena quomodo apparemme zur. Vina Vina alba quomodo rubra fant, Virginitatismulierum figna. Vitrum quo modo diuidarur. Vinum venenatumquibus profuerit. Vinum à veteribusfeminis interdi & um. Vifcum quercinum epilepticis falutare. 318 Vitri puluerem calculus comminuere.Vimivſus elephanticisfalutaris.Vlcera formicantia quomodo breui fanentur. Vricornu proprietas, bet cognitio. Volatilium,piſciumque fecunditatispreſagia. Vrtica folia ſalutem, vel mortem informi in lotio prefagiunf.  DeMedicinepraftantia. Edicina decçio demiſla eft: ita Mercurius Trifmegiftus apud Aegyptiosſapientiſsi. profectoad fluxilis natura goltre remedium Deus altiſsimus ho minibus conceſſit; vt fanitatem conſer. uare, &perditam recuperare commodè valeamus. lofa autemà vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen. sia omninoliberare; ſedcorpora à cor suptione, & feftinadiſſolutione præfer uarepotius iudicatur. Amazonescur mammasdextras refecauerint. Mazones illæ, tantum à ſcriptori bus celebratæ,propterea fibi má. mas dextras refecari curabant, vt magis A armis gerendis aptæ fierent; vel potius Demannum, & brachiorum impedire • tur motus. Mihi zutem Galeni opinio 7. Aphor. 43.ex fententia Hippoc. admo dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua detet.Hocautem à ratione alienum mi. nimèeft, quippe nutrimentum,quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab. lib. 11. Olearum fterilitatis prefagium. Ergiliarum occultatio, & emerso Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeftatémouerit, & vitis, &olei germinationé fuffocabit.Ex hac cauſa Democritus olei præuifa caricate, magna vilitate oliuas in toto co tractu coemit, mirantibus, quipaupertatem, do & rinam, & quietem homini oble & a. mento cffeſciebant: at vt apparuit cau. fa, & ingens dinitiarum acceffio,reftituis mercedem, contentusleita probaffe, 0. pes fibi in promptu eflc cum vellet. Ex Fran, luncino in Sphæra. Do&oris Medici, & Philofophi, Hortulus Genialis. DeMedicinepraffantia. Edicina decçio demifla eft: ita Mercurius Triſmegiſtus apud Aegyptios ſapientiſsi musfcriptum reliquit. Hát profecto ad fluxilis natura noltre remèdium Deus altiſsimus ho minibus conceffit; vt fanitatem confere uare, & perditam recuperare commodè valeamus. lofa autem à vitæ conftituto termino, & à morte nequaquam viuen. sia omnino liberare; fed corpora à cor ruptionc, &feftina diſſolutionepræfer uarepotius iudicatur. Amazones cur mammasdextras refecauerint. AMiszonesilla, tantum àfcriptori.. mas dextras reſccaricurabant,vt magis armis gerendis aptæ fierent; vel potius De manuum, & brachiorum impedire tur motus.Mihi autem Galeni opinio 7. Aphor. 43.exfententia Hippoc. admo. dum placet; qui has mulieres id feciffe aferuit, vt manus dextra robuftior cua deret.Hocautem à ratione alienum mi. nimé eft, quippe nutrimentum, quod in mammam dextram à natura diſtribui debebat,totum in manum, & brachium immittebatur. Strab. lib.11. Olearum fterilitatis præfagius. Ergiliarum occultatio, & emerGo Sucularum tempeftuofi fideris, fi pluuiofam tempeſtatemouerit, & vitis, & olei germinationé fuffocabit. Ex bas cauſa Democritusolei præuifa caritate, magna vilitate oliuas in toto co tracta coemit, mirantibus, quipaupertatem, do & rinam, & quietem homini oble & a mento effe ſciebant: at vt apparuit cau. $ a, & ingens dinitiarum acceffio,reftituit mercedem, contentusleita probaffe, o pes Sbi in promptu effe cumi vellet. Ex Frap, lundino in Sphæra. V  O aqua Nili, Nilifluminisproprietas uædam aquæ reperiuntur, quæ fæ. cunditatem proprietate quadam inducere celebrantur: ita eſt quæ ſua vi nitroſa, vt voluit Seneca 3. Natur. quæſt. natura. fæpè vteros per petua fterilitate occluſos aperuit, & conceptumfecit: Vnde mulieres in AE gypto,vtfcripfit Ariſtot.quinos, & qua ternos frequenrer fætus edunt; ratio non alteri tribuitur, quàm Nili aquæ, quæ illis in potu familiariſlima eſt. De Mundicreatione. N qua Anni parte Müdus à Deo crea tusfuiflet,diſcordes interſe ſcriptores funt, vt Hebræi, Iſmaelitæ, Chaldæi, Arabes,Aegyptij,Græci, & Latini.Mula ti enim in Aeftate, nonnulli in vere,alij verò in Autumno conditum fuifle con tendunt. Moyles fuiſſe in Autumno affe. rere videtur, cum in Geneli dicat, Ger minet terra berbam virentem, &facientem emen, Glignum pomifera faciens fru &tung iuxtágenusfuum.Ex Aegyptijs nonnulli A eſtate creatum afferunt. Inter Latinos Cardinalis Aliacenfis vere nouo condi tum voluit.Inſuper variant,quia Plane tas aliquot afferunt in mundi principio fuiſſe creatos in fuis domibus: Solem ſci licet in Leone, Lunam in Cancro, Martē in Scorpione, Saturnum in Capricorno, Venerem in Libra,Mercurium in Virgi ne, Iouem in Sagittario. Alij, Planetas volunt, in fuis altitudinibus, præter Mercuriú,omnes fuiffe collocatos. Que autem opinio fit verior, D.Thomas 4 fons dif. 2. artic. 8. videnduseft. Murium fagacias. Vres ex ônibus animalbusquo dám do cognofcuntur. Cum enim domus aliqua conſenuit, &ruinamaliquam iamcom minatur, primi ſentiunt; & reli & is fuis cauernis, priſtiniſque fiabitationibus, domum relinquunt, properè fugientes, aliudque domiciliú quærunt. Aelianus de var, hift.lib.z.& Leuisius Lempius do fest. nat. Pluuja Mamodofuturorum præcij effe Pluuioſa tempeftatis Prognoſtics. ' Ergiliarum occafus matutinus, lo nubile Coelo accidat, hyené plu. uiofam denunciat,fi fermo Cælo,alpe ram.Sic Veneris,aut Martis per Pleiades tranfitus aliquot dicbus pluuioſam ciet tempeftarem.Saturnus inſuper cum cor pore, aut radijs ad a &turum accedit, i dem minatur.Ex Plinio,óobferuat.Stadi. Agricola non femel tempeftates, & f renitates predicant. Vltos profe & o cognoui pafto res, plerofquc agricolas, quiin prædicédislerenitatibus, & tépeftatib. magnæ mihi erant admirationi,quare tanquamcnriofus fciſcitabar, qua via, &ordinc hęcſcirent?ratus forfan fimpli ces, &idiotas non poflc tanta certitudi. ne futura prænoſcerc;nifi vel Dei mu. nere, vel Demonisa & uid fieret. Exre latu diuerfas ftellarum conftellationes abijs experientia cognitas, no & u, ani. maduerti:quarüobferuatione vera pre M dicunt. Experti enim ſupt Pleiades in Autumno, quæ in principio no&is ori. untur cum Marte, velVenere mouere tempeftatem. Aréturum non fine gran dine emergere. Hadorum ortum & oc. cafum tempeftatem pluvioſam in regio. nibus noftris prænunciare; & alia, quæ in promptu tales habent, licet alijs no minibus hæc fidera nominent. Quare mirum non eft, priores ftellarum per fcrutatores circa carum prædi& iones multa nobis reliquiffe,cum id ſapientia, & obferuatione perfecerint, quod iam idiotæ fine magiftro facere valent. Valeriana miraviscótra epilephan. leriana ſylueftris, quęlpontènal. citur,præter innumeras, quæ ab au & oribus ei tribuuntur virtutes, hancia diù, in multis, atque in fe ipfo Fabius Columna in bifter, plant. expertam ape suit,vt ſemel,velbis radicis puluerisco chlearij dimidium cumvino,aqualadte, aut alio quouis decétifucco & proggro sicómcditate, & ætate fumptü,epilep Valeri Ga correptos liberet. Extirpatur ante quam caulem edat, & puerisexhibetur, & preſertim infantibus, qui morbo hoc facilè laborant. Retulit auctor ſe multis puerulis lac propinafle; multiſ“; amicis donodediffe: qui deinde diuino prius numine glorificato, puluerehuiusplan tæ illis reftitutá fanitatem affirmarunt. Transformationes hominumin beſtia as noneffe reales. Vædá monſtruoſæ hominü tranſ formationes in beſtias à multis au Storibus fcribuntur; & inter alias, de il la Maga famoſiffima Circe, quæ ſocios Vlysis in deftiasfertur mutaffe: de Ar codibus, qui forte ducti tranſnatabant quoddam ftagnum atq; ibi conuerteba tur in Lupos: de Diomedis ſocijs, qui in voluitres conuerſi ſunt, plurima'addu cunt. Hoc non fabuloſo mendacio,fed hiftorica affirmatione multi confirmat, vt in fpec. natut.Gib. Vincentius Beluacenſis retulit. Aflerunt enim (vt ajtSolinus )velmagiciscantibus, vel her barum veneficio in feras corpora tranſ formari. Dicunt in experimento Neuros populos Aeftatis tempore in lupos mu tari, deinde fpatio, quod his attributun eft exacto, inpriſtinam faciem reuerti, Anautem huiuſmodi trasformatiorea. lis ſit vel illufivè facta àDemone,D.Au guft.lib. 18. de ciuit. Dei ita nodum enu. cleauit: Quod transformationes homi numinbruta animalia,quæ dicuntur ar te Dæmonum faétę,non fuerint fecun dum veritatem; fed folum fecundum apparentiam. Quippe opus hoc tantum Deieft; vt in Concil, lacro A Acyrano fancitum eft. Demonis aftutia apud Indos. Erba, quam Tabacchum appella mus, apud Occidentales Iodos in magno cratpretio.Cum eniminter hos dere graui agebatur,ad Sacerdotemil. lico accedebat,quitotuoegotiúexpone bát. Sacerdos auté corá illis fronde, vel furculum Tabacchiſumebat, qua carbo. nibus inic & ta, fumum peros, & nares ex. cipiebat, & inftar mortuiin terrá cade bat. Paulo poſt conſumptis fumivirto bus in cerebro, reſponsa, ſed ambigua, prout Dæmones perilluſiones, & fimu Jachra fuggefferant, populo dabat;qua tanquam religioſa, & veriſsima cunati recipiebant. Ita profi eto hominum ini. micus Gentiles decipere confueuerat. Monardes de rebus Indicis. Quid Picusdefcientiarum varietate fentiret. CH *Vm quodam die Ioannes Picus Mi Urandula de fcientiarum varierate diſſereret,in Hebrçorú,inquii,Philofo phia, omnia funtveluti quodam numi ne facra, & in maieftate veritatisabdita Ceu prodigia quædam, & arcana myfte sia. In Græcorum veròdifciplinis, in genium, acumen, & omnigena eruditio apparet, vt nulla vnquam gens fuerit, quæ dicendi copia, & ingenij elegancia cam illis poffitconferri.InRomanaved sò Academia, ca ferè omnia, quæad ci. witaté, & vitæ morespertinent, &graui. *, & copiosè funt explicata,ac magni fica ficè diđa. Sic ve grauitas maximè Roo manis, & imperijmaieftas,Grçcisinge nium, &acumen; Hebræis do & rina fe. cretior, & quaſi diuinitasaſiribi poſsit, Crinitus da honeft. diſcipl. lib.g. Subditos, Principis vitam vtpluri. mumimitari Rincipis vitam fubditi maximopere imitantur. Hinc fa & um eft,vt ex Philofophica vita Marci Imperatoris, magnum virorum doctorum prouentu ærasilla tulerit. Solent enim plerumque homines vitam Principis æmulari iux. ta illud Platonis à Tullio in epift.ad Lé tulum reperitü: Quales fum in Republica Principes,sales folers effe cines.Quapropter ex bonitate Principis Marci, plurimila philoſophari finxerunr,vt abeo ditarë. tur. Ex Herodiano, & Xiphilino. Rutam allium ferpentibuset werfari. Vtä odor,allija; ferpentibus max ex teftimonio Ariſtotelis 9.de.biſtor. animal.c. 6. habemus muſtelam, cum dimicatura eft cum ſerpentibus, rutam comedere. Hac etiam ratione ducti Perfæ(auctore Simone Sethi ) coquinas allijs replebāt, vt ipfasà ferpentiú contagio tuerentur. Animaliaoriri, & viuere poſſe in ig ne compertum eft. Agna admiratione dignum eſt illud, quod ab Ariſt. s.de hiftor. animal.6.19.adducitur; animalia ſcilicet oriri, & viuere in igne,cum elementum hoc omnia comburat: & nullatenus pu treſcat. In Cypro, inquit, infulaærarijs fornacibusvbi, Calcites lapis ingeftus compluribus diebus crematur,beſtiola in medio igne naſcuntur pennatæ,paulo mufcisgrandibus maiores, quæ per igne Saliant, & ambulent. Equidem fià tanto viro hocnon aperiretur; vix credere homincs auderent, cum totum rationi aduerſetur; fed hæc, & alia maiora à po fentiſlimanatura fieri poſſunt, 10 Lacus Lachs Affhaltitis mirabilis natura. Yommemoratione dignum puto Alphaltitis lacus naturam expo nere.Salfus ille quidem,ac ſterilis eft,fed tanta leuitate, vt etiam, quæ grauiſſima ſunt,in eum iacta fluitent:nec quiſquam demergi in profundum ne de induſtria quidemfacilè poſſit.Denique Veſpaſia mus, qui eius viſendica uſa illucaccelle sat, iuſfit quoſdam natandi infcios, vin &is poſt terga manibus, in altum deijci, & euenit omnibus, vt tanquam vi fpiri. tus farſum repulfi, deluper Auitarent. Joſepbas lib. 5.de bello Iudaicri.9. Piſces marinos falubriores, & fapidi. ores efe fluminum piſcibus. lices, tum pidiores, tum falubriores ſunt ijs, qui in fuminibus, ftagnis, lacubus, auc riuulis viuunt.Salfedo enim duriorem facit carnem, & fubtilioris fubftantiæ. Contra in piſcibus, qui ſunt in fiumini bus, &perinde eorú caro excrementitia eſt muccoſa, & infuauis. Vndeapud Co. lumellam extat lepidum didū. Philip pus cum ad Numidam hofpitem deue niſlet, & fibi è vicino fluminelupi for moſum appofitúdeguftaffet,ex puiſſet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ſerpentes, da in vermesmutantMr. ulierum capilli, quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu ra in exornandis multum conſumunt te. poris,cremáei, ferpentes abigere vifi sūt: fin autem in aquam inijciantur, in ver mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines aqui per tenebras, de per lucem vidiffe. Erum natura opulentiſsima admi ſus aciem,oculoſgue ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè,ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in lomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucer via debat, vtiplede ſe fidem facit lib. 7.Hip port. Go Platon, plac.6.4. At mirabilior erat TiberijCeſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat;de qua re adeo admiratur Tranquillus, vt id pro mira culo ſcribat. Cibusfapidiſsimus quomodo apparetur. Viſapidissimum cibum habere de liderat, Gallinaceos pullos, qui la &te & panis micis laginati lipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palate ineunt gratiam. Andereriam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tum ad gula faporem eſt optimus, & piçlertim iccur. Vnde non mirum L in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigan eft muccofa, & infuauis.Vndeapud Co. lumellam extat lepidum di& ú. Philip puis cum ad Numidam hofpitem deuc niſlet, & fibi è vicino flumine lupi for mo ſum appofitú deguftafſet,exfpuillet guc dixit: Peream ni piſcem putauerim ! vſque,adco à Tyberino,velmarino dif. ferre putauit, vt illum piſcis nomine in. dignum iudicauerit. Mulieris cinni fogant ferpentes, do in vermes mutantur. ulierum capilli,quibustantopere gaudent, & pro quorum ſtructu rain exornandis multum confumunt té poris,cremári,ſerpentesabigere vifi sūt: fin autem in aquaminijciantur, in ver. mes non diù retenti commutantur. Plurimos homines aqui per tenebras, acper lucem vidiffe. REErum natura opulentilsima admi randam fæpiſsimè hominibus vi. ſus aciem,oculoſque ſplendentes pręſti tit; vt multi felium more noctu vagari liberè potuerint. Legitur de Alexandro per tenebras æquè, ac per lucem vidiſſe; viſum adco acerrimum habuit Galenus, quod in fomnis, patefactis repentè pal pebris, magnamante oculos lucern vi. debat, vtipfe de ſe fidem facit lib. 7.Hip porr. Platon. plac.6. 4. At mirabilior erat Tiberij Ceſaris proprietas; qui in tenebris exactè videbat; dequa re adeo admiratur Tranquillus, void pro mira culo fcribat. Cibusſapidiſsimus quomodo apparetur. QlideraGallinaceos, pullos,quila &e & panismicis laginatiſipt, in menſa procuret, ij profe &to præſtantiſsimum ſaporem exhibent, mireque cum palato ineunt gratiam. Anderetiam carycis nu tritus, tum ad medicinam, tumad gulæ faporem eſt optimus, & pięlertim iecur. Vnde non mirum G in Inſula Hiſpa niola apud Indos, porci harundinibus zacchari faginatitantæ, ſapiditatis, & bonitatis ſint, vt febricitantibus etiam exhibeantur, Gigantes in orbequando fuerint? G. Igantum foboles paulo ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Geneſi c.6.quando ingreſſi ſunt blijDei ad fili as hominum: poſt autem Diluuium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis c. 3: Deuteronomij) in cibis, & afpectu cæli ad terran habitatam remen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa produ. ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium múdus ifte decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata funt. Adfacies mulierü rugatas ſelectum præfidium. (N gratiam rugatarum mulierum, & quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abfcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui albumine agitatum,ſi dein de ferbuerit in olla,& { patula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti ſpiſfitudi nem tranſit. Hoc f biduo, vel triduo facies mane & vefperi collinitur, non modò emaculari & erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani maduertent. Maxima eft folis excellentia, do in hec inferiorainfluxus. Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam admirabatur, vt illú Deorú patré,hominūá; vocauerit. Ipfe enimomniú aftrorú Rex eft, & tempora cuncta moderatur: annos,menfes, & di os diſtinguit, & efficit; nos fua luce læti ficamur, & eiuscalore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi. narefacit, & flores redolere. Ipſefruges, producit, fructusmaturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ viſceribus mira virtute spitøre facit, Hominųm ipſe, cum ho mine Gigantes in orbequandofuerint? Glucos Igantum foboles paulo ante Dilu (uium apparuit, patet hoc in Genefi c.6.quando ingreſſi funt alijDeiad fili as hominum: poſt autem Diluvium aliqui fueruntgigantes, qui tamen non multo tempore durauerunt. Bonitas e nim naturæ (vt inquit Abulenfis 6. 3. Deuteronomy )in cibis, & aſpectu cæliad terran habitatam femen humanum in tanta virtute continebat, vt tanti robo ris, & ftaturæ homines ætas illa produ ceret; Poftea paulatim deficiente natu, ra,tanquam ad fenium müdus iſte decli. nauit, & humana corpora cum viribus minorata ſunt. Adfacies mulierürugat asſeleétum præfidium. Ngratiam rugatarum mulierum, & quæ maculas in viſu fortitæ fuerint, quo ſenium, turpitudinemque faciei abſcondere valcant, optimum adduca mus præſidium. Alumen tritum, & cum recentis oui albumine agitatum, fi dein de ferbuerit in olla, & ſpacula ligno coti nuo mouebitur,in vnguenti fpiffitudi nem tranfit. Hoc ſi biduo, vel triduo facies mane & vefperi collinitur, non modò emaculæri & erugari, verum ſum mepulchram &gratam eam reddi ani. maduertent. Maxima eft folis excellentia, din hec inferior ainfluxus** TO Am maximè Homerus Solis natura, & excellentiam admirabatur, vtillu Deorú patré,hominúý; vocauerit. Ipſe enim omniú aftrorú Rex eft, & tempora cunctamoderatur: annos,menſes, & di es diftinguit, & efficit; nos fua luce læti. ficamur, & eius calore ſanamur. Ipfe vi. rentes herbas, & terræ nafcentia germi. nare facit, & flores redolere. Ipſe fruges producit, fructus maturat, aerem puri ficat, lucem affert, tenebraſque repellit, elementa tranſmutat,animalia gignit, gemmaſque pretiofas cum admirandis viribus ex terræ vifceribus mira virtute qpicere facit, Hominum ipſe, çum ho minegenerat,& tandem quicquid in ter ra oritur, & occidit, corrumpitur &ge neratur, in eius poteftate eft:fic ait Ari ſtot.z.degener.d corrupt. quod propter acceſsú, &receffum Solis in circulo ob liquo,fiuntgenerationes, &corruptio pes. Hæc, & alia tali lideri Creator om. pium largituseft. Falfißimum eft Salamandramin igne viuere pole. B Ariftotelc, & Aeliano,Salaman dram non modò in igne viuere, verum etiam illum extinguere proditú eſt. His ſuffragatur Plinius lib.io.c. 67. qui tantum alleruit Salamandræ rigore elle,vt igné glaciei ad inſtar extinguat, Hi autem famigeratiſſimi viri dormi. tare videntur, cum omnia & comburi, & conſumi ab igne poſle iudicentur, Falſum ergo axioma eſt;breuique fpatio animalillud, antequã comburatur, licet rigidiffimú foret, in igne viuere verifia mile eft.Totú hocexperientia innotuit. Narrat enim Matthiolusin lib.2.6.56.Dia foridisin agro Tridentino,Veris,& Au. Tumpi tempore,maximam Salamandra rum copiam reperiri,fe autem,vtexpe rimentum caperet eius, quodde Sala mandra vulgo fertur, plurimas in igne conieciſſe, fed eas prorſus exarſifle,bre uique penitus eſſeconſumptas. Sabbaticifluuj admirada proprietas. I Nter Arcas, & Raphandas ciuitates (teſtimonio Iofephi.7.de bel. Iudaico ) regni Agrippę, Sabbaticus fluuius repe ritur, ita à leptimo die, quem ludzire ligiosè colunt, appellatus. Hic copiofus fluit, nec meatu ſegniseſt, mirabilemg; naturam obtinuit, liquidem interpofitis lex diebusà fonte luo deficit,audumq; & ficcum alueum relinquit. Quod auté mirabilius eft, nulla mutatione facta ſeptimo die fimilis exoritur, talemque continuo ordinem obferuare pro certo ab omnibus cognitum eft. Quam fitexitiofumpro lattandisine Fantibus vitioſas eligerenutrices. Vtrices pro lactádis puerulis ma lis moribus imbutas, vitiofas, in. B eptas, crudeles vel ſuperbas reijciendas exiſtimo: mites autem, benè moratas, fine vitio, & prudentes cligendas. Pueri enim ex ijs educati ob acceptum nutri mentum à parentum natura recedunt, & 1 ad nutricisvitia, vel prudentiam aliquá inclinationem habent. Indelegitur Ne Pi ronem crudeliffimum à fuis progenito ribus longè degeneraffe(quamuis pravá inclinationem vincerepotuiſſer) ijenim benigniffimi fuerant: ipſe autem à crue delillima nutrice lactatus, & connutri tus, propriam matrem interfecit. Menſtrualisfanguinis mulierum immanitas. Aximum contagium in mulieris i ei F credidit.Refert enim nouellas vites eius pernecari contactu,rutam, & hederam illico mori, apesta & is aluearijs fugere, lina nigrefcere, aciem in cultris tonſor rum hebetari, æs graue virus & ærugi nem contrahere: equas, li lint grauidæ, ta &tas abortire,multaque alia pernicio famala ex illius contactw fieri tradidit. Sed longe à veritate diftar hic auctor: cuiuslibet enimmulierisfanguinēmen i ftruum virulentum effe falfamum eſt, quippe in ſana muliere, non differt & Yanguis à fanguine vitiumque illius in i quantitate tantum perliftit,vtbenè Ca piuacceusin fua Praxi recenſuit, fecus eft in morboſa muliere, ex menftruali enim iſtius fanguine nõmodopericula, quæà Plinio adducuntur, eueniunt, ve - rum etiam alia. Equidem canes epoto · menſtruo in rabiem vertuntur. Homi nes in he & icā, & phthiſim, fià veneficis, eis in potu tribuitur, deueniunt: Oleze contacte ſterili fcunt. Alia ctiam ex il lius virulentia contingunt, quæ reticere melius eſt. Frigidumpotumpoſt pharmacum af fumptum magnæ vtilitatis afue tis fuiſſe. Egrotabat oliin in Sicilia Prorex Ioannes à Vega: ſumptoque Phar maco ſegniter purgationem habebat. Medicusfamiliaris, vtaluum irritaret, juris pulli ſine ſale pararú cyathum co B 2 A ram Principe habebat; illumque nau. ſeantem, & tale brodium abhor. rentem, vtebiberet exorabat. Super ueniens autem Philippus Ingraſsia, iua ris vice, libram aquæ frigidæ cum vn cia zuccarimediocris albedinis propi. mauit. Erat enim ille frigidæ potioni af fuetus,atqueiecore percalidus. At frigi. da cpota, deſtructa eft confeſtim naufea fedatilque nonnullis in ore ventriculi morſibus, talem è veftigio purgationé feliciter perfecit, vt gratias referre In graffiæ pro tali frigidæ potione,cupiens, argenteum illud vas,in quo repofita fri gida fuerat, pretij aureorum nummo. rum quinquaginta, gratiſsimo animo donauerit. Ingraff. de.frig.por.poft medic. Verrucas cuiufdam animalculi liquo reperfanari. Eferam quod mihi in Apuliæ quo dam loco, circa verrucas fucceflit. Expetebat à me quidá nobilis, qui ma. nusà verrucis nimis deturbatas habebat aliquod pro illis abigendis præſidium. Ego coram nonnullis multa,quæ aliàs RII veriſſimaefle comprobaueram,illicon it'o fulebam.Inter hosrufticusquidam ino to pináter,fe ele &tiffimum habere remedia pro ijs penitus dirimendis non rogatus I. faſſus eſt. Sciſcitor quale fit, animalcu Di lum eſſe dixit: ad experimentum veni Before mus, ægro confentiente. Ruſticus ani. i malculum inuenit. Hoc'in floribns 1. Eringij, & Cichorez æftiuo tempore uk moratur,eft coloris calaſsini, cum ma of culis rubeis, & quodammodo aſsimila tur proportionecorporiscantharidiyli y cet paruulum ſit. Acceperat aliquot 12 i- fticus, & ſingula in ſingulis verrucis d... * gitis exprexit: exibat liquor quidam, o manus intumuit, & doluit,fed cum mo. derantia: intra tres dies detumuit, & fana facta eſt, nec verrucę ampliusviſę ſunt. Tauriſanguinem inter lethalia vene na connumerari. Nter atrociſsima, & fuffocantia ve nena Tauriſanguinem recenter epo tum connumeramus; congelatur enim 2. in ventriculo, reſpirationemqueimpe s diens, hominem fuffocat. Themiſtocles B 3 Athe Inesta Athenienfis tanti veneni tentauit expen rimentum. Hic enim ciuium inuidia à Patria relegatus,ad Artaxerxem confu git, à quo diues factus eſt.Dum autem in patriam ingratiam Artaxerxis pugnare cogeretur,in Dianæ téplo,hauſto Tauri fanguine, vitam cum morte commuta uit.Ex Plutarcbe. Quo artificio duriſsim afaxafrangen re valeamus. Aris ſaxa non alia re frangendag quam larido accenfo retulit Ola us.Hoc equidem rationi conſentaneum efle ducimus, cum pinguehumidum,fax lique commiftum illud fit, ob id enim flamma potens & acris eſt diùque ma net. Annibal verò dum Alpium rupes, ingreſſurus Italiam, comminuereopta ret, faxa potentiſsimo igne concalefacta; acerrimo aceto humectabat;:ita enim ea molliebãtur,& in fruſta cædebátur, fra ctioniq; facilior erat locus.ex Tiro Liuip. De lapidis Asbeſti mirabilivirtutes LAsbeſtos lapis,qué Arabia, & Arcadia producit, fi verus & probus fuerit, femel accenſus perpetuam flammam retinere videtur.ExhocGentilestemplorú cane delabra conficere folebant, clarè ani maduertentes fortiſsimam flammam & i * inextinguibilem elucere, quęnecabima bribus,nec tempeſtatibus extingueba tur. D. Auguſtinus lib.21.deCiuit.Deiz. Athenis Veneris Phanum fuiſſe referty in quo de di&to lapide lucernæ conſtru Etæfuerant,quæ aliqua intemperie ex tingui minimè poterant. Aegypti Reges opera magnifica, &admirane da Antiquitus conftruxiſle. Pera ab Aegypti Regibus conſtria & a omni admiratione digna ſem per exiſtimaui. Hi porrò Labyrinthoi rum,Pyramidümqueprimifuerunt au & tores, & Mauſolea fepulchra, & Obe. Hifcos erexerunt, Ferunt admiffo faci: nore, Pheronem Regem è veftigio vi-, Cum amififfe,decennioquecæcum -fúiſle. Vndecimo autem anno ab vrbe Buci, accepto Oraculo, quod viſum reci peret, fi oculos mulieris, quæ tantum B 4 lui ſui viri amplexibus contenta fuiſſet, cum terorumque virorum expers, lotio ab luiſet. Hic ante omnia vxoris lotiura tentauit, cum autem nihil cerneret in. finitarum mulierum vrinam experiri voluit; viſuque recuperato, præter eam (vxorem enim eandem duxit )cuius lo tio vilum accepit, omnes concremauit. 'Abea autem calamitate liberatus, cup alia in alijs templis donaria pofuit, om nia egregia ad memorię diuturnitatem, tum maximè memorabilia,ac fpe &tacu lo dignain templo Solis gemina faxa, quosobelos vocant à figuraverucēzenam cubitorum longitudinis,octonum lati tudinis. Pelõdor. Virg.ex Herod. lib.z. Cacodamonem malinuncijpræfagium aliquando attuliffe. Arcus Brutus cumexercitu ex A Gia nocte media & profunda dum fplendidum erat lumen, & filentium vndique caftra tenebat, multa fecum memoria recolebat. Cum autem ad fe venire aliquem præſentiret, intentus MarcusBrutuscumexercituexA  intentus ad introitum afpiciens,horren dam, & monſtruolam corporis feri & terribilis ſibi aſliſtere imaginem reſpex it.Quis (inquit)interrogans erutus,ho minum, aut Deorum es,quid tibi vis? quidad nos veniſti?Murmurans ille,tu. us Ô Brute(dixit)malus genius ſum, in Philippis me videbis. Tum brufus nihil perterritus, Videbo, reſpondit,cogita. bundusqueaccubuit. Verum Caſsiana cognita clade deinde, cogitationeſque fuas videns, & fpes fallaces ſublapſas re tro referrifin Philippis fibiipfi mortem coniciuit.Ex Plutarcbo. olei, vini,ſegetumgſterilitatis prafagia. Irij vefpertinus occaſus, fi biduoana teuertat, vel fequatur Plenilunium, fegeti rubiginem,&foreftentibus vre. dinem pronunciat. Procionis occafus veſpertinus,fi interlunio eueniat, flores ti yiti, & oleu germinanti iniuriam ex vredine adfert.Aquilæ verfpertinus ex. ortus, & Arduri occalus, in Pleniluniú B S incidit, & olei& vivi ſterilitatem, vtros quetum florente denunciat Ex Iunitino - deris falubritatem advitæproduction anem maximopere videmuscon: ducere.. N Hybernia quaſdam Infulas, ir quia bus homines longiſsimæ vitæ funt, re periri compertum eſt,tanta eft enim ibi: aeris ſalubritas,vtvita humanalongiſsi me producatur, Cum autem ad maxia. mam ſenectutem homines deueniunt, deficiente pauliſper humido radicali, caloris naturalis opera, quia anima pro-. pter complexionis bonitatem recedere: nequit, in corpore magni ſuſcitantur dolores: Idcirco illius regionis homie nes poft diuturnos labores, vitam aber forrétes, longèà propria regione fede portari procurant;præſertimque ad lo. cum minus falubrem, vbifaciliter mon n'antur. Abulenfis in Genef.c.2.6. Anania: in Vnis.Fabrica. Linica.magna proprietatisapud! indos fiering 1 Maximi valoris lintea ex Asbeſti. no lino,& Amiancho lapide con texere Indiani fo !ent. Hæc in ignem; proie & a flammam quidem concipiunt, detrimentumautem nullum recipiunto Cum autem vſu commaculata Indi hæc lintea depurare coguntur, (ſpreto more noſtro )non aqua,non cinere, vel ſmege mate vtuntur; fed in ignem proijciunt:: certiſsimoexperimento perdocti ab eo non cóluni modò; ſed potius-exempta. fplendeſcere,nihilqueillis deperire. Ta.. le Carolum V..Imperatorem nonnulli habuiffe ferunt. Mizaldus. Hominibus àgraui valetudine opa preffis varias hominum figuras appa: rnilleſepißime, expertum oft. Ignum ſpeculatione illud fempers primuntur valetudine ex affe &to cere. bro, an actu Demonis figare diuerſçapa pareant? Quippèno ſemel audiui, non. mullos. Dæmanes,alios verò fæminas. B 6 vidiſſe, vt inter cæteros Alexander ab Alexandro de ſe teſtatur. Cum (inquit) Romæ ægravaletudineoppreffus eſſem iaceremque in lectulo,fpeciem mulieris eleganti formamibiplanè vigilanti ap paruiſſe confiteor, quam cum infpicerem diù cogitabundus,&tacitus fui, repu tans nunquid ego falfà imagine captus, aliter,atque res eſſetafpicerem,cumque meos ſenſus. vigere, & figuram illam pufquam à me dilabi viderem, quæ nam illa effet interrogaui, quæ tum fubridens & ea quæ acceperat verba reſpondens, quaſi me planè derideret, cum diù me fuiſſet intuita diſceſlit. Quomodo au hæcfiani in lib. 1. de pita hominis difa fusè enucleamus. Hydropes lethales multoties ab occul. tis,abditiſq præfidiisdifparuiſſe. Vltiequidem morbinon à me dicorum remedijs, fed à caufis abditis curati funt.Refert Schenkius l.be 3.obferuat. Medicinal, Chriſtophorum quendamin deſperata hyeme, ab hs drope lethali hac via fanatum fuifle. Illi dormienti in Sole aprico lacertus viri. dis occurrit in laxatumque eius finum irrepfit, & toto cotempore, quo dormi. it,per tumentem,nudatumqueventrem oberrauit. Poft horam expergefa & us lacertum in ſinu ſubfultare animaduer tit, quem veluci homini amicum & in noxium dimilit. Huic ab eo tempore hydropicus tumoromnis,citra alia re media intra paucosdies ſubſedit, & diſ paruit. Quicafus mirabilis eft: & non minori admiratione dignus, Bufonis fylueftris, quam fit proprietas. Hoc e nim animal fi per ventrem fcinditur, & fuper renes hidropici ligatur, aquofita tem per vias vrina, quæ in Aſcitelupet abundat,mirabiliter educit.Hoc VVie rus expertuseft,Napaulli ſecreto rema dio hydropicorum aquas Colubri a quatici lapide ventriapplicato ſenfim abfumunt. Infuper vituli marini pelle aquam corpori fuffulam Hermolaus Barbarustolli prodidit. Cæca igitur,& abdita via multos hoc morbo ſanari comperimus. B7 Mediana  II Medeamà veneficiorum calumnia a Diogene fuilevindicatam., moriæ ſcriptoresmandarunt,Meo. deam illam concelebratam magicis arti bus, maximam dediffe operam, ijſque latiſsime fúille inſtructam.Hic.n.apud Srobæum dicebat,Medeam fapientem, non veneficam fuifle, que acceptis mole libus, & effæminatishominum corpo, ribus confirmabat ipfa gymnaſijs,acex ercitationibus, & robulta vigentiaque reddebat.Hinc, vt veriſimile eft,faina emanauit, quod illa coquendo carnes hominibus ivuentutem reftitueret, Si. enim ad ea, quæ de ipfa dicuntur, quod nocturnis horis coram Luna proftrata maleficia fuo nudato corpore pararet, refpicimus, vt patet per Seneca in Tras gæd.7.Quod vero alia attinet de quie bus ipſam accuſent, neſcio quomodo. ab infamia eam liberare valeamus. ImPlenilunio vtplurimum furioſos: vehementius infanire Luna dum Soli opponitur, vehementius furiofos infanire obſerua-: mus: tunc enim ex. fuperabundantium humortin copia-cerebrum ad cranium vique intumeſcit,eofque ad furiam du.. cit.Hac (vt reor) caufa, furioſos Britan. ni luna quarta decimaverberibus affli., gunt,conſiderantesſailicet ſanguinem, & fpiritum tunc temporis efferuefcere.. Verbera.autem non fine ratione ad talie um ſalutem conferre videntur; vt enim larga proſperitas ad inſaniam homines, ducere potenseft:ſic dolor, & calamitas, prudentiam inducere conſueuit: quod, fapientiæPrinceps perbellè fignificauit: dum dixit, affli &tionem tribuere intele lectum.Bodinus in tbeat.net, Annicomputumdimēſuramàquin bufdamnationibusrudiordine fuiffeconstructiuni Noi.certus modusapud felos Ar gyptiosfemper fuit, eorum enim Sacerdotes ab Abrahamoedocti,& verá anni-menſura, & Solis curſumcogno., frese fcere valuerunt. Apud alias nationes di ípari numero, parique errore annus no tatus eft:fiquidem Arcades trium men. fium annum faciebát. Lauinij tredecim. Acananes fex.Gręci reliqui 314.diebus. Romulus annum decem menſibus, qui 304.dicbus conficiebatur ordinauit.Hic å Martio incipiebat,eo quod Marti fuo genitori credito, menſem hunc dicaue rat.Numa poft Romulum quinquagin. ta dies computo huic addidit, annum. que conſtituit 354.diebus. At. C.Cæſar Aegyptios imitatus, ad curſum Solis, quidiebus365.& quadrante conſtituie tur,annum dirigereftuduit. Céſorinus, & Suetonius. Solatri maioris, e Serpent arie mio norispotentiacontraparafitos mirabilis eft. Irabilis profecto Solatri maio. ris, fiue herbæ Bella donna radicis potentia eft: fi enim contrita, & exiccata vnius ſcrupuli pondere per horas ſex vino infunditur,illudque facacolatura uno homini potui datur,vt illecibum guftare nequeat,efficiet. Hoc paraſitis idoneum eft remedium,hi'enim aperto ore,tanquãomnia deuoraturi,in menſa cófident;fed hac via pænas luent, quip pè alios vidcbunt comedentes, ipſi ta men inſtar Tantaliin menſa fameſcent. Vnde apud conuiuas ridiculi, & confuſi apparebunt.Sanantur hiconfeftim ace to bibito.Idem facit radix Aron, fiuc -minoris Serpentariæ in acetarijs recens contrita;qui enim guſtauerit, apparebit Suffocari cibumque relinquet. Sanatur hie allio comefto. Ventorum ortum,occafumque terre AremEchinuinmirafagacitatehomi nibuspraſagire. *ErreftrisEchini, quiautumnalitě. pore in vineis, dumoſilque fpinis verfari præcipuè conſueuit, in ortu oc cafuque ventorum præfagiendo mira l'eft fagacitas.Horum porrò latibula du obusconftru &ta foraminibus, quorum alterum Boream, alterum verò Auftrú reſpiciat,conſtructa reperiuntur. Pre fentientes autem Boream Auſtrum,ali umve ventum fufHaturum, longè abe orum ortu, vnum vel alterum cauernæ meatum obturant; ventorum enim cog nitio-ijs innata eft, vtab ipſisſe tueri va Jeant.Hoc ordine Venatores Echinorú Jatibula, eorumque fagacitatem cond derantes, nulla ſtellarum obferuatione habita, fed folum ex cauernarum mea. tibus clauſis,velapertisVentorú indagia nem cófequentur. Ex Plutarcho in Dialog. Animi pudorem, timoremque hu. manorumcorporum diuerfimoda faciem alterare. agna inter animi pudorem, & ti morem cum vtrumque fit triſti. riæ foboles, videturdiſparitas:quippe in pudorehomines facie rubefcunt,timen tes verò pallefcunt. Natura(vt inquit Macrobius 7. Saturn. ), cum quid ei oc currit honeſto pudore dignum, imum petendo penetrat ſanguinem,quo conto moto diffuſoque cutis tingitur,rubora; saluitur, Thelelius auté (vt ex Taſſone citatur M  citatur) faciem in pudore,voluit affe &iū recipere, & proinde erubeſcere. Hocà ratione alienum haud eft, fiquidem vo lunt Philoſophi naturam pudoretacta, fanguinem,inftar velamenti ante fe ten dere.Experientia infuperhoc docet, e rubeſcentes enim manum fibi ante faci. em frequenter opponunt. At timentes palleſcunt,quia natura cũ quid extrinſe. teoccurrens metuit, in profundum de. mergitur: ita &noscum timemus,late bras quærimus, & loca occulta, Natura itaque defcendens,vt lateat,fanguinem fecum trahit, quo demerſo dilutior cuti. humor remanet,pallorqueſuccedit. Animaliaex putrigenita materit inmundiprimordio minimè fuiffe. Væ ex putri materia generantur, ſex animalium genera communi ter exiſtunt. Quædam enim, vt bibio nes, quæ ſunt minutifsima animalia,ex vini exhalationibusfiunt,vt papiliones ex aqua.Quædã ex humorú corruptio pibus proueniunt: vt vermes in fter core,velciſternis. Quædam ex cadaue ribus, vt apes ex iumentis:crabrones,fi ue muſcægrandes,quæ volando ſonant. Scarabæi liue mufcæ virides ex equis, vel canibus mortuis: fcorpius de caucti mortui carnibus:ſerpens de medulla ſpi næ humanæ. Quædam ex lignorum pu tredine, vt teredines, qui lunt vermek intra ligna, quando non abſcinduntur tempore debito, exorti. Quædam ex fructuum corruptione, vt girguliones ex fabis. Quædam ex herbarum corrup tela, vttinex.Hçc autem in mundiprin cipio immediatè à Deo creata fuiſſe, nulla ratio confiteri cogit,cum ipſa na turaliter ex corruptione procedant;poſt autem mundi exordium huiuſmodi ex corruptelis generationes eueniſſe verili mile eft;Deus tamen feminarias cauſas horum materijs indidit, fine quibusori. ri non potuiſſent.Abulenfis in Genefi 6.2. Defygis Arcadia mortifera natura, Alexandrimorte. Circa  Gerialis. ferunt, ille, CircaNonacrinin Arcadia,fons quidá teperitur è petraexoriés, quęStyx ab in colis appellatur, tantæ mortiferæ natu rę, vt ſumma celeritate corrúpat corpo ra. Equidemprotinus hauſta (Seneca teſtimonio 3 quaft.natur.)induratur,in Itarque gypſi ſub humore conftringitur, & ligat viſcera.Quia autem, nec odore, nec fapore notabilis eft,fæpè fallit, nec ea epota,amplius remedio locus eft.Fe runt nonære,non ferro, non teſta aquí huiuſmodi continere,necaliter quam in equi vngula ferri poſſe. Huius vemeni potu,magnumAlexandrum in Babylo. nia fuiſſeextin & um multi ſcriptoresre medico,ob aquę feritatem in media po tione repentè veluti telo confixusinge muit; elatuſque (vt ait Iuſtinus) è conui yio ſemianimis, tanto dolore cruciatus eft,vt ferrum in remedia poſceret, & è tałtu hominum velut vulnere indole. fceret. Achores tineafque capitis,ex bufonis oleofeliciter fanari. Dum 46 prope Luceriam Apuliæ ſemel me dicinam faceren, ibi quendam achori bus,tineiſque per multos annos turpi. ter affe & um,cui varia fuerant applicata temedia,omnia tamen inutiliter, prop termorbi reſiſtentiam repperi. Tande noſtro conſilio hicele &tè ex pharmaco purgatus, folum linimento ex oleo in quo ad exactam co &tionem Bufo fue Rana terreſtris ebullierat, optime cura tus eft, quippe fimplici hoc remedio per paucosdies in capitevtens, fanus, & capillatus fa & us eſt; durante autem lini mento piliersortui,vulſellis à chirurgo extirpabantur. De Cerui lachryma, eiuſque in ciendo fudore potentia. Antæ creditur elle efficaciæ Cerui lachryma in Tudoreciendo, vt' li grana quinque vel ſex potui dětur, totü corpus fere folui iudicemus.De hac lo quens.Abinzoar lib. I.tra &. 13.6.6. le tria grana Azir filio Regij magiſtri equitum in lacte, vel aqua cucurbitæ, vel.roſatæ exhibuiſle:retulit,illumque à virulento ictero liberaffe.Hæcautem in Ceruis ante ceptelmum annum (teſti monio Scaligeri)nulla eft,temporis au tem proceſſu generatur, & in iuglandis molemaccreſcit.Dicitur magnam habe read venenum efficaciam, vt in Afia fe Hiciſsimo fucceflu fæpè experiuntur. Vires infirmorum collapſas, odoribus refarciripoffe. Nfirmorum deperditas vires non potionibus modò,verum atqueodo, ribus reftaurari pofſe obſesuatum eft. Aiunt enim Democritú in dies aliquot, amicorumgratia pomi odore vitam fic bi prorogalle. Hinc multi panem cali dum vino odorifero immerfum nari busadmouentægrorum, quem a tem. poribus, & coſtis cataplafmatis more imponimus,vtique vires egrigie reſti tuimus.ConciliatorApponenſis mori. búdá vitá, ex croco, & caſtoreo cótuſis, vinoq; cómiſtis producere fecófueuifle tefta.  teftatur,ſenibuſque eam compofitioné exhibuiſſe, nullatenus olfa & u magis quam potu profuiſſe.Ferreriuslib.2.Me thod. De olei Balnei mirifica in morbis præftantia. O Lei Balneum, vt Herodotus anti quiſsimusmedicusprodidit, quià diuturnis affliguntur febribus, à laſsitu dine, vel neruoſarum partium dolori bus oppreſsis,conuulfis, & vrinæ, fup preſsis laudatiſsimum,ac ſalutare efic remedium experimur. Vidit huius pre ſidij experientiam Heurnius in quoda extenuato, ac ferè exhauſto, dumeflet Patauij:illum enim validiſsima occupa uerat conuulfio,at tepidi olei pleno vafe immerſus,ac fotus fanuseuafit.In lib.no ftro de Hydron.nat. Adam & fuos contemporaneos, perfc. etiſsimamrerumnaturalium ha buiffe cognitionem. Nter aliasrationes, quas Abulenſis in Genef.in c.f.de longiſsima vitæ pri. morum parentum,quiannum ferè mila Jeſimum ateingebant,retulit,hácaddux it;quod'Adam'rerum naturalium perfe Etamà Deo cognitionem habuit.Intele lexit enimfru & uum, herbarum,lapidú, lignorum, animalium, mineraliumque virtutes, & do&rinam, quibus vita hv mana diutius conſeruari poterat; quæ omnia contemporaneos,(vt ipfi etiam vitam producerent longiſsimèJedocuit. Hæc autem cognitio, & ex diluuio, & gérium diuifione perdita eft.Reperiun turtamenin præfentiarum multa mira bilia,naturęque ſecretiſsima apud ſapi entes, à temporuminiuria foslitan vin dicata; quæ aliquando hominesvidentes aut audientes, tanquam lupernaturalia opera admirantur Rutaminter alexiteria medicamenta connumerari: Nteralexipharmaca præſidia, Rutam minimęconditionis haud efſc perhia bent,fiquidem ieiuno ftomacho come fta multos à veneņiviçulentia liberaſſe C. degi  legitur. Dehac Athenæus in 3.Deipn.la. quens, Archelaum Ponti Regem fuos populos veneno interimete confue uifie fcribit, illos autem à quibufdam edo &tos, ob id antequam è domibus ea grederentur,quotidieRutam cdere fo litos à Tyrannicrudelitate.le.defendiffe. Solaſuſpenſione, capitiscruciatus verbenam mitigare. Trabilis eft Verbenæ proprietas M.in dolore capitis mitigando; 'fi quidem à Petro Foreſto traditur hoc folo præſidio quendam fuifle perſana tum.Ille netlis remedijs, quamuis opti mis curari potuerat,non venæ ſectione, non ſcrupis digerentibus, neque steco &tis pilulis,cucurbitulis, nec alijs topic cis auxilijs. Cum autem nulla iuuarent semedia,ad collum Verbenaviridisafe penſa eſt, & fanus fa & us eft,lib.9.ebſer.3. Detkapſie virtute in fugillatis faci nandis,Neronisquecalle. ditate. Nero Imperator in ſui Imperij ex 36 ordio Thapfiam,eiuſque excellé to tiam magnificauit; Ille quidem dumno. & u incederet incognitus, & in multos impetus faceret,nå ſemel facies fugitla Do ta,cutifq;livida,piftula; ab illis fuerat. L. Confeftim hic,ex Thapfia,thure, & cem ra commiſta,linimento ljuentem vifum collinibat,quopræſidio antelucem à fe da ſugillationeliberabatur; dum autem die in populiconſpectu, faciem fanam oftenderet,facinoris ſui famam, & igno. miniam occultabat. Ex Durante in Her. 25 g. barie. I je obſtétricibus animaduerfio. præcidendo diligentia adhibenda eft;quippefi ni mium curtè vmbilicus religatur,ætatis progreſſu pariédi conatumreftringere, imminenti vitę periculo,poteſt. Ex M46 mbiaCornace. De arboris ficusmirabili natura. I coctu faciles habere deſideramus, in arbore ficus eas ſuſpendemus, ita votum noftrum procul dubio aſſeque mur: credo forſitan ob acutum, & incil: uú odorem, quem arbor Ipirat id cauſa ri;velforſitan occulta cæcaque proprie tate.At quod mirabiliusin huius arbo. ris natura eft, Taurum indomitum, fe rumque in eodem alligatum manfuef cere tradunt. Neſcio autem annaturali via propter-odorem,an aliqua antipa thia, quæ inter talia exiftat hoc eueniat. Audiui tamenà multis vtrumqueexpe rientia fuille confirmatum. Quomodoà vitriolo arislaminas.ex. trahere valeamus. Lui momenti illa cognitio, quomodo à vitrioloæris lamellę extrahantur,ape riam modum, qua facilitate id affequi valeamus.Bulliatur Romanumvitrio. lum in olla cú aquafontis: in eaque cha lybis lamina per horæ quaternionem demergatur: extrahito demum chaly bem, ipſumenim lamellis æris inftar suginis colligatum habebis, quęculcro radende fút, vt alias chalybem immera. gere pofsisznouaſquelamellas extrahe.. re. fiquidem tamdiù corradi poterunt, quouſq; Vätrioli portio in aqua fuerit. Arrigat aures ingeniofus; quia ex hoc: minimo principio multa, precipuèinre: medica, yrilia aſſequetur. oléum vitrioli,&fulphuris rostris: lumbricos plurimumvalere. NITlfi magnis experimentis præſtana tiſsimum remedium ad puerors i lumbricoscomprobalſem,haud audia. rem hic inter arcana ſele &tà fóre repezia nendum confiteri: quippe tanta eft eiuss virtus,& potentia, vt mortuos ferè pur erosè vermibus ad vitam trahat. Hic: induſtria paratur,In libris ſingulis aque fontis oleifulphuris, vel vitrioli chimi.. cè extractorum, aliquotguttulaadden dæ funt,ita vt aqua acidula frat, quæ pu eris,natuque maioribus danda eft diù noctuque ad placitum,.e & enim præſtaa tiſsimæ virtutis 0 T! 10 Da DeCaraba mirabili virtute invuula cafum,Amygdalaruamque tu. mores ArtinusRulandusvirin chimicis M celeberrimus in Amygdalarum inflāmatiene, & tumore, vuulæquecaſu ex humoribus à capite fluentibus exci tatis ſola Carabâmirabiliaparauit-Prie mo fuffimétum cófuebat,hoc modo ex. ceptü.Accipiebat Carabæ albiff. drach. 7.qua redacta in puluerem craſsiorem, & carbonibus impofita,fumus per infa dibulum,ore excipiebatur ab ægro mar. ne,meridie, & veſperi, multa vtilitate, Accipiebatetiam fermenti veteris vnc.. & quam moreemplaftri linteolo indu cebat, afperfoque Carabæ albæ pul uere vertici imponebat per diem,per noctem vero fequétem recens applica bat. Quibus paucis remedijs, &ex fola: quaſi Carabayquam plurimos à fauci um tumoribus, vuulæque cafu,Amyg dalarumque inflámationibus oppreſlos perſanauit. Ex eiusCurationibus. Spina HorTvivs GENIALIS Spine infeftoriæ Baccas" ad. Tenaf mumexfalfapituita expertiſsimum verumque ad illum exiftere remedium. St mihi remedium pro Tenafmodo quadam fortafle mille kominum, qui endemiali fere morbo hic ſugebant per fanafle quam citiſsime. Syrupum ex Baccis fpinæ ceruinæ, fiue infectorice: Aromatario parariiufferam. Hæinfine: O & obris, cum bene maturuerint, collie guntur, exprefloque fucco cum melle vel Zuccaro ad formamfyrupi ducitur: additurque in fine maſticis, velzinzibes sis, anih, vel cinamomiad drach.j.vet? in maiori dofi, fi libuerit.Datur hic fy rup.ab vnce vſque ad duas cumpauco vino dilutus,abitemijs datur cum aqua cinamomi:epoto, cibatur eger,parceta men, & ieiuno ftomacho, præcipiturque ne dormiat.Equidem vna die fanaturę ger, foluitur enim aluus,abfque mole tia, & excretis féroſis.viſcidilg; humorib. Tolo hoc preſidio integrè liberatur C Ariet  mo Arietis linguam futurum in ouibus milanitium,commonftrare.. M Irantur multi Virgilium in 3.. nere, vt linguam paftores conſpicere debeant, deſinant autem admirari, cau ſam enim adducimus ex Plinio, quipro pterea Arietum ora introſpici à pafto ribus voluit, quia cuius coloris ijlin guam habuerint, tále in fætibus gene randis forelanitium. Audiui à multis, hocyeriſsimum reperiri. Ouis enim e. tam cum vterum gerit,fi linguam habueritnigram nigrum pariet agnum, fi albam album, & fic de aliis coloribus. Ridiculüm eft quod fertur; Bafilifcum àGalliouoexclwdi.. On modo à plebeiis verum atq;: à nonnullis ftudiofis, Bafilifcum: abouo galli veteris connaſci perhibe tur. Fingunthi ex aliquorum fcriptorú teſtimonio, quos eriam ego perlegia: Gallo decrepito, quiſeptimum, aut no.. olm, vel ad fummum decimum quar.. Na tum annum agat, ex putrefacto ſemine, aut humorum illuuie altiuo tempore, ouum conflári, ex quo ab eodemfoto (vt à Gallinis alia fouentur oua ) Bafi... liſcusoriatur.Sed hoc animal nemo vio dit,habitat enim (auctóre Plinio ) in Aphricæ folitudinibus: proinde hæc creo dere difficile eſt. Inſuper ſi hanc fpecie em mafculinam poſſe fætare conceſſum. eflet, contingeret etiam inalijs, quod minimèobſeruamus. Mihi aliquotoua: in experimentum à mulierculis allata fünt, dicentibusGallum peperiſſe: erát oblonga,& in caudam ſerpentis quibuſ dá nodulis terminabátur:at hæc à Gallie nisex plurium ouorum minutorů col ligatura (cu kuperfætatione,non autem a Gallis fieri dixi. Homines ex impromiſo Lupi afpects: veluti mutosdo; attonitos fieri. Vlgatiſsimum illud eft, hominesex improuiſo Lupi aſpectuadeo mutos& attonitos fieri,vt nec fari, nec vociferari valeant. A Lupiquadá prietate id fieri aſlerunt, contenderse tes Lupum,fiprior obuium quempiam conſpexeritillico vocem adimere, can demque illum luere pænarn,ſiab homis ne prius videatur. Ad hænugæ ſuot.Si quidem ex terribilişimprouiloqueLu.. pi aſpe &tu,homines terreri, timoteque concutiqveriſimile eft: ex timore autem: valido mébra frigefieri ex raptu ad in teriora fpirituum,inde corporis, & ar.. tuum fieri impedimentu, vociſque pri uationem mirum non eft.Alijalia fin gunt, mihi autem hęc omnia ad folum timorem,tanquamad caufam proporti Onatam reducere viſum eſt.. Multa facinoraàMagisanicalis perpetrari pole. Etulit Leonardus Vairus lib.1.de: Faſcino multas hac noftra tempe fate exiſtere aniculas, quarum impurie tate,nonpaucos effaſcinari pueros illofa quenonmodoin grauiſsimum incidere diſcrimen,verum etiam acerbam fæpiſe fimè ſubire mortem. Pecudes inſuper: partuqalacte priuari,equospacreſcene R Falcin Cquote & emorislegetes abſque fructu colligi, arbores arefcere;ac denique omnia per ſum ire quandoque videri, AFucovulnera illata,Muſcis contri tisbreuifpatio perſanari.. " Vm quadam die apud amicos alie, quot cómorarer,& læti in měla de more varia confabularemur; ecce vous ex ijs in ſuperiori labro à Fuco animali vulneratur,quo morſu ſtatim intumuit vulnus,cum maximo patientis dolore, Amici in riſum ſoli, patientismedelam minimeprocurabant.Ego quidem alias morfus hos curafle recordabar; quare confeftim, vt nonnullas muſcas feruus meus caperet, iulli, quas contritas, dum fupermorfū impofuiſset,breuidolorie datuseſt;.tumorq, cúmaximapatientis lætitia;aliorúg, admiratione detumuit, Quafacilitate vlcera formicantia dan cacoëthica fanarivaleant. Vidam amicus meus, cumir Hya pochondrijs,vicera formicátia,pra maque, quæ à nonnullis vermes dicun Q  tur,paffus eſſet, ſauitatcm,poftmultat do & ifsimis medicis tētạta remedia, ac. quirere non potuit:ylcera enim licet fac pari viderentur;renouationem tamen continuo recipiebanta,Vltimò poftan.. nos,& menfes in empiricum chirurgum incidit:quipaucorum dierum ſpatioita hominem perſänauit. Abluebat primo vlcera albo vino,tum ex - patellis -mari-. nis puluerem, fiue cinerem Ex Corici bus(exemptis interioribus) couſperge-. bat,vltimoherba marina vlcera coope riebat; faſciaque premebat, femel in die hoc vſus remedio vigintidierum fpatio, ægerconualuit. Procurauit arcanum a.. micus, & mihi fideliter communicauit, Fallſsimumeft, quod fertur Viperă o coitu mafculumoccidere,ipfamque asfuis.catultsinpartunecarie LAG Grauiſsimis au & oribusaffirma, mine) maſculi caput'abſcindere (ille.n.. infæminæ os caput inferit ) & fic củoca. sidere, ſed poenam täti facti illam luere. ſiquia fiquidem Viperinicaruliconcepti, gra-. Jiores facti vifceramatris cofrodunt,e am que occidunt. Sic voluit Plinius lib. 10.&Nicander in Thoriacis, quare Vipe. ram aiunt diciab co, quod vi pereat,aut vipariat.vtrumque autem falfifsimum effe, & experientia, & grauiſsimorum e. tiam ſcriptorum auctoritate cognitum eſt.Apollonius apud Philoftratum Vi... peram aliquando viſam fuiffe catulos ſuos; quos peperiſſet lambere, & expolire aſſeruit. Bodinus in nat.theatr.lib. 33 in Gallia,ad Clapum Pictauorú flumen, vbi Viperæfrequentiores ſunt, vtriuſq. fexus viperas lagenis vitreis inclufas fu iffe reculit;illafque peperife, & conce piſle vtroq; parente fuperſtite, Matthi olurs ex. Obferuatione FerdinandiIm perati Neapol.Pharmacopolæ Viperam parere catulos ſuos, & non occidiafts-, ruit;catuloſque-non viſcera matris,led membranas quibns incladuntur diſrúa pere. Quarerectiusſentimus,fi Vipera non à vi parere,vel perire dicimus,fed quafit quaſ Viuiparam, quod non oua, vtcæ.. teri ſerpentes, ſed viuum animal pariat. Iraulos, balbos, & femilingues fieri ob nimiam cerebri bumiditatem, VA communiseft fententia ab expe rientiaalienumreperitur. Rauli, & Balbi non ob cerebri hus midam intemperiem fiunt, vt ferè omnes autumant; inueniuntur enim hi' modo calidi,modo frigidi,modo humi di,vel ficci, vt & reliqui, qui nec Traus li,nec Balbi funt;imò & hi modo (putis " abundant; modo ijs carent:quare non ob bumiditatem nimiam cerebri buiure modi Traulos-& Balbos fieri, fed obt varietatem mearuum, in intrimentis; pertinentibusad locutionem exiftenti um, docuit experientia.Porrò Trauli, qui literam R.exprimere nequcunt, in media palatiregione, vbi quartum eſt osfuperiorismaxilta, duo inueniuntur foramina, quæ nullo modo adeo aperta & obuia sút, vt ijs, qui optime loquútur, Balbis veròiuxta dentes maioraobſer. samus foramina,per quæ ſtillans pitui ta,linguamque irrigans in parte illa an. teriori,bleſam locutionem facit;; vnde bleſi, & ſemilingues fiunt: quod fi hæc non eflent haud balbutarent, licet à ca pite copiofa defcéderet pituita, vtmul tis contingit, quiex hac tamné balbi non fiunt.Quare fententiaHippocratis2.A phor.32.malè verificatur, cum afferit, balbos ob frigidam, humidamque ca pitis intemperiem fluxu tentari: Auxio. enim talis & Balbis, & non Balbis fuc cedit: concurrit tamen hæc fluxio, vt caufa remota, qua aliquando cum pro zima,dicitur affe &tum facere poffe, fi. iunctatuerit:: fola autem facere nequit. vemale Hippocrates,& alijopinati ſunt ExSanctorio Sander.de pit.en.lib.3. Morbosperniciofos; velmortem,veb affectus longitudineminducere. Jana ciuitate, & in circum vicinis propè Neapolim perniciofifsimi orto funtmorbi,vbiſectis aliquibus corpo, tibus, eorum Ventriculus bilis copiaz, vitellinæ plenus inuentuseft, eiuſque: tunicæ, & inteſtina eodem colore per tincta viſa ſunt. Meatusqui ad fellis; chiftim protendit, ab humoribuscraf fis, viſcoſis, & tenacibus obftru & us ea. rat. Fellis veſica diſſecta, bilis flaua haud inuenta eſt; fed eius vice atra, & inſtar atramenti nigerrima.Hepar quo ad externam partem album erat, in in terna autem nigrum, &atrum, veluti carbo accenſus, & extindus. Langueno tes,in febrium initio,vomitu, &nauſea, moleftabantur. Eorum lotia craſla icte. rica, & fubrubra ſemper erant. Omnes. ferè erant icterici, & longo tempore,ſi: qui euadebant,indigebant, vt fanitatem acquirerent, Ex -Io. Bapt:Cauallario deMore bo Nolano, ſeu demorbo epidemiali Lupicur paucireperiantur, ouess autem multa Tidetur quafi abftrufum illud quxar, aucs autem multæ?'profecto in partu plures lupaedit catulos,quamouis,quæ vnicum, vt plurimum parit; Inſuper o. ues, & agni in hominú alimoniam con tinuo occiduntur; luporum autem caro eſui apta non probatur; nihilominus Q. ues-agni, & arietes ſemper in maioriny mero reperiuntur, quă lupi.Huius cau fa, prima eftDei bonitas, qui tam imma ne animal in eius ſpecie excrefcere non permittit, in facra enim Gen. c. 7.Noe, vt ex omnibus animantibusnūdis fepa, tena, & feptenamaſculum, & foeminam in arcam tolleret monituseft:ex immu dis vero duo, & duomaſculum, & foe minam. Secunda cauſa luporum eft faga citas, & in propriam ſpeciemimmanitas. Hi enim;cum rationesviuedi deficiunt, ob cibi inopiam in multo numero con ueniunt:atque in circulo vnus poft aliú currit;vt apud vulgum á villicisparatur ludus,diciturque Řotalupo;primusau tem,qui viribus deſtirutus, currere ne. quit &in terram cadit,fit aliorum cibus, renouaturque ludus ad omnium faturi taté.Hæceſt poitísimaratio huius ſpeci Vhelin ei decremen i, alius enim comedit alii um. Ex Aeliano vt reor, Antimonij in vitrum reductio, eiuſ quevires in medicina. 7ltri ſtibium,quod in longis, & dif ficilibus morbis propinatur, in e. pilepfia fcilicet,melarcholia,podagra, elephanticis, reſolutione, in febribus quotidianis,tertianis, & quartanis,peſti fentia correptis, venenatis, hydropicis, tæphaleis, ictericis, & fimilibus; robu ſtis tamen corporibus, ita præparatur. Stibiū, quod ex auri fodinis colligitur, in puluerem tenuiflimum contunditur, teriturq; & fupra ignem in fi &tilio, rude ferrea,aut cochleari continuo agitando vritur, vſquedum omnis humor,ac fu mus euaneſcat, quod in ſex,aut octo ho rarum fpatio expeditur:deinde calx có teritur, carilloque impoſita,in fornacē inter candentes carbones collocatur, & igne luculentiſsimo vrgetur,dū liqueſ. cat picisiftar,poftea ſuper marnorfun ditur,atq; fic ex Stibij vncirs duodecim, vitri ipfius hyacinthi modo pellucidi, wacja M vncias quinque coliges. Andernacus Co ment-z.Dialog.7.de nou. vet.med. Solo Metronchita auxilio mulieres offepragnantes (omiſsis ceterisindio cys)experimur. Vlta apud fcriptores, quibusin primis menfibus mulieré præge nantem comprehendere valeamus, inu. dicia reperiuntur.Dienntmulti,lorij tab. fpe &tione grauidas nofci;fillud album, clarumque fuerit,in eoque atomi afcen dentes, & defcendentesapparuerint. Alt ex ſuppreſsis menſibus,deie &to appeti. tu,vomitu, & nauſea ante prandiumid conſequuntur.Nonnulliex la & te in.ma millis,ex arterijs gulæ fi plus iuſto pul fant,ex lentiginibus,fi in mulieris facie oriútur,ex tumefa & is mámillis, & a ful co earú capitú colore pregnátes venatur. Cæteri tú ex his, tú ex pódese circa pe dé,ex: vmbilici egreſſu, ſiin dies fit ma ior, ex tumefa &tis venis, quæ vidétur in nariú angulis iuxta lachrimalia. Obfte trices.digitisexperiútur an vteriorificiáfue-fat claufum, vel apertum, ex claufo te nim grauidationem patefaciunt. Non défunt alij, qui Hippocratis Aphorifs mis confiſi hydromel, & fuffumigia e x periuntur,epoto enim hydromelle poſt cenam, fi tormina fequentur arguunt prægnantem eſſe mulierem.-Siilia fuf fumigio acuta per pudenda vfa fuerit, fiadnaresodores non perueniunt ', in dicant vtero eſſe gerentem.Hæc autem figna, quia pathognomica non funt ve lúti futilia reijcimus,& tanquam abſurdaad meros Empiricos committimus. Nonenim ex lótij afpe & u vere mulie rem efle prægnantem diuinare poſlumus,nam meatus vrinarius cum vtero: nihilcommunehabet,lotijque claritasy; albedo,& bulloſa granula in eo,poflunt morbosetiam ſignificare, vtin cachochimo corpore ſæpius obſeruamus; hoc itaque indicium prægnantium verum non eſt:Nonexmenſibus ſuppreſsis,nó ex vomita, &nauſea, ſiue appetitus de iectione hoc conſequimur: quia affc & i oneshęc ex multiscaufis, in m ulieribus, quæ pregnantes non funt, affe &tiones e uenirepoffunt. Non ex lacte in mam millis; quia id etiá virgines habere pof Lunt,vt voluit Hippocr.Inſuper inult mulieresin primis menfibuslacinon ha bent: lacergo non eſt grauidationis ved irum indicium Pulſatio arteriarum gule, ſolito crebrior conceptum peculiariter haud arguit,quia ex retentismenfibus, {plenis & ventris tumore & ex pituita in -pe &tore colle &ta etiam fieri poteft.Len tigenes non in folo conceptuapparent,:: quippeſignumihoc,neque omnibus,nes queſemper competit, & in nonprægnā. tibusetiamifta fiunt.Mammillæ tumes fa &tæ,earumque capitum fuſcus color, communiafignafunt &retentis menfi bus,& prægnantibus.Pondus circa pe & en,non in grauidismodò fed, in rete tis menfibus, in mola, & veficæ calculo obſeruatur, Ymbilici egreffusex mul 6 tis caufis præter naturam fieripoteſt,nó ergo peculiare grauidarú indicium eft, Yenæ tumefadęin nariú angulis iuxta lachrimalia, non in grauidis.modo ap 7 parent, fed in quolibet abdomin's &fplenis tumore,& in occlulis menfi bus. Obſtetrices anatomiæ ignaræ de queunt intimumVteri orificium tange sc,licetmanibuscontractent,illud enim valdeà labijs matricis diftás eft,ipfe au té externá Vteri tantummodo orifici um tractare poffunt, quod femper, & grauidis, & non grauidis apertum ma net, experimentum Hippocratisde hy dromelle, & acuto luftumigio non æter næveritatis eft, vtGalenus & Auicenna comprobarunt. His itaque indicijs vere conceptum explorari non pofle expla natumeft.cognoſcimus tamen ſigno e uidenti & infallibili indicio prægnan tes mulieresin primismenfibusMitren chitæ fue Specilli, quo liquores in Vte rum inijciuntur,auxilio.hoc apud vete. resin magno vſu erat. Profecto;li illius in foramen Vteriexternum apicemin. mittimus, quod fumma cum dexterita te finiftræ manusdigito indice inuenie. mus non enim quilibet inexpertus in yenirefciet, eft ſiquidem externum V. çeri foramé in vuluæ apice particula obe longa, & duriuſcula, quæ exigui penis puerorum exprimit imaginem)ſi ex pice ſpecilli liquor aliquis fuauiſsimus ficut efle vini tenuiſsimi pauxillumine forte exiſtente coneep'u fequatur:abt ortus) exprimitur, breui tractu votum I affequemur, Sienim obturatum eſt in timum vteri foramen, quod fit concep tu pera & o liquor Vterum non ingredi gur,& mulier faftidij njhil perfentiet. Sin autem ex intromiſlo liquore velli, cationem paruam pertulerit mulier: quod facile fiet ex maximo ſenſu parti um vteri,vưiquegrauida non erit; & V teri intimum foramenapertum reperiea tür, vt experientia liquoris oftendet. Sand.Sanctor.lib.1.de vitand error. Periculofum eft pifces frixesin humido locarefor matos fomedere; Nter magna venena piſciú frixorú, quireſeruantur inhumido, vel qui Aeterint cooperti calido vaſculo, eſus eft;bi enim in lethiferú cómutantur ver nenú, &fymptomata pernicioforú fun gorum corporibus inferút, quæ quan doq; non ftatim,ſed poft diem, vel bi duum eueniunt: oportet igitur frixos pifces in loco aperto,vtfrigeant, demita tere, fi venenimalitiam cupimus euita re.Ex ArnoldoVittan.lib.de venenis, 10. Lałtis balneum procorporis decoratie onemultum præftare. Pud veteres lactis Balneum max A idve vu, illiusfiquidem lotione,corpora, & candore, & venuſta te vigebant. Hinc memoriæ proditum eſt Poppeiam Neronis vxorem quin gentas ſecum aſellas ducere conſueuifle, quarü lacte,vt candefieret, totü corpus balneabatur. Mercurialis de Decoratione. Germantantiquitùs corporis firmi tadinimaximèvacabant. M Agna profe &to faude Germano rum conſuetudo,digna iudicatur in corporum hominum vigore confir mando:ijenim legem habuerunt,neant te ætatis vigelimum annum, quiſpianti Venereis amplexibus commiſceretur, recte exiftimantes corporum viresà nim mis tempeſtivo coitu eneruari.Cefar 6. de belloGalico. Fæminas vtero gerentes, libenter: marem admittere:bruta autem grauida nequaquam. ! Olie Vam diſsideatmulier à brutis gra uidationis tempore, bene nouit A rift.7.de biſt. animal. cap. 4. Hæc enim ſigrauida clt, marem admittit,brutoru vero omniumſola equa coitum patitur à conceptų, reliqua autemminime. Ma nifeftifsimum eſthoc in ſpeciehumana mulierem grauidam coitum pati, & ap petere. Cicutam,vterinum furoremex ": tinguere. Icet cicuta inter frigida connume. retur venena, præcipuè quæ in quis, &lacubus inuenitur,furoris tamen vterini, fiue Satyriaſis remedium it. Hic affectus Veneris eſt immoderatus appetitus, cum vteriardore, & delirio, Narrat Diuus Baſilius quaſdam vidifle fæminas, quæ Cicutæ potione rabioſas capiditates extinxerunt.Hoc legiturs. Liebe Homil.fup.Hexaemeron,cuiusverbanotr nulli intelligunt de ciborum appetitu, ego tamen potiusadfurorem vterinum, &ad renereos incentiuosappetitus de ducerem, cuius auxilio compefcuntur: quippe Athenienſes facerdotes cicutæ vfu,libidinisincendia extinguere con ſueuiſſeproditum eſt. Variolas &morbillosmorbos effe no yos, & hereditaria, &paterna prom prietate vagari. Agna eft difcordia inter feripto, origine. Aflerunt multi, hos fub nomi neexanthematum, veteres intellexiſſe, cauſaſque illorum reliquias efle excre mentifanguinis menftrui, quo nutriun fur fætusin vtero, & naturam, fiue calo. remnaturalem, ita exprimunt materiá, & efficientem. Alij minimeà veteribus fuille cognitos volunt, digladiantur que:num vitio.coli,vel ab internis cor. poris principijs apparuerint: quippe Arabes, quorú tempore cæpiffe hic mor buscreditur, eos peftem efle, fierique in pefte, & à corrupto cælo contendunt. de Equidem ante Arabum tempora nul lus-reperitur au & or, à quo morbos hos LT aut generatos, aut clare explicatos ha beamus.Proptereamulti latini, &non nulli inter ipſos Arabes, propter labem menſtrualem, lactis corruptionem, vi &tus rationem, & alias cauſas fieri fcrip ferunt.In tanta rerú difficultate, & ob > fcuritate.Hieronymus Mercurialis vir d octiſsimus, hosefle morbos hæridita o rios,ortúqueà cæli vitio temporeſcrip e torum Arabum, & proinde à veteribus haud fuifle cognitos enucleauit. Adhu ius viri opinionem libenter deuenie, quippęſi à menftruivitio, homines in ficerentur, quia hocab Euæ peccato à mundiorigine fempiternum fuit,debu iffent homines hac menftruorum labe conta&i ſemper Variolas, & Morbillos pari,tamcn vec inprimaætate, nec poſt Noe,nec ante ſcriptores Arabes quem piam hos habuiſle, apertè legitur. Aperiunt iſtorú fundamentum efleiro walidú bruta fanguinea,hæc enim (teſti monio Arift.6.de hiſtor.animal. 18. ) mé ſtruas purgationes habent, & inter cæte. ra Equus,Canis, & Alinus,tamen hæc à Variolis, & Morbillis non tentantur. At quodhuius reimagis negotium conua lidat,eft,Indosante Hifpanorútranſitú nequaquã Variolas paſſos, dirco non à reliquiis nutrimentià menſtruo fangui ne,velab iſtius excremento ortú ducunt Morbilli; quia ſià tali fuifsét variolarú, morbillorúq; origines,vtiq;ij hos mor bos experti fuiſſent. Legitur apud Ra mufiúIndiæ incolas,vitioCęliplurimos Variolis fuiffe extinctos, eoq;tempore, quo noftriáb illis gallicam luem accepe runt, cordemmet viciſsim à noftris Va riolas, & Morbillos recepiſſe.Suntergo hi morbi noui à Cælo productiprimò, cuius vitio adco homines fædati funt, vtin pofterosper hæreditatem maliſée minarias cauſas tranſmittant, proinde morbi hæreditarij dici merentur, quia paterna proprietate vagantur. Ex Mer. caridi. A1 th Dearaneorum telis,earumque ufuo inmedicina. Iro artificio Araneus telas ordi M tur, quibusmufcaspro vi&u ta. piat, hasad Tertianę febris circuitusde pellendos,multi præftantes, & celébres tempeftatis noſtremedici,non fine feli ci fucceflu in vfum præſtitere:fiquidem exiis, & populeo vnguento pilulas pam rant,corporiſque locis,horisaliquot an, - te acceſsionem,in quibus arteriariume uidens deprehenditur pulfátio, colligātas &relinquunt; indė votum conſequun. tur. Ioannes Moibanus. - Natur& cautela inmenftrualimulier rum fanguine purgandomaxi-, ma eft, MalenAgna eſt, in depurandis femina rum corporibus à menſtruali luc, naturæ fagacitas; quippe fi oculos habuerit meatus, quibus lingulis men fibus illam deponere conſueuerit,nouas adi illius expulfionem vias molitur. Proptera.multæ, ex oculis cruentas, laie. chrymas,aliæ ex narium venis farguinis profluuium emisêre,nonnullæ ſputa ru bentia pafſæ ſuntin menftruorum cefla tione.Ipfein quadam ancilla noſtra, cui menſtrua occlufa erant, ex gingiuisſan guinem profundere obferuati.Atquod magnam infert admirationem, multæ per minimum manusdigitum,& per an nularem fingulis menfibusfanguinis fu. fionem habuerunt,vt in religiofa qua dama foeminanon menſtruante ter in fin niſtra manu Ludouicus Mercatus fami. geratus medicus obferuauit. Inter rutam do braſsicam nullam imao effe antipathiam. Xſèriptoribus in re ruſtica malti, fi. fecus rutam feratur, braſsicam illico arefcere tradunt. Aliam von adducant cauſam, & rationem, quam antipathiam, & diſparitatem quandam inter talium naturam.F utile autem eſt hotum argua. mentum, nulla enim inter rutam, & braſsicam.contrarietas eft, quia tamen alte. Elec  NO altera prope alteram areſcit, id in cauſam eſle poteft,quiavtraque calida, & ficca - eft, inde facile euenire poteft, vt ob humiditátis inopiam altera, vel amba i ariditate perdantur. Pediculos morientium corpora miris Jagacitate relinquere. on leue à Medicis præfagium à pediculis in grauibus hominum valetudinibusſumitur. Hi profe &to in moritüris; quandờadeo intenfà eft huis morum corruptela, ve calor innaus re foluatur, vel putreſcat, circaventricule regionem, vel fub-mento, vbi maior eft " ealiditas congregantur,parteſque extrbó mas, tanquam calore proprio orbatasderelinquunt. Quodcalorem proprium penitus exſolui cognouerint, ab infirmi corpore mira celeritate longius abeſle: confpiciuntur. Lemnius. De Achatis lapidismirabili. natura A Chates lapis, qui ex India fertur, tum coloribus diuerſis, tum ve D4 piss TA m  nis variari confpicitur, ex quorum in.. terſectione diuerlæ imagines multoties, fabricamtur.Quod autem mirabilius eft, nuncferarum genera, flores, aut nemo ra,nuncvolucres, autRegum naturales, hic lapis portendir effigies: quippe fer tur in Achate Pyrrhi Regis, & capuri, & feptem arbores in quadam planitie ap parentes extitiſſe, Ex Camillo Leonardo de. lapidib. Ferarum natura in hominibus mie rum in modum deteftanda.. On eſt à ratione alienum, quod de Attila circumfertur, quod Canis more latraſſet: quippe Ioannes; Langius clari nominis medicus ab equi-. tibusComitis Palatini feaudiuifle retu lit, quod in Auftria homine, qui latra. tu,ac curlus pernicitatecumcanibus co tenderet, & cũillisin ſyluis illæfus ve naretur,vidiffent. Hæcauténaturaabfq; dubio deteſtanda eft, quippe tales. im manes ſunt, & in hominum occiſiones procliues, vtAttila crudeliſsimus fuit, NRege in es Ees & in viuentium cædes pronus, à quo tot Vrbes, & populi vaſtati ſunt.. Non modòinfæminaslaſcinire homi: nesverum, etiam brutacernuntur. Omines laſciuire in fæminas, nec nouum,nec inauditum eft cum anebo fub humana fpecie contineantur. Quod autem bruta in eafdem laſciuiant, mirabile eft,Plutarchus in Dialog. Ele phantem in Alexandria fæminam qua- - dam,quæ coronas ſutiles componebat, fuiffeque Ariſtophano Grammatico rio ualem, adamaſſe retulit: A micę,per pla team tranſiens Elephas,&poma, & frum & us donabat, multiſque indicijs, & a morem, & ad fervitutem promptitudi nem declarabat,læpeque à latereafside bat, & laſciuè mammarum loca tange bat,Serpens etiam quidam (teſtimonio eiuſdem )puellam ardentiſsimè adama uit,no & u ad illam accedebat, placide. - que amplectebatur, &à latere dormie bat, luce autem aduentante nulla illata kelione diſcedebat.Parentes,ne à ſerpé tele. t n itas te læderetur, aliò puellam afportarunt: Ille autem ad amicam vltimo peruenit, quá nonmorefolito'amplexa,ſed qui dam amantium ira in illam irruit, ma nuſquepuellæ nodis vinciens,caudæ exe tremitate amicæ tibias verberebat, profecto præreritę fügæ,atqueablentiæ: iniuriam vlcifci videbatur: Quomodofamine vterogerentes: conceptumvaleantoccultare. Aximam Sabini cuiuſdam Roe mani vxoris in occultando conceptu referam ſagacitatem, quo præfi dioaliæ confimiliter,fi optabuntfæmiö. næ à conceptionis.indicijs faciliter oe cultabuntur.Illa quidé dû aliæ mulieres; fecum lauabantur ventris tumorem ce.. Jare cupiens, vnguento, quo ruffas, & aureascomas.reddebat,ab vtero corpus vniuerſumlinire folebat. Illius erat vis pinguitudinem, ſiue carnis inffationem, aut laxitatem efficere, propterea com. Go: lange in corporis particulis vtebatur, Hlud tumeftumrepletumque redde MA bat, ventriſque tumorem ' occultabat. Parabatur(vt' puto )'vnguentum ex res bus rubificairtibus,& puftulas inducend tibus,calcefcilicet,auripigmento, tiap s. fia, & lulphure, hæc enim alijs rebus co --- mifta veteres ad capillorum cultum cad 1 piebát,ſin a.in aliqua corporisparticula applicantur ex magna caloris vijaut hu mores ex alto ad fummum:trahuntur; aut ipfis fuſis.gignuntur:flatus cutis, & extima corporisſuperficies attollitur, & in maiorem molem ducitur.Ex Plutarc... inlib - epwTikā. Fructuum, vinearum,iumentorumga interitus praſagium. Agnun à mori germinatione ca Lpiturpræſagium, mörus enim. ideo à Theophraſto prudentiſsima vocatur, quia omnium nouiſsima gera minat, & pruinis non tangitur: Idcirco fructus, & Vineæ à mori germia minationeà pruinis liberi fünt. Ea tam menquando à pruina lædi contingit(fia: D G quidemosi M Ty & fiquidem læſam in Aegypto, vt in pſala mo77 legimusMoyfis, tempore prodia tur fuiſſe )Colimaximamarguitintema periem,& proinde fructuum, vinearum. que interitum declarat.Atmaius ab vl. mo &perſicopræfagium capimus, quip pèvlmi, & perfici, folia, præter tempus decidentia,peftem inomniiumentorű,. &pecuino genere præfagiűt. Ex Cardano., Fætoremextinéta, lucerna vteroge Trentibus,infeftumeffe,& ini. micuin... Dor extinctæ lucernægrauis,adeo tur, vt in abortum faciliter conducat. Id: alleruit Ariſtot.8.de hiſt. animal.c.24. vbi non modo mulierés grauidas,,verú. didit.Profecto malus odor fi odor. fi prægnana. tjú corpora ingreditur, quia fætus im becilliseft, & à quolibet alteråtur,facili negotio inficitur, eius caro tenerrima, & ſpiritus inde abortusſequitur.. At no Kemelextinctalucernæ fætor perniciē. quoque Ila He 4 i quoquc hominibus attulit, vt carbones in cameris teſtudinatis facere accenficó. fueuerunt. Duos monachos retulit Pe. trus Foreftus in obferunt. medicin..cum nodu cellam ceruiliariamintrașent, vt fæcem cbullientem exportarent,(fortè candela extincta )cum exitum non inue nirent,ſuffocatosfuiffe,ac mancmortu. os effe inuentos. Infania,&furori àfolanofluatico contrattis vinum potentiſsimnmfora gulare eſe prafidium. Olamur. fyluaticum, quodà multis Belladonna dicitur,tantæ eft immani tatis,vtinlaniam, &furorem hominibus eiusacinos.comedentibusinducat, AC cidit cuidam (referente. Hieron. Trago dib.i.hiftor. ftirp.) quiin fylua plantam vi. derat talis calus: hicmultos decerpfit acinos, & deuorauit: altera verò die in tantam inſaniam,& furorem deuenit, vt plerique illum à Dæmone obſeſlú cre derent.Intellecto tamenmorbo, vinum fortiſsimumà. Trago illi propinatum Spelaria D? esto)  eft, quo facto conſopitus,paulòpoft con ualuit, & abfquelslione vixit, Lolium tritico ", alýſque cerealibus: commiftum varia hominibusfymptom mata attulille. Anis,in quo- lolium fuerit, ſtuporem quendam,ac veluti temulentiam efi tantibusparit cum fòmno inexpugna. bili.Id Gatenus afferuit lib.1.de Aliment: facult.Etenim (inquit )cum anni confti tutio praua afiquando fuiffet, lolium tritico affatim ispaſci contigit, quo haud feparato, quod paucus effet tritici prouentus ftatim quidem multis caput dolere cæpit ineunte æſtate in cutemula torum,qui comederant vlcera; & alia fymptomatafunt fubfequuta, quæ fuc corum.prauitatem indicabant, Lolijta. mennocumento acetum efle præſenta Deum remedium iudicatur. Quare tum Htritico,tum abalijs feminibus cerealio busdiligenterloliumfeparandum eſt. Scorpio Scorpioidem herbam Scorpionum: iltus feliciter fanara. Irabilis eft herbæ Scorpioidis in: M Scorpiones potentia,illi quidem huius tactu,exocculta diſcordia exani. mantur, &intermoriuntur, tantam in ter eosanthiphatiam natura indidit.As' quodmirabilius eſt exanimati Scorpi. ones,fi Hellebori albi radice tanguntur; ad vitamreuocantur. Propterea.Scorpi oides,Scorpionum ictibus impoſita fe liciter & citilsimè illorum virus mor, - tificat,viculque perſanat ex, cuius prz. tentancain illos virtute à Scorpione now. men fumpfit, & Scorpioidesdi&ta eft. Mirabilesin biomiwibus proprietatesquase doger adfuiffe. Dmiranda profe &to in homini bus quandoque vifa funt. Regem Pyrrhum aiuntpollicemindextro pede natura habuifle, cuius, taču lies nelis medebatur: bunc cremari eum religae A réliquo corpore haud potuifle perhibet.. De Samplone legitur infacrisLitteris, quod in capillitio mirabilem contineret virtutem, qua aduerfis quibuslibet re fiftere audebat. Veſpaſianūtactu.& fali ua, & fine his quandoquenon paucis af feátibusmedicatumeffe tradunt.Ego e. quidem idiotam cognoui hominē, qui Ipuitione ſola in osinfirmi ranulas per fanabat, &licet primoafpe & u a&u De Monisid perfeciffe dubitauerim, quieui tamen,cum fimpliciter curamagere illú: cognouerim. Dolorem colicum Bubulo ftercore per Sanari. Agnam Bubulo ſtercori" dolorem colicum fanandi indidit efficaciamquippè apud fcriptores legi, & à fide dignis audiuiffe viris afferit Geſnerus, illius potu complures ruſti.. cos fuiſſe liberatos,qui enim ftercus ari dú in iuſculo bibit, ftatim fanatur. Hinc apud multos mosortus eft,vt nonnulli nonmodo ipſum excremét aridum,ve rum.  1 E1 uum recens, & expreflum iufculis ebi bant, & melius habeant. Ego quidéru fticis tantummodo remedium præbe rem, nobilibus vero, ne nausean indu cerem,non auderem,cum nobiliora pro ijs habeamus præfidia, ſufficerent tali.. bus ex eodem ftercore cataplafmata, vt enim reor,ex proprietate tale auxilium colico dolore vexatis,ſubire confueuit. Epilepſiamfrumafqueverbena ako xilio evaneſcere. Aturalis Magiæ profeſſoresverbes: nam (Sole Arietemi ) colle & am graniſque pæoniæ fociatam, contritam, & ex vino albo hauftam per colato, epilepticosinftar miraculi fana. re prodidere.Hoc exHermetetraditur. Nop.minoreft ejuſdem radicis efficacia, quippe collo eius appenfa, qui ſtrumas, patitur,mirū,ac infperatum adfert pra fidiumReferunt Aſtrologi hanc Vene ri effe dicatú, ffrumaſque delere,quod Veneri ancilletur, quæ collo præeft, propter Taurum eius domicilium.. Ex. Durante inHerb. N 1 1 1 1 i Arbores quandoque in lapides commutantur: N Danico mari, iuxta Lubecenfem vrbem Alberti Magni'ætate, arboris ramus inkientus eft cum Nido, & pullis, qui cum in lapidem omnes, cum arboré & nido eflent conuerfi,purpureum ta = men,(vtipfe retulit Jadhuc colorem fa um retinebant. Georgius Agricola eti am memoriæ tradidit,in Elpogano tra étu, iuxta oppidum à Falconibus cog nominatum, Abietes integras cum cor tice in lapides verſås elle,atque, quod maius eft, in rimisetiam porphyritidem Japidem continuifle, quod maximè foc Tertiſsimæ naturæ operibus tribuen dum eſt. Bardanamaiorcum mulieris piero magnam baber ſympathiami quæ MPerfomatia diciturinmulieris yra rum, magnaque eft cum illo eius fym. pathia, quippe illius foliun lämmo ca. pite geftatum matricem furſum tollit, fub planta pedis deorſum. Propterea huiufmodipræfidium aduerſus matri cis ſuffocationes,præcipitationes, ac tiſo locationes præſtantiſsimum à multis iudicatur. Ex Mizaldo, Quomodo literas axrei colorispinger. valeanks. VI T literas aurei coloris habere pole fimus,auri ſolia quot libuerit, eli gemus quibns mellis tres vel quatuor guttas miſcebimus, hæc infimul conte renda funt. ad vnguenti fpiſsitudinem, in ofleoque vaſculo conferuanda, Cum autem ad ſcribendum.huiuſmodi mir ftura vti volumus,aquæ gemmaræ ali quid addendum eſt; vt operi liquorap tior exiftat:ita profe & ò litteras habebi. musincomparabiles. Ex Alex. Pedemono Lano. Qyomodoveftigia; & défórmitates vario lis,&morbillis bomines poſsint. euitari. Ne 92  E morbillos. in facie, corporeque hominum remaneant, expertifsimum apud me, quod in publicam vtilitatem placuit aperire,eftpreſidium,quo vten tes pueri puella quedeformidate, quæ ab ijs relinquitur, carebunt. Cum va riolæ, fiuemorbillimartruerint, & in medio oculi quafi albicantes enricu erint, quod eft fignum bonæ matura tionis,omni die bis oleo amygdalarum dulcium recers. expreffo plura leuiter oblinire oportet, donecexſiccentur, ita profe & ò, vt fæpius experiri libuit, ve Itigia non remanebunt; & quod melius eft,oleum hoc'excoriatas variolasmira. bilíter ad fanitatem perducit. Quantum in hominibus: vfus vene norum valeat. Ithridates fæpè veneno epoto, adeo venenorum tis auxilijs corpus diſpoſuit,vtcitra of fenfam venena ebiberet. Cum autem à Pompeio profiigatus eſſet,atque in ex trema:I trema fortunæ miſeria conſtitutus, è vi e taillæſus diſcedere feſtinabat, quaprop ter venenum hauſit, & pluſquam fatis eſſet,nectamen emori potuit,cum con tinuus venenorum vſus in hominum naturam pertranſeat.Ex Plinio. Inhominibus vermes figura maximè differunt. V 23 5 admodum funt differentes, quippe in quodam Antoniano CanonicoMon tanus obſeruauit.Hiccolico dolore tor quebatur, cuius moleftia Hierameram deuorauit,vermemque deiecit.Erat ille viridis, figura lacerti, ſed craſsior, hirfu. tusq;, & pedibus quatuor innexus.Breui tempore à fera propulſa, canonicus obia ic:contra illa in vitrea phiala aql a plena, per menſes aliquot viua ſuperſtitit. Ex codemMontano lib.4.6.19. Calculusrenum, veficæque in homi mibus, quopacto confumi valeat. Lapil  t Apillus, qui in Tauri veſica,men {e Maio reperitur, magnam habet in conſumendo calculo efficacia. Hic fi vino imponitur, mutato paululum ſa pore, colorem croceum contrahit. De hocvino quotidierecens effufo, donec lapis vino impofitusomnino conſum peus lit, à calculo infirmos bibere opor. tet. Hac enim ratione, nó modo calculú comminui, verum etiam conſumi mul. tos experientia edocuit. Ex Quercetane. Filiosà parentibusfignum aliquod recipere, vulgatifsimumet. " Ilii omnes patrium aliquid, aut aui tum ad vnguema retinere folent,ver Tucam ſcilicet, vel cicatricem, vel effi giem,velmores, autmanuum lineas.In domo noftra omnes à parentibus verru cam in brachio habuimus, & Marcellus filius meus ex me confimiliter. Proue niunt hæc à feminum miſcela, ſpiritu umquevtriuſq; parentis ſeminaliú,auo rumq; effuſione. Proptera etiá ſuccedit, File (fire fi feminain filiorum generatione benc mifcentur,atque in minimas partesiun guntur) vt fætus robuſti euadant. Hac enim rationefpurij robuftiores exiſtunt quoniam ob amoris vehementiam, ve triuſque ſemina multum, beneque.co. ráiſcentur:Ex Cardano de subtit. go D: Marerubrùm in plantisproducendis terre vigorem obtinuiffe videtur, to Adel D mare rubrum afbos nulla in terra prouenit,præter fpinam, quç dipras vocatur. hęc autem propter fer uores, &aquę penuriam rara etiam eſt, quippe non nifi quarto, quintoue anno pluit, & tuncquidem impetuoſe, breai quam te?mpore. At- in mariexeunt plantz, cat quelaurum & oleam appellant.Läu rus arię fimilis in toto eft, olea folio ta tum fru & um oleę proximuin his noftris oliuis parit, & lachrymam -emittit,ex qua medici, Irftendo fanguini medica Hentủ compopunt: Cú auteaquỵ plures inceflerit,fúgi iuxta mare quodãin loco crum HM erumpunt,qui Sole tacti, in lapidem co mutantur. Ex Tbeophr.in 4. de hift.plan. Incapillorum defluuio ex Hydrargynı lac epotum peculiare iudicatur auxilium.. rifabris capillorum defluuium in ducere conſueuit, aliaque ſymptomata; quæ tales in mortis pericula conducunt. Pro huius immanitate, vtiin potu capri no lacte, illudque cum pane commede re,fingulare & expertum eft remedium; quippe ſedata illius vi,atque potentia,à veneni morte liberanturægri, & piliite rum nafcuntur. Ex Foreſto in obſeruat.med. Inter Lupum, Agnum maximam effe antipathiam. Tantralis difcordia,vt ipfisemor., tuis in eorum chordis id etiä eluceſcat. Si enim ex Lupi, Agnique inteſtinis, chordæ conficiuntur, in inftrumentis muſicis applicatas minime concentum vocefque lonoras reddere,fed continuo tadas Bo ta &tas dillonare obſeruatum eft:at quod mirabilius eſt, agninas chordas à Lupi funiculis corrodi, & confumi, fi fimul n repofitæ fuerint,comprobatum eſt. I demde Aquilæ, &anſerum plumis fer tur, Aquilæ enim pluma naturali antia pathia anſerinas poſitæ interplamas, vt docuit experientia eas conlumunt & corrodunt, Quadam pro Epilepſia admiranda reperiun. RiaabHoratio Augenio ioluiscá. (ult.pro epilepfia curanda magne efficacię proponuntur remedia. Primo lococarbo eftille odoratus, qui fub Ar timiſiç radicibusęſtiuo folftitio colligi tur, quiper dies40.infirmis,aliquocon ucnienti liquore exhibendus eft mane ieiuno ſtomacho.confircor ego cuidam, epileptico huiuſmodi remedium ada modumprofuiſſeSecundo loco,Mufte lę fanguis adducitur, hic pręſtantiſsi. mus proepilepfia ſananda cenſetur,au. joris experimento, vidit enim fanatum E epilep probauit, fanari confueuit. Colligitur epilepticum fupra 25.annum,ſolo huius fanguinis vfu potati ſcilicet ftatim at queè venis exiſtadvoc.ij. cum vnaacer. ti:Vltimo loco tefticuli Apri,aut faltem Verris fiueSuis domeſtici-Venere vtéris; &tefticuliGalliexiccati in furno mira biles cenfentur;hi in puluerem tenuiſsi. mèredađi, cum zuccaro mifcentur, & decem continuis diebus epilepticis ad drach.tres,cum aqualettonicæfelici cũ fuccefsu.exhibent. Flatuofam inmembrisconuulfionem lignoce peſcoperfanari, Onoulſio illa, quęà flatu in mufcus lis, & membrisoritur cum dolore, Chanc noftrirampham,ſiue gramphum.yo cát)nodis ligneis à viſco, quod in quer. cubus'adnafcitur, vt experientia com С. viſcuin aftiuo tempore,Sole in Lepois fickere commorante,tunc enim perfectia onis complementumadeptum eft, Dc. bent nodi ligneiillius, loco patienti fu perponi, vtitarimfiatus: diffugiat,pio gui ficco, renuiq; prædirum eftlignum, * aut occulta ratione, vtvoluirCardanus Confiteor,multis taleprælidium ad pre feruationem meconfuluiſie,votumque $ fuiſſe aſſequutosſola iſtius ligni tuſpen y fone. Annult ex bubalorum cornibus | huiufmodi etiam dolores prohibere multa experientia, ex eodem Cardano i obferuati ſunt. Quomodo nonnullorum animalium vent num corpora vostra ingrediatur. Pedido Halangium cum aliquem momor. dit, quamuisparuum fit animal,ex. - iftimare tamen debemus, venenum ex ipſius ore, primo quidem in ſuperfici em,deinde vero in totum corpus defer ri, Præterea marina turturis, ficuti, & terreni Scorpionis aculeus, quamuis ir extremam illam acutiſsimamque par temfiniatur, vbi nullum foramen eft, per quod venenum deijci pofsit,neceffe en eft vt excogitemus ſúbftantiá quianda ineſſe illi,aut fpirituale,autAgidam,qnz E vt mole minima, ita facultate eft quam maxima.Siquidécú nuper fuiſſet quida ict Scorpione, videormihi eſle(inquit) percuſſus grandine:eratque omninofri gidus,frigidoq;fudore perfufus.Quip pe vbi exicta parte,pertotam iplamce leriter diſtributa fuerit venenivis,con tingiteam, endemrurſus.contactu,in fingulas ſubiectarumei partium recipi: mox ex illis inalias continuas, done: in aliquam peruenerit principe:quo tem forémortis periculum inftar. Ad hanc remin primis conferunt vincula parti bus fupernis inie & a, abſciſsioque pare tium venenatarum. Noui equidem ru fticum,quiepoto è viperis medicamen to, reſciſlo priusdigito euafit, ficut, & alium quendamqui ſola ſectione circa medicamen eſt liberatus. Hac Galat. 3. deloc. aff. Mirabile ad Strumas gurturis, ramicem, Adem44 Yemedium. Dmirandum remedium ad ſtru. A mas. Cupreſsi foljaneque teneri. ora,neque duriora in puluerem com di minties, tortiuo vino confperges, atque ita volutabis, dum in fæcis corpus coe TH ant, inde fruma, velramex indecitur, pe tertio primum die foluitur medicamen tum, contractum locum inuenies, quidie o gitis-exprimidebec rurfus ad tres dies idem pharmacum applicabis,eodemque modofolues, &exprimes; feptimodie, vel ad fummum pono, ſtrumæ velut miraculo abolebuntur. Valet etiam ada ramicégutturis, parotidas,omnemdur se ritiem, & ædemata. Hie tollerininhere fit.Chirurg.6... Peftilenti tempore in:er pracipua-prafidia: aeris re&tificatio fummum iudicatur. Mnilaudedignus, omniq; decore admirandus Hippocratesiudican dus eft,qui peſtem illam ex AEthiopia ad Græciam venientem, non aliorepu lit auxilio, quá aeris purificatione.Præ cepit enim,vt per totam ciuitatem ignes accenderétur; qui non è fimplici folum materia,fed etiã beneolenti conftarent. Qua propter, & coronas odoriferas, florefquearomata,vnguenta pinguiſsi magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues igniſpargebant, quo paa Eto aer purusfa & useft,& ijà peſte tuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno. Portaldara fenuinis contra lumbricas: magna estefficacia. Nlumbricis necandis nonmodòPon tulacz aqua ftillatitia aptiſsima iudi.. catur,verum etiam illius femen.Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum effet in mortis periculo Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte fumpfiffe,atque lumbricas multos emiſiſke,fuiffequeliberatum. Quorundam animalium vita terminus con. ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem. Capra o & o. Afinus triginta.Quisdecem: fed vir gregisfæpè quindecim. Canis quatuordecim, & quandoque vigintiTaurus. quindecim. Bos,quia caftratus,viginţi. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-vigioti,&non punquam triginta, inuenti funt, quiad quinquageſimum peruenerint.Colum biodo, vti etiam Turtures. Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui non nunquam ad quadrageſimumperuenit. Ex Alberto Låddoloresarticulares electuariano mirabile. Periam electuarium illud mirabia le, quo ego in doloribusiun &tura rum, & in arthritide cum felici fucceffua nor femel vfus fum. Huius auctor Pem trus Bayrus eft,licetipfe Galenicompofitionem efle dicat in -lib.18: fuæ Praski. Confiteor fubito ſoluere finemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo contemperare, vtmultas viderim, endédie, qua pharmacum acce. perant, à ſella ad locú propriúſine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermos Qua propter, & coronas odoriferas į floreſquearomata, vnguenta pinguiſsi magrati odoris, & alia iucundosodores fpirantia, ciues igni ſpargebant,quo paa cro aer purus fa & useft, &ijà peftetuti fuerunt. Ea fuit magni Hippocratis dia ligentia. Ex Galeno.. Portulara feminis contra lumbricos. magna est efficacia. Nlumbricis necandis nonmoddPon tulacæ aqua ftillatitia aptiſsima iudim. catur,verum etiam illius femen. Narrat enin: Arnaldus Villanoua, quendam puerum, dum eſſet in mortis periculo! Conſtitutuspropter lumbricorum mula titudinem drach.jem. feminis Portula cæ cum lacte ſumpfiffe,atque lumbricas multos emifiſke,fuifíeque liberatum. * Quorundam animalium vita terminus.com ftitutus,quis fit. epusannis decem viuere fertur, & Catus totidem. Capraodo. Alinus triginta.Quisdecem: fed virgregis læpè. quin io rabia quindecim. Canis quatuordecim, & quandoqueviginti.Taurus quindecim. Bos,quia caſtratus,viginti. Sus, & Pauo viginti quinque.Equus-viginti, & non punquam triginta, inuentiſuật, qui ad quinquagefimum peruenerint.Colum biodo, veietiam Turtures, Perdix vi. ginti quinque, vt &Palumbus, qui nons nunquam ad quadrageſimum peruenit. Ex Alberto Laddolores articulares electisarianos mirabile. le,quo ego in doloribus iun & tura rum, & in arthritide cum felici fucceffu non femel vfus fum. Huius auctor Pew trus Bayrus eft, licetipſe Galenicompo fitionem efle dicat in lib.18. fuæ Brasti. Confiteor ſubito ſoluere ſinemoleſtia, ignitum caloré extinguere, & membra patientis adeo contemperare,vtmultos viderim, eadédie, quapharmacum acce perant, àſella ad locú propriú fine alte rius auxilio languētes redire. Capiútur Hermodactylorum alborum à cordis fuperiorimundatorum, & Diagridii an.. drach.ij.cofti,cymini,zinziberis,cario phyllorum an.dracij.trita, & cribellata conficianturcum fyrupo fa & o exmelle, & vinoalbo inuicem coctis,donec ſyru. pi bene codi formam recipiant. Dofis eſtà drach. ij.ad drac. iiij.fecundum in firmi tolerantiam. Auctorconfitetur ter ab huiuſmodi doloribus fuiffe correp tum,& femperinaurora huiusele & uarij (quod Diacoftum vocat )vnc.ſem, acces piſſe, & in vna die conualuiffe. Ego dia-. gridium in minoridofi,exhibuifemper & beneſucceſsit. Periculofumeft Bafilicum continues adorari. Vantį ſit periculi, herbæ Baſilica frequens odoratus plenus,ex Hol Jerij exacta obferuationeperfpicitur. Quidam enim Italus ex continuo eius odoratuin vehementes, &longos inci-. dit dolores capitis ex Scorpionein cere bro epato,cuius caufa morsconfequuta eft ck Ratio apud aliquot huius euentus,ea potiſsima eft, quod Bafilici folia ſub te. ftafi & ili putrefaéta in Scorpiones mu tentur, ex quo arguunt, frequentem o. doratum animalcula quædam Scorpio onuminftàr, in cerebro geocrare. Vte cumque tamen fit, Bafilici odoratus ad Syncopim, & animi hominum deliquia, mirumin modum prodelle compertum cfts Piſcem Torpedinem, dolores capitis àcaufa calida feliciter fanare. Nter fele & a, & quae dolores capitis à caula calida auferunt remedia,Tor. pedo piſcis eft. Aitenim Celfus, quem ſequutus eft Seribonius Largus, huius Puciscapiti affricatu,adeo tales dolores remoueri vtin pofteru redire nequeant. Cauſa torpedinis qualitas eft,ipfa enim viua in mari, & procul, & à longin $ quo velfi haftá; virgaveattingatur,tor porem piſcatoris mébrisinduceredici. tur, vt Plinius lib.23.prodidit. Idcirco etMatthiolus dixit) mirum non eft huiuſmodi affe& us, quodam ftupore: feliciter ſola confricatione fanare. Queex occulta natura proprietate fiunt, mirabilia videri. Aturæ arcana femper hominibus, admirationem præſticere:ratio eſt,, quia caufas ignoramusproprias, & pro.. pterea in ſpeculandis his ce pitamus, necaliud nobisreftat, quam føla admi. ratio. Quis enim non admiratur, cur: Hyænæ vmbræ conta & u, canesobmya. teſcant?Cur Eryngium ore Capræſum. ptum totum gregem fiftat? CurGallina, appenfo miluicapite nunquam quiefcea. re valeant? Curappenſo allij flueſtris capite in ouis collo, quz in grege omnes antecedat, Lupi ouibus nocere neque.. ant? Profe &to hæc mirabilia funt, & in refum fympathias, & antipathias, & na-. turæ arcana reducuntur. Nonnulla animaliareiuuenefcere: proditur. Agnum natura quibuſdam anie. inalibus pro fene&tute euitandai, COA conceſsit releuamer, Ceruus enim elu, ſerpentum renouari dicitur, quippès dum fentit fene&tute fe grauari, ſpiritu, per nares è cauernis ſerpentes extrahit, fuperataque veneni pernicie,illorum: pabuloreparatur.Colubri quoque alijq; ferpentes quoniamper hybernas latebras. vifum obſcurari ſentiunt, primo vere, maratro, feu feniculo feſe affricát,illud, que comedunt, ita vifum recuperant, &, exacuunt, & vetuſta tunica depoſitag pelleque priori reiuuenelcere dicuntur.. Qgorandam animalium carnes ad vitæ lorem. gitudinem palere. Longifsima vita aliquorum ami.. malium vel eorum proprietate, multi fapientés vitæ longitudinem in hominibusinuenire conati funt,volunt enim carnium efu longæ vitæ animali um,vită poffe produci, re& ecenſulen. tes ſolidá nutrimentă,multú,diùq nutri R, & à morbis defendere. Hac ratione Ceruicarnesprecipuè iuuenisadlógitu L6 dinem vitæ valere autumant, Reculit Plinius quafdam nouifle principes fæ minas,omnibus diebus Cerui carnes de paſtas, & longo ævo febribus, caruiffe.. Dioſcorides lib.z.longam ſençđuter cos agere dixit, qui Viperę carnibus, veſcuntur.Propterea Pliniuslib.13»An tonium Muſam Cæſaris Augufti medi cum dicebat, Viperas in cibis ijs dediffen qui ab vlceribus incurabilibus affligea bantur,ratus hoc auxilium, vitam illis, producere,atque omnesſanafle.Exlib.3; Conuiuij noftilitterarij. Abfürdan, ridiculain effe Paracelli opic. nionem,de homunculi inpbialia vitrea g !.. meratione, de partu. NPara Onmodo ridicula,ledinfanda eft: Paracelfi, damnatæ memoriæ opi-. niode homymauliconceptione, & partu.. Scripſitenimex feminehumano in ama pulla vitrea. conie & o:;: & aliquandiù: fub cquino, fuma, Itabulato, homun-. Cului culum gencrari. Vt autem hanc hypo.. thefimfaliam ille impiusdoceret, exo uo fumpfit conie &turam,quod cum op ſeruaret in loco calido concludipofle, & ex eo tandem pulliim excludi, perſuaſit hoc idem in humano ſemine in vitreo vaſculo reclufo poffe contingere. Sed vana, & fabulofa ſunt eius figmenta, fi-. quidem ex putrefa& o femine, in an. pulla fub fimo recondita talis homun.. culi partus fieri nequit, qualis enim eft cauſa,çaliseffe & us conſequitur,proinde ex putrefacto nihil,piſi corruptum ori.. tur. Infuper in fetusconceptu,vt ex fa. ais:diuiniverbidecretis capitur,ſemen virumque viri: &mulieris concurrere opuseft, præterhęę conceptio haud ori turniſi. fuerit vterus benetemperatus, tanquam hortulus à Deo deftinatus ad hanc prolem, cui fanguis maternns fi mulaffluar: quippè fi.materni- fanguinis deficeretappulfus,necfemenaugeri,nec ali planıę inftar, necpartes conformari pollenr,, vt omnium philofophorum E. 7 conſenlus eft. Ad hæc inter fætum, & vtero gerentem fympathia quædami requiritur, vr calorem, & nutrimená. tum à matre recipiat, & à fætu viuena te inatsis calor augeatur: & abia' ad cona coctionem, & produ &tionem feliciter fuccedant. Quæ omnia fallain effe Pas tacelfi coniecturam atgtrunt: ille enim non perfpexit in ouofemen, exquo puls dus fit, fimulcum alimento vernaculo conferri, & in teſta per fe porracea tans quam invteroquidemconcludi; ex qua pullus ali, & refpirare pofsit Semen vero humanum caloris, & fpiritus Cu iuſdam viuifici particeps, &conforss quorum vi, & beneficio fir generatio, antequam in vitream ampullam per funderetur, eodem temporis veſtigio exhalaret, & conceptio euanefceret: Hue aceedit, quod deeſt fanguis, quo femen nutritur, & augetur. Adde quod per ampullam vitream, fub fimo recon ditam tetas fpirare nequiret confuta.. maergofunt Paracelfiftarum fomnia,& fabula fabulofa eorum magiftri conie & ura; & vana de homunculi partu affertio. Ex. Georgio Bertino Campano. In Armenia nines rúbentes fieri. Iues omnes(fublata philofophand tium ratione)albæ funt, & ita ius d cat fenſus, vtnon immcrito Plinius lib. 17. capite z: niuem vocaverit cæle ftiumaquarum ſpumam. Nihilominus Euftachius Homeri interpres, in Ara menia niues rubentes confpici retulit. Harumcolorçm multi fapientes rummi Aantes, non natura niues rubentes fieri, fed accidentaliter illic voluere. Illa enim loca minio luxuriant, cuius colo re ex halātiones, è quibus in Armenia ninesgenerantur, pallutæ, rubedincm. acquirunti. Pro quartana febrejſalitaremedia. A Rnaldus Villanoua pra fecreto ha. buit in febrequarrapaexhibere taxi barbaſsi radicem ex vino per dúashoras. mote acceſsioné, & Dominus osdecorde: Ceruiad drach. Itidemex vino alterator di& amocretico, ſaluta, chamedrio, chamæpithio, &myrrha ex fucco abfynthit ad ſcrup.ij.caftorei eriam, & bituminis anſcrup. ij. ex vino: Alij,vt quartanam excutiant, infirmis dum in acceſsione affliguntur, timorem ex improuifo incu tiunt. Proptera Titus Liuius fcripfit, Quin & umFabiuin Maximum in con fictu febre quartana fuille liberatum... Terra Lemonia contra venena miram: babet efficaciam. Nterpræſtantiſsima auxilia contra venena,terra Lemniaconnumeratur, quæ ad Cantharides,& adLeporem ma rinú adeò pręſtat, vt quadam proprie. tate, deuorata, omnevenenum per vomitum expellat, quemadmodum mul tis experimentis hæc omnia didicifle. Galenusconfitetur, Lumacalapidem,partümulierum facilitati. Icitur Lumaca, lapidem nobiliſsi.. me virtutis in capitcretinere, qué fi trio I tritum ftranguriofis liquore aliquo conuenienti dederis, vrinam foluere, i breuiterq; fanare comprobatum eft. AL mirabilem baberingrauidamulierecó. Senfum:quippe appenfam fi ſecum por tauerit,in abortum minimè incidet, fin autem tempore partus tritam,cum vino capiet,multa facilitate pariet: fiquidem lapides himeatusmuèaperiunt, è qui-. bus fætui facilior datur tranfitus. Ex: Ifidoro.. Kamum fympathian in aliquet bruto mirabilem. elle Izaldus lib. 1. arcan: &Podinus: lib.3,theat.nat.obſeruatű,exper tumque audiuiſſe aiunt,Vaccam,Quem Equam, Afellam, Canem Suem, Felem; fimiliaq, foeminei generis animalia do meſtica, & manfueta, dum vtero gerunt, autinterire, autabortum parere, fi mas ex quo conceperunt,ma&tetur autocci.. datur,tam valida eft,ac vehemens-illo rum inter fe fympathia. Hoc autem an verum fit,confiteor, menondum fuiffe expertum.. oletno Oleam -arborem puritatis virginitate of amantifsimam. Liva fimanuvirginea plantatur, & educatur,,vberiores fructus præbe redicitur:, vſque adeo puritatis eſtamā tiſsima, & labis nefcia. Hacde cauſa, ve Teor,abantiquis ſapientibus olea, Mi neruæ dicata, & confecrata füit. Audiui equidem àmultis, alearum à laſciuis mulieribus non femel fuifle collectas fructus,calq; fequenti amo parum fru & ificaſſe,ExCarolo Stephanointideraruftia Aftronomiam Medicis effe neceffariam. PRudens Phyſicus Aftronomiam in telligere debet, aliter perfe& usMe dicus effe nequit.Cum autem ægros -Cųe rare intendet, Lunam afpicereoporte bit, fi enim plena cſt,crefcitfanguis, & humiditas in homine, & beftiis, & me dulla in plantis, ita voluit Hippocr.inl. dediſciplina Mahemas: qui apud Galore peritur.Cum ergo quis in morbum in ciderit,fi Luna è combuſtione exit,tunc iei creſcit infirmitas vfque ad oppofitio bis gradum, quo tempore per a &to cceli themateaſpicienda Luna eſt,an cum alia quo planetarum ſocietur fortunato, vel & infortunato;numin malovelbonofue. titalpe & u; & an dominúdomus mortis. afpexerit; ita enim de morte, & vita; de morbi longitudine, & breuitate infire morum accuratiusconie &turarepoterit.. Ex Hippers. 10ak. Ganjucto. Saturni,Martiſque coniun tionem inTauro, Bobuspeftilentiam pradicere futuram. A. Strologorum ex multaobſeruan tia decretum eft, cum Saturnus. Hupiter,& Mars, vel iftorum duo fimul iun &ti fuerint ſub humano figno, cona. currenti ad eam ftellarum fixarun vea Denoforum animalium afpe & u,morbos peftilentes hominibus effc futuros. Ex diuerſitate autem Zodiaci brutis quan doque contagium appariturum, faluis hominibus. Vnde notat Auguftinus Sueſſanus in comment.Apotelaſmatum Pro. Lomai,non multis ante annis,obferualle, cum SaturniMartiſque coniun & io in Tauro horrendiſsima frigora'excitallet, magnam Bobus calamitatem eueniffe. Ques autem licet imbecilliores, füper tites tamen fuiffe. In Boues tamen pe ffis illa defçuit propter cceleſte fignum, ad quod terreftris Bos refertur. Quæfi fuiffet in Ariete, forfitam in Oues graf fata effet. Anno 1479. in figno humano Martis, & Saturni fuit coniunctio (tefti monio Ficini ) & peftis crudeliſsima ho mines inuafit,,vt& prius anno1408. & omnium peſsimaanno 1345. ex trium Planetarium infimul conjun & ione. suffiiu bituminismulieres ab byfterice '. 3 Vltis experimentis comproba audio,, lieres ab vtero ſuffocatas lubitòad ſanie. tatem reuocari, & quod mirabiliuseft, Hyſterică extemplobituméacceſsionen corrigere, fiue crudum, fiue vſtum mu. licrum naribus admoueatur. Propterea mulieres,quętali pafsioni obnoxięfunt lans paſsione liberari. CA lana exceptum, fiue goſsipiocolloap penſum,Medicorum conflio (Mizaldo · auctore ) in romullis locis habent, vt e, crebo olfactu paroxyſmum arceant. Cantharides quandoque ſolo olfa & u fangui. nens, veltactuècorpore euacuajſe. Antharidumvis, & venenú in fane guine purgando per vrinam, apud paucos incognita eft, quippe in potui ex ceptas non modò veſicam exulcerare, verumatque fuffocationes, & horrenda ſymtomatainducerecomprobatum eft. Imò tantæ feritatis funt, vt quandoqué & tactu,vel olfactu hec efficiant,vt cui damchirurgo Mediolani ſucceſsit, qui bis fanguinisprofluuio correptus fuit per vrinam,folum portando cauterium ex cantharidibus in Byrfa. Ex Micbarle Rafraljo. Podeortum fit adagium, Naniga Anticres. } MXneotericisMedicis,nigrum Vlta obſertatione &à prioribus, & neotericis, helleborum ad infanos, & mente captos peculiare auxilium eſſe, probatum eſt. Huiuspotio licet periculoſa fit, cú cau telatamen fumpta, mirabiliter ijs pro deffevidetur. Hellebori virtutem De. moſthenes innuere volebat, dum acti. onem mouens Aeſchini, vt ſeſe pur. garet helleboro dicebat.Hoc in Anti. cyris duabus ele&tiſsimum, & magniva. loris naſcitur, quo nauigare oportere a dagium, quiab intania Canari cupit vt Strabo lib.9.Geograph,loquitur. Hinc Stephanus deHelleboro loquens addit, Anticorenſem quempiã fuiſſe, quiHer çulem dato Helleboro infania libera uerit, Grauidas simio fale prentes, parerifetus fine vnguibus. Noneftàratione aliepum, quodab Ariſtot.dicitur 7 de biftor.animal.c.4 mulieresgrauidas, fi nimio ſale in cibis vſæ fuerint,fætusparere finc vnguibus vngues enim,vt dixit Hipporc.in lib.de care FOS. 1 Carnibusex glutinoſa, & viſcida materia geperátør, hincaecedente Galitorum v. Tu,materia illa viſcida adeo attenuatur, &adimitur, vtfacilè illorum ortusde. ficiat.Comprobatur hocetiam in ladá, tibus, quibusex aſsiduo, & nimio ſali torum vſu,lacomne, paulatim deficere conſueuit. Oui badiin conuiuijsiucundi, feftiuiquelas beantur. N conuiuijs profecto,vt hilariter'iu: Du { 11 X G 3 epulétur,tron femel ludi aliquotper io cum apparantur qui omnes in iftanti um riſus, &cathihnos mutantur. Inter multoshi erunt Feftiui:Si lintea;& map pæ calchanti puluere confricantur, qui foti fe deterſerint ea parte nigrifient;li ceti lintea prius candidiſsima apparue. sint.Si cultri fuccocolocynthidis, vela fòe ta & ifuerit,amara oíaex ijs incita le tiétur:ex afla fætida autem cuncta fæti da audientur:Si fuperpaſtillos nuper e fixos inſtrumétorü chordas minutim in difasproieceris inftar vermium à calore V contracte apparebunt, naufeamque rei inſcijs mouebunt. quibus vinum potui dabitur,cui caftancarum cruftæſubtili ter tritæ fuerint inie & xà ventris «crepi tibusſollicitabuntur. De amorisorigine aliquet controuerfia. OlentesPhyfici amoris originem, velpotius furoris amatorijreperi te indaginem,ex correſpondenti homi num complexione, leu verius ex con formi ipfius fanguinis qualitate,nempe calida proficiſcivolunt, hancenim como plexionem valde amorem gignere af firmarunt, Aſtrologi inter eos amorem exiſtere aiunt, qui in codem aftrorum gradu conſiſtunt,vel qui in aliqua con Itellatione ex æquo participant, & con formes ſunt,tunc enim fe redamare có. fingunt. Alij Philoſophi amorem naſci afferuerút, quoties noftra luminainde. fideratumobic&um conijcimus,voluat cnim quoſdam fpiritus ex ſubtiliſsimo, puriſsimoque fanguine cordis noftri in rem concupitam exhalare, acque ocyſsi * IN me ad mè ad oculos noſtros recurrere, ibique a in vapores'& 'humores refolui,quifen. fim ad correlapſi, diffuſiq;per corpus, in oculis, rei dilectæ quandam idem, inſtar fimulachri, & imaginis,non aliter, quam in fpeculo macula permanet ve nenofi oculi, vel menſtruatæ,auriginoſi, aut fimili aliquo morbo infecti, impri munt.Hacde caufa miſerum amafium, hiſce nouisille &tum fpiritibus,qui natu ralem fuam fedem repetunt, & ad cor permeant, perditam libertatem fuam dolere, lamentarique cogi affirma. Nonnulli autem naturalis fcientiæ ad. 'modum ftudiofi,cum multa de amoris fcaturigine eſſent imaginati;nec veram tam furiofi morbi originem inuenif. fent: in hæcproruperunt:Amorem effe neſcio quid,natum neſcio vnde, qui vee wit neſcio quomodo, &accendit nefcio quo pa&to,certam aliquam rem, &per ſonam. Hominem apud Indos longiſsimam pitam babuiſſe. F Apud Lufitanicæhiſtoricæ fecènti ores ſcriptores(interquos eft Fer din. Caſtanneda:)fidei probatiſsimę, longa narratione, & certa, cuidam nobia li,apud Indosannorū, quibus vixit tre. to centorum, & quadraginta fpatio,iuuenis tæ florem ter exaruiffe, & ter refloruiffe: inuenimus:atque ex cuiuſdam Epifcopi relatu nouiterpercurrimus.(Hocprofe to mirabile eft, & paucifsimis à Deo conceſſum. At non minori admiratione illud dignum eft,quod à Langio de Or benouoproditur,inſulam quádam fu. ifle repertam, Bonicam nomine,in qua fontis reperiatur ſcaturigo cuius aqua vino preciofior fenium epota in iuuen tutem cómPomba. Ex lib. 1.debominis vita, vbi de Priorifla anu facta, & reiuueneſs eente fcribitur. Hydrargyriminer aquomodo inueniatur. Ńter metallica ônia,hydrargyro ex cellétius vix inueniri aliud cryditur, cum ad infinita tale accómodetur.Soler tiinduftria opus eſt, vt vbi eius mineræ fit ſcaturigo coniectores deprehendant; propterea menſbus Aprilis, & Maiiſub aurora, ſereno autem cælo afcendétes, vapores in montibus fpe & ant; ſi enim inftar nebulæ fuerint, non altius feat tollentis,fed humillimæ, ac quaſi terrae ad hærentis, argenti viuiibi ſedem eſſe allequuntur. Ex Cardanode Subtil. Aqua mirabilis pro viſus obfuritate. Periam aquam, quam ſcribuntre ſtituiſſe viſum cęco nouem anno. rum.R.ſucci apij,feniculi, verbenæ,cha medryos, pimpinellæ, Garyophilatæ, Caluię,chelidonię,rutę,centinodię,mor { usgallinæ,garyophyllorum, farinæ vo. latilisan.vnc.j. piperis craſsiuſculètrití, nucis muſchatę,ligni aloes an.drach. iij. Omnia imergătur in vrina pueri, & lex: ta partevini maluatici. Bulliátbreuite pore, tú exprime,& percola.Repone va le vitreo benè obturato.Hora sóni fingu. las guttas ſingulis oculis inftilla. Holler. Roris marinipraftantiſstma'virtutes, Lanta illa, quam Romani, & Itali Roſmarinum dicunt, inter plantas: nobiliſsima eft, magiſque quam ex F 2 iſtimetur excellens, quamuis mulcitu. dine, & frequétia vilefcat.Eftenim fem per virens,nulli nocens, & multis infir mitatibus inimica maximè comitiali morbo, quiferè dæmoniacuseſt. Radix eius cum melle purgatvlcera, tormini. bus medetur, & medendis ferpentum i & ibus cum vino bibitur.Prodeſt etiam contra morbum Regium in vino cum pipere. Et tanto contra maiora mala præualet, quanto maiori gaudet tutela, & fauore cæleſti, à quo omnis virtus confouetur. Naturefagacitas in difficillimis morbus fac mandis magna ift. Agna eft naturæ fagacitas in ali quot morbis ſanandis,qui medi. corum auxilijs perdifficilc eft,vt ad fa nitatem perducantur. Ketulit Alexan. der Veronenſis lib.2. Anatem.c.9.tr ulie rem Venetam,acum crinalem, qua cirri capillorum intorquentur, quatuor die gitorum longitudine ore detinuiſle, dú obdormiſceret, fomnoque ſopitam de M glutif Etv ghuiuifle: decimo autem menſe, quod m mirabile eſt, per vrinam eminxiffe.Lan. Er gius etiá in alia iuuencula,quæ aciculam deuorauerat, id etiam eueniffe fcribit, e Naturæigitur induſtria maxima eſt. * Lapidis compofitio ignē fricationereddernisi. Ricatione cuiuſdam lapidis facilli meignem excutere poterimus. Hæc eius eft compoſitio. Capimus ſkyracis, calamitæ, ſulphuris, calcis viue, picise an.drach. iij. Camphorædrach.j,Alpalit. dre iij critahæc pobanturinvalesce Teoroptimèconcoctecca Hapidécouertátur.Hic panno fricatusu ceditur,fputo veròemoritur.ExRole! Naturam beftis,ad corporis t ütelammulta remedia indicaffe. PlurimaşürNaturæ beneficiaquebê ftiis fuiffe conceffa legimus.Hæcpro fectoruminans Plutarchus, præadmi. rationeinextaſin raptus,Maturan mulo.. to plura in pecudes, quam in hominem contuliffe dixit. Quippefibeſtijs Fors bus accidit.Naturamoxantidotum in F dicauit. Hinc Palumbes, monedula, merulę,perdices, Lauri folijs deguftatis humores fuperfluos expurgant. Lupi, Canes,Feles ſięgrotant,vel li excreme torum colluuie ftomachum, vel viſcera oppleta fentiunt, gramina comedunt ra, re perfufa,herbam frumenti, &rapiſtru decerpunt:quibus ſtomachum, aluumg; exonerant.Columbæ,turtures,pullique gallinacei in morbis heliofelinum degu far. Teſtudincs morſus ſibi in flictos ci cuta perfạnant.Cerui volnerati dictami paſtufagittas, excutiunt.Ivuiteladůmu res venatur, ruta ſe munire confueuit,. vc validiuseosoppugnet. Vrlimandra-. * goram quærunt in mala valetudine. A. priauté egrotanteshedera ſe colligunt., Ceteraverò animalia pro virę tutela di uerfa alia retinent auxilia.Ex Arifter.pl njo,Nipho,&aliis. Lapidem Aetitem mulierum partus. accelerare. Maison Agnam intulitnatura Aetitilapi. diin partu prægnantium accele rando efficaciam: quippefiearum coxis argento cóuolutus partu inſtante fuerit ligatus, miram ytero generabit láxitam tem,ex qua prægnantesfacilius parient. Ab Aquilis pręlidium hoc'captum reorg illa enim dum arctiores ſe ſentiunt & oua cum difficultate pariunt, Ae titem quærunt, ex quo laxiori matricis orificio facto,leniusoua excernūt.Hinc Aeritis S-apis, Aquilinus di & us eft, quiaz Aquilă hos in nidum portant,ibiq;verii reperiuntur. Intellexi ex feminis, pria marias aliquot hos lapides in vſu,& pre cio habere,beneratas partuslaboresfu Bleuare. Hellebori nigriradićem, Viperemorfus in bon Aysſanare. (N magna æſtimatione apud multosis Helleborinigri radix habetur, ipſa enim inter carnem, & pellem iumentià Vipera demorfiinſerta proculdubio faa - mat.Confiteor profe &to fubulcum qué dam porcorú numerüigne perfico, fiue cryſipelate peftilenti pollutum (hunc morbum vulgares, eo quod porcorum caput in excreſcentiamagná deuenit,apo pellap (męobſeruante adfanitatéducti funt.. pellant Capoatto.) fola huius radice om.. nes incolumes feruaffe.In porcorum au. ribus cultello circulum ad viuum fane guinem formabat,deindecentro,ex ſtye. lo ferro perforato,radicisfruſtulum éfo. fingebat, ad paftumý;porcosmittebat, ita equidemſolo học auxilio, omnes Hippiatros in equorum faciepitorum euul, maculas albasfacere. N hominum canitie frequentescapil. larum euulfiones, vt nonnulliin viu habent,vituperantur, eo quod illorum cuulſa niaior generaturcmitics:Hippia atri enim cum maculas albas in equo-... tum facie fingere intendunt, frequeno tiſsime pilosextirpant, qua continuata euulſione,pilos excreſcere albos exper tum eft. Queapud Veteresmagis erantcelebrata: pectaculam Nterorbis terręcelebrata {pe& aculag, Mauſolæum, hoceft: 9.Maufoli ſepul chrum  ES Noun ehrum;Coloſſus folis apudRhodiosios uisOlympici fimulachturm,quodPhidias -fecitex ebore:MuriBabylonis,quos ex. citauit Regina Semiramis; Pyramides in Aegypto; Obeliſcus in via nobiliſsima Babylone à Regina ſupradicta erectus, Rodigingso Marinum Vitulum à Cåeli fulmine non mo leftari. O pauci ſunt ſcriptores,quiMaria num Vitulum, (multa obferuatiu. one peracta) à fulmine incolumem effe perhibent.Propterea Seuerum Imperaitorem Lecticam fuam Vitulimarinico riocontégi voluiſſe legimus,hoc enim animal ex marinis, à Cæli fulminemio nimè percuti audiuerat. Inde fa &tum elte vt veteres, pauidi,pefulmine ferirena tur, tabernacula ex iftiuspellibus con-.. tecta retinerent,ita profecto àCæli fula. mine præſeruari poflcputabant. ExPline. Captaminter bruta maxima Epilepsia tentari: Ippocratesin lib. de facro -morbou: H Fs (si liber ille genuinus eius est) vt ab ' Èpilepſia homines præferuari valeant monet, neque in caprina pelle decum. bendum effe,neq; eandemgeſtare opor tere,beneratus tale animal; maximè ab Epilepſia tentari. Hocetiam Plutarchus rerum naturalium perfcrutator indefef ſusaſleruit:propterea veteresSacerdotes ab eius carne,ve morbida,abftinuiffe fe runtur, neguitantibus aut tangențibus. modo, aliquid eiusmorbi induceretur.. Dinum in Asthmatisçura ſele &tiſsimim.". V TInum pro fanando Aſthmate ab, mo, quo pater eius cum fælici ſemper: fucceflu vſus eſt,adducitur. Habet yie. ni dulcis, quaie potiſsimùm Verpacia eft,non craſsi,ſedtepuis,mellicraticoctii an, lib.decem:puluer. Foliorum Tabe. bacciexicc.in vmbra vnc.j radicum polypodii quercini recentis,acminutiſ.. fimeconcili ync.iij.radicum hellenij re.. motomcditullio,& inciſarum unc. iij..:? macerentur horis 48.poftea verocolentur per manicam Hippocratis vocatam, conſeruetur vinum inloco frigido. Dá - tur vnc. vj. pro vice; ſingulis diebus,; horis ante prandium quinque. Homines a phrenttide correptos sania fortiores fierii On pauci admirantur, cur homi. nesphreneticiflicet in ſanitate debiles fuerint prius ) ipfis fanis fortiores: euadant?Equidem à morbi naturato- · tum procedere verendum non eft: cum autem in phrenitide magis, ob exficcationem lædantur nerui fenſitui, quam motiui, nulli dubium eft, tales quo ad motum ipſis ſanis fortiores, & debilio. res, quo ad virtutem fenfitiuam fieri;: ratio omnium eft,quia operationes,ner uorum fenfitiuorum humiditate magis perficiuntur: fecusmotiui. Huicadiun gitur, quod phrenetici (mente læſa ). doloremnon fentiunt,idcirco fortiores.com Ek Arculano. Tuberum efufrequenti, bomines in epile Pliam incidere. 2 M2Aximopere (ve valuit Simeon Zethus) ſuberum continuattis v fus vituperatur: adeo enim hornines crebro eorú eſu afticiuntur, vtepilepti ci;vel apoplectici fiant. Apud veteres autem in pretio habebantur,illifq; cum Colo quandam affinitatem,nec niſi to. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vnde Iuuenalis: Facient optat atonitrus CHAS - Offri de corde Cerui à morfibus venenofas; hos minespreferu476. Irabilis eſt profecto oſsiculorum, proprietas, quæ in Ceruorum; corde reperiuntur;geſtata enim ad præ feruandiim à beftiarum venenofarum morſibus, & i & ibusmaximeproſunt. In officinis tanquam præſtantiſsimum an.. ridotum contra venenum, & febres pe tulentes,hxc eſſa conſeruatur, &cum feelicifucceffu mediciindiesad hæc valere experiuntur:: multi tamen pre. ofic.cordis ceruipi, os.bubulum tradunt in magnam languentium perniciem, & ped.com M propi eterمه 27 that medicorum afamiam.Ex Alexan.fro Be Pedido. Hemicranian lapide Gegatisſummoueri. MW Vleo experimento Democritus: Hemicranian, lapidis Gagatis ſo'a ad collum appenfione tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geftatum ſeinperniagis ponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo. rem,à quo dolor in parte cranij fufcitam. tar proprietasreperiatur.Mercurialis. Epilepritof non perpetuoconcidere nee quefpumam facere. Vicomitiali morbo laborátnánili in magoa ventrico !orum cerebriz cralo s humoribus obftru & ione conci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs cauſis, vtin quadapu.. ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexorefpumam emito. tebat. Sedſtanscaput hinc indecücere wice  uice, ac fi quid infpicere vellet mous bat; nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur, inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Cauſam Beniuenius exiſtimauit, quod non caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non ferretur,cumfolus va por ſurſum aſcenderet: ex quonullor gore cerebrum ipfum intentum, abot dinatis motibus-reliqua membra pre feruare potuit. Vermes rubros in hominum cerebro, in qua dam epidemia natos effe. y Beneuenti,cum multi ignoto morbo decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem cubeum breuem inuenerunt, quem cum mulrismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino-maluatico vltimo decoxerunt,quo vermis occilus eft,atque hoc eodem remedio deinde - mili morbo, quali epidemico affe & i omness. Omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne tỷ Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. TOn femel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur è capite capillos decidere expertumelt. His facilliinè fuccurritur huiufmodilia nimento, quo 'capillorum defluuium non folum amouetur verú etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, & oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput v niuerfum linitur; breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulije.. ftrum baudelt, remedia, quæ ab Kempricis adhibentur, morté aliquádo hominibus attulife, ij a. nulla ra. tione, nullaq; methodofuffulti, fed fola experiméti indagine,nec caufasmorbo Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicare poſiúnt.Proptereamilesquida inmorboinueteratoluinepotis,quicapi. Member Aximopere (ve valuit Simeon MZethus) ſuberum.continuattis V.. fus vituperatur: adeo enim, hornines crebro eorú cſuafticiuntur,vtepilepti ci;vel apoplectici fiatt. Apud veteres autem in pretio habebantur, illiſq; cum Colo quandam affinicatem, necniſi toe. nante loue nafai, credidit antiquitas.. Vinde Iuuenalis: Facient opfataronitrua, Cen45 -offi de corde Ceuiàmorfibus venenofisshos minespreferuatge -Irabilis eſt protecto oſsiculorum, proprietas, quæin Ceruorum corde reperiuntur;geſtata enimadpræ • Tóruandum à beſtiárum venenofarum I morſibus, & i& ibusmaximeproſunt.In officinis tanquam præſtantiſsimum an-. ridotum contra venenum, & febres pe.. bilentes, hæcoſſa conſeruatur, & cum. foelici fucceffumcdiciindiesad hæc va lere experiuntur:: (multi tamen pro. ofic.cordis ceruidi, osbubulumtradunt in magnam languentium perniciem, & M pedice medicorum afamiam.Ex Alz xan.fro Bem nedido. Hemicranian laide Gagatia ummoueri. Viro experimento Democritus Hemicraniam, lapidisGagatis fola ad collum appenfione tolli com.. probauis fcribit enim huiufmodi lapi. dem geſtatum ſempernagisponderare, quam antequam appendatur: quafi in eo quædam attrahendi in fe fe humo rem,à quodolor in parte cranij ſuſcita.. tar proprietasreperiatur.Mercurialis. -Epileptites nonperpetuo concidere nee que fpumam facere, Vicomitiali morbo laborát nánili in magoa ventricolorum cerebria crais humoribus obftruatione eonci dere, & fpumam ferre confueuerunt: ſe cus vero in alijs caufis, vt in quadá pu ella Aretina Beniuenius obferuauit. In cidit illa in Epilepfiam, tamen neque concidebat,pequeexore fpumam emit tebat. Sed ftans caput hinc inde cucere vice, ac fi quid inſpicere vellet mout bat;nihil interim loquens, nihil fenti ens.Cum auté ad fe reuerteretur,inter rogata quid egiflet, penitus ignorabat. Caufam Beniucnius exiſtimauit, quod non caderet quod contra & io, & tenfio ad cerebrum non ferretur, cum folusva por ſurſum aſcenderet: ex quo nullori gorecerebrum ipfum intentum, ab of dinatis motibussreliqua membra præ feruare potuit, Vermes rubros in hominum cerebro, in quae dam epidemia natos effe., Beneuenti, cum multi ignoto morbo; decederent è vita, medici tandem, hoc morbo quedam mortuum incidere voluerunt, & in huius cerebro vermem rubeum breuem inuenerunt, quem cum multismedicamentis vermesoccidendi vim habétibus interficere nequiuiſſent, fruſta raphani inciſa in vino maluatico vltimo decoxerunt, quo vermis occiſus eft,atque hoc eodem remedio deinde se smili.morbo, quali epidemico affe & ij, omnes Nous ) omnes curabantur. Foreftusex lib.Corne-, i Roterodam. Capillorum defluuium ex Laudano curari. "Onfemel morboacuto egrotantia bus (-ſiad fanitatem reducuntur ) è capite capillos decidere expertumelt. His facillimèfuccurritur huiufmodilia nimento, quo capillorum defluuium non ſolum amouetur verű etiam amiſsi irerum renouantur. Laudanum cum vi. ño, & oleo rofato ad decentem vnguen ti fpiſsitudinem coquitur, quo caput y niuerfum linitur, breuique capillatum redditur, Ex Bayro.. An empiricis tradararemedia,mortem ! non paucis:attulife: ftrum baudelt, remedia, quæ ab tempricis adhibentur, mortéali quádo hominibusattulife,ijn. nulla ra. tione, nullaq; methodo fuffulti, fed fola experiméti-indagine,neccaulas morbo. Tum verè cognoſcere,nec ordine auxilia applicarepoflunt.Propterea miles quidā. igjorbo inueteratoluinepotis,quicapi N + 136 tis achoribus erat fædatus, finecautio. os,more empiricorum,nec ætate obfer uata, vnguentum ex arſenico, ſulphure viridiæris, femine ſinapis confe&tum capiti appofuit;ita enim ex quodam lio bro remedium collegerat, & mane ſee quenti puer ille, qui erat duodecim an norum, in lecto mortuus inuentus eſt. Hi profe& o fru & us empiricorum ſunt. ExValefio.. Triplici auxilio homines longauam vitam Af quirerepofle. Ifi hominum frequens luxus exo NA vita songior,ſaniorquevideretur,hi ay tem in luxum,epulas, & otia effuli, vix trigefimum exceduntannum, abſque. fene & utis aliquo veftigio,vita enim los. gæua,non luxu,& profufione nimia, fed triplici tantum remediocomparatur;fie quidem pareitas cibi, & potus, bonus cibus,& moderatum exercitiummorta - lium vitam, ex Philoſophorum decre to,producere valebunt.Bartholom.Males ** Dino Gagorio.  Nmin Quo paéto fingultum cohibere valeamus. Onleui angaſtia angultum ho• mines cruciare quandoque vide mus adeò quod multiin longiſsimā via. giliam huiuſmodi affe & u ducti funt, Multi funt, quieximprouifo timorem ſingultientibus incuitientes,votum alle quumtur: alij verò auricularidigito ito bentintus aures diu confricari;Lyfimam chus tamen apud Platonem, fternuta. mento afperfione aquæ frigidæ, & re {pirationis coñibitionefingultum cxčke ti propalauit. Quopado plebrios, tincios en admiration nem -dustus. Plebeiprofe &to qui populi parsfino plicior eft,ex leuifsima occaſione fa. cilè in admirationé ducuntur. Si optas autem vt adftantes credantvel magico Çarmine, vel quodammiraculo te open. rari, manècum Verbaſcum flores aperit æſtiuo tempore, iispræſentibus leniter moueto plantam: flores enim paulatim decidunt, & exiccatur, cum magno ile. lorum ftupore, fiquidem illius plantæ hæceſt proprietas, vt (Sole accedente ) flores decidant. Quod fi magis irridere velis inutiliter aliquid murmurabis, vt admiratio excrefcat, vltimòtandemor mpia in rifum finiantur. Ex Porta. Memoriam è thure epoto maximè Augeri. Maximo hominibusadiumento eſt firma memoria, triftitiæ verò, & Jabori, imbecillitas, iis præſertim, qui bonarum litterarum ftudio incúberec ptant. Ita autem cófirmatur.Thus albife Gmuin in pollinem attritum,& cú vino, li hyemsfuerit,velaqua deco & ionis paſ fularü, fięſtas;epotum,inLunęaugmen. to,oriente Sole, necnonmeridie, & oC- t caſu, mirum in modum memoriam aya gere fertur. Ex Rafi. Quo pačtofamis importunitascohibeatur: Vis Taurum Philoſophum, eiufq; mendo famisimpetu? profe& o dumfa. maemaximèmoleſtabatur, eius importurnitatem, compreſsis hypochondriis & ventris ſtri & ione compefcebat. Apud. Aulum Gellium. Mulierem grauidationis tempore pallefcere., debilioremque effe. TOnlinerationemulieres, quoté pore vterum gerunt, virore pallia dæ fiunt, purus enim illarú fanguiscono tinuò ex corpore deftillat, & in vterum à natura demittitur, vtfætú tú nutriat; tú eius procuret augmentü.Cum autem ipfis paucior in corpore-refideat fanguis neceſſe eſt fieri pallidas, atq; alienos ci Bos appetere.In ſuper exco,quia fanguis folitusipfis minuitur,debiliores fieri ne celle eſt. ExHippocr. lib. 1. de morb.mulier.. Myrifticam nucem à vira geftat am, vigo rofiorem fieri. MIrabilis eft nucismyriſtice, quava cant muſcatam, cum homine fym pathia: ſi enim à viro.geftatur, nomodò vigore proprium cóferuare, verù etiam turgere,magifq;fucculentam, & ſpecio ſam ficrialkunāt, pręfertim fiiuuenilis adultæque ætatis homines circumferát Ex Liuinio Lem. Hepaticos, Gtienoſos decodochamading fanari. INter præſtantiſsima remedia, quæ I hepaticis, & lienofis adhibentur pri mum Chaniædrium locum retinet: fie nim ex aceto deco & a,per pluresdies ex. hibetur,hepaticos,atquelienoſos pro. culdubio fanat: multisequidem experi mentis comprobatum eft tale decoctí viſceraab infar &tu liberare:propterea ini febribus chronicis, eo quod obitruction tres mire abigat, fdelici fùcceffo à multis: pro fingulari ſecreto audio vſurpari. Pulfus deficientes,&intermittentes in ix. uenibus mortem prædicere, O Vanti timoris in languentibus,pul sus deficientes, vermiculantes, & formicantes exiſtant,apud Medicos notiſsimum eſt: ij enim ex proſtrata natura exorti,exitiú efle in foribus aftédūt. In. termittentes autem duorúpulfuum ſpa tie tio,non modò in omnibus fufpe & i ha bentur, verum etiam omnibus maxime iuuenibus exitiofifunt; diſséticGalenus, qui in pueris, &fenibus non ita fore ti mendos afleruit.Huius rei habuitexse. rimentum Proſper Alpinus in Iacobo Antonio Cortulo octuagenario,pleuri. tiro, & febreardente vexato, cui pulfus fuerunt cùm intermittentcs, tum defi cientes; tamen ille citò conualuit.lib.s. de med. method. Mitbridatis Regis, ad venena maximum Antidotum. D Euico Mithridato Rege maximo, in eiusArcanis Pompeius inuenifle in peculiari commentario ipfius manu exarato compofitionem antidoti dici Inr.Cóftabat ex duabus nucibus ficcis ite ficis totidem, & ruræ folijs viginti fimul tritis, addito falisgrano.Si aliquis hoc iciunus allumeret, rullum ei venenum nociturum illa die affirmabat, Ex Plinio. ONO Slidera Quo artificio offa, velebora colorari valeant. I offa,vel ebora coloratahabere de lideramus,ca in primis oportet abim munditiis purgare; deinde in aluminis aquadecoquere,tum demumin vrină, vel calcis aquam in qua diffolutum fit verzioum, rubrica, aut cæruleus color, fiue alius quem volumus immittere, & vna iterum coquere.Cum autem perfri gerata in eodem etiam liquore fuerint, extrahenda ſunt; & pulchra, & bellè tin eta habebimus. Alexius Pedemont. BRICA Bryonieradicio è vinoalbo decoctum, hyfte. ricam paſsiorem reprimere. Ryonia in fedandamulierum hyſte rica paſsione,egregiam habere vir tutem multis experimentis dicitur.Ex multis obſeruationibus in quadam mu liere, quæ quotidie ferè per multos an nos hocaffectu laborauerat, à Matthio lo experta eft. Hæccum ſemelper heb. domadam, cius confilio, ſub fccti ingressum, vinum album, in quo ip fius radicis vncia efferbuerat, hauſſet ex illa paſsione optimè conualuit. Ne tamen amplius in fuffocationes deueni ret vteri,perannum integrum hoc me dicamento vía eſt, nec morbus iterum recidiuauit. Quo fuffitu Serpentes venenati à domibus, velpradiis arceantur. Vlta equidem reperiuntur, quo rum ſuffitus adco o diolus eſt, vtà loco, vbi is. fiat,penitus arçeantur. Scribit Florentinus in Geo pon. Venenatam feram numquam accef luram, vbi adepsceruinus, aut radix Centaurij maioris, autLapisGagates aurDictamus creticus,aut Aquilæ, vel Milui fimus cú ftyrace miftus fuffatur. Ex Gal. autem habemus in lib.de med. fac. parab.ad Solonem.Pyretrum, ful phur,cornu ceruinum, pinguedinem,& pulmonem Afini accenfum,ac fuffitum, cuncta animalia venenoſa efficaciter fu - gare compertum elle. Herpetes exedentesTabucoicereto felicitors Sanuri. Terorymus Aquapenders inl.:.de Tumoy prenat.6.20.5xedcotes her petes teſtatur curaſſe quoad totum cor pus, ex ſero Caprino expurgatione con fecta,fæpèautem cum fa !fæ parille de co & ione:partes affectas aquis therma lbus D.Petri lauabat,vltimoiis, felici cum fucceſfu ſequens admouitCeratú. R.Succi Tabacci, ſeu herbæ Reginæ vnc. iij.Ceræ citrinæ nouiſsime.vnc. ij.Refie næpinivnc.j. Rofinz Tyerebintinæ vnc.j.Oleimyrtini quantum fuffic. pro formando Ceroto. Vina alba, qua induſtrie inrubramu tentur. A Lba vina abſque vllo detrimento in rubra(auctore Mizaldo ) tatim Conuertuntur,lipuluerem mellisad du rilsimă conliltentiam deco&i, & ficcati in vinum albuin proiecerimus, & tran Suaſandomiſcuerimus,Idautem minori faſtidio efficier lapathorum radix, fi re cens, vel ficca in vinum mittitur. Flores in Aegyptoprope Nilum inode tar os exiftere. O Dorin ficco fundatur, eidemq; in nititur;hinceuenit(auctore Theop. 6.de cauf.plantar.) vt fru & us agreſtesvro - banis ſui generis odoratiores,eo quod - ficciores exiſtant vrbanis,habeátur.Heç quoq; caufa eft,quod in Aegypto mini mèodorati flores naſcantur;vt n. Plini - us prodidit, Aegypti aer à Aumine Nile tum nebulofus, tum roſciduseſt: cuius cauſa odor in foribusadimitur. Abfynthium ventriculum roborare ſo lum adftri& ione. Vantam Abſynthium in roboran do ventriculo vim retineat,in mul. tis locis à Galeno exprimitur:bancau tem virtutem non ab amaritudinem fed propter adftri & tionem abfynthio inefle verfimilc eſt. Conſtat hoc totum ab eius fucci natura, qui corroborandi facultate deſtituitur, ex eo, quod ter rez partes, in quibus adſtringendi vis poſita eſt, ab ipſo feparantur. Succus itaque folum amarulentiamhabet, quz tantum abeft, vt ventriculum roboret, fed vt potius illum infeſter. Ex epote Chalcantho, albos pilos è capi te decidere. Icet Chalcanthi, fiuc vitrioli vſus, e reſumpti, apudGalenum ſuſpeatus habeatur: à multis tamen audio maximè commendari. Inter graues fcriptores, Rbaſes eft,qui 29. Continentis, 6.24. ſe habuifle amicum quendam ſcribit; qui potata vitrioli drachma, propènoctem pilos omnes, quos in capite habebatal bos, abiecit.Res profe &to mira eft, pbrenitidem ex nigro Coralio felicitar Sanari. Oralium nigrum, quod Antipallas, fiue Antipatkes dicitur,inPhrenitide morbo corrigendo, & fanando perquá Airam habere facultatem exiſtimatur. Hoc nigerrimi.coloris eft, & ob varie. tatem in magno precio tenetur, & cótra huiuſ HORTvĆvs G & NI ALIS. 14h ** Merete huiuſmodi affectum tanquam præftan tiſsimům remedium vſurpatur. Ex Ense lio de Gemmis lib. 3: Lethargicosà Satureia capiti admota excitari. Vltis experimentis obſeruatum reperio,Satureiam cumfloribus vino incoctam, & calentem occipitiad. #motam, Lethargicosdifficili ac pertina E ci sono oppreſlos, ac veluti raptos exci tare, & reuocare.Vt autem curæ folici $, or fit exitushuius decoctiguttæ aliquot fe infirmiauribus inftillandæ funt. Hana diſchius. I peftilentias quasdam occulta anispat hia ho minum corpora depafcere. M Vlta reperiuntur,quæ occulta qua dam antipathia, cun &tis hominis bus aduerfantur. Huiuſmodi fuit aura illa peſtilens, quæ ex arcula aurea in quá miles forte quidam inciderát (referente Iulio Capitolino ) in Babylonia orta eft, Ex hac nata fertur peſtilentia, quæ in - de Parthos orbemý; compleuit. Huic haud abfimilis, vel prauior vtique fuit G peſtisilla, quæ anno 1348.ab oriente in cipiens (teſte Guidone Cauliacenſi ) vniucrlum fere orbem peruagata eſt, tảntaq; lauitie peragrabat, vt vix quar ta hominum pars ſuperſtes euaferit. Bra M. Infantes eiulare quoties lar, nutricum mammas papillas pangit. Slidua experientia comperimus f A mammasnutricum, & papillas lancinat, & pungit,quippead infanculos tunc nu trices redire videntur ftatim; cum pa pillarum mordicationem, ſiue vellica. tionem ſentiunt. Duplici autem id fieri caufa credendum eft; vel quia quo tem porecoctionem infantulus perfecit, eo dem momento nutricis vbera complen. tur, vel quia tutela Angeli Cuftodisin fantis nutricem ad officium, leuiſsima vellicatione follicitat.Hoc verius vide. tur eo,quod modo citiusmodo tardin fanteseiulant: & vtriuſq; ſtatus non lem per idem eft. Ex Bodino lib.3.Theanatu. Sales Han 7 Salis Prunella virtus, &compofitio. al prunella,ob fingularem vim do lores mitigandià quauiscaufacalida &inflammatione excitatos, quam reti-, net, a nodynum minerale à chymicis apo pellatur. Eius compoſitio talis eſt:Para tur ex,nitro optimo; quod in cruſibulo. funditur, paulatim ſuperinijciendo flom res ſulphuris,quieiuspingaedinem tole Junt, idqueadeo pellucidum, purum que reddunt; vt fi luper lapidemmar moreum effundas; omninò clarum, & dlaphanuin appareat vitri inſtar: quod? đšinde Sal ſjuelapis prunelle.dicitur,Sa lutare eit remediú ad ardentiſsimills febrem Hungaris familiaré extinguento - dam, & edomandam:cuius ferocia tana' ta eſt, vt ægrotantium linguas prorſus nigras, & prunis ardentibusfimiles ef ficiat. Cum autem tanti ſymptomatislę. vitia extinguatarhuius vlu,leniatur, & opprimatur: Sal prunellæ apellatus eft. Eft præterea idem remedium magnum diureticum,& diaphoreticum. Querceta mus in Pharmacopes. 63 Hy ilico appetere. 1 adduxeram: qui Leonem, Gallum ve.. Hydrophobos è poto Catuli coagulo aquami Iris laudibusCatuli coagulum in Aetio, ex tollitur: Illud enim fi femel tantum ex aceto Hydrophobici guftauerint;ſta rim eos,aquæ pofus cupiditatem capere: ob id medicamentum hoc præftantiſsi muth iudicamus, in huiuſmodi enim afa fe & u, nulla falus ſalubrior iudicatur, quam aquæ potus: quo deficiente,mors in foribus ſemper eſte Cur Leo Gallum timeat abfolutaz " izquifitio. CVVmquodam die Cercelliani gra tia apud Carolum Cifellum luriſ conſult. clariſsimum, meique amiciſsi. mum effem, forteinter nosde Gallina tura orta fuir diſputatio; illa preſertim, cur Leo illum timeret? Pro dubii folu. tione Ficinú inlib. z. de vit a celit. compar: reri ſcripfit, eo quod in ordine Phoebeo, Gallus eſt Leone ſuperior. Hoc etiá ex Proclo confirmare volui, qui, Apollinca Dæmonem;qui alias fub Leonis figura apparuerat, ftatim obiecoGallo diſpa ruiffe prodidit. Ifle-autem quia bonarú Jiteraum citra legalem fcientiam admo dumftudiofus et contraria rationeLeo i. nis timorem euenire contendebat. Ada ducebat Leonardum Vairum in lib. 1. de Fafcino, quiex Gallorum oculis ſemina i quædam, ac fpiritus exire profitetur gr I quibus Leonib'dolor,acmeror incredia bilis inčuciatur, inde veluti effafciñatas ritere.Ego quidem licera Lucretio hac etiam opinionem fuftentari viditlemi tamen poft,pleraque vltro, cirroque inter nios de re hac ventilata;confeſſus füi apud me neutram opinionem vide ti validam. Vbienim naturales rationes præualēt,nec ad Aftrologicas,nec adoc cultascófugiendium eft.Leonesquoniá bile faya, & copiacaloris abundant,faci le fit,vt ex fonoraGalli voce comoucka tur:ita profecto Canesex leui etiam al 2, G4 terius 30 II terius latratu faciunt. Infuperrubicun da Galli criſta,flammæinftar rutilantis, primo afpectu,colorisratione,bilem in Leonibus celeri motu excitat, vt panni rubri armenta quædam fugare, & mo uerefolent,inde fit, vt quodammodo Leones &afpe&tum, & Gallivocem ti meant. Haud tamen credendum eft in iis (ledato primo impetu ) perpetuotimo. rem ex hac beftiola durare, & induci poffe. Corues, morientium feditatem ſentire, ob id fuperte&um infirmorum crocitare. Orui, quia hominibus meliorem habent odoratum, vt voluitÀrift, corporis morituri fætidum odorem de longe fentiunt: fecus eft in hominibus, licet prope maneant. Propterea ſuper te & um infirmiCorui volitant, &cro. citant, quando eius corruptio, &fædi tas magna eft, vt ea paſcantur: huiufmo dienim animalium genusrerum foeti darummaximeauidum eſt; quibus pa fcitur: Charlie [ citur: idcirco in bellis, &in peftilenti tempore, cum corpora mortuorum vel hominum velarimaliū humi ia&a funt; Coruorucopiaprcualet.Homines vulga tes, & quiparú prudétes funt;dů Coruos crocitantes fuper te &tum infirmiaſpici unt, illum moridebere afferunt:hoc au. tem falfum eft: ii enim tantum fæditaté inſequuntur. Sæpè tamen Déus permit tit Dæmonesin Coruorum, & aliorum animalium forma ſuper domos: vel in domibusmorientiúapparere, quando be ftialiter vixerút. Et Bernardino de Buftis. Quo artificio es aduratur, ut cinnaba. ricolorem acquiraté Iæsvífum colore cinnabari, & ad ru bedinem verlum habere volueris, o quemadmodum vult Diofcorides; AC i cipe æristaminascuttricoftę profundas: non ſint autemęris alias fufi, quia in hoc ſemper ſtannum commiſtum eſt, Has e ſuper ignitos carbones apta, cum autem i illæ rubeſcere incipient,ſulphurispul.. uerem tenuiſsimum leniter deſuper có iicito, Sleepin ijáto', videbisenim (cellante fulphuris Máma) Pris (quamu'as euidenter extra hi,& euelli.Tumodol.perfe & e nó pol. Te cuelli cognoueris, addito ſulphur. remtoties, quouſque lamulæ eradicari videantur:caue tamen nevrantur, & ad nigredinem vergant. Extinéta tandem Sulphuris flamma, & refrigeratis lami. nis;æris rubei ſquamulas habebis magni valoris,quasloco Hydrargyri præcipi-. tati in medicamentis recipies alias aut tem huius vires apudGalen. & Dioſco videto. Theodorus Ga4, quedinfelicitertex Arist,', deHydrophobia conuerterit, à crimine abfoluitur. Heodorus Gaza vir do & iffimus, dumArift.tex.8.de hiftor,animal.c. 22 traduceret,omnia animantia voluit à Cane rabidodemorfa, ip - rabiem ági,. ac mori, excepto homine. Hoc autem qqantum ſit falfum,quotidianademon Strát obferuantia. Homines n. demor fi; in rabiem aguntur, & pereunt; niſi Tectè curentur, vtcuidam (pauci sunt menses) hic iuueni accidit, quià Canc rabido in manu demorfus, nullo adhibi, to to medico, fed folum circulatoribus com fiſus, in 40.die in furorem deuenit; quo temporelicetme parentes vocaffent,fas s &o tamen preſagio,quodbreuimorere I retur, tanquam deploratū reliqui. Hęc igiturTheodoritradu & io pleroſq; in vi rioslabyrinthos deduxit:multin.,tum i vtGazá defenderent,tum iavtArifto telem ab erroris ſuſpicione vindicarent, textum ita acceperunt animantia omnia à cane rabido correpta interire, hominē 3 verò folum abſque periculo non ferua. rizita expoſuitIulius Pollux. Alii verès inter quos eft Leonicenus, textum malè fuifle conuerfum, veleſle depra suatum contendunt, & fic loco a pocos i legendum mpirs afferunt, quafi ho mocorreptus, &in rabiem, & mortem deueniret, fed non ita citiùs, vt ceteris animalibuscontingit.Hic fenfus quoad - negotij veritaté ver eſt,quiahômo pro i pter oprimú téperamétum, tardius, qua: cætera violatur:tamen Ariſtotelisinten. 2 tio neutiquam eſt ipfe enim ex profeſſo hominem à rabie, & morte ſeruari fcri pſit,cuius textů Gaza fideliter traduxit, neque deprauatum, neque commutan dum exiſtimo, quia mens Philoſophi peruerteretur. Vtauté Ariftopinjoom nibus innoceľçat; hydrophobiamin ho minemorbum elle nouum, illiuſq;tem peftateincognitum proponimus,ex quo iure expofuit animantia omnia é: Canis rabie emori, homine excepto,quia hæc lues in homine nondú innotuerat. Con-. firmat opinionem noftram Plutarchus 8. Sympoſiacorum, in probl.9. dum exfen tentia AthenodoriMedici ſcripfit, hy drophobiam eſſe morbum nouum, atq; apparuiſſe tempore Aſclepiadis, qui Sub Pompeio Romæ claruit. Confir mant etiam hoc Scriptores ante Aſcle piadem, quideHydrophobia mentio. nem aliquam haud faciunt:e od lima. nifeſtum fuiffet, non video cur lub fie lentio tantum morbum occultaſſent, E go quidem Hydrophobiam antiquitus haud extitiſſe,perſuaderemihi nonpof fum:innotuiſſe autem veriſimile eft, nó ob aliud, niſi quia morbushic non ſtaa tim à vulnereaperitur: Siquidem multi in 40.die rabiunt, aliqui poft fextum, autoctauum menfem,vel etiam poſtane num, vt fcribit Gal. Auicenna adnota - uitpoftfeptimum; Albertus poft duo decim.Propterea antiquitus,&precipue Ariſtotelis tempeftate,huius morbi cau fa nóaduertebatur à Medicis innoteſce bat quidem aquę timor taméàcanisvul nere & tabiem, & illa praua ſymptoma ta oriri imaginabantur: idcirco Ariſto teles etiam, interillos, hominem com morſum à canerabido,necrabidum fi eri,nec emori ſcripfit. Alai radicem pro expurg andis vomitu te nacibushumoribus à ventriculo,effico cißimum eleremedium. Vanta Git Affari radicis non modo in ciendo yon: itu,verum etiam in expurgandis àventriculo. & ab eius par tibus, humoribus craſsis & tenacibus ef ficacia,fapientum aliquot edocuit obler: uatio: fiquidem multinon folum in vis tiis ventriculi, ſed etiam in quartanafea bre, aliisque longis affectibushac eua cuationefeliciſsimo cũfucceflu va funt.. Præparatur è fcrup.ij.aut Drach.j.radio cis Affari, quæ in hydromelite, aut para fularum decocto fit diſſoluta, cuitan - tillum cinamomi, &firupi violar. ade iicitur. Ex Fernelio. In conftruendis ſepulebris veteresfuiffeadu! modum diligentes... Xáca Veteres in conftruendis fer Epulchris, webantur diligentia:id circo admiratione maxima dignum eft illud, quodà Ludouico Vluenarratur memoria patrum fuorum fepulhrim fuifleerutum, in quo ardens lucerna inuenta eft.Hæcibidem (vt infcriptio ata * teftabatur Jante Ann.M.D.condita'erat, - & poſita: manibusautēcontreccata, ex templo in puluerécóuerſa eſt.Ex Langit. Ganicula exortum à veteribus maxime fuiße obferuatum. Canis cAničulæ exortus antiquitus à prifcis ex eius colore, deami ſtatu côtecturam capiebant. Illan, fiobfcurior, & veluti: caliginofa oriebatur, graui, & peftilenté foreannu;ficlara & pellucida ſalubre ac proſperu predicebant.Heraclides Põticubi. Aegyptiorum de'quatuor elementis opinio. Vatuor elementa feceruntAegy, & fæmiam conftituunt. Aerem marem iudicant,quà ventus eft, feminā, quà ne bulofus, &iners. A quam virilevocant mare,mulieréómnem aliam.Ignévocát maſculum;qya arder fáma; & fæminami quà luct;& innoxius eft tactu. Terram fortioré marem vocent;faxiscautibusq; fæminçnomen aſsignant, tractabili ad culturam. L: Senecakb.z.Natur. Quaft. Pbreneticos aliquandomirabilia loqui. Mirabile eft, quod aliquádoin Phre« neticisobfcruamus,isturum enim, aliquot(benè inflammato cerebro )}in guaLatinaloqui vel carmina cóponere cum prius fuerint eorum igna viſ funt, fed quod mirabilius eſt, Nicolaus Flo rentinus refert, fe fratrem phrenericum habuiffe, qui futura pradixit, quæ euer nerunt, ita vt eius prædictiones magna ex parte poftea veræ inuentæ fuerint:de quibus tamen fanusexiftens,nullam ha: bebat cognitionem. Infantium rupturn; qua via Sanare: valeamus. Vltis obferuationibus, nullum remedium; Salubrius infantium rnpturis inueniri expertum eſt, quam extritis cochleis, thure, &oui albumine emplaftrum confectum. Hoc enim fi pare in affi &tæ apponitur,& infantes eo temporinlecto detinétur miram in fa nando' affectu retinet efficaciam. Ex Matthiolo. Digitum anularem, maximam cum cords retinere ſympathiam. Valem anularis digituscum corde habeat confenfum, in animi defe & ibus, & in fyncope experimur. Qui e. nim à talibus paſsionibus vexantur,vel. licato articulo anularis digiti,feu medi. ci, vel attritu auri ad eundem cum croci momento eriguntur. Per hunc prefecto vis quædamrefocillatrix ad cor perue nit,ex qua ab animidefe & u collapſi vi gorantur, & in priftinam valetudinem redeunt. Ex Lennio. Carnes code quomodo cruda vje deantur. N lautis conuitiis,nevoraces gulofi que carnes coctas comedant, ticarti ficium parabimus.Excipitur:leporis,aut agni ſanguis, quem congelatum, & fico. catum in puluerem comminuemus,hic: fi fuper carnes coetas fpargitur ftatim foluitur, illæq; colorem proprium mu tantes ſanguinofæ videbuntur, venau feabundus, reijcias. In comeffationi.. bus contra paraſitoshoc eſt ele &tumra medium. Ex Vuerckero... Adoris plcera, labiorumque fciffuras exper HomasThomaiusin Idea fuivirida rij, Nicolaum Zannonem Chirur. gum guim Rauennæ retulit, mirabili fucceffu: & artificio,oris, gingiuarum linguæ,&: palari, nulla alia re, quam radicis penta phyon, fiue quinque foliorum decocto vlcera fanare,atque labiorum fciffuras linimento,ex oleoamygdalarum dulci-, um, cera, &maſtice, quam breuiſsimè adianitatem perducere. Exapri tefticulis,fterilitatem in bomi nibus remoueri. MA Agnaeft vxoratis inquietudo, & Gerileſque exiſtere: propterea.vt à xan to infortunio liberentur, prolemq; ha beant,peraliquot dies ieiuno ſtamacho vir, & vxor cum iure galli veteristeſti culorumapri,que verrisin vmbra exico catorum puluerem capiant:ita profectò. breui tempore optatumadipiſcentur, vt in multisfterilibus ex quacunq; cau « fa non ſemel expertum eft.Ex Democrito. Bufonistibiisdentium doloreseuanefcere.'. Nter maximos cruciatus à quibus; dolores perniciofiſsimiexiſtimătur,ad? cò quod multi & in animideliquia,& in manias deuenerint, multi etiam in vitę deſperationem.Huius doloris remedio. um in odioſo & abominabili animali natura repoſuit. Aperiam hoc arcanum maximum. Tibiæ Bufonis, fiue' ranz terreſtris à carnibus mundatæ, fi fuper dentes condolences fricabuntur,imme diatè dolorem remonent; adeoque cru ciatus ceffabit, vt quafi in dentium ſum perficie dolor collocatusvideatur. Ex. perire modo, & fruere tanti arcani theo fauro. Ex Florauanté. Cepam ab Hippocratemaximèdeteftario ' £pam Hippocrates afpeétu inagis, quam efú coinmendauit, viſu bonā, elu malam elle dicens. Idcirco lucubram tionibus, & litterarum ftuţiis addi& is fùmmècauenda eft: oculos enim vitiati &viſum obtenebrat,bilemque exacuit.. Villicis, & folloribus, qui literis non ind. cumbunt huius eſús maximè collauda tur: eius enim calore vires ad opera exercitanda magnopere excitantur.Ex Plinio.. C Anima 164 B1: 1 c: L L /, Animalibus naturam non modo terra, perum etiam fi um pra termino conftituiffe. Agna fuit conftituendis terrarum terminis, & fitu quibufdam animalibus: ne simul vbique viuentia, & hominibus & fibi ipfis perpetuo effent nocumento. Pro pterea animalium pleraque in diuersű à proprio addu &ta fitum vtplurimum ægrotant, & moriuntur. Hinccolligi musin Meda, Sylva Italia, non niſiin: parte repeririglires. In OlympoMaceo doniæ monte Lupi minimè habitant, nec in Creta Infüla. In Africa nec Vrfig. nec Apri, nec Cerui, necCapreæ viden tur: In Illyria, Thracia, & Epiro Afini paruigenerantur: In Scythica terraa.. tem, &Celtica neclunti Alini, nec vio. uunt Leones in Europa, Pantheræ in Aſia, Ibisin Aegypto lolum commora tur. In Creta: nec Vulpes, nec Vrfifunt, necaliud animal maleficum pręter Pha langium. In Ebulo Cuniculi non funt, catent in Hiſpania, & Balearibus, In Seripho inſula Ranæ ſuntmutæ,illæ au tem fialiò transferuntur, vocales fiunt. In Italia mures aranei venenati ſunt hos tamé regio vltcrior Apenninohaud generat. Ceruiin Hellesponto ad alie nos fines non commeant. In Ithaca illati lepores no viuunt. Sunt & alia animalia quæ in determinatis locis, &non vbiqi viuunt, & generantur. Apjefum in menfis apud Veteres infauftum extitiffe. X veteribus maiores nullum A pij genus in cibis admittere folebant defun &torum enim epulis feralibus ab ipſis erat dicatum, vtex Chryfippo Pli nius retulit. Multiautem non folum ex hoc, quia ſepulchra coronabantur,Api umà veteribus fuiſle damnatum à men ſis, fed etiam quia eius eſu viſus dimis nuitur, & Epilepſia generatur autumát: vnde à Mcdicis nutrices moneri conſue lo, (frequenti enim huius vſu, lactum decrementum, tum malam recipit qua titatem ECO 9. i > Samen litatem )vt ab Apio abſtineant,ne lacté tes in morbum comitialem proni fiant. Dicunt in eorum caulibus nonnulli cru diti ſcriptores vermiculos naſci, eoſque fterilefcere, qui comederint in vtroque fexu: Satyri teſticulum carnofiorem Veneris in. cendia excitæreflaccidum vero extinguere. Atyrium; quod Canis teſticulos vo cant,magnæ apud fapientes eſt conſi derationis:in hoc enim,tum Venerem excitandi,tum reprimendi à natura vi. detur eſſe remedium collocatum. Quip pè maior planta bubulus, quiplenior, & mollior eft,ex ſuperflua &ventola eius humiditate, in potu aſſumptus Veneris incendia excitate cóſueuit: minor verò, qui flaccidior, & aridior eft illa reprime re,Veneremque extinguerevidetur. Ob id(vt aiunt) in Theſſalia mulieres molle teſticulum in la &te caprino ad ſtimulan. doscoitus,& bibere,& hominibus inpo tu;præparare ſolent.Quod autem in Sa tyrio mirabilius eft,aiunt, alterú alterius in poo  Sier o in potu ſumptų potentiam & efficaciam refoluerezlı vterque teſticulusvpà exhi betur. Sterilitatem hominibus,à fterilibus animali " bespoffe prouenire. I verum eſt, quod ab Athenæo pro dicur,Malluin ter in vita parere,relis quoque tempore fterilem efle, quod in eius vtero naſcantur vermiculi, à quibus femendeuoratur non abfque rationeex iftius naturahomines pofle fterileſcere. Terpſicles apud eundem dicebat.Mul lus enim fi viuusin vino fuerit fuffoca. arus,atque id vir biberitçrei venerea -o peram darenon poffe creditur, quod ex 3 Plinio etiam confirmatur, qui veneris incendia extinguere fcripſit. Cynorhodiradicem ad Hydropbobiam pluri mum valere. Dmorſum canis rabidi vnicum " A Pemedii,quodá oraculoroperti proponit Pliniuslib.8.cap.41. Hæc radix Hlueftris roſæ eft, quæ Cynorhoda apl pellatur.NarratB.Fulgofius de quadam s fæmina quæ per ſomniú admonita eft, vt 12 Hvide vtradicem Cynorhodi filio à cane ra. bido demorſo, & aquas iam metuenti præberet, quæ ftatim ex Hifpania affer ri curauit radice qua Hydrophobicus ce, lerrimè fanitati fuit reftitutus. Ex Gem. m4Cofmacrit. lib.1. ap 6. Hominis vitam quibusfignis long am,velbres nem metiamur. Ominis vita pomo perfimilis effe videtur; quod aut maturum,deci. dit Spóte,aut ante iniuria tempeſtatum, ventorumue impetu deijcitur. Vitae breuis figna colligimus, raros dentes, prelongos digitos,ac plumbeum habere colorem. Contra longæ, incuruos hu meros, nares amplas, & tria ſigna primis contraria, multos ſcilicet dentes, breues digitos, craſfosque atque clarum reti. nere colorein Forcius. Extra£tum Hellebori nigri ad morbos inue ter atosmagnaeffe praftantia. N thrities atqueaffectibus inueteratis, iiſque potiſsimum, qui ex atro, & meo lancho T! ta ļ lancholico humore excitantur, extra Ecü migriHellebori,remedium praſtancil efimum femper clle inueni.Capianturnie gr Hellebori radices à fordibus purga tæ, & in pila terantur groſſo modo: in fundantur vino albo,& in vafe terreo e bulliantur quousquc radices benè emol liantur, quo facto prælo exprimantur,& iterum in vaſe terreo leniter ebulliat (deic & is tamen radicibs) quod fucrit expreſsum. Acquiret fuccus (piſsitudi nem inftar picis, quicum modico cinna. somo,& pulucre aniſorum miſcendus eft. Dofis in grandioribuseft fcrup.ſem. in minoribusà granis quatuor vſque ad ſex. Datur cum zuccaro in forma pilalar. Confiteor in obſtructionibus, in c pilepticis, retentione menftruorum ex cralforum humorum infarctu, & in alijs inueteratis affectibus, mirabiles huius remedij fucceflus vid.Conficitur eti, am extra & um fine expreſsionc, & cffi. - Cacifsimum cſt. AdLejenem induratum ejufqueobfrationen efficacifsimaprafidia TE 3 Inte Nter ea remedia, quelienem, &fple. neticos ab obſtru &tionibus liberare reperta sút,mihi femper ex voto fuccef GtAbſinthijRomanideco &tum,ieiuno ftomacho epocú,quod à Cornelio Cel fo fummècoromendatur:Vt autem eura felicior ſuccedat poft cibum,aqua Fabri ferrarij; in qua pluries ignitum ferrum extindum fit, Lienoſis præbenda eft. Experientia id totum manifeftauit, ani Talia enim apud huiulmodi fabrose nutrita, ob eiuspotum, exiguos habere lienes obferuatur. Beniuenius, ciuem Florentinum per feptennium ſplenis fcirro malè affe & um curaffe gloriatur, atque ſolo eſucapparorum, & aqua per lanalle.Debenttamé hæc remedia mul to tempore vfurpari,vtfcopú attingat. Hominem quendam fuiffe repertum, mira vaftitatis,&ingluuiei. NdixeratMaximilianusCæſar Ann, MDX I.apud Auguſtú comitia: quã. do illi vir quidam, prodigiofæ vaftita tis, & craſsitudinis oblatus eft;at in illo incredibilis, & inſatiabilis erat ingluuies itavt integrű virtulü crudun,vel ouem UN It incođá vna vice deuoraret, nec taméfa. mem expleta diceret. Ferunt(vt Surius) hominēBorealibus regionibus ortú fuiſ fe, vbiob locorú frigora folent homines elleedaciores.Hoc taménon folú in Scp tentrionalibus partibus,verú etiam alibi bi repertú cft:Voraces n.fupramodú fuifle referunt Aeliano auctore lib.3.de var. hift.) Pityreú Phrygem, Cambeten Ly dium,Charidamcleonymu,Pifandrum, Charippum,Mithridatem, Ponticum.Et e Anaxilas comicus dicit, Cefiam quendā infinitæ voracitatis extitifle. Antidot erum aliquet contra penenum ab ſeruationes. Rcareca Viperamorfus, per impofi tioné tormentille à campo penſili colle etę,illico liberatus eſt,Altercum ingen ti dolore, & ardore premeretur fuper | dextra spatula, & ita angeretur, vt vix ſe s pedibuscontinere, oculis videre, & lo. qui poſſet, veritus neà fcorpione eller comorſus,oleum bibit,multú vomuit,& à dolore leuatus eft, & quod mirabilius, Ha  in ſpatula nihil erat ſigni,vbi prius fue rat dolor.Quidametiamà fimili dolore, & tremore correptus ex aflumpto Bolo armeno cum aceto ſubito cuafit.Puellus etiam putredinem timens, & vermes al fumpfit Scordeum, &liber fa & us eft. Ex Franci.Thomaſio depeste. Quoartificio Cancri pixiextemplo sodi vi deantur. Inum ſublimatum, fiue aqua vita magnam habet efficaciam ia rubi ficandis cancris viuis: propterea fi vis homines in admirationem dicere,accipe viuos Cancros atque in vino fubliaato fubmergas, ita enim confeftim ruber cent,acli perco &ti eflent cantaeft illius aquæ caliditas, & energia,vt inſtar ignis exardeſcat: admiratio tamen indenaſci cur, quod rubefa & i,& viui ab aqua e. cmpti ambulent. Quorradoflamme excit etw inagha. I calcem non extin & am accipias,Sul & lalnitrum in partes æquales, ac bene omnia fimul ailccas, puluis perabitur, qui forqui in aqua proiectus inflammabitur, ac ducem reddet: quod parui mométi haud Berit,prçcipuè ſinodu luce indigebis.Po e terit id fieri in valčulo aqua pleno, vt™ quidá amicusmeus dū no & u in itinere lefſerexpertus eft,qui totum mihi fideliter comunicauit. 9 vbivigent morbi, ibi maximè remedia oriri. M.Agna eft Naturę prouidentia ia ado iuuandis hominibus,quippè obſeros suatú eft,vbi aliquimorbi copiosè vaga. ctur, ibi remedia accomodataad illlorum exterminiūnaſci voluiffe.Hincinaphri bea, quę ferpentú eft feracißima,aromata? tanquã eorű veneno antidota,oriuntura In Argo Scorpiones plurimi videntur; propterea ibi Locuſta adverſus Scorpio. nesinſurgensnafcitur: ApudIndos Os cidentales Gallica lucs viget,ibi lignum SanaaGuaiacum di& á exoritur, & il. lincad nosdefertur.Catharides veneno ierodunt:ex illis remediú caput, alias & e pedes earum exiftere obferuamus.Quia Stellionibus mordentur, iiſdem in potu Ghana fumptis,fanantur Crocodili adeps, fi in ipfius vicera inftillatur,ſuo veneno me deri videtur. Scorpiones,Draco mari. nus, & Paſtinaca contriti, & eorum pla gis impofiti,procul dubio fanánt. Na. pellusmortiferum venenum eft, vbita men nafcitur,ibi Antorareperitur.cuius radices cốntra Napelliperniciem,fingu Jare ſuntpræfidium. Animantium lac ab alimentis recipere gut litatem. Lacomnein animantium corporibus alimeati recipere qualitatem adeo verum et vt demonftratione nonegeat: liquidem nutrices ex prauo in vidure giminenon ſemel infecifle infantesvifa funt,hac etiá caufa lacin ijs modò.craf fum,modò liquidum,aut ferofum cer nitur,eo quod cibusaut craffus, aut in eiſsius fuerit,modò infantium cóftrin git aluum,modò ſoluit,quod vel con ſtringentia vel foluentia nutrices come derint,Hocin pecoribus etiam manife ftum eft:in locis enim vbi hæc fcamoniú Helleborum,aut mercurialem comedit, vtiq; lacomne ventré,& ftomachūſub vertit: quemadmodú Dioſcorides in Iul ftinis moribus contingere prodidit: vbi ficapre albúveratrū pro pabulo habue i fint, primo foliorúpaftueunmere, & ea rá lacnauſea n epotứcreare atq; ftoma chúvomitionibus offendere ait: Cum a.. adftringétibus pabulis,robore,lentiſcogs frondibus oleagincis, & terebintho pe cus hocveſcitur, lac ſtomacho accómoe datiſsimügenerare veriſimile eft. Ex pulcbritudine, da deformitate aſpoetuse' mures viuentibus coniectusari. MAgmá nobis afpe&tus pulchritudo veldeformitasnon folurn in homin I nib,fed etiã animalibus,& plátis preſtaci cóiectură,qua benignos vel prauosmon res & naturas veoarifolemus; intuitu nó pulchri corporiszfpeciofiq; afpe &tusmité naturam, benignofq;moresin homine illo perfiſtere conieéturamus: contrain I deformicorpore,turpiafpe & u timemus. enim neſcio quid calliditatis, & malitie i In animalibus laudamus catellos, canes Venaticos, & ſagaces, venamur in eis benignam naturam, & mites mores: (6.. tra in Maloſsis,inLupis,Pantheris, & fi milibus, timemus crudelitatem, maliti am, & voracitatem. In plantisex pul chritudine venamur falutares naturas, ex deformitate autem noxias, Rola,Li lium, & Iris nobis præftát argumentum, quamplurimis pollere virtutibus: con tra Cicutam, Aconitum, Napellum.ex deformitate enim plantarumhuiuſmo di,mortem nobis poſſeinducere arbitra arur. Ex Poria in pbyſiognom. 1: partibus Septemrionalibu sdeficitate tes exaceri. Laus Magnus de gentibus Septena. rrionalibus loquens: Sunt (inquit ) Biariniidololatrę, & hamaxobii,Scytha. rum more,atquein falcinandis homini.. bus inftru & iſsimi; quippè oculorum, aut verborum, aut alicuius alterius rei maleficio, homines fæpe ad extremam maciem deducút & tabefcêdo perdunt.. In hamorrhagia fele&tißimum praſidium. Nfluxu fanguinis narium copioſople.. 5i9; & in animi deliquia, & fyncopim deur.. perati intercant. A periam quod mihi deueniunt, multoties etiam tanti peri cali bicmorbus eft,vtægrià ſalute deb u,fem * per adhibere profuit.Burſa paftoris co I trita, ficum ouialbugine, & aceto,com i mifta fuerit, & frontiapplicatur, confe * ftim fanguis conftringitur;ve mihinon £ femel in infirmorumcuracontigit. Vi in febricitantibus fitis, lingua ardor compefcatur. Nfebricitantiú querimonijs ex ſiti, & linguæ ardoribus, Criſtalli vfus inter præcipua iudicatur remedium. It lad enim fi diù in aqua frigida agitatur, &ore deindedetinetur, fitim & calore corrigit, atque linguam humectat: ma ioris tamen virtutis eft lapis albus, qui in lysacis capite reperitur. hic porrò ſub lingua agitatus non modo fitim ca loremquerefrenat; verum etiam faliva in ore excitat: vnde febricitátibus,& ma kimè, fiticuloſis prælentaneum iudicae tur effe præadium. Ex Lemnio. Skolen Al ignis prefidia fuiſsimè in morbis CW AX: dis Aegypties TerueTATE. Var Aegyptij admodum proclives in languentium cura,adignea prælia dia eligeada,propterea vftione vtuntur afthmatelaborantibus,in ſtomacho frie gido,humidoque ab humorumque dea Auxu, &facibus repleto,Hepar,& Lic nem obduratum, &refrigeratum,multa cum vtilitate inucunt; Hydropicos ſub vmbilico, &fub hypochondrio finiftro linea petia ignita adurunt. In doloribus dorfi,lumborum,colli, & orenium arti culorum,in ſpina dorli,lumbis,collo, & alijs partibusdolore cruciatis,hocpræſi-. dium frequentant, In tumoribus à crue. dis, pituitofisquc humoribus generatis ad ignem confugiunt, tanquam auxiliú quod citò multosmorbos curet, inopia queproprium efle autumant. Ex Alpines de Medic. Aeg opri.. Centium, & populorum ingenia bifuris, prouerbäs: excogitari.. Vlius Scaligeri vir acutiſsimi inge nij,Gentium,& populorum naturas tum ex hiſtorijs, tum ex prouerbijs, at que ex ore vulgi ita excepir. Alanoruto luxus:Africanorum perfidia: Europeorü acritas.Mótani afperi. Campeſtres mol liores,deſides.Maritimi prædones, mi ftis tamen moribus: eadem ratione In fulani quoqueſunt.Indimobiles, inge nioſ, magiæ ſtudioſi,numcro fidenteso Affyrij,Syri ſuperſtitioſi. Perſæ, Medi Baštriani,Pyrrhi,Scythæ,Sibi,Phryges, Cares,Cappadoces,Armeni,Pamphilij, mercenarij, atquealijsbellicoſi, Aegyp tiz ignaui,molles, ſtolidi, pauidi. Afria cres infidi,inquieti.Aethiopesanimofi, pertinaces, vitæ mortifque iuxta con temptores. Thraces,Myfi,Arabes,Mo. ſchouitæ, Pæones, Hungari,prædones. Illyrij, Liburni,Dalmatrz, iactabundi, Germani fortes, limplices, animarum prodigi, veri amici, verique hoſtes,Sue. tij.Noruegij.Grunlandi, Gorri, beluæ, Scoti non ininus. Angliperfidi, inflati, feri,contemptorës,ftolidi,amentes, in ertes, in hoſpitales,immanes. Itali con Atatores irrifores,fa &tioſi, alieni fibiip kis bellicofi,coacti,ferui vine (cruiant, E H Dci 318 ! CEL: 1: 1: Dei contéptores. Galli ad rem attenti, mobiles,leues,humapi,hoſpitales,'pro-. digi,lauri,bellicoli,hoftium contempto ges,atque idcirco ſui negligentes, impa rati, audaces, cedentes labori, equites, omnium longè optimi.Hifpanis vi& us, afper domi,alienis menfis largi, alacres, bibaces,loquacesyia & abjadi lor 3.Poc-, tices. SCMabaum,Solis Lunaque coniunčtionen piuentibus oftendere. Irabile eft, quod à natura Scara-. bæus animal notifsimúedidicit, omnibus enim Solis, L'unaque coitum apertè demonftrat.Hicex bibulo fter core pilulam ab ortu, ad occaſum totá. döverlans, in orbis imaginem effingit, quam xxviii.diebus peracta humiicro beobruit ibique candiu abfcondit, dum ZodiacuniLunaambiens fiat interme.. itiis,& fileat:tum foueamaperit, & fide-. THM coniunctionem denuncians,nouam pralem cdit: hæc enim eft iftius beſtio la necalia nafcendi origo Ex Mizeldo.i. exo  # Bobilin 2x Quorundam aimalistu natur &.. Oseft conftans, afinus piger,equus: libidineincenditur, petitąue impe.. tnosè femellam;lupusmiteſcerenequit; Vulpes inſidiola, aſtuta callida: Ceruus timidus;Formicalaborioſa:Apis parca: Canis gratioſus, ad amicitiam propēlus, Leoſolitarius,expers focietatis,nunqua pabulum externum admittens, tanta vocis magnitudine, aut fonitu, vt ſolo Tugitu celerrimaanimantia profternat; Visſa pigerrima,ſolitaria,corporegraui, compacto, indiftin & o: Panthera vehea menis,& ad impetus faciendospropenfa, pernixoyedi& a quaſitota fera.Anguis fæniculi paſtu oculorum lippitudinem carat: Formica temporishyberni pabu lum æfiate condit:Item - fides in canibus, in elephante manſuetudo,ftudium ore of natus in Pauone, çura vocis amanæ ſuam, uiſque in Lufcinia.Forciuss. Cervorum vitam,eße lengisimam. Piabat Magnus Alexander poſteria -jari, Ceruorum vitæ loogicudinem oftenders,propterea multoscapi iuſsit, quibus aureos torques in collo in neđi voluit: in ijs temporis curri culum erat expreffum, &Alexandri deo creturn; illorum aliquot poft centum annosab Alexádri morte capti fuerunt, qui adhuc ætatis ſenium minimè pręfe ferebant.Ex Plinio. Mafculinum fuum citius in ptero, gianfo mining animeri.. X omnium ferè Scriptorum opi nionemaremfætum citiùs in vtero, quam fæminam animari capitur, aiunt enim marem io dextra parte matricis ex feminecalidiori concipifæminam: verò ex ſemine frigido, ſiue minus calido in finiftra partematricis, quæcomparatiuè ad alteram frigida eft.Hincmasdie40. foemina verò 80.vel90..vt plurimuma nimaridicitur:quod frigidum tardum fit,&pigrum in ſua operatione: calidum. autem velox: idcircò virtutem forma tricem invno femine velocius, & citius mébra organizare, & formare, quam in alio obferuamus. Ex DominicoTbolofano fuper Leuit.cap. 1 o. Pici PictMirandulaniingenium, quam maximè collaudatum. A,&, + PiciMirandulani,& ingenium, & & multiplicem do & rinam collaudabant, & miro ordine extollebant:Quando(in quit Picus) ron eft,vthac in re mihi,aut meo ingenio velitisbiandiri: quin refpi.. cite potius afsiduis vigilijs, atq; lucu brationibus,quàm noftro ingenio plau 9 dendum: & fimul aſpicite fupelle & ilem noftram,atque librorum thefauros:oité I debat porro Picus bibliothecam egre. gio ornatuconſtructam,atque omnigem nis libris ex varia eruditione refertam. Ex Crimite InHydrargyro onnis metallica Supernatare. Akreexcepto. Ercij,vel fi mauis, Argenti viui; proprietas mirabilis cit, quòd, omnia mineralia ferè,vtplumbum, fer Tum, æs, & alia ponderotiſsima(excepto. auro )in eo fuperpatent: aurum ditem, * fundum petir, & eius recipit, cola rem, quiignis tantùm opeabfumitut & in fumú mali odoris refoluitur. Hu. jus nidor, & virulentia nauſeam, nocu mentumque adftantibus inducit: inde membra ſtuporem recipiunt, & nerui relaxantur; vt fæpifsimèip inauratorio bus obferuatur. Ex Lem. oleicinnamomai rara o pretiofa como pofitio,plerisque incognita. Icinnamomiolcum ad diuerfas infira: mitates parare optabimus caperec portet, cinnamomicontriti lib.j.quam adinftar liquid: pultis cum oleo amyg-: dalarum dulcium commiſcere ftude bimus, tum demum duodecim dierum ſpatio in loco tepido clauſo vaſculo fituabimus, poftmodum ex torculari totam id exprimatur fortiter: hac ett nim methodo oleum, odoris,.coloris, & faporiscinnamomihabebimusad vo tum. Hocadvires reparandas, & Vio letudinem conferuandam rarum eft ro medium, prodeft parturientibus, & in ftomacho debilitatotam interius,quàna exterius vfurpatur; ngritudines frigi 18g A E das arcet, & in partibus corporis ro u borandis eft tantæ efficaciæ, vt vix ale v toruin conſimile inueniatur remedium.. e Marimum Herinaechin tempeftates:mariti w pracognofcere. Dmiranda profecto: eft' Marini Herinacei proprietas: hic paruus pifciculus eſt, nullatenus tranquillita tis tempore naturali propenſione futu ram præcognoſcit tempeftatem. Ea im. minente ita fe præparat: faburram fa cit, lapidem ore percipiens, ne maris flu & us,vndaqueimpetuofæ facile eum diocodimouere, atque huc illuc in pellere valeant. Nautæ id afpicientes: fucuram tempeftatem à piſciculo hoce. do & ti percipiunt, ob id anchoras & fue. des, & fe ipfos parant, tempeſtatibus maris reſiſtere poſsint.Ex D.Ambrofia, Miracuimdam fontis in Epiro Proprietasi A naturz proprietas illius fontis, qui in Epiro (vbi Dodonæi louis tema. plum olim inftru &tú erat, quacaufa hic faces facer di &tus eft ) inuenitur. Ille fri. gidus eft, & immerſas faces, ſicut cx teri extinguitcum: autemfine igne pro culadmouentur,mirabiliter accedit, A bulenfis fuperGeref.cap. 13. de hoc menti onem facit, afferitque huiuſmodi pro prietatis cognitionem Adam, & conté poraneis fuiffe apertam, diluviogue & gentiumdifperfione effle perditam.vide Pomponium Melam. mHecla ignem emiffum,ficcis.extingui, to que verò nutriri. Dmirationem, &fidem omnem ſuperaret, ignem ab aqua nutriri, & non extinguiintelligere,nifiGeorgi us Agricola,vif noftræ tempeftatis me moria dignus,oculatus adfuiffet in He cla.Narrat hic in Inſula Irlandia mon tem nomine Heclam exiftere,, ex quo ignis emittitur,vt hodie in Vulcanopro. pe Siciliam,Sicaniam dicam, & Puteo lis in loco vocato le Fumarole, obſer uamus. Ille autem à cæteris diſsimilis ficcis extinguitur, aqua verò alitur. Ex lib:noftro de Hydrom:Naty. Hominum aliquot fubtilioris, plerofque au tem groſsioris ingenij adeffe. Ropterea Aftrologi, & præcipuè Al. bumas,hominum aliquos fubtilioris i ingenij,aliquosverò groſsioris inueniri volunt: quia in eorum natiuitate Mer. curius, vel bonam,vel malam habet pòa' fituram.In quorú enim natiuitate Mer. curius in domo,velexaltatione Solis fue sit, ij ſunt ingenio prædici; fi verò fuerit + in domo Lunæ, nafcuntur groſsioresor Ptolemæus, Bropoſ. 70. in quorum ortu | Luna reſpicit Mercuriú, fapientes fieri voluit;contra autem amentes:quiaLuna virtutes naturales infundit,Mercurius verò rationales:vnde eum virtutes naa turales,quibus corpusguberdatur, rati onem reſpiciunt, ille nafcitur sapiens; cùm autem non refpiciunt, amens. Hac etiam de cauſa efficitur mentis hebes, & obliuiofus, qui in natiuitate Mercurium babuerit retrogradum: fi enim dire &tus fuerit,ingenijceleris fiet. HancAſtrolo. gi ducunt rationem, quòd ftellæ nóim. peditæ,luas faciant naturales operatio nes; oppoſitum autem,fiimpediuntur. Hisdecaufis frequenter Aſtrologosve sa pronoſticare de moribus hominiume" accidit; non quòd ita neceſſariò eue. niant, fi homo per voluntatem, ratico pis legem magis, quam ſenſusſequi vo luerit:fed quia pronuseſt ad ſequendum appetitum fenfitiuum, in quo Aſtra influunt. Raxael. Matr. in Addit. Bartol.. Bibyl. Galenum omniumporiamcorporis, folum perfe& ifsimè inter veteres, morbos Caraffe. Ratapud Aegyptiosinuiolabile de cretum, vt fingulis morbis, finguli adhiberentur medici. Hinc illorum 0. cularii, auricularij, & alterius,morbo rum nomenclaturæ aliquot vocabantur: arbitrabantur enim fieri non pofle, vt v nus omnium curarum difciplinam re&tè teneret; quamuis in vnadoctus habere tur, vt BaptiftaFulgofuslib. 2. adnota uit. Galenus tamen illic temporis inter veteres, naturæ miraculum, omnium corporis humani partium, tanquamfa. E pientiſsimus,morbusperfe& ifsimè fo lus curare nouit. In lib.de Pet. Art.Med.c.2. Grecos feriptores de Iudeorum monumenti rutibi pertractafle Riſteas, cuiushodielibellus extat de Translatione In terpretum,refert; Ptolomeum Philadel phum, fecundum Aegypti Regem poft Alexandrum, quæluille ex Demetrio Phalereo, quem ille inſtruendæ biblio thecæ præfecerat, curGræci ſcriptores,.nullá dehiftoriis, &monumétis ludæo rummentionem feciſſent reſpondiffe autem Demetrium, tentafle quidem id facere Theopompu,& Theode&tem,no biles in primis fcriptores, & quedá ex lu.. dæorum monumentis ioleruiſle fcriptis fuis: fed mox taméluifſe temeritatis pe nas:illum enim amentia: hunc cæcitate diuinituspercuflum; ſed poftea mali fui caufam agnofccntes, & ex animo dolen tes, placato Deo,ſanitari elle reſtitutos. Eufebius lib.8 De Prapar. Euang. A Cane qido demo- fum, inftarCanis la traffe proditumeft. Ex corrupta imaginatiua non femel à cane rapido commorh latrare vifi funt:cognouit enim NicolausFlorenti nus quendam, quià cane rapido morſus, curationem vulneris minimè quæfiuit; exercuit hic per dies 35.negotia ſua abſ. que læſjone, maneautéfequentis diei è lecto ſurgens retrò vxorem ſuam inftar canis ſtetic, cæpico;pofteam latrare: dú autemab illa reprehenderetur,lubridés ſurrexit, idque pluries eadé die reperi uit. Serò corrupta ex eius ratio, & die 40.mortuusà morſu illato repertus eft. In Arthritidey Chiragra, quando mors fuccedas. Arò mortem in Athritide, & Chi R corporis ignobilibus humor refideat; hinc (nouo haud fuperueniente morbo) tales àmortis periculo, vexatidoloribus vindicantur. Has tamen mori com pertum eft, quando circa finiftrum pectoris finum, cui cordis turbinatus mucro ſubeſt humorum colluuies den cumbat,atque Gniſtræ manus digitus an Bulan  Di mularis nodum acquirat, ac valde intu i meſcat.ex Lemnis. Lienen ad -corporis tarpitudimem maximè Talere, Vantacoloristurpitudine,qui ab in dicuntur,exiſtant, in dies obſervamus, non modò in illius obftru &tionibus, verùm atqueScirrhis, alijſque tumori - ribus. Hioc iure dicebat Galenus z.de Natur. Facult. Quibus corpus florefcit, his lienem decreſcere,ac vice verla,qui bus lien creſcic, illis corpus tabeſcere, & o vitiofis repleri humoribus. Caufa om nium eft, quòd lien ab infar &tu fa & us imbecillis,nequit(fa &ta humorum ſeparatione in Hepate) melancholicum fuc cumad ſe attrahere: hinc demiflus ille cum fanguine corporisatro colore ani. bitum maculat. Iumenta clitellaria in itinare fibilo, da Cana In à laboribus fubleuni. Vlicęconcencusſongriſ numeri maximè homines delectant, ob id multi & cymbala, & alia muſica inftrumenta frequentant, vt animus à mæftitiis fubleuetur. Hac coniectura obferuatum eft:iumenta clitellaria in la boribus, & itinere, cantu, & libilo al leuari:propterea mulones, vt muli, ce seraqueiumenta dicellaria,& tarcinam, & alia onera minus laboriosè fentiant, tincionabulorum torques in illorú col. lisfufpendunt, quorum fonitu, huiuſ modi valdedele &tari cognouerunt, & perinde refici, & à laſsitudinc fubleyari. Ex Vairo kb.z.da Fafcine, Mafalas nigras in acutis morbis apparentes, exitium prefagics. Neer ligna, mortem languentiuni, quæ præſagiunt in febris acutis, illud maxime obſeruatu iudicaui dignū, quod à Sauonarola multa experientia com probatum eft. Sienim infacie, ſeu genis ægrerum,maculæ nigræ obortæ contpi cientur,prcculdubio languentis exitium minantur,quippè venenofæ, & peftiferę materiæ in corpore predominiú redun dere arguunt, ex quo mors ſubſequitur. Has cum obſeruaſiet Sauonarola, ex tali ľ prognognoſtico,magnumhonorem fua ifle confequutum refert. Acetum adictus venenofos epotumplurimum valere. X Cornelij Celli obferuatione ace tum pertum eſt:quippecùm puer quidam ab j. afpide ictus eſſet, & partim ob ipſum vulaus,partim ob immodicos æftus, fiti premeretur,cum in locis ficcis aliumhu morem nó reperiret,acetum, quod fortè ſecum habebat, ebibit, & liberatus eſt: coniecturandum eft acetum, quamuis refrigerandi vim habeat, habere etiam difsipandi,quo fit, vt terra reſperſa co spumet. Propterea eadem vi veriſimia le eft, fpifleſcentem quoq; intus humo. rem hominis, ab eo diſcuti, & fic dari fanitatem, lib.s.de ictu afpidis. A quodam piſtisgenere febrem illico ex citari. N Arota flumine Inſulæ Zeilã quod. dam piſais genus reperiri referunt, quod manuapprehéfum febrem accen, 1 dat.Equidem piſcesillic neutiquam el culenti ſunt, liceat flumen fitpiſcofiſsi mum, qui tamen piſcem febrium appel fatum retigerit,confeftini à febre corri pitur;ſed quod mirabilius eſt, demiſſo piſce, ftatim liberauit.Cardanus, & 566 lig.in Exercit. Fæminas in maresfuiße commutatas fabulo fum non est. Pudmultosauctores ex pluribus obferuationibus notatum reperio, foeminas in mares quandoque commu taras fuifle:referam folum, quod tempo reFerdinandi I.RegisNeapolisfueceſsit. Erat Salerni quidarn Ludouicus Guara rea, à quo quinque filiæ fufceptæ funt, quarum natu maioribus duabus, alteri Francifcæ, & alteri Carolæ erat nomen. Hæ ambæ cùm perueniffent addecimu quintum annum,in mares mutatę funt: ijs enim genitalia membrainſtar marių eruperunt,mutatoquehabitu pro mari bushabiciſunt: Franciſcus, &Carolus nuncupati.Ex Fulgoro. Sene & utis incommodatam corporis quàm Animai NKINGT ANTUT: Quanta fint in fenibus, & corporis, & animi incommoda, non modò à Scriptoribus, verùm arquecontinua,ob feruatione experimar,vt iure afferere libeat,hanc hominis poftremam ætatis $ partem miferrimam iudicari. Mortales enim cùm ad fene &tutem perueniunt * cor eorum affcum eſt,caput tremulú, (piritus languidus, anhelitus færidus, frons caperata, corpus recuruum, nares mucores deftillant, vifus debilitatur, i capilli decidunt, dentesputreſcunt. In fuper ſenes ſunt iracundi, inexorabiles, moroſi,nimis creduli, rarò obliuiſcun. tur iniuriarum,laudantveteres, prælen tia damnant,triſtes ſunt, languidi, iniu cundi, & alperi:ſuntauari,ſuſpiciofi, o. neroli,difficiles.Exquibus fene &tutem fentina, & cloacam efleomnium ford ú, & immunditiarum ætatis noftræ confia tendum eft.Ex Lauren. Cupero. + Magnum Alexandrum, corporis ſudorem ha buiffe redoleni em. Rat Magnus Alexander tam re & a humorúarmo I 2 nia, & temperamento conftitutus, vee iusanhelitus odorem balſamiexpiraret; imò fudor, quem è corpore emittebat, tanta ſuauitate, & fragrantia redolebat, vt quoties eiuspori recluderentur, gra tiſsimis odoribus perfufus crederetur. Quod autem mirabile, & difficile credi tu eft,cadauer eius tam fuauiterſpira bat, vt aromaticis ſpeciebus repletum efle iudicauerint.. Ex Quinto Curtio,& lib. noftro de Hydron.Natur. Diuerfe quorundam hominum virtutes, ornamentA. P tibus,tumanimi magnificentia col. laudantur,omnes in paucis earum per. fe &tionem, confirmant. Porrò Ablalo nisformam, & pulchritudinem extol lunt:robur, &fortitudinem Sampfonis: fapientiam Salomonis: agilitatem, & celeritaté Afaelis:diuitias, & opes Creo G: liberalitatem Alexandri:vigorem, & dexteritatem Hectoris: eloquentiam Homeri: fortuuam Augufti: Iuftitiam Traiani: zelum Ciceronis. Veteran Baderoase no canna, & in papyro penna fcribebate Veterim ruditas, &infcribendo vari Arbara equidem,& mifera erat ve teruminfcribendo ruditas:ij enim primò in cinere, deindein corticibus, & folijsarborum,pofterin lapidibus,mox in lauri folijs, exinde in laminis plum beis,conſequenter in pergameno, & tan dem in papyro fcribere politiſant.Erat præterea illis in modo fcribendi, ins Itrumentorum diuerfitas: in petrisenim:. ftylo ferreo, in folijs penicillo, in cinere digito,incorticibus cultro in pergame. Eorum etiam atramentum varium erat, primum fuit liquor pifcis illius, quem nos ſepiam appellamus;deinde mororú fuccus;ad hæcex fuligine caminorum; mox eft fynopica rubrica,aut minio; vl. timò tandem ex galla,gummi,, & vitrio o lo fieri cófueuit. Bx Strabonede situOrbis. $ InAngira prauosatiuspilulami rabiles Periamnunc pilulas meas maxi mæ efficacia, quibus in angina 3 prafo А pręfocatiua à cratsis frigidiſý; humori bus exorta, ſéper cu felicifucceeflu vfus fum.Interalias obſeruationes, in quibus tale medicamétum libuit experiri, luc cefsit calus in R. Petro de Stephano Archipresbytero Cercelli, qui ferè fufa focatuserat, quare vocatus anno 16156 vt eius ſaluti confulerem; cognito mora bo, quòd ex craſla & viſcida à capite de ftillatione fieret, pilulas meas in aurora exhibui,non fine loſephi de Simoncin medicinaDo&oris, mei collegæ admis. ratione, qui rennebat quodammodo. medicamentum. Eratpilularum come pofitio ex trochis, alandahal, & Aloes an.Scrup.Sem.j.Diagrid.Scrup.Sem.cú ſyrup.de líquiritia conficitur maſſa. Ex hac plurimępilulæ,vtfacilius æger de glutiret, confe&tæ fupe:Hisdeglutitis, iuriscicerum fubitò cya mbum propine. re foleo,quemadmodum in hoc feci, qui fine moleſtia euacuauit, & breui delituit dolor & gulętumor,benè reſpirauit,be nècomedit, & vna die fanus factus eft, cummaxima multorum admiration & lgtigia. His pilulis vfus eftGalenus ad linguam tumefactam, vi lib. 14. Method s med. ſcriptum reliquit: Capitis noftri capillos, plant arumnatura mo ximè aRimilari. M Agnácapitisnoftris capillicumplá tis retinent fimilitudine: quemaddum n.plantę nónullæ humoris defe& u. inarefcétes contabeſcút,aliç verò alienis naturæ ipfarum humoribus occurſantes: o pereunt; fic &capitis noftricapillisaccia: -1 dit:vel n.ex humiditatisdefe & u,quanu. triútur; vel ex eiuſdé prauitate corrum- 3 puntut, & decidunt.inc defluuiú & alir eapillorūdefe& us in cap'oriútur.Ex Gal. Qya dia volucrum pennits varite coloribus tirgere valeamus: I volucrú pennas variisco !oribus tin--, gere 1 ter abluereoportet; mox in aqua alumi.. nis decoquere,atq; du calent,in aquá cro co colorarā, ſi flauas eas cupimus, conii. * ciemus:lina.cæruleas, in fuccú, aut vinü acinorú ſambuci vel ebuli.In diluto fio. ris æris virides fiunt: codémodo colore minij,atraméti, alteriusue coloristin &tas habebimus. Agric  Poftulanie,à meluannesBerardinus Agricolas, Filicibus pro frumentoconfervant do in borreis pri. Oftulauit Mazzocca à Vitulano,magna expe cationis adoleſcens, ob flagrantem in ſtudia amorem, cuius familjaritas apud me gratiſsima eft:CurAgricolę pto fru mento conſeruando, filicibus pro ftra gulis in horreis vtantur; Equidem hu ius ingenium, & animi indolem fepè de miratus fum: proptera in recurioſiſsima complacere volui.Vtuntur Agricolæ fie 1 cibus in horreis, vt cerealia à corrupte la præferuent: quippè filix à proprietate generationi obeft, hinc agrifilice pleni reputantur fteriles. Hinc filix epota ne cat vermes, &ex aluo deiicit: in grauie dis necar fætum, mulieresque reddit ſteriles: quapropter multa ratione agria cula (1.cet tanti arcaniline ignari) filio cibus pro frumentorum ſtragulis vtun ter: quia illorum corruptioni maxime refiftuor. Terrestres Lumbrices digitorum panaricium: fanats. Panae  sol PAnaricium in latere vnguium accidit, &interapoftemata numeratur,quod tantum inducitdoloris, vt patiens, ne. que diu, nequenoctu dormire valeat. Prohuiuscuratione, & dolorislenitione multimultafcribunt: egoprofe & dcer. tiſsimo experiméto multoties compro baui, lumbricos terreſtres viuos ſuper pánaricium alligatos,præfertim in prin. cipio,mirabilitet apoftemacompefcere, & fanare, vt vix diei fpatium affe &tus pertranſeat. € Galega, atqueScordimir am,contra lüemo peffifentemefe efficaciam. M Trabile obſeruamus Galege, & Scordii efle virtutem cótra febres malignas, & peſtilentes; fi quis enim Galegęfoliainacetariis, autcarniú iure femetindiefumplerit,afebre hactutus, & incolumis præferuabitur. Idem (Gam leni teſtimonio ) Scordium efficere pro batum eft:fiquidem ex.veterum quorú, dammonumentis aduerfus putredinem Scordium fingulare effe. remedium tra đitur, vt j.de Antid.capaz. legimus:nam Is cum nteremptorumcadauerain pręliog multosdies infepulta máſillent; quęcund que ſuper ſcordium.fortè fortuna cocia derant, multò minùs aliis computrue. runt; ea præfertim particula,qua(cerdi um attigerant:ob quáremomnibus per ſuaſum eft,tam reptilium venenisquàm noxiis medicamétis quæ corpusputred ſcere faciunt, fcordum aduerfari. Anni bal. Camil En. Nodos. in infantis ombilico filiorumrume-, rum haud oftendere. Pleriqueexnodis inkantis primènato bliorum numerum ex eadem matre: naſciturumcognoſcere profirenturthoc autem caretratione;fæpèenim fit, vt illa moriarur, aut cafta viuat:vel plutesge neret filios, & pariat, quàm nodorum numerus exiſtat;fiue plures viros habeat: è quibuscum alio plures, cum alio paung ciores filios fuſcipiat. Proptereà certio. kiratione afferendum,in nodorum vm bilici primi infantis coniectura, exiſtin, mosfæcundosvteros plerumque plures ! nodosininfátis parerevmbilicofteriles; miebe autem paucos, eofque non ad vnguem diſtincos, vt frequens obſtetricum obą feruatio demonftrat, & vt euentui hæc talia, vtplurimum concordare.viden i tur. Ex Carda. 8.de Oryalum quem ſolo afpeétu auriginoſosbom. mines ſanare. Irabile eſt, quod de Oryalo aue ecircumfertur. Hæc potrò talem dicitur fuiſle naturam ſortita, vt icteria cum affectum, à quo homines plerum que moleſtantur, ad ſe valeat ſolo oculorum afpectu attrahere; proinde vocao tur I &teribus,fiue Galgulus à multis, ab ' Ariſt. autéin biftor.animal.Goryon. Sed 1 quod mirabilius eft, auriginofus homo ab alite viſus fanatur,ales verò moritur. Homines, quandoque ſolo intuitu Ophtbaho miam contrahere. Vita obieruatione animaduerti Ophthalmiam fiue lippitudinis morbũ quádoq; contagiosú elle, & folo perinde afpe & uab hominibuscontrahi:: oculi enim tunc adeò perniciofam vim. $ retineat, xt in alios propriumaffectum, 6 ciacus  ejaculari valeant. Pulchra ratione hoc Vairuslib.j.de Fafci, quomodofieri por fit, differuit:Siquidem animus malèaffe & us fuum quoque corpusmalè habet; ob id fianimusaliquomcrore, aut vi. tio afficitur,colores.corporisetiam im mutar:ſi enimab inuidiacentatur,pallo re, &croceoscolore corpus. inficit. Inde fitetiam,winuidia tabefcentes,ftocle. Jos.inaliquem. liuentes.defigunt, animi fimul venenum vibrent, & quafivirule.. tis iaculis confodiant.Proptereamirumi non-ef, hominesaliquando ſolo.aſpe & uindippitudinemincideres,vt Hieron nymus, Thomafiusmedicusinſignis, (dú ipfe Neapoli ftudijs.vacarem ) defeipfo. teftatus eft. Adlapidessenum,din neficefrangendos mine rabile remedium.. Vidam -medicus ecuditus, ad lapin desfrangendostanquam admiran dium.parauit cibum,cuiusefficaciam a. dedimirabilem eſle cognouit,včad.lapi.. desexpellendos non folumà renibus,& retisa;ſed etiamab anulo comedentis, efficacius remedium haud confedus fu. erit.Paraturex hepate, pulmone, reni. bus,tefticulis cum priapo hirci, quæ cú & croco, cinnamomo, & mellemifcentur, ac ijs hirci inteſtina implentur.Doſis fint duæ, aut tres.buccella Res porrò mon ftruofa,faveraeft.Ex.Micbaele Pafebl. lib. 1.Metbed.Meck. Veterum medicornmpro conferuanda Sanin tate collegium lans Rifx potentiſsimus Afiæ, & Syrie, quialter Alexanderdi &tus fum, it (vt ex Ariftiin libisecret.fiuede Regin. Principa.habetur)medicos præftantiores exregionibus Indiæ, GregiæMediæ,, ac aliarum mundi parcium congregauit, quibus impofuit,vttalem inuenirent medicinam, qua fi homo vteretur, nec. medicis,nec adia: mediciņa indigeret, pollicitufque fuitRex dirüsimus maxi mumpræmiumefle daturum.Illi autem pro maturèconfülendo e rrium dierum fpatio postulato collegiú iniuére. Mox ad Regem cùmomnes cffent requiſiti Sanages Grocus Medicinæ peritiſsimus, qui pręter ceterosdo & trina & fciētiarua tilabat omniú conſenſu Regiindicauit, quòd fumere quoủibet manè aquábisplez noore,efficiat,vt homo fanusperfiftat, &alia haud indigeatmedicina.blocpro feccò à rationealienu non eft:vtenim in Arabum, Græcorumque antiquifsimis voluminibus inuenitur,aqua ponderofitatis ratione ad ftomachi fundum ten dit,auget calorem, & citiùs comprimit, & digerit cibos, digeftionig; maximè au: xiliarur,ceteriſk; mébris corporispluri múconducit. Fabrorú exemploid torú inquiritur, quiin accenſoscarbones mo dicum aquæ conijciunt,vt ignis vi'maioriaccendatur.Idcirco binos aquæclear ræ hauftus manè potare, menfe Iunio præſertim, propter choleram reprimen dam, multum confert ad fanitatem cone feruandam. EfBurtbolam. Moles in lib. de; ſanit.tuer.. Alexandrum Magnum fudorem fanguineum in pugna habuiſſe. * Vdare fanguinem puruminteradri Skadar randa, quæ rard luccedunt,puimera. SUT  1 tur:vbenim in aliquot fudorex láguinis i iclore cruentus corpore malè affecto,: vifuseft; & is nequaquam fineadmiratie one, & iftuporezita di illeexputo danguis: nexortusfuerit,atquein corpore fano; ) vtique maiorem præſtat-negotijcaufam inueftigandi cupiditatem; vt futiſsimè nobisinlib.de Hydraniofazatura.olimedia to pertraétatuet Referam nunc quod, Magno: Alexandro euenit; dum eſſet in extremevitae pcriculo conftitutus.Is cũ, in pugna quadamedererum fumma cum Indis.decertaters lub @ diarioque milisere deititueretoMilqucadedcholera:luccés, [useftzvékotocorpore purú languinédes fudauerit; Barbariſgulecotus igneis filáns misardere vifus fit.Hocautemtantum ijs terroris-ingcfsit, vt fe Alexandra.com mittere coactant, Lüpathium rantie darworetaſtas,tenetrier mas, efung aprusreddere. Rat apud veteres Lapathiorum vfus, pecu liare,eft,vt carnes; &vedulia cú hiselixata vel link dugaa yesulta, & coriacea,terit titatem, & mollitiemacquirant.Propte. rea,quòdcibos concoctu faciles przſta, bant,& aluumemolliebant à vecerum à mélis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Catoncorum feminum:muccaginem combusa fionibus maximèopitulai Nter præftantifsimaauxilia, quæ có buftionibus: adhibentur', feminun cotoneorum muccagipesretinent prin cipatum. Referam:Petri Foreſti in pro prio filio experimentum, Ille matri obo. fequioſus,,cümtefta carbone ignito re pletamkappostaret,cecidit & igneoculos. combuftitit: Putem cum temen cotone. orum in quâ raſaceam coniecifset,atq; muccagineoculosiçpiusabluiffet;mira culi-infarpuer-comualuitabfq; combus ftionis veſtigio. Hoc etiãauxilio in f. milibus cafibus feliciſsimè ſemper vsű fuiffe,idemconfirmat, In lib.6. Obf. Medo Aegyptiospermotas figuras,fenfus,or. rummemoriameffingereconfueuiffe. A Egyptiorum fcientia,quia inter cæterasprecelleroreratapud ve teres, (illa enim ab Abrahan originem habuit) dcirco,& rudimento, &Hiero glyphicis ferè occulra indicabatur. Si à qui illorum primi per figuras animaliú (CornelijTaciti teftimonio)léfusmétis elfingebant, & antiquifsimamonumera humanæ memoriælaxis impreſla cer. auntur, & literarum inuentores perhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis: - látcerę reperiuntur,quæRegum illorum diuitias, acpotentiamdeclarant. Per a - pis enim fpeciemmella conficientis Re. gem oftendebant. Siquem memorem s fignificare volebant; leporem aut vul. pemauritis auribus, quod fummieſlent auditus,& inlignismemoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum:fi velocem, vel rem citò factam,accipitrem; quonis hæc aliarum fermè auium fit velociſsie ma. Si inuidum, anguillam, quòd cum piſcibus fit intociabilis.Si iuſtum,oculü: Gliberalem, dextram manum, digitis paſsis:fiauarunn,ijfdem compreſsis.Per inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe Jant. De bis vide Pie arium, Diodorum, Srabonem. lum  ritatem, &mollitiem acquirant.Propte. rea, quddcibos concoctu faciles præſta, bant,& aluumemolliebant à veterum à mėlis raròhujuſmodi abfuifle legimus. Cotoncorsimfeminum -muccaginemcombuso fionibus maximè opitulari. Nter præftantiſsimaauxilia, quæ có. buftionibus adhibentur',, feminum, cotoneorum muccagines retinent prin cipatum.Referam:PetriForeſti in pro prio filio experimentum. Illematri obo... fequiofus,cum teſtá carbone ignito re pletamkappúrtaret cecidit& igncoculos, combuft Pitemaeumtemen cotone. orum iniquárafáceam conieciſset,atq; muccagineocalosiçpiusabluiffet;mira. culiinffarpuce -Conualuitabſq; combus ftionis veftigio. Hoc etiãauxilio in fi milibus cafibus feliciſsimè femper vsű fuiffe,idem confirmat, In lib.6.obf. Medo Aegyptiospermotasid pguras, fenfus, re rum memoriam effingere confueuiffe. Aegyptiorum fcientia,quia inter teres, (illa enim ab Abraham originem habuit) dcirco,& rudimenen,& Hiero glyphicis ferè occulta indicabatur. Si qui illorum primi per figuras animaliú 5 (CornelijTaciti teftimonio )jēlusmétis - elfingebant, & antiquifsimamonuméta humanæ memoriæfaxis impreſia cer. auntur, & literarum inuentoresperhi. bentur. Hinc in quibufdam Obeliſcis látceręreperiuntur,quæ Regum illorum diuitias, ac potentiam declarant. Per a pis enim fpeciem mella conficientis Re. gem oftendebant. Si quem memorem ſignificare volebant; leporem aut vul pem auritisauribus, quod fummieſſent auditus, & inlignis memoriæ,effingebát: fi veròmalum crocodilum: lì velocem, vel rem citò factam,accipitrem;quonis bec aliarum fermè auium fit velociſsi ma.Si inuidum, anguillam,quòd cum piſcibus fitinfociabilis.Si iuftum, oculu: G liberalem, dextram manum, digitis paſsis:fi auaruin ijfdem compreſsis. Per inſtrumenta quædam, & membra hu. mana pleraque fcribe vant. De bis vide Pie. crium,Diadorum,cSrabonem. Quamethodo peftilenti tempore àluenos tueri yalcancus. Retiofa,acbreuis theriaca reperitur, qua homines ab aere peſtilenti, ad jun & o vitę regimine,præferuari poſsúr: Sumuntur caricæ,nuces iuglandæ, folia rutæ, &iuni peri baccæ pondereæquali, confundanturfimul, atq cum aceto ro faceo, vel communi diffoluantur; mox per pannum colentur, fuauiterg; expri mantur;ſuccus verò, qui percolabit,fero uetur: vnúenim iftius cochleare, mane ieiuno ftomacho ſumptum,non finit illa die hominemà peſtilentia corripi. Ex Alpbane de Pefter Olivarum oleum unguium pun &tura mira biliter fanare. IN fedando dolore vnguium expun, Aurisacu,vel ferro,atq; iisperſanan dis,nullam remedium oleo oliuarum fa lubrius inuenitur; confiteor multa oba feruatione,multisa; experimentis id toa tum comprobaffe. Honefta mulier; ac vnicè dilecta, Laura de Otaro, mea vxor cariſsima, no femel, dum varia-ad femi liæornamentum,acu contexerer, in vn guibus digitorum pun&a eft; limplicita menoleo oliuarumio puncturiscollini to;&dolor confeftim euanuit, & falus introducta eſt.Ego profe & ò ſemel pun. aus ferri cufpide ſubter pollicisvngue com ſanguinis effufione, fubitò ad lini mentum ex oliuarum oleo, antequam aquamtetigiſſem,deueni;quo adhibita dolor delituit,atque vulnus vnà breui ter, & conſolidationé, & fanitatéhabuito Admirandüauxiliü ad vefica calculã,quoabt que inciſione diffoluitur,& expurgtur. Nter admiranda auxilia, quæ ad cal INTE culoſos adhibentur, connumerandum iudico remedium, à do &tiſsimo Hora tio A ugenio experimento confirmatú in epiftolis addu& um,quo abfque inci fione in vefica multorum Japides com minuit,& expurgauit.Réferam qua via id, innotuita Aegrotabat calculo veſicæ cuiuſdam Typographi filius Romæ poft varia aſſumpta remedia,cùm nulla lub fequutá noſlet ytilitatem,fecaricupidus; de pretio cû Nurfino artificecóuenerate propterea Sacerdotem iufsit accerf ri, vt ſumptis Ecclefiæ facramentis, fex le &tione moreretur, animæ fuiffet confultum.Religiofus ex focietate Iefu, audita confeſsione, proponit illi phare macum,de quo in leipfo, & in alijs peri culum fecerat: expeririæger voluit, & magna aſsiſtentium admiratione fana s:Pharmacum ita erat concinnatum. Puluerris Millepedum præparar,drach, i.ad fummum Scrup.iiij.aquæ vitæ vnc. Sem.iuris cicerum rub.vnc. ix.velx.ca piatæger calidum,horis quinque ante prandium. Efectus medicamenti talis fuit. Horarin duarum fpatio totum corpus incalefcebat, anguſtiabatur z grotus fitiebat, ac ferè loco ſtare non poterat,aliquandocirca pubem dolores vrgebant.Vrina hora quinta cceperunt cralsiores:feddi,fed non multæ.Secunda die à pharmaco contingebant eadem, fedvrinæcopioſiores, & craſsiores.Ter tia labulumapparuit multum. Septima tandem adeò plena fabulo vifæ funt, ve rectequis diceret,easnihil efte quamfabulum aqua diflolutum: omnia in me liorem ftatum redigebantur, ita vt, qui proximèincididebebat, liber abomni malo nona fuerit die. Miliepedum ad calculosRenum VP fuca preparatio. PRæparantur Millepedes ad Renum Velicæque calculos talimodo r.Az fellorumquam volueris quantitatem, vinoquealbogeneroſo abluito diligen ter, mox in ollam copiicito nouam, vi tro obductam, lutoque aliquopiam ile lam incruſtato, demú in furno exiccen tur,ita vt poſsit in tenuem puluerem rc. digi; tumverò affunde vini ciufdem gee neroli quantum poterunt imbibere, & rurfus exiccato, ac tertiò imbibito & exiccato vt ſupra,quartò veròpuluerem irrorato aqua fragarum deſtillationis &olei exCalchanto Scrup.j. permifce to inuicem, & exiccato rurſus: vbi verò fic fuerit exiccatum in tenuiſsimumque puluerem redactum,feruetur in vale vi. treo,aureo,yelargento. Es codem. Frequentem ficoram efum fudorem parere abominabilem. Licetficorumvfus multa hominibus commoda părturiat; ran & ij citifsi mè nutriunt, & impinguant corpora, aluum emolliunt, & per vrinas, & per ambitum corporis non pauca excernunt excrementa: tamen eorum continuus, & frequens vfus fudorem generat abomi. nabilem, & corporis fæditatem; indici um huius rei eft, quòd illorum eſu pe diculorum copia innaſcitur. Hinc apud Rhodiginum lib.6.Antiquar. teet. Anchie molum, & Moſchuni Sophiſtas,legitur tota vita fuiſſe hydropotas,acficis modò folitos veſci, & tamen robuſtos extitiflc, ſed adeò fætentes,vt propter abomina bilem fudorem certatim in balneis aba. liis excluderentur. Mulieres eximiam, &fuauemrerinete pinguedinem. Orpora mulierum fuauiori, & ma: ori fulciuntur pinguedine, quàm hominium ipſa,quæ profe& ò ob ſiccitaa tis, dominium,minùshumidi, & oleofia C ttatis retinere videntur. Propterea apud Plutarchú 3.Sympol -4.habemus, vbi mul sta cadauera promifcuè erất cóburenda, veterú tempeftate, temper decévirorú vnú mulier brcímiſceri ſolitú: qualiil lud vnú tantú ſuppeditaret pīguedin is, vt cętera faciliùs cócremari valuiſsent, Aſtu demonum, mirabiles in hominum.cor poribus effectus procreari.: ribus Dæmonis aftu cffectus con ců, ſpiciuntur, vt quando quis euomat am icus, clauos, pilos,oflamagna: vel quòd plumæ in lecto fint ingeniofifsimè con ferta:multæ enim de iis obferuationes apud Hieronymum Mengum in Malleo Maleficar. Paul:Grillandum, & Delrium reperiuntur. Quomodo autem hæc fieri pofsint, talis eft ratio: aut enim ifta funt Diaboli illufiones,ita quòd ea videátur, quz vera non funt, fiue per a&iua natu ralia hoc efficiétia, ſiueper acrifiam,fiue per aeriscondenfationem;aut funt vera; quippe Diabolusinuifibiliter huiuſmodi in hominis ftomacho intulit, & exinde viſbi.  Emin viſibiliter educit,licet ram magna vide antur; nam &ea diuidere, & integrare poteft faltem apparenter,eò quòd loca ſiter huiuſmodi corpora, & partes eorú, ad nutum moueantur, & ad inuicem con glutinéter,Deo non impediente. Summa Sylueftrina de Malefic. Carduum Benedi& um ab Hemicrania homi. nes preferuare. X India Carduum Benedi& um pri mùmomniumad Imperatorem Fri dericum honoris gratia fuiſle miſſum multi hiſtorici autumant, quod miris laudibus, ob peculiares eius virtutes, planta hæccelebrabatur,&obidà mula tis Carduus Sanctus dicitur. Hæcenim venena lupcrai, &confert cùm vlceri bus, tùm vulneribus, eft præfentaneum remediumad peftem, necat vermes, & vtero prcdeft, & in cibo, & potu viit pata, ab immenfoillo præferuat capitis dolore, quemHemicraniam vocant. Ex Trago. Infantes preferuari Apoplexia.Epilepfia fumpto prime fyropo de Cichor.cum Rhabar. vei Corallio, aut ſucco Rute. tibus morbus epilepticus,apud au * Etores noftros paſsim legitur, ob id af. feetus hic vocanturà nonnullis iLorbus * puerilis, liue mater puerorum: Vtau iem cùm ab Epileplia, cùm apoplexia ghi præferuari valeant, multa obſerua tioneexpertum eft,iis,antequam lacgu ftent, in primo ortu prebendo fyropum in cichorea cum Rhabarbaro drach. ii.ab $ hacluepræſeruari,vt Nicolaus Florer - tinus fatetur. Arnaldus Villanoua Co mit rallium laudat:nam fi diligenter triti të y Scrup.Sem, infans hauſerit cum lacte, antequam aliquid guſtat, nunquam in Epilepſiam incurrere obſeruauit. Ego quidem Marcello,Hieronymo, &Mare i co Antonio filiolis meis ſuccũ ruiæ cum modico auro ad ſcrup. ii. cuilibet dedi, antcquam lac guſtarent, &gratia Deiab Epileplia immunes exiſtunt.Helionora, K. quæ nunc ablactatur, feremortua nata eft fumptoque & ieiunato paruo cochle airo ſyropi de Cihor. cum Rhabar.re uixit, epilepfiam nunquam adhuc palla eft. Menſtrualem mulieris fanguinema Tontta # nimaliaefe venenum. Nter naturæ arcana reponendum eſſe iudicaui,quodàMetrodoro Sceptio traditur demulierismenftrualifangui ne.Mulieres fiquidem fimenſtruationis ſpatio nudatæ ſegetes ambiunt, erucas, vermiculos,fcarabços,ac alia noxia ani malcula decidere faciunt. Tale enim à natura ijs virus inuentum eft.Non folú autem huiuſmodi animalculis menftru alis mulierum fanguis nocere creditur, verùm atque grandioribus; quippè cao pes, ex Plinij teftimonio menftruofan guine guſtato, in rabiemutari vifi funt, quorú morſus inter difficillimos mora ſus fanatu reputatur. At de re hac fupe riùsaliàs tractauimus. Thapfiam veficas,do ademata corporifuper poftam excitare. Magna profectò eft Thapſiæ effi cacia in veficis, & ædematibus ge nerandis,idcirco à nonnullis in peftife Eris febribus vbi veficantia neceffaria súc cum felici ſucceſſu vſurpari audio.Cùm autem corporis locum aliquem inflare quis deſiderat, veloſtentationis, vel cu o riofitatis gracia, ponatur Thapfia in low i co conftituta:ibi enim breui veſicas, & ædemata excitabit; vt tandem citra læ fionem id ſuccedat & breui etiam fol jů uantur, cheriacam linire, vel curninum, i aut acerü fuperponere oportet. Ex Car dano lib.8.devaret. | Antivfum inmedicinapro conferuanda va letudine mirabilem obtinera proprie Mlimbi Irabilis efficaciæ aurum in medi Lcina eſt:quippe innumeras illud pro corporis tuenda fanitate retinet vir.? tutes.Eiusvſusin vino maximèexcellit capiunturpropterea aurilamellæ, quæ ignitętoties in vino extinguútur,donec ferueat iſtud,mox colatur, & vſuiſerua tur. Vigum bocpotatum ventriculo imbecillo fuccurrit, concoctionem ad iuuat,foedum colorem emédat, & prin. cipalia membra coroborat, & rcſarcia. Proinde obferuatum reperio,cor ab illo roborari prauos humores calore fuo abi fumi,vitales ſpiritusclarificari, hepatia que plurimum prodeffe fua virtute ile lius vſum. Multi certiſsimo experimen, to huiufmodi vinum vitam prolongare cognouerunt,fpiritufque fynceros face re,atque virestotius corporis renouare Nonnulli leproſis multum conducere Scribunt,ve ex Mizaldo, & Zacharia à Puteo capitur. Quercetanus Auri falia in aliqua betonicæ,autabfinthij confer lacommiſta, ac deglutita ſua fpecifica facultate vétriculú corroborare fcripfit, Aliquot animalia ex nature eorumfimili tudine à veteribusfais Dầsfuiffe dicat. veterum infania in rum falſa religione: quippe,& i nimalibus cultum reddidiffe,infinitis ae lijs federibus, & naturalibusrebuscircú. fórtur. Inter alia, quædago apud eos PO animalia erant, quæ ex naturæ illorum proprietate, & fimilitudine, vtreor, ali quibus Dijs reperiuntur fuisſe dicata. Hinc Canis Diana { ace: eft, Aquila lo 1 ui, Tigris Baccho,Pawo luponi,LeoCy beli,EquusNeptuno,Cygnus Apollini, Anguis Aeſculapio, CoruusPhoebo A finus Libero,GallusMarti,Colúba Vara neri,No& ua Mineruæ, Lupus Marti, Anſer Iunoni,Soli Phenix.Ex Fonio. Veri V nicornu proprietas, eiusque cognisio, Erum Vnicornu, quod in febribus peftiferis propinatur languentibus veilitate maxima,in fyncopemaximo. Pere prodeffe videtur.Illud auté non ex eo cognofcitur, quòd bullas excitet, vt plerique hominum ignari perſuaſi ſunt: hocenim quodlibet cornu etiam facit: fed alia, diuerfaque methodo. Hoc eſt præcipuum experimentum. Si ſcobem eius củ arſenicogallina,turturi,aut co lumbædeuorandum dabimus, fi fuper Itesmanſerit, vel vnicornuftatim poft arſenicum fumptum datum fuerit)verí K 3 & legitimum Vnicornu pronuntiabi mus. Alii in aurificis fornacem demit. tunt, fiodorem cornu à ſe emittet,ve rumefle prędicapt.Nonnulli experime toʻreferunt, quòd in vftionepon omni no comburaturſed, augeatur potius minimeque in vſtione fætorem cornu *habeat, tt in cornu ceruinioexperirilor elet. Ex Føreſto. Oxo artificio mulierum cinni crocei euadant. CApillorum cullui mulieresmaximè vacát, illud autem iisoprabilìus eft, vt Aauitiem acquirant. Referam mo dum, quo votum aflequi poſsint. Su mito Rhabarbarifabæ magnitudinem, fæniGræci, croci fylueftris, liquiri tiæ tabacci, corticum aranciorum quan.. titatem adtui libitum, paleæ triticæ ft. militer, his quernum cinerem addito,, & incoquito, vt tribusdigitisdefcen dat aqua, inde lauentur capilli: tanta enim fauitie“ redundabunt, vt illos aurcos eſledicas.,. Ex Porta in Phitogn. tipios A4 itib...Adexcitandum in fenibus nauralem caló lorem, eorum; vires deperdit assenquandika confectio præftantiſsima. "Heſauris profecta comparanda eſt, Marſilio Fici 4. no, in lib.z.devita producenda, Medicina Magorum appellatur, quippe ſpiritus, naturalem, vitalem, & animalem fouet, confirmat,& Toborat; & proptereaſenie bus præſtantiſsima eſt. Conſtat hæcex thurisvnc.ij. myrrhæ vnc,j. auri in fo lia ducti drach. fem. contundere fimul į tria oportet, atque aureo quodam mero confundere, & in pilulas ducere. Sumi kä tur huius-mifturæ portiuncula inaurora ieiuno ſtomacho; in æftarecum aqua: roſacea; in hyeme verò cum exiguo Quomodo febris in aliquo confeftim induci palent.. VI febrem in aliquo velad oftentatio.. nem, vel ad remedium, curioſi tatemque inducereoptabimus,(fiquidem in conuulfionibus, parakyſi, aliisque frigidis affe & ibus,non parumaliquádo K4 febrew meri potu. 14 Sheh  febrem excitare profuit, ) Scarabe cor buti in oleo decoquantur, illogue arte ria brachialis iniungatur: tanta enim eſt corum potentia, vt confeftim febris, & accenſiones corporis criantur. Ex Car Nuno. Amultis animalibus anni tempora precognoſci. Tdcntur profe & ò plerac; animalia anni temporaprecognoſcere:fiqui dem ex corum inſtinctu, illa homines commentiuntur. Grues enim autumni tempore ad loca calida peruolant, hye mis frigora fugientes. Hirundines ver nali tempeftate ad regiones noftras re meant. Ficedulæ, coturnices. aliaque multa volucria, in anni temporibus,pa bula commutare,aliaque loca adire con ſpiciuntur. Hæc autem non Ver, Autu mnum,vel Hyemem dire & è præſentiút, quemadmodum nonnulli falsò ſibi per fuafi funt; fed verius ex facta alteratio neà calido, vel frigido in eorum corpo ribus,fiue occulta qualitate,has viciſsi sudines facere cognouerunt. Am ago Amantis ex leuiſsima quidemoccafione sie furcenfere folent.: Viperditè amant,leui alioqui mo mento iraici videntur: ratiohuius rei eft, quiainiurias, licet leues, graues iudicant. Grauefiquidem exiftimatur, vtilleiniuriam in te committat, cui ma ximeplacere ftudeas. Cæterùm quem admodum fubitò dolet», qui contra fui habitus propenfionem facere quippiam conátur; ita &amantem facere conſpi cimas;moxtamen rixarum,& odisper nätde, rurfusque fupplex iugumſubacta ceruice repofcit.Ex Leona dojachine, IN Plenilunio, Nouilunio Pharmaci ex bibitionem àMedicis maximè deteftai. Vlra rationc à Medicis in. Pleni junio, & Nouilunio Pharmacam ehitatur: fiquidem Luna,cùm interme Hriseftzomhiijo caret lumine,atqueſub radijs lotaribus ia &ta, & proinde ſolica caret humiditate, quo fit vt corpora ne ftra magis licca maneant, & virtusteten trix robuftior exiſtat. Idcirco fin No puilunio ipharmacum ægris exhibetur;a K 5 abfquedubio humores noxiosagitabit, atqueob retentricis facultatis inobedie. entiam parum euacuabit.InPlenitapig ob Lunç porentiam corpora noftu yali de calefcunt,humoresque augetur,Hing In pleniluniis no &tesicalidioreselle ex perimur,cuius caufa, cailorem à centro ad circumferentiam attrahi, verilmile: eſt's quas propter fihumores, corporis: noftriad ambitum tendunt, procul dus bio pharmacum improbatur:illudenim à circumferencia ad centrum trahitmg. tumque natureperuertit, quo facilefut cedit;vt virtus kadetur,&humorumsys tiacuatio,velmale,veldeprauana.coring gat: Ex loann,de Pitch 19continuatamaſculorum generatione Jep, LR timanm mirabilembakere virtutem.: TIG apud multos fcriptores repe rifles, feptimun mafculum com tinuatæ generationis mirabilem habere virtutem interhæc noftra embammata minimehoc adieciſlem. Volunt enim quando aliquis ſeptem filios maſculos Continuatim & inter eos fæminam nul,  Quod autem in Hydrargiro mirabile pullam ſuſcipiat, ſeptimum mirabilem virtutem & ftrumas, & alios plerofque effe & us retinere ſanandi, An autem ve rum fit, ncſcio,cupio tamen à fapienti bus experiri. Forum Hydrargiri, fuperpofito yclamine, 1: in molem Mercuriimatari, Yrifices dum valamineralla inau. rare cupiunt, Hydrargiro pro bo peremoliendo vtuntur; illud autem in igneimpofitumin fætores grauem, & fætidas exhalationesreſoluitur,pernici--- ofas quidem, niſi abijscautè'euitantur. iudicatur, eft iftud, ſiſuper illius fumá linteolum extendimus, in quo colligi. poſsit, vtique in argentum viuum fu moſitas illa icerum conuertitur, & Hya, drargiram renouatur. Experimur hoc. etiam in carbonum fumofitatibus in traffas fuligines reuertuntur, licet die uerfimodè ab Hydrargiro,Ex Lemnie. Eæculas Bryonia viera mundificando mirane babere pirtutem. 5 K Singularis profe & ò fæcularum Bryo. niæ,tum pro matrice muodificanda, tum ad hiſtoricas ipſius paſsionesſanan das eſt efficacia:quippe ex multis expe. rimentis comprobatum eft,in huiuſmo di affiEtibus curadis inter remedia,prin cipatum habere. Referam ipfarum con ſtructionem, Exprimatur pręło ex Bry onix conciſis radicibus, & contufis fuca cus.crit primò turbulétus,idcirco in va ſe aliquo afferuādus eft, vefæcalisma. teria ſubſideat: detineatur in locofrigi doper paucosdies; in hoc enim fpatio finclinato vaſculo,viturbulenta aguia) Separetur, & proijciatur) fæces albiſsi mas inſtar amyli in fundo inueniemus quas iterum in pluribusvafculis vitreis, aut terreis diuiſasin vmbra vt, exiccen tur feruabimus;ita protectòintra paucas horaşexiccabitur, & formáanjyli acqui rarexpreſlum, quã Bryonize foculá no minamus.Hac fingipoſſunt pilulex.aut xij. granorum pondere, & cú palico ca ſtorci, & alfęferidę ſummü; ac precipuú. aratur remediú cótra affcctusnarratos. Fæculæ huiufmodi etiamfi diffoluütur, inaqua florum faþarú pro fuco ad orna tum mulierum,paneaſque defendas ef ficacifsimæ funt.Ex Quercerano, Miſaldo, &Zubariaà Puted. Millefolium ad conſolidande vulnera misam babere potentiam. Lurimis experimentis comprobatú audioMillefólij virtutem ad vulne rum coitionem, indielğue nouis obſer: uationibus confirmari.Referam folum quod ab Hellerioin Chirurg.adnotatur. Cuidam deciſus naſus erat,qua osin car tilaginem definit: Ruſticus propenden tem partem alteridigitis coniunxit,her bam tuſam,& èvino nigro tritam,quod Millefolium appellant,impegit, rudius omnia colligauit, vede celerrimè reſti. tit fanguis profuens, & vulnus pulchra e cicatrice brcui coijt. Chymicam aztem, reterum tem; eftate floruiſe. Pud Veteres i maximo prctio ars p !eriſq;illiusftudio vacabátur:inginte s A K7 enim diuitiarum copias illa methodo homines componebant,quibus ditiores facti cum Regibus bellum adibant.Pro. pterca DiocletianumCæſarem legitur poftquam Achillem Aegyptiorum Du cem o & omenſcsin Alexandria obſeſsú: profligaflet, omneschymicæ artis libros, diligenti ſtudio conquiſitos, deflagral. fe: pereparatis opibus, Romanisfacilè. repugnarent. Ex Suidt, oOrolio. Quoartificio corpus glabrum reddi: poßit L Itet varüs modis corpus depilatum; &glabrum reddipoſsit,nulla tamen via præftantior eft,Varronis teftimo nio, quàm loca lauare aqua; vbi Bufo nes decocti fint,donecad tertiam redcat: - quippè- fi tali decocto corpus Jauetur, proculdubio glabrum,&fine pilis had bebitur.. Natiuitatis hominum tempora à multis: obferuari On leuis profectò eſt.multorem: ſcriptorum obſeruatio in homia. EN lp mum natiuitatis tempore: à multis enim occafiopibus temperamenta corú. variant, &plerique àrnaturæ terminis, roaximédiftrahantur. Porròquiinipfor terremotus i momento nafcuntur femper patent in tonitru ſemper lan guidifumo qardenet Cometa coex ar... dendi complexjoneargentesfuntainter's Lühiikempordebiles cuadunt, vel fals, temi Ariſtotelis teftimonio ) melan-; eholici, & atrabile laborantes. Hydárrgýrum non effe vendnum in paura: fumptums quam itme', fed adver: mes nes andas exiftere remedium ydrargyrum, vel fimauisargenti vionm, quodà multis venenum exiftimatur, feliciſsimo fucceflu contra vermes exbibeturjzáptægue certitudi-. nis illud in Hiſpania reputatur, vtmu lienes, tenellis pueris, quila ĉçis vomi.. ty laborant, ad quantitatern granorum trium in propria fubftantia propinare audgár:bacn, via morbuscellare videtur: frequen A Hedmare frequentatisexperimentis. Ego quidem viduam mulierem curani, quæ nouem dierum fpatio vomitibus continuis ex vermibuslaborauerat, & ferè triduono comederatznec cibum retinere valuerat. Haiccùm fcrup.ij. bydrargyri mortifica tii, cum tantillo adoniipropinaffem abfque vlla moleſtia peraluum centum, & pluresemifitvermes, &eademdie lis berata eft, & folita exercuit domi, & foris negotia,magna profe & ò parentum ſemper eventu, domique continuò a quamhabeo, in quaHydrargyrum, in. furum retineo, illaa que puerulis pro vermibus libentiſsimèconcedo, nec ad hucquempiam ex illo noxiam recepifle expertus ſum. Vfuseft hoc remedioad vermesmecandos,MatthiolusHoratius, Augenius, & plerique alii celebres viri, qui omnes huiusauxilii maximè extol. lunt beneficium. Datur pueris in lub: ftantia Scrup. ji grandioribus Scrup.ij. vel drach.j. Corrigitur illud, & nrore ficatur in mortario vitreo cum zuccaro rubeo: ibi enim tam diù conteritur, vt in partes inuiſibiles diffoluatur; ne au tem in priſtinam formam iterum redeat, * olei amigdal,dulc.gurtulas binas adde re oportet, & cum zuccaro rof. violato, vel cidoniato ieiuno ftomacho languen mtibus propinatur.Sciant igitur curioſiin hac dofi nullum præbere periculum,in # maiori tamen non dedi,neque concede tem:licet apud Aufonium Epigram.10. o legatur hydrargyrum contra medicinas venenofas valere. * Datura flores, com ſemper, hominem in ri(was; concitane. M ! Tra eſt Daturæ potentia in faſcinan.. dis, vt ita dicam, hominum men tibus, adeò quòd, qui illiusflores, vel Temen ſumpſerit, à riſu, cachinnisque non defiftat,donec més alienata ex plan tæ viribus in priſtinem redeat tempera mentum, Apud Indos à furibus Datura vfurpatur;fores enim, vel femen in ci bos eorum, quosdepredari volunt, exhi. bent, & in mentis alienationé, & in riſum 2. conci.  MA it concitant: ita profecto furádi parantin duftriam.Durat illorum riſus, & mentis error, viginti quatuor horarumtermipc.. Ex Gozdab Horto. Lupesſenio confectos in renibus venenoſosgeo net areſerpentes. Agnum profectò in præſentiarü arcanum aperio, multis hucuſ. que incognitum de luporum natura. Il lud eft,cur à Lupis animalia commorfa modòfanentur,modòautemmoriantur.. Anquòdluporum aliqui venenoſi, ali qui verò ſine veneno exiftant?Equidem CarolusStephanus lib7 Jus Agricult.cap.i. ſe obſerualle fatetur, ib Luporum fenum renibus,primò ferpentes vno pede.Jona giores, & breuiores, qui temporisſpa tio venenauſsimi effecti,Lupum enecás. Hac via facilius nobis tribuiturconie &tura deLuporum morfibus.Si enimle piiuuenes fuerint, animahaa, momor derint, ex benigniori eorum natura, mortem baud inferunt,vtmultoties ob feruamus, niſifortè.vulnera in principi buscorporis fuerint locis, vel tá grádia, vimori neceflc fit.Sin auté ſenio fuerint confe & i,proculdubio leuiſsimo morſu animalianecabút,propter peculiare ve nenum inLupo delitefcens,quod víu ve nit,vtpieraq; præmorla animalium, vel moriantur, velmembrum morſum pu treſcat, vtfaltem difficillimè curetur. Ex. Gaſp Benkino. Qualiartificio ab vxoribus homines mafcu losfilios fufcipere pale ant. Vita à Scriptoribus ad marium M reperimus:hæcautem præcipua, & ve riora effe exiftimaui.Primovthomo ex exceatur,folidiorig;vtatur cibo,atq; ra rius cócubat: ita n. & calidius & fpiflius fe. méeuadit,fita; prolificum, & aptiſsimum ad marium conceptum. Secundo mater, & incongreffu fuper latusdextrum recubat & à coitu confeftim fuper illud conqui elcat: Siquidem Hippocratesmaſculosin dextris,fæminas verò in finiſtris genera-. ri ſcripſit.In dextris enim ab Hepate fo. uetur ſemen,quod eſt calidum: in ſini. ftris autem à liene frigido quoquo pa.; do refrigeratur, & ad fæminarunt 3 conceptum'præparatur.Tertiò ſpiranti tibus Aquilonibus concubant, Auſtris vero defiftát:Aquilo enim admares fuf. cipiendos accommodatiſsimum eft,Au fter verò ad fæmellas. Capimus huius rei ab ouibus experimentum, quæ fiflá. te Aquilone concipiunt, marem ferunt; Auſtro autem foeminam. Multi, inter quos Cardanus eft,ad marium concep tum Mercurialis maſculæ elum extol lunt,hæc duos quafi coleos pro feminie bus habet, & ab vtroq; coniuge depaſta, marem inducere occulte vi exiftimatur. Magnumele in hac inferiora Lune con fluxum. Trabilis profectò eft Lunæ vis in hæc inferiora: ipfa enim noctes illuminat, & fuper humida poteſtatem haber,marisfluxus, & refluxus per quae draturasfuas intētiùs, & remifliùs facit; quippèdum oritur,maria intumeſcunt, & in æftuariafluunt, quoufque ad circu. lum meridianum illa perueniat; cùm autem ad occafum inclinat, Oceanus ab æftuarijsrefluit ingurgites; quando ſub M Orizonte, percurrit,mare ad confueca æftuaria conuertitur, quoad nocte me dia meridiei circulum Luna atringat; poſtremdcùm ad Orienté tendit,Ocea Rusquoque ad folitos alueos regurgitat. Ipſa in Agricultura rebus dicitur do, mina;propterea antiqui gentiles, qui in terræcultura proficere optabant, Lund libamina ſpecialiter obtuliſſe dicuntur; y ocabatur Diana, ſiue Latonia virgo, aut Plutonia coniux velProſerpin. Leonardi asri deOdtimeftri pariu ſenten tiamdebilem effe. Peculatur Vairus in lib. 2.de Faſcino, Cur partus odimeſtris vitalis mini mè lit,innuit hic, vir alioquin doctus, talem partum non viuere, ob femen im perfectum:quia non datur ſemen (vtar guit )quod ad illud tempus fætu procre. are valeat: ſicutin genere triticiquod dam eft,quod tribus menſibusgignitur; quoddam verò, quod nouem menſibus: fed debile eft huius fundamentum, quá do in Hifpania, & Aegypto o & imeltres partusões vitales efle perhibcãt:Potior ergo concluſionis ratio requiritur,quam nos alibi tábgemus. somniarumprofagizà Deo diuinare, aliqus bus bominibus concedi. On omnibusfomniorum diuina N doconcellavidetur,fed quibusà Deo ex ſpeciali gratia permittitur. Qui anim fomnia proprio ingenio diuirare intendunt (dempta fomniorum intere pretatione, quæ & caulis naturalibus in naſcitur, quorum præfagium ad media cos pertinet) aut cæcutiunt, & delirant; aut dæmonum fallacijs inuoluuntur. Iofeph apud Pharaonem, & Daniela pud Regem Chaldæorum (vt infacris habemus) quia diuina afflati erant ſapi entia, fomnia diuinabant.Propterea mi niftris fuis Pharaonem audita fui fom. nijinterpretatione,dixifle legitur: Num inueirepoterimustalem virum, quifpiriru Deiplenusfit? & Rex Babylonis ad Da. nielem:Audiui de te,queviäm fpiritum De orum habeas, ce ſcientia,inselligentiaq, as Sapientia amplioresinuentafunsin tq.ExTa úello. Inter Polypodium, & Cancrosmagxam in. eſſe antipathiam. Axima videtur inter polybodie M, i quòd fi polypodiumſuper cancirú abie ceris viuum, breuiſpatio tum pedum cortices,cum vngues ille eijcier:tanca eft i iſtius plantæ in illum particularis viru 3 lentia,& efficacia.Ex Mashioto, Ć Dengan Ibidis, ferpentesattonitos reddere. Irabilis eſt ibidis pennarumvis M contra ſerpentes, quippe fi illius penna ad illorum quempiam inijcitur, Confeſtim in veſtigiogreffus hæret: ad mirabiliustamé eft, quòd ſerpens quer pis frondibuscontacta moriatur, quare circulatores aftantibus mirabilia fæpè protrahere à racione inconucniens elle a non debet:multa enim iis funt, quæ ad i mirandaiudicantur:quemadmodum eft Viperam viſo Fago perterri:experimé. " to enim probatum eſt, illiusramo ante hocanimal iniecto, veluti attonitú fie si, nec ampliusmoueri Hoc etiá cuenic Gha. ti ſi barundine feuilsime percutitur: fin verò iterum eadem vipera incutitur confirmari videtur, & fugam repentè adire. Mulieres rard inebriari, acbrd autem ſenes, Ontrariam naturam ſenile corpus, Contd & muliebre fortita funt:ob id mulie. res rarò ab ebrietate corripi afpicimus, crebò tamen'ſencs. Mulier quidem hu mida eft, vtà cutis cenitate,& fplendo re.comperimus, fenex contra ſiccus, cucis afperitas&ſqualor confirmat. M11, lier ex aſsiduis purgationibus fuperfluú exonerat; ſenex autem ex corporis duri. tie,luperfluanonexcernit.Mulieriscor. pus, quia variis purgationibus crat de putatum, pluribus foraminibus fuit có fertum; non ſic ſenis corpus,propterea naturales meatus à corporis ſiccitate, & duricie potiùs obſerantur. Hæc funt în caula, vt ebrii fenes facilè fiant, muº lieres verò perquàm rard. Nam fià mu. liere largè vinumfuerit hauſtum, illud magnam mulieris humiditatem incidens,vtiq;vimluam perdit; dilutiulý; fit, & cerebriſedem non petit: nam per. varia foramina mulieris illius vapor re Currit, & celeriter eius fortitudo euanel cit.In ſenibus vinum contrarietatem no recipit: quia corpusillorum ficcum eſt; ob id vinum firmiter adhæret, cerebría que petit, quia in durioribus membris; & aridis(vt ita dică ) exhalatio nulla fit: hincab ebrietate facilècapiücur. Ex MA crobio 7.Saturn. Qua induſtria in vrgenti fomno, quis vac leat excitari. Agnus Alexander,vt ingerendo imperio, occupatior eſſet,magnú contra ſomnum excogitauit remedium, quoſi quis vtetur,facilèin ſomni graui tate excitari valebit. Ille Vas æneu pro pè lectum conſtituebat, & pilamæneam fiue argenteam manu compreſſam ha bebat,brachiumque ſuper vas illud ap tè componebat,vt pila in ſomno elapſa in æneum procideret, & à fonitu excita retur, & furgeret.Mira equidé fuit hu. ias ingenij dexteritas, licet hæc Alexandri dormitatio potius quàm fomnus dici poſsit.Ex Ammiano Marcellino. Quibusfignü corpora venenata cognoſci yaleant. L Icet venenorum genera multa fint, ex quo difficile fit omnia figna repe rire,quibus cognofci valeant,afferam ta men qua mcthodo corpora, quæ venenü fumpferint,intelligere poſsimus. Porrò magna fit in corpore commotio, dum quis venenum hauferit;præcipuè fiillud calidæ fuerit naturę:doloribus enim va lidis,atqueacutis in ſtomacho, & inte kinis torbonibus languens cruciabitur, præcordiorum fentiet anguſtiam, fati gabitur vomitu,& fuxu ventris, ſudor fuſcirabitur in fronte cum vultu frigi do: colorægri erit pallidus, pulſus de bilis, inzqualis, & inordinatus,fynco pi, &animi deliquiis affligetur. Hæchi omania, vel in maiori parte fuccedunt, o porter celerrimèinggris.vomitum pro uocare, vt aflumptum vencnum eiicia ur. Ex pal.Vilan. Luem Gallicam non modò homines,fed canes etiam inuidere. Tanta eft morbi Gallici quandoque immanitas, vt non modò ex vno lan guente,vel reſpiratione,tactu, autcom merci oplures homines ea lue polluan tur; verùm atque canes, ſi vicera, vel vnguenta infirini lingere potuerint.Ex I perientia hoc edocuit; viſus eft enim & quidam canis Gallica lue captus, quihe I riſui emplaſtra linxerat. Ex obformatore if Iulii Scaligeri. 6. Poet. Quotermi nocorporis hominispulchritudo conftitui debeat. Arii equidem funt Scriptores in conſtituendo termino longitudi nis, & latitudiniscorporis pulchri:ihter quos, ſententia loannis Goropii, in fua Gigantomachia, magis acceptanda vide tur à fapientibus:colligit exHomeride Creto longitudinem hominis pulchri de bere eſſe quatuor cubitorum, latitudi nem verò vnius cubiti. Cymrinum bominibus palliditatem corporis inducere. More Multa profectd ſunt, quæ vultus colorem hominum deflorare ob ſeruantur: fiquidem panis hordeacęi v fus facit homines pallidos.Ex Ariftot. A quælutulentæ potus, vſus ſalitorum, & immoderata Venus valde colorem de. turbant: inter ea tamen, quæ ex proprie. tate decolerare putantur, Cyminivſus, &olfactus eſt. Duo enim de hoc exem pla habentur apud Plin.lib.20.C.24.V. num fe &tatorum Portij latronis, qui, ve illius imitarenturpallorem,cymino fre quenter vtebátur:alterum eſt Iulij Vine dicis,qui, vt Neronen falleret,palloré Sibicymino conciliabat. Ex Mercurialide Decorat. Regem Archelaum maximè Aſtronomie fi iffe imperitum. T minibusneceffariaiudicatur,vt malè ciuitates, refpublicas;hominumo; cætus fine illorumobſeruatione ij con leruare valeant.Vtique horum ope té pora,annos, menſes, & horas metimur, &ſine his in, varia labyrintha inuolui mus mur.Hoc apertè ille imperitus Aſtrono miæ Rex Archelaus oftendit,qui (vt vi ri ſummæ fidei fcriptú reliquerunt) ob Solis Eclipfim,cuius caulam ignorabat, * tantotimore correptus eft,vt regiam is clauferit,filium totonderit, iudicia è fo ro fuftulerit, & iuriſdi& ionem penitts en intermiſerit: vltimum enim orbis diem. eſſe arbitrabatur.Ex Magino. Mira grecilitatis quofdam bomines fuilfe repertos. X Aeliano,& Athençoquofdam ho mines extremæ gracilitatis fuiſſe * colligimus:legitur enim quendá Arche ftratum vatem fuiſſe, qui captus ab ho ftibus tantæ gracilitatis repertus eſt, vt cùmlanci apponeretur, pondus vnius obolihabuiſſet,quod incredibile,& ferè ridiculum exiftimatur.Philetas Couse. tiaminuentuseft, quem ex gracilitate E vſque adeò inualidum fuiffe fcribunt, vt ne à vento deijceretur, pondera ferrea pedibus, & foleis geftare coge { retur, Anguit. Emine Anguillas cumAquilone mirambabere fyme putbiam. Trabilis profe & ò conſenſus eſt, quem Anguillæ cum Aquiloni.. bus habent: ipfis enim ſpirantibus fex. dies fine cibo, & aqua has viuere fertur; cum Auftrisautem diſſentiunt, quippe his flátibus diu ſine cibo, & aqua illæ vi.. uere non poflunt. Ex Bodino in Theat. Aſparagorum vſum corporis facere pitorem. Nter ea,quæ nitorem; &pulchritudia nem tur, Aſparagorum vfusconnumeratur, cuius efficacia à multis in corpore colo.. rando ferè mirabilis iudicatur. Aſpara.. gi fætentem reddunt arinam, & perilla pratos corporis expurganthumores:eb: id mirum non eft,fi,ijs euacuatis,corpus reliquum non modò odoratum redda tur, ſed etiam nitidum, & coloratum: quippeex humorum prauorum conge. rie, & palliditas, & defloreſcentia nobis jonaſcitur, quibus ceflantibus, ceſat de. formitas, & colornitidus exoritur. Ex Auicenna. Picem cum oleo; maximam babere colli gantiam. E X congeneri ferènatura Picem, Rea ſinam, & hujuſmodi, magnam cum oleo affinitatem retinereobferuamus:fi manus enim pice, vel refina fædantur vtique eas oleum extergit,idque ob col": Tigantiam oritur. Oleum furfur tollit, furfur aqua eluit; aquam demumlintco: ficcamus.Ex Cardino Mularumgenuse propriapecieminime propag ari: MVlasequidem,& monftraconfimis lia,nec parere,nechium genus prou pagare obferuamus:id fieri aiuntmulti;. ab improportionato generandi tempe ramento: veriùs tamen cum Bodino in Theau.Natur: hot contingere exiftimo, une fpecierú fit infinitas: natura enim in finitatem abhorret. Ariſtoteles in Syria fupra Phænicesmulas parere ſcriplīt; & Theophraſtus in Cappadocia illas genus 3, propagare voluit:tamen hoc veriſimile haud eſt. Propterea magis credendum reor, in illis locis Aſinarum quoddams: genus oriri mulabus conſimile, potiùs, quàm mulas, quarum partus à noftris. prodigiofus, & funeftus effe dicitur, vt Iulius Obſeq.inlib de prodig: adnotauit. Leones, Sole in Leone'peragrante,a'febribus, moleftari: Irabileeſt, quod in Leonumfpecie contingit,dum Sol Leonis cælefte fignum ingreditur:ijenim à febre tertia.. na in toto fyderis fpatio excruciantur:a deà quòd fateri oportet, talium genus cum hoc fydere antipathiam habere & tertianam recipere'; proinde Leoninaà multis hæcfeprisapperiatur,bene iudi. cantibus, Leonemeſſe peculiarem. Leo. nes hoc temporetertio quoque die paſo cuntur,neciemel etiam accidit, vt bidu um,veltriduum inediam ſufferāt, Ster custunc ficciſsimum, & vrinam fatente excernunt,vt Ariſtotelesadnotatum re liquit.Aiuntmulti, hocà natura forſitan eſſe factum,vt ferociſsimæ beſtiæ quo quo pacto cohiberetur impetus, & à fre quentiori rapina coerceretur. Quo artificio in fenibus barbas, albofque cam pillosdenigrare pale amus. Eferam notabilem miſturam qua, ' R Jeant.Sumito lixiuij communis quantú volueris, decoque in eo faluiæ, & lauri folia cum corticibusiuglandium viri. dium; mox laua, aut ablue madefa &ta fpongia:ita enimnigredinem compara bis, quæ diu durabit, &lætaberis effectu. Ex Porta: Mergum,& Anferem aquaticum in Hydrsa phobiam plurimum valere Ntercuncta animalia adnotauit Arie ftoteles Anſerem aquaticum folùm non rabire, ob id à multis huius efum in Hydrophobia maximè celebrarur: mirifico autem experimento contra ram. bidi canis morlus valere dicitur Mergus qui in aquis & maridegit, quippe ab Ace. tio,eius eſu Hydrophobosillicoaquam efflagitare narratur. Lacertasmira magnitudinisapud Indos iz... Meniria NInfula Sancti Thomę, quçdam La IN Ls certæ ſpécies miræ reperitur magnitu dinis,quæ admodum illius gentibus fa miliaris, eft.In Ioſula etiam Capraria,, quæ vna èFortunatis eft, ingentis ma gnitudinis hæc animalia cerpūrur;habis tatores autépro ijs interficiendis, bom. bardis,fiue ſolopetis,alijfque bellicis in. ftrumentis vtuntur. Ex Amate Luſsin Dia. ofcer. In educandis iuuenibus, miran fulle aibe: niexfium induftriam. Moser Oserat Athenientum in iuvenum educatione, vtij cothurnicibus, fio uc qualeis, aut gallis pugnantibus ftudi. an impendcrent:Solent enim hiermo. di volucres,vfquead extremam virium defeâionem certare. Qulo exemplo ad ſubeundapericula; & vulnera contem merida, ifamınabant iuuencs increpan tès au:bus minus ingenioſos effe homi. nes, non debere.Exsotino apud Lucianum Serpentum eumapudl kudosfrequentari.. NCuba Inſula penes Indos,ferpentes loua totius corporis ipecie, ac forma prediti inueniuntur,quippe ſelquipedis IM I plerumque longitudine exiftunt,& ex terra, & aqua viuunt:Quod autem apud illas rationes mirabilius videtur inlay tioribusmenfis, horum animalium e fum,tanquam ibum ſapidiſsimum free quentari.Fx Petro Bembo. Quomifico,Po ticaput; inmiram intumeſcentiam redderevaleamus. NterAgriculturæ arcana, non infimi momenti methodus eſt, quaporri cam put in tumorem magnum reddere poro Gimus.Aperiam abftrufum artificium:Si enim porri caput,arundine, vel ligneo ſtylo pupugeris,atq; raporum,vel cucu- merum fomen vti foramine occultaueris proculdubio propria capeo in tan tamtumorem deuenire, vtid prodigio- fum iudicetur, Ex Mizaldo. Iwer Fraxinum, &Serpentes miram adeffe Antipathiami Raxini fuccus ad ferpentum morfuss mirabili fuccelu à medicis vſurpa nec fine ratione: hanc enim plans tam Serpentes, ex occulta antipathia ji miro odio infequuntur: fiquidem illius L6 yobras OX tur, vmbras tùm matutinas,tùm veſpertinas euitant,& lógiusaufugiunt. Retulit Pli nius lib. 16.cap. 13.ex fraxino experi. mentum quòd figyrum frondibus fra xini,& igne apparatur, in cuius medio ſerpens lit proiectus,procul dubio ferá in ignempotius, quàm in fraxinu aufu gere:tantusefthorum diffenfus, &co. culta ſerpentum inimicitia., Virginitatem in mulieribus, qua viaexperizi: paleamus. L Apathiū maius in aperienda mulica rum virginitate aftantibus magnam retinet efficaciam: ſi enim ex huius folijs faraturfuffumigium,fiue hęc fuper ig. nitos carbones inijciuntur,vteffument, vbi mulierum fit corona, cum odor ad pudenda mulieris perueniet, illius bon. nitatem,vel malitiam oftendet: quippe fi viro copulata fuerit,abfque dubio v rinabit, fim verò fuerit virgo,vrina po tiùs conftringitur, quam emictatur.Ide etiam faccre autumant,lignum Agallo chum, fiue Xiloaloem, vel femen portu-, acæ fi fuper carbonesiniecta,adeò effument, vt ad pudenda mulieris odor va leat penetrare: mouetur enim in deflo ratis vrina quantò citiùs, fecùs verò in virginibus.Ex.Perta. Quomodo ex duabus aquis claris, lac effings re illud valeamus.quod Virginale Pocatur. Ac illud,quodà pleriſque ob colo Cris ſimilitudinem,liue ex nouo ori gine, Virginale appellatur, ex duabus, aquis artificiosè corifedis exoritur ad multa equidem corporis mala yti. Lifsimum.. Eius modus talis eft. Su mito lithargyrij in puluerem redacti Vnc.ija acetialbivnc.si.commiſta infi-, mul per filtram lineum deſtillato, & a quam clară habebis.Vtautem alteram componas, fumito Salis gemmæ Vnc.), Aquæ cómunis, fiuepluuialis claræ Vnc. Mimiketo fimul, & fic bimas habebisa quas magni valoris. Cùm verò vel ad oftentationem, vel curioſitaré fiue ne. celsitatem lac Virginale conficere opta bis,aquas vtrafque coniungesfimul mil cendogita profectò confeftim laquor la L7 Ereus  M deus ſuſcitabitur, qui Virgineusvoca. tur.Verrucæ in manibus fi hoc lacte per dies aliquot beneconfricantur, euanef cunt. Impetigines,omneſq; faciei macu. læ,rubores, & ex foleardores, hoclini. mento facillimè curantur. Caftrates lienem,velonorum vitellós durios? res deglutire non poffe. Irabilc elt i: lud,quod in caftratis, circa cibum obferuatur: hi enim nec lienem,nec duriores ouorum vitels losdeglutirepoffunt, vt frequentiſsima apud multosinoleuirexperientia.Retulit Bodinus in ſuoTbea.tales priùs fame fe necari pati, quàin lienem vorare por fe.Huius reialia non creditur effe ratio, quã xſophagiiſtorú ex nimia adipecoão | guftatio, & cóftri& io; cũ auté lienis fub-. Itātia spõgiofa &flatuoſa fit,atq; in mã. ducationemagis infletur;facile fit, vtiji i ex ælophagi anguftia talem cibum deo to glutire nequeant. Eadem ratio eftino uerum vitellisdurioribus', qui ex ſuba Itantia glutinoſa,per anguftum non facie la tranſeunt. Spatium humanæ vita, centum annorum fom cundum degyptios compenſariin. teruallo. in. * " Vriofa magis, quàm veritari confo näns mihi videtur Aegyptiorum aliquotopinio,dehominum vitęmenfu, ra:quippe illorú multi, qui medcata cadauera feruart conſueuerant, ex quada conic & ura à cordis humani ponderede fumpta in eam deuenerefententiam, ho. minisviram centum annorum fpatio de Gniri.Sumebant experimentum in cora poribus, quæ fine labemoriebantur; ho rumenim anniculi duarum drachmarú. pondtrisgcorretinere videbantur, bini quatuor;& fic in iingulis annis, quo in anno quinquagelimo bomines centum. drachmiscor in pondere retinere affiras mabant:à quinquagefimo binas: dracha mas fingulisannis decreſcere, atque à cordis pondere detrahi, minuijè dicea. bant, &fic in anno centefimo ad primum, fui ponderis: fecundum iftorum conie... awan,corredibat.Ex Teicntio / arrone.  Claro Pblibotomiam ex vena ſaluatella, pleneticis: plurimumprodeffe. "VrabatGalenus ſpleneticum qué dam;& cumdiù (vtipfe narrat)de illius cura eſſet ſollicitus,atque diligen. ter remedia quæreret quadam nođeſó niauit,fe in infirmo de vena faluatella, quæ eft interminimú,& annularem ma nus digitos ſäguinétrahere; quod fecit, & fanatus illeeſt. Hoc diuinæ bonitati tribuendúexiſtimo, quæ multoties, ho mines per bonosfpiritus dirigit, vt ca perficiant, quæ in corpornm valetudine concernuntur.Ex Bartbol.Sibylla. Gymnoſophiftas apud indosmire,viſus, &in genij dexteritatis inueniri. MIIrabile profectò illud eft; quod de -Gymnoſophiſtis quibusdam apud Indos narratur. Hienim ab exortu, vf quead Solis occaſū; oculis contentiscan. didiſsimi fyderis orbē intuentur,inglo bo igneo rimantes fecreta quædam,a renilgue feruentibus perpetem diem al ternis pedibusinfiftunt.Ex Solino. Quibus auxilysforumarum materia,per pri nis paleasensachari. Bseruatum eft huiufmodi præfi O sibus euaneſcere.Adhibentur primò in firmis aliquot clyfteria, ex fucco bryo niæ, & mercurialis,oleo, & fale concin nata, quibus patiens tum gelu, tum ma. terias.viſcidas copiosè purgari videbi. tur:mox cum oleo amygdalaru dulciū, vel mali aurantij coleis, manè dilucu.. lo, cantharidum præparatarum grana quinque,velſex iuxta corporis naturama. capiet.Cantharides autem per horas 24.. in aceto infundantur,deindeexiccentur, &in puluerem reddantur.Hic enim ea. rumpræparationis modus eſt. Huiul modiauxilijsftrumarummaterias, vri pas euacuari compertum eft., Obferua uit hocDo & orPhyficusJoannes Domi. nicus Donnus,cuitis familiaritas,animi queindoleseſt mihiſemper gratiſsima, mihique tale remedium communicauit; robuſtis tamen corporibus folú adhibe ducéleo: ex illius enim experiméto do lors BARCE- 1 II! lores ad inftar parturientis circa pe &tine tale præſidium commouereaudiui. Alijs etiam modis, & auxilijs (trupęcurătur, quippe fioleo,in quo rana terreſtris,tal pa vellacerto, (vulgò dicitur racano )fi ue lacerta magna vocata ebullierit, diú ftrumæ,purgato corpore, liniantur,abf que dubioexiccátur, & euaneſcunt.Het animalia viua prius in oleo fuffocantur, cùm ad carnium ab oſsibus ſeparationé ebulliunt, & oleum mirabile ad ftrumas componitur. Nonpulliad earum extir. pationem caufticis vtunturmedicamen tis, quorú potentia caro aperitur, & ftru mæetiacuantur.Componuntur hęc talia ex arſenici fublimati drach.j. lithargyrij aur. & aluminis roccean.drach.ij.fabari vftulatur:numero quinq; hæc in pulue. rem reda & a cum frumenti farina,aceto que acerrimo mifcentur, & fit malfa, è qua orbiculi, vel plancentulæ formantur & exiccantur in Sole, vel furno,admoué tur fuper ſtrumas, &fpatio horarum24. opus perficiunt, Alexandri Magni magnanimitas in pofteros: ftudiofas. MVlta ratione Alexander Macedo Magnusdi& us eft',cùm eius excel lentia non modò in litteris apparuerit.. Ille quidem, vt Ariftoteles de animali bus hiftoriasfcriberet,multa liberalitate in pofterum vtilitatem, octingenti auri talenta, cum tribus hominum millibus dedit, vt fyluas,aularia, & viuaria, omnis. generis diſquirerét, & opusab ipio per.. ficeretur.Illi autem per Europain,Afriw. - Cam, & Afiam peragrantes,multa anima: tium gencra ad Ariſtotelem attulerunt, quarum difle & ionibus, de vniuerfa fen? rè horum natura accuratiſsimè Philofon phus fcribere potuit.Ex loanne Bodeno. I WA Mulieres quafdam in oculis, equi effigiem, pel: geminaspupilas babere compertum eft. NO On rarò quædam mulicres magæ reperiuntur, quæ vt plurimum a-. niculæ funt, hominibus, animalibusý; vilu,nocentės. Solent hæ in fingulia, acut oculis, velgeminam habere pupillam, (vt HieronymusMengus de Arte Exe orciſt. adnotauit ) vel equi effigiem, quemadmodùm nonnullas Pontumin colentes habuiſſe legitur. Referuntex iftarum oculis quofdam emittiradios, qui non ſecus iacula & ſagitrę pro homi num cordibus faſcinandis exiftunt, ità profe & ò totü pernicioſa quadam qua litate corpus inficiūt,breuique velnullo temporis conſumpto interuallo,homie nes,bruta,ſegetes,arbores polluunt, & ad interitum tæpè deducunt. sanguinem caninum HydrophobosCupareba PotumAutumant Galenus N Serapio,& pleriq;fapiêtes,fangui nis canini potu, canisrabidimorſum ca. rari teftantur: quæautem fit ratio,apud hos non legitur. Referam tamen, quæ àMarſilio Ficino in lib. z. de Vit.produc. adducitur. Ego opinor (inquit) ſali ziam canis rabidi venenoſam, impreſ fam hominis pedilæſo,per venas paula tim ad corafcendere more veneni, nifi quid in tereadiſtrahat.Si igitur interim canis alterius fanguinem ille biberit,fan guis illecrudus ad multashoras natat in ftomacho, eum denique velutperegrie - num deie & uro per alium. Interea cani. pus languis ifte,faliuam caniná fuperio ra membra prenſantem, priufquam ad præcordia veniat, deriuat ad ftomachű: ná &in canino ſanguine virtus eft ad faa liuamcanis attrahendam, & in ſaliuavia ciſsim viftus ad fimilem fanguinem proſequendum. Venenum igitur à cor defemotum, fanguiniqueimbibitum, in aluo natanti, vnà cum ſanguine per inferiora deducitur, hominemque ita relinquit incolumen. Corallinam, ad puerorum vermes necandos maximè laudari. COMOrallinæ, quam plerique muſcum marinum appellant, in puerorum ť vermibusnccandis,miraeft virtus, & cf. ficacia.Hanccirculatores in plateis vene dere folent,talegue remedium ad lum bricorum internecionem, fummis lau. dibus extollunt. Profectò à veritate in hoc negotio haud abſuot:hoc enim cão teris medicamentis, in rehacaccommo datis,excellétius eft:experimento fiqui. dem comprobatum eft non modòlum. bricos interficeretale præfidium; verùm atque eadem die, cùin aſtantium admi ratione, oxpellere, vtiure dixit Mat thiolus, quòd quandoque viſus fit puer, quiex aſſumpra huiuspulueris drachma, a centum vermes excreuerit. Qua induſtria, labioram,meruum, capia tamgmamilarum citifsimèfifuras fanate vale anus. Periam ele &tiſsimum præfidium, A tumque mamillarum fiffuris feliciſsimo fucceflu fere millies vfus fum. Sumiro lithargyrii argent, myrrhæ, zinziberis an,vncj.redigantur omnia in puluerem fubtilif. & ex cera recenti, melle,& oleo oliuarum ad fuffic. fiat vnguentú. Vfus talis eft: primò liniantur fifluræ ex hu mana ſaliua, mox defuper in tela exten fum applicetur vnguentum,ita cquidem paucis diebus fanantur, Rhabarbarum cidoniatan, y terogerensabs que periculoalue exonerare. IN graudis mulier bus, cùm grandi inorbo affliguntur, magna cautela ſo lent medici medicamenta cuacuantiae ligere: vel enimhaud porrigunt,ne con Ceptum diſperdant, & matrem occidant; velmitiſsima, & benigniſsima excogi tant, & propinant. Multi Rhabarbarum ob eius caliditatem, & amarulentiă recu fát: ſed perperá quidé, quádo illud cido nio Correptú, inter ele& ifsima &benig piſsima connumerari debeat, Rcferam i qua induftria à Ludouico Mercato,viro celeberrimo,prçparetur.Sumanturcoto nea, ab interraneis repurgata, tes diuifa, (ſed fuperftite pellicula, quæ valde eft odorata) in aquadonec tabuc rint ebulliant: mox per linteum colata, & exprefla, optimolaccaro coquantur, & dumid fit,adiicies ad lib.j. huius con diturz,vnc.j.Rhabarbari. Doſis cuius fit vnc.j.vel Aliud cidoniatum compo nitur, quod eftgratius, & abfq; moleftia efficacius euacuat. Diuidatur cidopium &fub God &in par 1 (264 & fublatis feminibuscủfolliculis, parti um ciuitates puluere optimi Rhabar, negligenter triti,ac Drach.j.velj.- aut ij.imp cátur, vel, ſi affectus poftulaueri agarici tantundem, vel foliorum ſene; mox vniantur cidonij partes, papyro que inuoluantur, & ligata in clibano,vel furnello coquantur ad perfe &tam co & i onem;poftremò abie &tis medicamentis internis, pulpa manducetur. Hoc pro fe & ò medicinæ genus fecurè cuacuat, & viſcera omnia corroborat. Animantium robur animi, à femine inge terari. Vanta fit feminis efficacia, in aoda. cia hominibus comparanda, nullo aliomedio ſecuriùs cognoſcitur, quàm caſtratorum natură compéfare.Hipro fextò ſtatim atque teftibus priuantur, animi robur amittunt, atque máſueſcár: fiquidem & à fpirituumcopia, & calore potiſsimùm naſcitur audacia, quæ in teſtium natura valde { pongiola ge. merantur, & ab ijs in corpus deferuntur.Ob id Galenus,in lib.1.de femine,le méSolicóparauit, quod ſuo fulgoreorbe illuſtrat;iuxta cuius fulgorcs ſemē,& ipi rituú,& caloris potentia, ferè corpusil luſtrare admonemur.Hinc Aegyptijſa pientiſsimi,cum Regem fractum, hebe temq; repreſentare volebant,meritò Ti. phonem caſtratum pictabant benè ani maduertentes,nil poſle verius hominem infirmum oftendere,quàin hominem fie nc ſemine. Aegyptiorum aliquot ad Quartanam febrens ſecreta experimenta. х bris quartanas Aegyptis familiaria ſunt, hoc pro ſele &tiſsimo remedio ha bent,ægrotisdeco &tum ex menta para. tum ad femilibram,calidum cum (polio ſerpentis puluerizatibinisdrachmisan te accefsionem per horam propinare.A, lij cum decocto affati temporeacceſsio nisvomitum procurant cum felici fuo. ceffu.Sunt & nonnulli,quiante acceſsio nem pilularum drachmam exhibent. M He exagarici,gentianę,caftorei,mytrhe, rutæ an, drach.ij.piperis longi,calamia romatici,crocian. fcrup.iv.theriacæ an tiquæ drach. iij.conftant, & cum ſyrupo de granat. dulcib.conficiuntur. Aliis ve ſitatiùs eft,exhibere drach. agarici,cum myrrhæ ſcrupulo, diſſoluram in pulegi deco & o, Ex Alpino de Medic. Aegyp. Auesbacciarum taxi eſu nigro colore fieri. Axus inter plontas virulentiam ha bere maximam videtur: quienim fub iftius vmbra dormire audebit, in grauem affe & ionem incidet. In baccis autem venenum potiſsimum viget.nam à viris comeftæ,ventris profluuia, atque funefta pericula mouent: boues illarum vfu moriútur, quemadmodum &peco ra,ffortè has comederint, Aues verò iftarum eſu minimè moriuntur, penna rum autem color in nigrediné mutatus, Chelidonium Lapidem MIT APN epilepfiam baberepirtutcm. VIItrus Chelidonii lapidis à pleriſque maximè extollitur: prelentaneum enim Epilepticis réputatur remedium, adeò quòd non pauci iſtius vſu à tanta morbi forociate liberati funt. Feruntin. Autumni principio,Luna creſcente, hũc lapidem à ventre hirundinis extrahi, & contricum aliquo liquore epilepticis in potum propinari:quippe facultatem re tinere dicitur, tenacem, & vifcidum hu morem, qui caufa caducimorbi eſt exica candi. Multi,chelidonium non folùm elu, fed etiam ſola ſuſpenſione, Epilep ticos à proprietate ſanare contendunt, Ex Lomnio. Miram interafpides, & halic acabum inejſe Antipathiam. Irabilem natura inter alpides, & halicacabum, quemaiorem veſi cariam inuenit diſlenſum, & antipathi am:ijenim, fi iuxtà huiuſmodi plantæ radices quoquo pacto corpora admoue rint,tanta ſtupiditate, & fomnolétia cor Tipiontur, vt amplius nequeant excitari. Ariftotelem rerumcaufis maximum noſcena dis adhibuiffe ftudium M M 2 Erat Aristoteles adeò cauſarum re, Erum cognitionis ftudiofus,vedie cilè quiefceret, nifiad quæfitum exas ctum ſcrutinium deueniret: ob id cumà. graui valetudineopprimeretur,atq; me dicus citra morbicausa,pleraq; vetaret, fertur(teſtimonio Polybij ) sc.medico dixiſſe:Nemecures,vt bubulcú, & for forem; fed prius caufas ediſſere, & ita pre ceptistuis facilè memorigeratum habe bis.Cum autem in Chalcide exularet;ati que Euripi, qui inter Aulidem Bcotia portum,& Eubeam infulam ſuntaugu iti freti,feptiesinterdiu noctuq;alternis fluctibus ſtato tempore refluerent, ille maris recurſus excogitans,atque caulam reddere non valens, tanto mærore affe & us eft,vtmorti occumberet. Ex Iufting Martyr. Infates a nutricib mores,& téperiē recipere, nfantes profe & ò à nutričibus non foi lùm circa temperiem, fed etiam mo res multum recipere videntur.Ob id fat pienterà veteribus,Romulum à lupafu. idela &tatum, proditum eſt, velhocfinx I erring erint, vel vera narrauerint; fuit enimRo mulus ferinis moribus, callidus, fortif limus, & incommodipatientifsimus.At præter hunc,multosà feris enutriros, & educatos legimus; num autem hoc ijs, ex animi feritate fuerit tributum peſcio. Scribitur Cyrum à cane fuiſſe nutritum, TelephumHerculis,filiumà cerua,Pelia Neptuni filium abequa, Alexandrum Priamià vulpe,A egiſthum à capra,quo rum inores,apudScriptoresnoti ſunt,vt apertènofcamus, quid nutrices infanti bus afferant.Equidem quià capra lactá tur,ftulti fiunt, & fälaces;& ita hircuselt;. quare ex hac conie & ura tales euadere in.. fantes, quales fuerint& nutrices com perimus;fed mores virtute animi mode fari poffunt. Qdo artificio vitrum diuidere valeamus. Icet vitrú folum ab adamante, cùm plicabile haud fit, diuidiinueniatur, tamen alia induſtria etiam compertú eft illud poſle diuidi,vt Cardanusrecenſuit Hic eft modus: Filum fulphure, & oleo irabue, L M3 370 imbue,locum circunda,accende, repete, donec locus optimècalefcat;mox confe ftim alio filo, aqua frigida madefa&to circundato, & vitro in eo loco fractum, &diuiſum habebis.Ego quidéalio artie ficio, & fecuriori vitrum, diuido,caſug; hoc mihi notuit. Habebat quadam die cyathum vitri vino ſublimato,fiue aqua vitæfemiplenum, ad curiofitatem non nullorum amicorum,a quamin flammá, accenfa candela,reddidi, vt vinum fub. limatum accendi folet, confuiripta all tem flamma, cyathusin medio diuifus eſt,atque co potiſsimùm loco, quema qua fupernatans attingebat.Ita ex curio. loexperimento, vitruin diuidere apud alios amicosnon lemel valuir Gallinaceum ftercusà fungorum virulentia bomines tueri. ' Vngorummalitia,ex multorum ex.. perimento, pleroſquevita priuauit quia autem homines ab illorum elu ob luxus abſtinere nequeunt,referam quid àGaleno,tanquam arcanum,pro iſtorú. Fe virulentia extirpanda,leu ſuperanda ada notetur.Erat in Myſia medicus quiho mines penè ſuffocatos ab elu fungorum ad vitam ducebat, remedioa; tanquam arcano quodam vtebatur: huncprecibus exorauit, vt tantum auxilium aperireta Stercus gallinaceum ille adduxit, quo contrito ad- læuorem vtebatur, & cum: oxycrato,autoxymelite propinabat in firmis, qui celeriter omnesadiutiſunt. Hoc vſus fuitmox in quibuſdam Vr- r banis Galenus, & verum inuenit: nain: qui præfocabantur, paulò poftvome bant pituitofum humoré omninò cral hiſsimum, & exindeplanè liberati funt. Infuper Myſius ille vtebatur huiuſmodi præſidio in diutinoColi dolorecú oxyo melite,propinato vino, velaqua, cum felicifsimo fucceffu lob id Galenus ex Bolilongo dolore fpafmo correptos,ta li remedio quoſdam perſanauit: nam & hoc colicum doloremaufert, qui caufa ſpaſmi eſt.Ex Gal.16.simplic.cap.io. Varia deliramenta di vini potentißimipotua.r exoriri. M 41 Multa Vlta equidem deliria in ijs,quia vino potentiſsimo inebriantur, fecundùm humorum in corpore prædo-. minium ſuſcitari ſolent:quippe iltorum nonnulliin riſum maximum mouentur, aliqui plorant,pleriq; vociferantur, alij. profund ſsimo lomno quiefcunt.Refert Alphinus,in lib.de medic, degypt. muliere quandam à vini potu largiori ebriam, primònimis euafifle hilarem,atq; in ho.. mines la ciuiffe, quoscomplectebatur, & ofculis tenebat;moxèrifu, & cantu, ad ram, & furias deueniffe ex quibus fami.. liares eam pertimentes, præcauebant;de. inumin mæftitiam,vtdefun &tos lamě. tabili voce deploraret;poftremò à fom. no oppreflam,omnem ebrietatem digef fiffe.Caufa omnium eft, quia vinum pri mòcalefacit,fecundò adurit,tertiò refri gerat; ſi potésfuerit, & immodeſte poti. Ego profe & ò quendam cognoui, qui a pud Marchionem primum Sancti Marci dominum meum erat in culina,vt lances vaſaque culinaria in dies-collueret; vo cabant Iulium Colauentre. Hic epoto vino grandi, quodBeneuento pro domi 13 ni menſa forebatur in tam immanemde uenit ebrietaté, vt Dæmoniacus appare ret,os,manufq; extorquebat,in fe ipfum fæuicbat, ia &tabatq; membra, & infinita agebat deliramenta. Aulæ Sacerdos fa cris libris accingebatur ad exorcizandú hominem: quando vocatus, ebrium illi effe faffus fum,meoqueiuſſu ferula,mo Te puerorum, circa nates,flagelliſá; con tačius, breui ebrietatem dereliquit. Syrium inter fydera.calidißime exiſtere matuth., Riente Syrio tantum aëris concipi.. præ ardore langueſcant;canes in rabiem trahuntur;furiunt viperx, & ferpétes; ftuant mariajaer occultam nocendi qua. fitatem recipit;ſemina, ia era ſub tali ſy dere,minimènafcuntur: talis profectò eft Syrij natura. Exlib.2.de Hydr.natur. Viterum in nuptis mulieribus varios fuiffe mores, o confuetudines.. 3 MS Non  N.DE dumprima On vna equidem apud Veteresin. nuptis fæminis erat confuetudo: quippe conſueuerát homines in finuPer. fico, littoreg;Orientali, Virgines nobi. les nubiles haud deflorare, nifi brachijs, margaritarıım ļineis ornatæ incederent:: ab id illæ in magņo.erantprecio.Deſije. a nuncmosille, & margaritæ vilius illice. muntur.E « Garzi4 ab Horto. Catullus, in nuptijs Pelei, Tetbidw, aliam natat con ſuetudinem, Virgo nupta, noctecun marito erat concubituva, ita tra & abatur:ante coitum eiuscollinen.. fura filo circumdato meníurabatur,mae nèhocrepetebant,quòd fi latius, quam vt filo comprehenderent, collum inueni ebant, defloratam ça nocte cenfebant:ſin: Vitò dibilomaius,integram, aut antea. fuille deuịrginatam habebant. Aļijalias. habuere confuetudines. Pupauetagrefte mirabiliter Pleuriticum mere bum fanare, Efeet Galenuspapaueradolores miti gare, atq; interanodyna reponiina multis locis referat;tamen agrelte,pleu, ritidem,in lib deremed paras.facil.confel, - fus eſt perſanare. Aperiam quodà mo nacho empirico mirabili fucceflu in hoc morbo fa & um vidi.Hic folia & ſemina agreſtis papaueris,in vmbra exiccata,ſe cum continuo deferebat:cum autê quis laterali morbo infeftabatur, eius confr lio ſanguinem à brachio ſecundum ca 1 nones extrahi curabat,mox deco&ú fo liorum in brodio pulli collatum, cum drach.j.velj- iplius papaueris ſeminis capillamentorum, quæ poft colaturam addebãtur,capiebat tepidè, & ieiunio * ſtomacho. In loco doloris hæc Epithe. cata adhibebantur.Parabantur ex pul yere roris marini, & ſalis,farina, & aqua" tres placentulæ,quæ ſuper calido latere in firmam ſubſtantiam ducebantur: hiss locus,epithematis inſtar,fouebatur, & breui tim dolor euanefcebat, tum etiá: apoftema rupebatur, & infirmus ad fa. lutem magna admiratione priftinam rew. dibát, Corni plantam, Singuinarie,vel SörbiHydrom phobiam curatam fufcitare. 1.1 ter 276 Je Nterrerum admiranda, connumera tur aliquot plantarum energia, quæ ſopitam, atque curatam in hominibus Hydrophobiam ſuſcitare, & renouare couſueuere. Pluries etenim obferuatum reperio à Canerabidocommorfos, fi plă tam corni, yel fanguinariæ tetigerintan. te annum exa & um, velfub forbo dor mierint, ineuitabiliter in rabiem incide. Tę. Salius in lib.de affe&. part, virus hoc potius à toto ſubſtantia, quàmàtempe ramenti ratione ſufçitari prodidit; nec enim à taląu, necab vmbra intemperi es introducipoteſt. Itaquemirabileelt, ab iis lopitam rabiem renouari, quod. fieri non poſſet, niſicum rabidalue, ha plantæ aliquam haberent antipathiamy cuius alia potior haud adduci poterit ratio, quam tetigimus, quod huiufmodi a proprietate hocperficiant. Qua induſtria penenum illumptum deſcen.. diffe ad gibbum Hepatis pèlinteftina. rognoſcere valeamus... iquopropinato,nullamajor me dicis, difficultas exoritur, quam veneni refidentiam reperire, vtritè ca adhibe antur pręfidia, quæ talia oppugnare re perta ſunt. Si enim venenum fuerit in ſtomacho,vomitum proderit excitare; fecus autem,li tranſiuerit hepatis regio nes,Hiceft modus. Ponaturoui vitellus cumalbugine, cum infirmi lotioin ma tula;fiinfra paucashorasnigrefcit, & fee tet, venenum adiecoris gibbú peruenit; Tip verò rugetur,çitrinefcat, & non fæte at, inteſtina haudtranfiuit. Hinc indica tionem corradimus, veneno ad inteſtina Traiecto,non conferre vomitum prouo care, ExBAYTO. Plantas peduconfimiles;congeneres retine YENİKHI€s. MVltis experimentiscomprobatum Teperio,plátas,fruticelý; ligna, quę quadã aſpectus ſimilitudine cóueniunt, congeneres retinere vires.Sic multi mea dicorum peritiſsimi locolingniGuaiaci, Buxo vtuntur;loco falſę parillæ,ſmilace it aſpera, loco ſaſſafras, žylucftrifoeniculo; pro polypodio, filicecligunt; protipfa M 7 na  nyhor leum pro myrto,liguitrů; pro ea buio,fambucum;pro china radicem no ftræ arundinis;pro Rhabarbaro, hippo lapathú.Hçcn.facie corporeg; aſsimilá. túr,proindecöſimiles vires habere exia ftimatur. Exlib.noftro de Hydran. Natur. Inter Arundinem. Fräcem,may nam inefſe extipathiam. Aturali quodam odio inter ſe Fi lix, &Afando diſsidere videntur: moritur enim filix, quæ ab arundinem: plantis circundatur; & arundo quæ à fio licum virgultis: quo dudi experimen to agricolæ, arundinis folia in colendis agris, vomeribus alligant, perſuaſi ab iſtorūdiſſenlu, ſilices ab agris extrudere, &,vt audio votum in dies conſequütur. Apri dentem ad Cynanchen, Pleuritiden mirabiliter valere. Agna eft efficacia dentis Apriin NA ! uis eius oleo linino excipitur, ac locus affe &tus tangatur cum pennę' extremitaa: tę,cx Arnaldo, & Auicenna habetur,bảo morbum præfeptiſsimè curari.In curan da pleuritidenon minor eft virtus eius. propterea folent practicantes admiſcere tum fyrupis,tum electuarijs huiufinodi dentis puluerem,benèpoſcentes ab oc ! culta,&aperta proprietate talem pulue rem prodeſſe: quippè extenuādi, & exic, candi vim habet. De hocdente mirum. feribitur;occiſo enim Apro recentar,ip fius détes adeo feruere referüt, yt capil losadmotos nonnunquam comburant. Id accidit., quia Apricalór magous eſt; dumý; occiditur, ira & exercitatione fer uefcit; proinde dentespropter denſam ſubſtantiam, magnamrecipiunrcalidita tem,cuius indicium ipmaeſt. Aparagos ju arundineros fatosmirabiliter ex. crefcere. FAximuseft inter arundines, & af par gos naturalis cófenſus;idcir... Iragos, & pulchriores, & core pore?s atq; ſapidiores habere op tabit,ue, arundinetis leminare procu rabitquippe ex naturali ſympathia mi rum in modum excreſcere, & germinare, animaduertet. Meani co qui MVltis profe& ò notiſsima eft, an Viero gerentes eſu cotoneorum induftrios; acuri ingenij parere filios.. Mirab Trabile eft illud, quodà multis de cotoncorum proprietate affirmari audio: ſi enim.grauidæ mulieres,quàm læpius cotones-comedere folitæ fuerint, filios & induſtrios, & maximaingenij pårere dicuntur:fiquidem cotoneis mia ram hanc facultatem ineffe credunt. A. liud autem mirum in ijsreperiri apud Mizaldum legi,grauidas mulieres háud parere, velfalte difficulter fætum ede re,ſi in cubiculo, quotempore partus fuerint,cotosca feruauerint: credo ex eorum conftringentiodore, velocculta. rationeid euenire. Heder am cum vinomiram habere diſcordiam. tipathia, quæ inter hederam, & vinuinànatura infita eft; fi enim ex hc deræ trunco cratera componitur, in qua vinum dilutumfuerit impofitum,pro cul dubio vinum confeftim effluesfun detur aqua verò intus retinebitur,adeò vini impatiens hedera exiſtimatur.Hoc ducti experimento nonnulli in vinise mendis hederæ poculis vtuntur: ita e quidem num purum, vel dilutum vi num exiftat;examinani, & cognoſcunt, Volatilium piſciumg;fecunditatis,Ginteria. Tuprafagia. Oletin quibuſdam annis animanti bus quædam peculiaris peſtis graſſa ri;hinc fit,ve (liannus valde pluuioſus extiterit(auium, volatilium, bombycú ſericeorum,araneorum,erucarum,inte.. ritum videamus;piſcium verò ftirpiúq;: fertilitatem, & valetudinem.Annus ay. tem ficcusvolatilibus (apibus excepris) falutaris iudicatur;piſcibus verò perni... ciofius:ficut enim in angulto aere, obim. pediram reſpirationein,fuffocamur, vi. uereque nequimus;ita piſces in anguſtis aquis concluſi diu vicam agere mini mè poſſunt. Gallinarum adipem(accharo obuolutam,vor modò a corruptela preferuari;verùm atque oleum redderepretiofis fimun. Mira Mina Ira equidem eft facchari virtus, in conferuandis àcorruptela adi pibus. Cum quadam hyemePrudenria filiamea gallinarum adipes collegiſſeter acfaccharo albo benè conuolutasin va ſculorepofuiflet,æftate ſubſequenti, il lud oleo femiplenum reperit, adeòpel lucido, vtcumad medeferret excellen tius haud inueniri poffe iudicaui. Hoc licet illa pro exornandis capillisvtere tur, tamen pro mitigandis corporis do loribus,pro carnis (cabritie tollenda, ae liifque infirmitatibus vtiliſsimum effe į cenfeo:Quod autem mirabiliusiudicaui: adipes illas:poft multos annos conſerua.. tas, eodem colore,atqueodore, quo re-: centesin vafculo fuerunt claufæ anim aducrti. A quodam Chirurgo amicoet ia nintellexi,humanam adipem faccha. ro conuolutam;per longifsima tempo ra à carie, & rancido præferuari: quodiſi. ita eſt, credo in omnibusanimantiumde. dipibus id euenire.Qrare Magpatú cor pora condienda melius faccharo imple. ta, quàm aromatibus pofle conſeruari crederem;eò magis, quia hoc præſidio, corpora in propriocolore, vi deadipe dixi perfifterent. Cucameres naturali odżo oleumabborreres - aquam verò appetere. INteſtina iudicatur diſcordia, quæ in, ter cucumeres, & oleum ineft: nam, & ijaquam,appetere.à lege naturæ viden. tur.Proinde virentes, atque è propriis. plancis pendentes, vafcula ff aqua plena ſübterhabuerint,adeò longius extrahús, tur, vtaquam inſequiex certitudine ex. iſtimentur; fin autem oleum fub his fue. rit eie & tum procul dubio in feipfos, ve Juti vncus, retrahuntur;fiquidem ij olei impatientes ex naturali antipathia co gnofcuntur.ExMatthiolo, Mandragoram pitibusapplántatam,vim il tis infundere ſoporiferam. T Antam habét Mandragora inducena, di ſoporem efficaciam, vteius pom vel comeſta, vel odorata,quandoque ca taphoram exuſçirent. Illud autem mi rabilc eft, vitibus Mandragoram com plantatam, propriam iis naturam infun-. dere, adeò quòd vinum ex huiuſmodi: confectum ſophrem bibentibusinduce reconſueuerit, vt Rhodiginus adnota-, uit. De Mandragora Iulius Frontinus hiſtoriam feripſit Strathagemwoz.Arn balà Carthaginenfibus cõrra Afrosmit. ſus fuerat, qui cùn ſciret gentem illam vini auidam eſſe,in quibuldam vini do liis, quæ in caſtris habebat, Mandragore copiam coniecit,indeleui comiſſo bello, ex induſtria celsit, fugamque ſimulauit. Barbari,occupatis caltris,auidèmedica. tum merũ cùmhaufiffent, in captapho ram lapſi ſunt, & ab Annibale trucidatia: Quando, Aegypti mortuorum corpora come dire foleant: E condiendis mortuorum corporibus, Aegyptiorum ex monumena tis multa, tum ab Hérodoto, tum à Cæ. Jio Rhodigino exempla afferuntur. Ae gyptii enimmortuoscondiunt, atq; do mi feruant: Ageſilai cadauer cera condi. tum fuit, yt & Perfæ facere folent; Alex andri corpus melle colitum eſt. Apud Iudæos exmyrrha, & aloe cadauera con diebantar,vé apud Ioanné Euangeliſtam cap. Iceportabile equindependenciaenels C. 19. legimus: quippeNicodemus myr rhæ, & alocs ad libras fermè centum mi. furam fecit pro corpore Ieſu Saluatoris noftri condiendo. Magorum eratmos, non humare fuorum corpora, nifià fer - ris ante laniata forent: Affyriorum Re gure fepulchra in paludibus condita fu ile tradunt. Mellis vſum, vita hominibus inducere diuturnitatem. Nenarrabili equidem potentia mel, corruptione cuſtodire valeret, à natura productúeft:propterea Plinius l.20.maximè huius virtutem ad miratur, ClaudioqueCæſari Hippocen taurum, exAegyptoin melleallatum, vt citra cariem eſlet, commendauit: nam & hoc corpora computraſcere non ſinit; fiquidem multi fenium longum mulſi tantum intinctu tolerauêre.Celebre eft mellis exemplum in Pollione, qui cen tefimum annů excefsit: hicenim ab Au. gufto interrogatus, qua ratione, &ani mi, & corporis vigorem, maximè cuſto difíet,hocreſpódiſſe fertur:Melle intus, foris oleo. Proditur etiam Corficæ in fulæ populos, ex aſsiduo mellis vfu, vi. tæ acquirere diuturnitatem, cuius rei li cet Diodorus non comprobet exemplu eò quòd mel Corficú peſsimum cente at, tamen non per hoc vſum mellis ad vi tæ produ & ionem improbauit. Gulinas ouaparere quolibet anni temporefi femina urtica, velcanabisin cibis habuerint. Scripſit Ariftoteles6.de Hiftor.animal. cap. 1, Gallinas toto anno oua parere, exceptis duobus menlibus brumalibus. Hoctamen tempore, quo à fætura deti ftunt, ferninis vrtica, & canabis auxilio faciliter gallinæ fæcundantur:fienim in cibis iſtorum ſemina Ticca comederit, procul dubio tota hyemis tempeſtate, non modò calidis temporibus oua pari ent. Hæc profectò earum corpora cale. faciunt, & ad fæcunditatem diſponunt. Curyepbylatam infantium maculas è corpo Olent tenella infantium corpora, dű vtero exiftunt materno, maculis 0 pore extricare. Solenereexiftuntmaterno, quibusdam, næuis, lituris, veruciſque, quæ à matris imaginatione fiunt, com maculari: hæcporrò quali ſigilla impri muntur, &difficulter poft ortum elui poſluņi. Pro iis delendis principatum habetCaryophyllata, cuius vis,& po tétia in huiuſmodi maculis extricandis, mirabilis iudicatur.Sumitur enim plan ta hæc cum ſuis radicibus in fine menfis Maij, quo tempore virtus vigorofror eſt atque à terreitate emundata, in alem bicco deftillatur, mox ex aqua ſtil lata infantium lituræ maculæque Tæpius lauantur, abſque dubio, eua. Deſcunt. Vrrica folia in lotio infirmi cuftodita, vitam, vel interitumpreſagire. Ira equidem, ex abdito naturæ eſcrutinio, in vica,morteq; infirmi praſagienda, vrticæ virtus,&potentia eft. Si enim recensplanta extirpatur, ac -24.horarum ſpatio ia ægri lotio aderua tur, vtiquefiviridis colore permanebit ex multorum experimentis,falutem, & vitam infirmiſignificare dicitur:fin auté haud A cantu haud viridis cuſtoditur,colorema; mura bit,mortem, velgrauepericulum deno tare, Ex Caftore Durante. Philomelam axem miro conſenſu à viperade. pafci. Vis Philomela cx cantu dulciſsi mo omnibus cognita eft; incogni tus autemeiusconfenſus eſt, quoà Vipe rà depaſci permittit:dum enim ſub ar bore,in quacantans auis fuerit, viperam viderit paulatim ex illa defcendit,&ad viperam accedit, vt illi fiteſca. Ex Thoma Tomai. Caftorem fià canibus inuaditur, minimè te fticulos fibi amputare. Linius,Solinus, & grauiſsimorú Scri ptorum multi,caftorem fibi teſticu. los amputare referunt, quoties venato tes ipfum canibus aggrediuntur quafi confcius exiſtat,quod(ijs reciſis ) à mof tis periculo ſit ereptus; fiquidem vena tores hæc infequuntur animalia, vt ex his accipiant,quodad medicinam vſur patur.' Rci autem veritate hi om. nes grauiter errant; quippe caftor, Ppioru testiculi iuxta ſpinam inclufi funt, vt multis ex anatome obferuatum. eſtiſte rum error ex velicis quibuſdam ortus eft, quæ in vtroque, maſculo & fæmina, loco teſticulorum pendent, flauo plenæ liquore ad medicinam vſurpatæ. Has vocant caſtereum aromatarii, teſticuii autem minimè lunt. Quo atsficio miliciæ Duces, vt hoftes offen danti gnemmiſsilem perniciofum -con ponere valeant. APeriam potentiſsimiigpis miſsilis, fiue artificiari compoſitionem,cuius potentia tanta eft, vt eiusminimaItilla non modò hominem viuum, verùmat que ferrum comburere valeat. Sumun turſandaracæ factitiæ lib. 1o. ſulphuris viui lib.4.oleiè rafa, fiue ex adipealbur ni ftillari lib. 2. ſalinitrifib.j. thuris lib.j.camphoræ vnc.6.vini ſublimati, fi ue aquævitæ optiinę vnc.14.Omniahọc lento igne bene mifceátur; deinde fupa obuoluta, atque accenſa in ollis, in ho ſtes inijciuntur. Ignishic, infernalis di citur,tum ex eo,quòd mirabilia agat; tū N atque ex Paracelfi impij ceſtimonio, qui retulit fc à quodam Dæmone fuille hunc ignem edocum. Demoſthmen lingua duritiem, quibuſdama Lapillis confregiffe. DEmetrius Phalereusalloquutus.com, quomodo fibi curaſſet linguæ impedi menta ſciſcitatus eft.Habebat enim ille linguam duram, & ſcabram, &proinde adoratoriam exercitationem impoten. tiſsimam ). Sanatam refpondit atque la. xatam fuiffe linguam raſpondit ex non nullis lapillisoreretentis, quibus loqui conabatur.Cuius Demofthenis præfidi í um difficilem habentibus loquutionem faluberrimum iudico, vtexpeditius fer mo citari valeat.Ex Plutarcho. Vinum quoddam àferpentibus venenatum, pleroſque àdifficillimis morbisconfanaffe. Trabilise{t hiltoria,quęáProlpe Milocro Alpino,lib.4.de Medic.Method. de vino à ſerpentibus venenato affertur In cella vinaria quidem ciuis Ferrariz inter alia,vinidolium habebat, quod (i ne operculo diù apertum extiterat: - & proinde compluresſerpentes,quos vul gus angues, & anzasappellant,ingreſsi in vinum ſuffocati, & putrefa& i fuerát. Multiægroti ex febribuschronicis; atq; difficillimis vexati morbis ignari,quod ſerpétes in eomortuielent, vinum à ci ue emebant illud, quod guſtui gratum iudicabant, & breui fanati ſunt. Alij ab huius viniſama ſuaui, cum paucos dies bibillent,itidem lanati funt, & poft hos alijitidem eodem modo fere innumeri. Quare vinidominus tantæ vini faculta tis admiratusvinum e dolio torum edu xit, & ferpétes complures ſemi putridos inuenit,qui ré manifeſtá planè fecerunt. Veteres equorum lacrymas inter auguria recepiſſe. Agnifaciebant veteres equorum Llachrymas, atq; ex ijs auguriun vaniſsimumrecipiebant.Propterea ante Cæfaris mortem ad Rubiconemcqui dedicati ab eo flebant,idquemagno au gurio excerptum eſt. Illorum autem N 2 inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar, mani feftiffima nobiseft:fiquidétépeftate no ftra fæpius equos collachrymātes afpici mus, necperinde ex ijs alicui ſiniſtri quid accidereobſeruamus. Vt ipſe non Semelexpertusfum, æftate potiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum naturá efle,velmorbú iudicaui. Crocimerallorum compofitio. Fferam Quercetani, Croci metal. Jorumcompoſitionem, qui potens medicamentum tam vomitiuum, quàm purgatiuum fimul eſt, variisque affecti bus accommodatum. Præparatur cum zquis partibus MagnefiæSaturninæ, & Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodã crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis, quz puluerizata, rubicunda apparet inſtarcroci Martis, quæque dulcoranda eft: Doris -grana x. vel xij.cum vino,aut ațio liquore. Hominis compoſitionis mirabilia. Ntet mirabilia, quæin hominis com I pofitionecontingunt,illud quidem mirum eft,quòd tali corporis fit colla tusproportione,vt partes omnes pera. que toti cópofito correſpondeat. Licet auto in eius ftatuia nec certa nec deter, minatareperiatur mēſura;ex hominibo enim aliquibreues,aliquilongi ſunt;la pienus nihilominus perfectioré homi. nis ſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod ſaltem feptem non trárcédar.Interproportiones voluit Vi truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere; eandemſ;penſurat. eſſed capitis vertice, ad pectorisinitisko Manus longitudo à cõiun &tione ad mee dijdigiti extremūcorporisdecimapars: eft.Facies à capillorum radicibus ad ex® tremum barbę,eade eſt menſura.Maior pollicis coiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius faciei menfura eft, Maior iudicisconiun &tio,frontiset altitudo, cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniun & iones, nafi longitudinem oftendunt:Hominisproe funditas, ſi ſub brachiis, pe& ore, & hu merismeluratur,ftaturæ illiusmedietas: 3 reperi inanitas,ſiue ruditas vt ita loquar,mani. feftiffimanobiseft:fiquide tépeftate no ftrafæpius equos collachrymātes afpici mus, necperindeex ijsalicui finiftri quidaccidere obſeruamus. Vt ipfe non femelexpertus fum, æftatepotiſsimum equos lachrymari conſpexi, idcirco vel illorum natura efle, velmorbú iudicaui. Crocimet allorumscompofitio. Fferam Quercetani, Crocí metal. A medicamentum tam vomitiuum,quàm -purgatiuum fimul eſt, variisque affecti busaccommodatum. Præparatur cuin zquis partibus Magneſiæ Saturninz, & Nitri inuicem mixtis, & inflammatis in quodá crucibulo vt vtar artis vocabulis, & remanebit quædam materia calcina ta in colore Hepatis,quz puluerizata, rubicundaapparetinftar croci Martis, quæque dulcoranda eſt: Dofis -grana x.. vel xij.cum vino,aut alio liquore. Hominis compofitionis mirabilia. I' poſitione contingunt, illud quidem mirum mirtim eft,quod tali corporis fit colla tus proportione,vt partes omnes pera quetoti copofito correfpondeat. Licet autē in eius ſtatura nec certa,nec deter, minata reperiatur mēſura;ex hominibe enim aliquibreues,aliquilongi ſunt; la pienas nihilominus perfectiorë homi nisſtaturam è ſex pedibus cóftareiudi cauerunt, vel quod faltem feptem non trárcédat.Inter proportiones voluitVi truuius cubitum quartam partem totius corporis exiftere;eandemg;menfurami eſea capitisvertice, ad gedorisinitiúko Manuslongitudo à cõiun & ionead mes dijdigiti extrema corporis decimapars: eft.Facies à capillorum radicibus ad ex tremum Barbę,eadé eſt menſura.Maior polliciscóiú & io,oris eftaltitudo.Tota manustotius facieimenfura eft, Maior Indicisconiun & io,frontisettaltitudo,a cilijs fcilicet ad capillorum radices; cæ teræ autem iftius coniunctiones, naf longitudinem oftendunt:Hominisprop funditas, fifub brachiis,pe & ore, & hu merisméluratur, ftaturæ illiusmedietas. 3 rreperitur. Cæteræ partes cum aliistra. bentrationem,vtſuperius tetigimus. Apedumnaturam mirabilem effe. IN Neer terreftria animalia,Aſpidum ne, tura mirabilis iudicatur. Ex his enim mas & fæmina infimul vitam agunt, ta. tula; amoris affectus inter ambdsinge ritur, vtfi cafu illorum alter occiditur viuens occiforem infequi, quouſque fo dj,necem vlciſcatur,hauddeſinat.Quod autem mirabilius eft,ex Plinij, & Ifidori Teſtimonio, occulta proprietate occiío on noicit,(talem ifs natura indidit ) igi quemIrruit, licet in quantovis hominu agmine reperiatur. Præceptum ergoo. mnibus eflc velim,vtocciſo iſtorum ani malium quopiã,celeri fugaiter occiſor arripiat,ne à compare animali veneno fiſsimoinfeftetur, Leporesomneshaudeffe bermaphroditos,con traVeterum opinionem. Mneslepores vtriufq; lcxusexiſte re voluerunt Veteres, quod & M. Varro ctiam tradidit. Error tamen eſt, vt diuturna docuit experientia, quama feulos fculos à fæminis lexu eſſe diſcreros cognitum cft. Porrò tantorum inſcitia, abhoc, vt reor,ortaeft, quia in leporum genere lępius, quàm in aliis animantibus hermaphroditos reperimus: inde Hee brei naturæ arcana intimiùsſubodors tes, leporéfæminino vocabulo léper ex planarunt,ARNEBETH, eò quòd in iis foemineusſexuspræualet magis.Rej ve ritate noomncs hermaphroditiſunt,vt ex peritiſsimis venatoribus audiui; exic & ione multorum cognoui,ficut.com iam Bodinus edoctus fuit,vtivrhluth confitetur. Equidem Hermaphrodig plurimi funt,fedfæcunditatem fervita. rumminimè recinéignecmares vnquam vtero gerunt, necminus fuperfætant. Mirabilen eße Imaginationis po tentiam n vtero gerentibus imaginationis po tentia apertè cognoſcitur.Si enim illæ inter virorum amplexus, & fuauia,ali quid intensè cogitauerint, facilè in in.. fántium corporisexternis partibus imax ginata imprimunt. Hinc variæ rerum formar Ire N  forme,næui,lituræ, verrucæ, & alia figa na in infantibus impreſſa conlpicimus, Lingmultæ ex leporum obeutu fætuse-, dunt ſciſſolabello,aliæ fimis naribus,ore diftorto, vultumonftruofo,labris turpè prominentibus,corporedifformi,ocu-, liſq; horrendis infantes genérant: quia conceptus, vel grauidationis tempore, turpia,monſtruoſa,& horribilia fixa co gitatione excogitarunt-Fæminisidcirce, præſertim nuptis,pulchrasimaginesda mihaberecófulerem,atq;à turpibus av effe,ne pręuia imaginatione fætus mó. Atruoſos, turpefá; concipiant. Veteres, Climaftericos annos admodum ti muiffe. 1 A mationis apud Aſtronomos exi ſtunt &re vera videtur in quolibet anni feptenario quædam hominis mutation deò quod, ficuti in morbis dies criticos timemus,ita in vita hominum annosClin mactericos,qui à multis ſcalares dicun tui, quòd gradatim eueniant.Sunthi an ni, .Inte hos annos 49.63. magis periculosos credunt; quiaconſtant è feptenario, duplici, &nouenario complicato,obfero uatumq; àgrauibus auctoribusreperio, maiorem hominum partem io anno 63. Mori contingere.Idcirco hos veteres ada modumpertinebant,&, vt capiturin Gellio lib. Auguftus itaſcripfit ad Ça ium nepotem:Spero te lætum, &bene uolum celebraffe, quartum & fexagefi mumannum natalem meum:nam,vt vi des,Elimactericum communem fenio rum omnium, tertium & 'fexageſimum annum euafimus. Dehis tractatum edi dit Iofephus de Roſsi à Sulmona vtilem &jucundum. fMundiprimordiisinter homines, es ferpema tes antiparhiaminfurrexiffe. IRRreconciliabile odium eft, quod inter homines,& ferpérescadit,adeò, quòd expauefcit homo fi ferpentem inuenit, antvidet;magis autem fæmina: fiquidé obſeruatum audio gravidam mulierem (vifo ferpéte )præ timore abortire.Hu. ius difcordia illa ratio potiſsima eft quodàmundiprimordijs ínterkanc, & QUnca Semuan -illum Gt ſtatuta inimicitia, & irreparaa bile odium, quo altera-, alteram fpecia em inſequatur. Carolum V I. Francorum Regem, Ceruum 4 latumpro infigniprimò habuiße. Iluanettum Rex Carolus venandi cauſa fe contulerat, canum latratibus excitatusin fugam Ceruus, æneam tore. quem collogerere viſuseſt, quem vena bulis,aut ferro appeti Rex prohibens,in calles, & retia compellit.Erarin torque latinis litteris infcriptum:HocmeCçſar donauit. Exeotempore Caroluserua alatum pro inſigni habuit; &alii,regibus inſignijs (quęlilijsaurcis tribus conftát) circa latera, Ceruos duos apponere con fueuerunt. Gaguilis in vita Carol. V I. HANC. Reg. Insaanimantia confenfum, &difcas diane ineffe. Vllidubium inter animantia fym pathiam, & antipathiam efle inter trpiantes ſubditur: fiquidem muſtelam miro eiulatu in bufonis os deuorandam inueherelegimus; & bufonern in ferpen Npathi Lisa I tis,botræ vocati, os ingredi.Inſuperci cutam, fturno eſle cibum; homini vero venenum in dies obſeruamus: atqueveo Fatrum cotumices nutrire, hominem autem lædere non eft ambiguum. Senaterem quendam, exconiuge liberos ſur dos, &mutosfufcepiffe omnes. nature. omnesex, &mutos ſuſcipi,itaequidem à Fernelio obferuatum eft in quodā Senatore.Cre didit Ambianus huius reiobfcuram, & cæcam eſſe rationem, mihi autem altera fubeft, quæa Phyficis minimè differt: fi quidem auditio grauis, atque ſurditas quæ à natalibus viſa fit à conformatio nis vitio exoriens, hæreditarios mor bosgenerare creditur, & perinde libe ros, exhuiuſmodivitioſis,ſurdos, &muin tos excitari:fæpè autem non in filiis,ſed ! in nepotibus hæclues oriri videtur. Apud Garamantes. mirabilem fonterros obferuari, Dmiranda profe& ò, eft fontis il.com ARJiusproprietas, quiin oppido Der 1 bris apud Garamantes reperitur. Hices nim die friget, no&c verò æftuat; adeò quòd memoratu incredibile videtur, quomodoin tambreui temporis fpatio tantam natura ſui faciat varietatem. Equidem, quinoéte fontem afpicit, ibi flammasignefqueæternos exiſtere cres dit:quiautem die hyemales ſpectat: fca. tebras, vtique fontem perpetuò rigere exiſtimat. Propterea Debris apud mudi nationes inclyta eſt: eius enim aqua qualitatem excæleſti vertigine,mutare confpiciuntur.Ex Solino. Quo artificio Caminus per ſuperiorem "api cem ſolum fumum emittere valeat. N Caminorum fru & ura,.non modi aim tufferimus laboris, ne ignis fi molimtesin nos ipfos erumpant: fiqu. dem in ventorum mutationc facile fit, vt fumi quandoque potius defcendant; quàmadapicem aſcendant: ventorum enimvisillos deprimit, deſcenderequc percaminum cogit. Egotale ad fumi ferlum impulfionem excogitaui artif. simm.Struktur Caminus, cuiusfuperius fafti. zor faftigiu rotundú fit,ibique foramen la pidibus fi &tilibus conſtructum fit: mox ahenum inſtar tympani ex-ære, in cuius latere feneſtella extracta ſit, fuper lapi des affigito: ftylifớ ferreisfubcingito; ita tamen,ve intus vagari, mouerique commodèpoſsitapta demum fuper fer reos ftylos, & lebeten?' ex ære infuper vexillum,quod feneftellam fubiec dia recto habeat,taliq;induſtria,vtin quo libet vexilli motu, moueatur, & calda riumin gyrum,ita profe & ò è feneſtella, ventis oppofita,fumuserumpet, & non deſcendet.Pleriq;, vt fpero, huit noftro fcruinio,ineliorem addent Atructuram. meamque opinionem noníſpernent. Adconftruendum celerrime Horologium muncrabile in paritte. Ncoritruendis, pingendiſque ſolari, bus Horvlogiis, non modo lintā me ridianam,opuseft imienire, vthorarum tempus fidele reperiamus, rerum atque Ortum, & Occalum, Borcam, &All ftrum cum Aquinoctia, & Solftitia: in is.n. Solarismotusquarnaxime variat. N 7 Ego quidem, vt labores fugiamus, tale excogitaui artificium.Globum planum. extabula lignea formato in cuius medio ftylus ferreus ſitus fit;diuidito mox glo. bum lineis,ex centro ad extremum du cendo illius in 24,portiones, demumin globiapice horas ſignato, &vltimo in patiete contra Solis radios affigito. Vt auté ex Solaribus vmbris diei, horas ve nari poſsis,Horologium portatile afpici. conglobumý; ad horam illam accommo. dato:ita profectò,abfq;alio auxilio, ce ferrimèHorologiumvmbratile in pari cre habebis.In Aequinoctijs, & Solftitijs 1 eodem portatilis Horologijauxilio,fa. cillimè ad horarum æqualitatem globů reducere poterimus. Infancium pir uitam, è capitefluerem, quo artificio Chartaginenſes fiftere procurandTing, Xinfantium pituita, in capiteredú. dante,plerique fuecedunt morbi in. ter alios, morbus comitialis exoritur, qui à multis puerilis vocatur, quòd ijs,ve plurinum,eueniat.. Vt autem infantes ab huiuſmodi pręſèruarent Pæni, illorú vedas capitis lana ſuecida inurere,pitu. itainý; fuentem hoc præfidio compefa cere conſueuerunt. Athiopes infantes te ditos,ab ipſo quoq; natali die,in fronte adurút,ita profe & ò tumcapitis, tumo culorü humorfiftitur. Apud Inſubress. ex teſtimonio Mercurialis, & pleroſque populos,veícribit Scipio Mercurius,l ditos infantes fetonein collo muniunt, quod falutáre experti funt aduerſus mor. bos,qui à capite Huunt, Inmise rasis pluuie,quapotiora ixdiceniny præfagia. pluuiam imminentem,tum ex Gallo rum cantu intempeſtiuo,tum ex fre quenti cornicis crocitarione multi præ dicunt.Hisautem addendum puto muf cas(ca imminente)pulice's, pleraqzani malcula à furore vexari, intentula;mer il dere:hæc enini à vaporum inaerem ctc. rationc à radijs falar bus perturbantur. Infuper (pluuia imminente )odoris fra. grátia in floribus sétitur;apes ad alueária - sedcut;bufones, vermeſi;èterraakédut Brina vifa eft per dies præcedentes; catti manibus caput, quafi linientes, compri munt; ouescapitacommotient:afini hu miles habent aures; ftercora fumát, ma legue olent.Horum omniumratio, va poresàSole exhumidisfublatifunt:pro. inde animalia,cerebra humida habentia, nonnulla magis extorquentur. Vinum à Verrribus fuiffe mulieribus inter di& um. Agna fuitVeterum à vinivfuab. Itinentia:illudautem adeò muli. eribus erat interdi & um,vtcapitale iudi. cium inirct,quæ vinum biberet. Porrò inoleuit confuetudo,vtcognati, & affi. mes, mulieres ofcularentur, ore explo rantes, an ex vinum bibiffent. Idem ve fusMafsilienfibus, Mileliis, pluribus; Græcorum, &Barbarorum gentibusin,. valuit, apud quos muliereshydropota, & viri erant abftemiz: Intermemoran da illor um temporum,EgnatiusMetel fus, vxorem, quod vinum biberet,fufte necafe dicitur. Quo artifii io è plumbo Antimonii flores ex Habere paleamase Ape nij, fiue Stibinon femel extrahere Periam artem,qua flores Antimo à plumbo valui, quo præſidioin multis corporis affe & ionibus feliciſsimo euétu voor.Capito Plumbicampanam, è qua aromatarij rofarum aquam ftillatitiam extrahunt; hæc habet æris fundum: tu verò txargilla eligito,quodacerrimoa etto fupra medietatem implendum con fuilo,eaq; induſtria,qua rofæ ftillantur, in aceti deftillatione carbonibus bene ignitisagendum cít:caue tamen, ne totus fillet acetum, ne aqua extracta vftioné fentiat.Hæcaqua auri colore eft, fapore xerò facchari, & mellis; mirabilis tamen tum in potu, tum extrinfecè vfurpata, ob ftib j flores ex plumbo extre & os. vomitu, & aluo purgat, ob id frigidis affectionibus,obſtructionibusý; vtiliſ. fima': In vlceribus putridis, fætidis acoribus, ſcabie, herpere exedente, & aliis huiuſmodi,maximi eſt valoris.Doe ſis in potu ſît vnc.ij. Deforisad placitū. Clarorum virorum exitum aliquot inte felicem fuiffe Aniene fluuio Aeneas poft tot vi. & orias, torque clara facinora periiffe dicitur: nec diſsimilisRomulo, Cæfari, Alexandro,Annibali,Scipioni, Iugur thæ,Mithridati, atque alijs innumeris mors ſucceſsit:per quàm n. pauci viriex iis, qui clari,atque illuſtres tum virturi bus, tum fortuna habiti funt, quos non infælix exitus,tanq: á pro exemolo,fós offentäuérit porterial text caligero. Defipientiam, mulierum natuefamiliarem indicati. MVlieres vtero gerèntes,fiàphrenia tide capiuntur,Galeni teftimonio, rarò confanefcere legimus, vt fcribit tamen Cælius Aur.femper minus graui ter,minuſquc periculosè, quam viri,mu lieres ægrotant.Hoc autem, vt Merci. sialis opinatur,ab alia ratione continge re non poteft, quam ab ipfarum natura, cuius familiarius eft defipere,quam viri. Mirabile Annibalis, contra Romanos nauala fratagemia. Nfolita,& mirabilis Annibalis milita Eisafutia contra Romanos iudicarur: hic enim bello naturali cum iis dimica. curus, cum impares vires habere anim aduerteret,rale ſtratagema inuenit. Ser pentibus, quorumvenenumconfeftim enecat,pleraſq;ollas impleuit,opertasq; repente in hoftes iaculatus cít, quorum ictibus plurimi cecidere.Hifceftratage matibus vir hic tanquam alter ſerperis, multoties hoftium manus effugere con fucuit.Ex Gdenoin lib.de tbet.Akrijon Ambarum cum vino alicui exbibitum, cena feftiminducere ebrietaisn. Mbarum, quod à vulgo Ambrageye ſea vocatur,fomiſsisatiopam falfos opinionib & bituminofis fontibus,qui in maris profunditate exiftunt, oritur, Hocautem primòliquidum eft,cùm ve rò aquarum impetu ſurfum rapitur, ex aerisfrigiditatecondenſatur, & Amban rum fir:Siquidem in maris concauo, ple raq; mollia,teneraque obfèruantur, & interalia Coralliú, quod ex aqua exea ptum, citiſsimè lapideſeit. In Ambaro illud mirabileiudicatur, quod ab alique antequam vinum hauriat,odoratum, ina sttar ebrii eladat: cum vinoa, propina tū,confeſtim notabiléinducere ebrieta tem multis experimentis eft comproba. tum. Ex Simeone Sethi Greco auctore. oleam Lathyris Tympaniam, Colicas, affe& iones mirabiliter ſanare. Irabile quidem,quod è Cataputię -ſeminibus extrahitur, oleum eft, quippein expellendismorbis,qui à filao tu luccile;frigidis oriuntur, principem habet locum.Contundantur huius ſemi na, atq; in aquatam diùebulliant,vt ex cocta videantur;mox oleum in aqua fu pernatans cochleari colligendúeft. Mos eft apudIndos tale oleum cómodius per decoctionem, quàm expreſsionem cola ligere. Vfurpaturhoc feliciſsimo fuccef. fuin Tympania,colicis, iliaciſq;dolori. bus,ftomachiaffe & ione,aurium furdita te,atq, in iis morbis,qui à ſuccis frigidis, fatua;fiunt. Huius gutta aliquo lique re in potu ſumpta aquam citrinam euan euat,in articulorumq; doloribus pitui tam, humoreſque frigidos. Extrinfecè vfurpatur in omni Hydropis ſpecie: vbi tamen flatuofitas viget, maximam in expellenda proprietatem habere vi detur. Ex Don Garzia ab Horto. Verenum à diſsimili extingui; à fimili vero angeri. Hocpropriumelle veneni,àfapien Lrioribus proditur, à diſsimili ex. tingui, & a ſimili augeri, & robuſtius fi erizea propter non femel à perfidisho minibus exhibita venena nullius valo risfuifleobſeruatum eft,cùmeadiſsimi libusfuerint fociata. Aconitú, & Napel lus miram retinent vim necandi, com pefcitur accamen corum potentia à ve neno diſsimili, ex quorum diſsimilitu dine,vtriuſq;vis hebetatur.Mira eftAu. fonii hiſtoria de vxore mæcha, quzma rito venenum propinauerat, vt a. illud robuftius effet, Hydrargyrum miſcuit ex quo toxici virtusdempta eft, & vir immunis euafit. Hoc epigrammate ille monftrat; Texica Zelotypadedit vxor mecha marito, Necfatis ad mortem, credidit effe datum: Miſcuit  HA Mifcuit agente lethaliapandera viui, Cogeret vt celerem visgemindanecem. Digid at ber fiquis faciunt difiseta venenü; Ansideram fumet,quiſociala bibet. Ergo inter fefe dum noxia pocula cortant, Cele lethalisnoxafalurifora Protinus,Go Vacuos duipetiêre receffiua, Lubrica deie& is,quaria nota cibis. Quanpia cura Deumprodeft crudelier vxor, Elçüm fata voluns,bina venena juuans. Cornelij Celfy de valetudine fanorum bomsi num conferuandatutißimapræcepta. Nter grauiſsimosmedicos,& fcripto res,nemo eft,qui in conſeruáda fano rum hominú fanitate oculatior exiſtat. Afferă ciusverba ', ytfaluberrima iſtius præcepta rectius intelligantur.Sanus ho mo,qui,&bene valet, & ſuæ (pontis eft, nullis obligare fe legibusdebet, ac neq; medico,ncq; dcalipta egere.Húcoportet varium habere vitæ genus, modo ruri eſſe,modòin vrbe,fæpiuſý; in agro: na uigare, venari,quiefcere interdum: fed frequentius fe exercere.Siquidé ignauia corpus hebetat labor firmat; illa matură lepc ſenectute,hic longăadoleſcentiá reddir. Prodefteciâincerdúbalnco interdú,aquis frigidisyti;modòvngi,modòipsú negli gere:nullú cibigenus fugere,quopopu. lus-vtatur:interdú in cóuiuio eſie, inter. dum ab eo ſe retrahere:modò plus iufto, modò no ampliusaffumere:bis die poti us quàm femel cibú capere, & fèper quá plurimum,dummodo hunc concoquat. Secl vt huiusgenerisexercitationes cibi queneceſſarij ſunt;ficathletici, ſuperua. cui. Nam, & intermiſſus propter ciui. les aliquas neceſsitates ordo exercitati. onis,corpusaffligit, & ea corpora, quæ more eorum repleta funt,celerrimè, & fenelcunt, & ægrotant. Hæc firmis ſer: uapda fune,cauendumquene inſecunda valecudine, aduerfæ præſidia cenſum mantur.Ex lib.i. Socrati à familiariDeironcde Plasonis indole Somnium fuiffe immiſſum. Solene quandoq;malifpiritus homi nibus fomnia ingerere futurarum re rú, vel Dei permiflione, vel vt nos ipfos dedecipiant. Hinc Socratem legimus, vidiffe per ſomnium,oloris pullum ſibi in gremio plumefcere, qui continuò exorcispennis & expanfisalis, in altum aduolans, fua tiſsimos cantus edebat. Poftridie Pla tone adducto, hic eft (inquit ) Cygnus, quem ego præterita nocte cam fuauiter canentem fomno videram. Hocfomnium, ve fcribit Henricus de Aſsia, à fpirira fa. I miliari, ſub forma Cygni, quem Athe nienſesVeneri dicarunt, fuit immiſsum Socrati, vt Platonem in diſciplinam re ceperit ', à quo, quum ipſe uilil ſcrie ptum reliquerit, dulciſsimi ipfius & Caluberrimai fermones proderentur, Magia ſeu inc antatianis ris. Onmeras eſſe præftigias, quæ magica? arte efficiuntur; multis exemplis notum eft, fed vno in primis, quod deſcribere vifum eft. Rufticus quidam magnis doloribus ventriculi vexaba tur:: quos etfi variis, medicameutis depellere cogar zur illi tamen non 1 ceffarunt, fed potius in dies recrudeſcere vifi funt. Quare agricola doloruin impati ens, cultello ſibi guttur abfcidit. Dum au tem tertio die mortuus ad fepulchrum ef ferretur, à duobus chirurgisin magna ho. minum frequentia, illius ventriculus iraci. fus eſt. In ee (res mira, & prodigiofa ) lignum teres, & oblongum,quatuor excha. lybe cultri, partim acuti, partim ferræ in. ftar dentari, ac duo ferramenta aſpera re. perta fuerunt:quorum fingulaſpithamęlos gitudinem excedebant. Aderat, &capillo. rum inuolucrum globi inftar. Credibileen fanè, hęcin ventriculi cauitate congeſta fu iffe, non alia arte, quàm Dæmonis aftu,& dolo. Quo artificio epiftolam, in ouo celatam alicui afcribere valeamus Nter ſcripturarum furtiuarum arcana non infinum locum tenere exiftimo, in ouo epiftolam celare, atq; amico ſcribere, Videbis enim oui putamen illæſum, mun. dung; illo tamen exempto, difruptos; cha paeteres apparebunt. Aperiam ſecretum. S? Atramento, ex gallis, alumine &aceto con. fecto, in ouicortice literas ſignabis, votum pffequeris. Has oportet in Sole calente ex ccare, mox ouum in muria concoquere ita enim à cortice characteres euaneſcune, & ad interna gradiuntur:ſiquidem putami. ne exempto, notæ oui durato albumine in ueniunturEx.Carolo Stephano. In aquafrigida captanda maximum veterum fuiffeftudium. Aximam antiqui curam adhibebát, vt aquam frigidam pro ætatis in. cendio temperando conferuarent: quareex niuibus eam parabant, vt Athenæusretulit. Dequa re perbellè loquebacur Seneca, & panas montium in voluptates transferunt, Alexandrini aquam Soletepentem, in fene ftris ad ventorum incurfus exponebant, vt poctu frigeſceret;manè autem inte Solis or ruin hani ponebant, folijſque lactucæ, ac que pampinis iniectis frigidam tuebantur. HocGalen.parrat.6. Epidemior. Plasarchu: 6.Sympus cotibus & filicibus aquæ inietti hoc fieri fcripfit. Neronis autem in re har ftudium nobiliſsimum fuiffe proditur: ise genim, vtninis voluptate, ablque njuisia iniuria fruererur, feruentem aquam vitro immifiam in niues refrige jarimandabat:Ex Heur nie. Ecua Fæminas in prima menftruorum eruptione in Venerem maximè incitari. e Erunpune,fceminis bera exurgunt:Pana guis ille,inftar occifi animalis videtur, atq; in maiori copia erumpit, cùm vbera ad du os digitos prominent, que tempore puella rum vocem in grauiorem mutari confpici. mus, Illud autem maximè adnotandum eft, in prima menſtruorum eruptione puellas in pudendis,valida tentigine, prurituque core ripi,ex quo ad Venerem incitantur: quare per tempus illud cautè cuſtodiri exiſtimo. Ex Arift.7.de Hift.anim. Qua induſtria Aegypti lapides à vefica,abfiga incifione extrahant. Irabile quidem eſt Aegyptiorum ftudium in extrahendo lapide à ve fica abſque inciſione, quando noftrates me dici, lapidarij ſine illa facerenequeant, idque cum magno languentium vicę periculo. Hiligneam cannulam accipiunt, octo di. gitorum longitudine, & digiti pollicis latia tudine in opere abfoluendo. Hanc colisca nali admouent, fortiterque infufflant;neau. tem flatus ad interioraperueniat, extre. mū pudendimánu altera perftringunt, fo. samen deinde cannulæ claudunt, vt virga 0 % cabang M N eagalisiotumeſcat, latiorq; fiar. Quo facto miniſter digitoin ano pofito, lapidem pau Jatim ad canalem virgæ, atq; in eius vasex tremun deducit. Quivbipræputio lapidem appropinquare ſentit,cannulam à virgæ ca nali fortiter, impetug; amouet, & lapis ex. trahitur. Ex Alpino. Mult a praſidia ab animalibus, bomines accepiffe. On pauca equidem præſidia funt, quæ ad hominum tutelam ab animalibus accepta ſunt. Chelidoniæenim virtutein ad oculorum morbos ab Hirundine accepi. mus, quæ hanc conquirit herbam,vt furorú filiorum oculos, vel vitiatos, vel.cæcos cu rer, Fæoiculi virtutem ad eandep tutelam ab'anguibus didicimus, Ab Ibide, quæ in ftar Ciconię auis eft, clyftris vſum habui mus: nam & illa roftre marinamaquam al lumere folet, illoſ; pro clyfteri vtitur, vt ventrem nimis onuftum exonerare valeat. Inſuper marinus equus, Hyppopot mus di etus, venarum fectionein nos docuit: illef. quidem mala oppreffus -valetudine, ad re center fuccifas arundines graditur, acutio. riſ;cuſpidefanguinem è cryrjuin venis adi mit. Quod autem in hocmirabile eft, vela guinem cohibeat, in fimo, vel cono volutatur, & ica vitam tuetur, & fanguinem fim ftit. Ex Plinio, alis. Equorum teft:cilos ad ſecundas depellendas miram babere pirt utern. Ingularis profecto Equi teſticulorum ad nulierum fecundasdepellendas eft pro prietas, adeò, quod teftatur Genſerus in e pift. Rufticum quendam, quinquaginta in puerperis feliciter hoc vſum fuiſſe reme dio. Vfus eit & Horatius Augerius in plu. ribus mirabili euentu: præſtantiſsimuin id circo à grauibus auctoribus indicatur re ne diun),nam, & pluribusiam deploratis pro fuit.Capiunturteſticuli equ: caftrati,& tria ftillatim conciſi in forno exiccantur, quorü puluis quantum capitur tribusdigitis è jure bibendas datur in neceſsitate; idé; fi opus eit, bis, auc ter reperitur. Humanam faliuam Scorpiones interimere. Ominum faliua Scorpionibus infe ttiſsimum venenum eít, adeò quòd ca tacti confeftim intereanc. Porrò ijs, ſaliua fora ſubſtancia aduerfaelt, ve Galenus lib.io fimp, medic. experimento confeffus eft; ist. nim à fola faliua morientem vidit Scorpio. nem, id; celeriter patientem à faliua elue riencium, aut fit jentium; tard autem ab 3 illis,qui cibo, potuque fuerant impleti,ina. liis autem proportione, Apium riſus,bominesridendo interfi. cere. Scelerata eft herba quæ Apiamrifusdicia cur, quod ridendo homines interficiar: fi quis enim gnftauerit ieiunus vtique ridendo exanimabitur, vt Apuleiusteftatus eft: Ex hacillud adagium ortum habuit:Sardonius siſus; nam & Sardonia eriam vocatur.Porrò on ex rifu, qui hác guftauerint, moriuntur fed potius,vt placet Saluſtio neruos labio rum, & orismuſculosillius, qui eam come dit, contrahere facit,adeò, vtridendo mori videatur. Qua induſtria Partbi, Scytheque Sagittarum aciem venenajunt: AR'thorum, Scytarumque toxicum, quo fagicrarum acies inungi folebant, humano fanguine, & viperinaſanie confta bat, tantæquc feritatis erat hoc venenum, ve leui tactu animal interimerer, Equidem Scythæ viperas recenter enixas venantur, eaſque diesal.quoccontabelcere finunt, do necip fapien putre.cane, mox com visus hominis fanguine in ollam effuſo, eam ex quifite coopertam; fimoque obrutam com putrefcere finunt, cuius demum.1. ick or fan. PAT fanguini ſupernatans, fiue ferum cuni vipe rarum faniecommixtum lethale Scytharum toxicum eft. Ex Arift. Plinio, & Langio. Succinumpterogerentibus exbibitum, mire partum accelerare. Mvicis experimentis comprobariaudio ſuccinum parturientibus drach. ſemis pondere ex vipo albo potui dátum, mirè par tuin accelerare. Hoc eriam facit eius oleum, fi gutta tantum ex aqua verbenæ parturienti propinatur.Quidātamen medicusHetrufcus (Fallopii teftimonio )exhibebatfcrup.i.bora• cis in decoctomatricariæ, velfabinæ diffolu tæ difficulter parientib.mirag; faciebat: bre ui enim temporis fpatio feetus,vel viuus,vel mortuns egrediebatur. Habebat ille medi euis pro arcano præftantiſsimum hoc auxili um tamen neſcio quomodo postea fuerit de fetum. Ex Andernaco Serpentum oua genituramí per imprudētiam in petu haufta,ſerpentesin corpe ribus procreare: Dmiranda fuccedunt quandoq; fym dem imprudenter cum ea femina, vel ova ſerpentú hauriuntur, è quibus moxſerpentes generantur. Genſerus in lib 2. hift animal cap, de Ranis Rubetis, bufones in ventriculis in reftinifq; hominum haufta eorum genitura, fieri, &nutriri probauit. Iacobus Manlius, in lib.experim.in cuiuſdam equitis, exhau * Ita cuiufdam lacunæ aqua, vbi erantſemina Serpentum, in ventriculo plures angues fu. iflegenicos prodidit: quibus per internalla extractis, medicorum auxiliis, fanus factus eft. Leuinus Lemnius Vermiculos cauda tos, atg; infolita forma beſtiolas vomitu ciectas nouit. In nonnullis lacertas à phar. maco fuifle eductas obferuatum eft, vt Gé. maCoſmocrit vidit. Quare maxima in a quæ potu hominibus opus eſt animaduerfi. one huiufinodi exhanftis, pernicies corpo. Tis conſequatur. In deſperato coli dolore Hydrargyruin, v4. glandem plumbeamexbibitam, multos confanaffe. Irabile videtur, Hydrargyrum,quod à mulis venenum reputatur, in der. peraro coli'dolore exhibitum, plurimun prodell:. Equidem Marianus Sanctus, ex multorum confilio, qui ab hoc lethali mor bo fanati fint, fuadet, fi obstructio perfeue rauerit, & fæces per os extrudantur, hau fire cum aqua fola argenti viui libras tres, Probat hic exratione vinetuin feu duplicatű inteltinum Hydrargyri pondere explicari, fæces detrudi,vermelý; fi ibi fuerint interi. mi, &ægrum liberari. Haud ab hoc difsi mili auxilio quidam nobilis, poft alia ten tata ad morbi huiuſinodi acerbita tem ma. chinamenta, liberatus eft. Hic hauftis olei amygdalarum dulcium fine igne extraćti vnc. iij.cum vino albo, &aqua parietariæ mixcis, mox deuorata glande pluoibea ar gento viuo illita, planè à colico cruciatit euafit, illamque exano abſquelaborerede didjt. Ex Pareo lib. 16. Infæniculorumfeminibus, vim quando que exitialem deliteſcere. Grauibus ſcriptoribus comprobatur, ſerpentes fæniculorum elu, &fene ctam exuere,&oculorum aciem rnonare. Hinc iis affricantur oculi anguium, vt vo. tum affequantur, Ex attritu foeniculorum feminibus, praya quædam imprimitur qua litas, è qua venenati producuntur vermi. culi,quorum eſu multi in peſsima deuene. runt ſymptomata, &ab alexiteriis rarò ad iusj funt, tanta huius veneni potentia eft. Quare foeniculorum ymbelli,antequam co. medantur, aperiantur, & diligenter concu, tjantur, vtå vermibus emundentur. Præ, OS Habis A A ſtabit al quantifper in frigida macerare. Ex Balthajaro Pifanello, Noua admirandag; prafidia, ad Ang i nam, gutturules apoflemata. Fferanı fingularia auxilia, è quibus ex grauiſsimis fcriptoribus, ad anginam & gutturis apoſtemata mirabilia contigiffe proditur.Lignum hederæ ad gutturis apoſte. mata à proprietate valere fcribit Ioannes Marquardus: quippe obſeruatum eft, come dentem excochlearihederæ ligneo, fiue bi. bencem in aliquo ipfius vafe ligneo, num quam, vel raro in gutturis, vel vuulæ apo. temaińcurrere, Rubeta cocta, &pro em plaftroSynachicis impoſita,cófefim liberat. Vermes.quandog, in cordis capſula pro creari, è quibus mors ſubitanea pleriſqueexoritur. Abulofum haud eft, vermes in cordege: nerari. Hoc enim Melues docet, Holle rius, Marth. Cornax, Alexius Pedemonta. nus, & alij loan, Hebenftrit, in lib. de Pette, Principem quendam ex morbi fæuitia peri iffe narrar, cuius cadauere diffecto, vermis albus præacito roſtello, eoq; corneo præ. ditus, cordi adhęreſcere deprehenfus eft. Exmedicis, ſucco alii feram hanc, tanquain ex indubitato remedio, interimi probatü eft. Petrus Sphererius (vt ScheukinsBarratti  lem fiorentinum morte fubitanea correpti, atq; diſſecatum obferuauit, in cuius cordis caplula vermis viuus repertus fuit. Aiunt multi certiſsimo experimenco-ficco allii,ra phani, & nafturtii hos vermes pecari, qui, ex teſtimonio Pedemontani, in corde deli teſcentes,ſyncopim, Epilepfian, & mortem inferre folent. Mares pleroſque in mamillis, mulierum instar, lac producere. Icet marium mamillæ fpiffa carne in fuiffe productum obferuatum eft. Nouit hoc Arift. vtlib. 1. dehiſt. animal. docuit. Veſali us non femel id confpexiffe in 1: 4. 15. Anat. commemorat, & Hieronymus Eugubius in libell, de lacte: fic & Cardanus,lib. 1. de Sub til. qui ianuæ vidit Antonium Denzium, è cuius mamillis lactis tantum profluebat, vt infantem fernè lactàre potuiffet. At hifto ria, quæ affertur ab Alex. Benedicto mira. bilis eft: aitenim, Syrum quendam,mortua coniuge, è qua infans ſupererar, ybera filio admouiffe, ècuius ſuctu tanta lactiscopia i pupillam manauit, vt exinde loco matris nn trire valuerit. Ego quidem in duobus filiis meis, in primis diebus à partu obferuaui, ab obftetrice.mamillas cofrectatas, lacimpulſo (magno multorum ftupore) emififfe: idậ; in aliis etiam infantibus contpexi, Lumbricosquandoque tantaprocreari pi Tulentia, vt interior a corporis perfurare valeant. Nfanda equidé fymptomata à vermibus aliquando proueniunt: refert enim Om bibonus, lib. 4. de morb. infant. Lumbricos ex vmbilico cuiuſdam erupiffe. Tralliani teſtimonio habemus, hæc animalia ob ali menti inopiam inteftina laceraffe, fuiffe ob ſeruatum. Id etiam ab Aegineta confirma tur: jofuper Hollerius confpexit, vermes per inguina, & vmbilicum prorupifle. Ma. gna igitur cura opus eſt in horum redua dantia, ne interioracorporis valeant lace fare, A Infamis vmbilicam, & Ceruinumpenem mirabiliter conceptumfacere. Lexander Benedictus, 1.30. de curand. morbis,vmbilicü infantis, qui fponte caditquoquo, modo in ciboſumprú, fiigno rauerit mulier,adconceptum facere, pro. didit;illumg; in brachialibus à muliere ge ftacuin conceptum inhibere eredir. Cerui. aum inſuper penena aridum, & in fari. namredactum, oboli pondere, à coitu forminis datum; procul dubio ad concipien. dum prodeffe experimento probat, Baueri. us tamen conf: 50.vterum ceruinum fingu lari dote ad conceptum valere prædicat, Vlmi vſum, recentem Elephantiafim curare fuiffe obferuatum. Inquam certum remedium, Vimi vfus in curanda recenti Elephantiaſi à laco. bo Douinero, lib.Tic.7. prædicatur. Vidit enim adoleſcentem tali affetu laboranté, & decoctionis Vimi vſu (factis faciendis ) conualuiffe. Ea equidem pro omni potu vte barur in quolibet paſtu, cum pauco vino al. bo, &cantiſudores mouebantur graueolen tes, vt vix illos cuftodes ferre poffent. Ita viſcera purgabantur, &magaa yrinæ copia excernebatur, quibus excretionibus fanus factus eft. Cyprinorum efum podagricis elle infeflum. Vamuis inter piſces, Cyprinusnobi. lifsimus exiftimetur, cum optimum præbeat nutrimentum, exquiſitiſsimigsexi Atat faporis; tamen podagricis infeftuin ef. fe obferuatum eft. Nouit enim podagroſum Iulius Alexandrinus (vt retulit lib. 15.6. 6.. de salubr. ) cui Cyprinorum efu pinguium, parata érat femper podagra, ve in manu illi th effet, eo pacto accerfere, cùm vellet. G Puluere pellis leporine, perniones à Sep tentrionalibusfanari. Laus, lib. 2. Rerum Septentrionalium,, tilsimè perniones experiri fcripfit, qui mor bus, non aliis ab iis fanatur remediis, quàm puluere pellis leporinæ. Plinius verò Rapú domeſticum feruen's calcaneis impofitúla. nareretulit. Ego ex Carolo Séephano, inlib. de Ragraria, in quodam expertus ſum reme dium, & bene fucceflit. Accipit ille, ficos crematos, è quorum puluere, & cera yngné tum parat;hoc pernionibus impofitum bre uiliberat patientes. Hydrargyrum loco amuletigeftatum à pefte faſcinog corpora defendere. Arfilius Ficinus, & P. Droerus, in lib. M, fienim auellana perforatur, &extracto in. teriori nucleocum acicula, argento viuote pletur, & collo fuspenditur; mirum in mo dum à peſte corpora tuta reddit: ira profe etò à peftifera lue fæniente fe defenderuut multi. Hoc eriam præfidio mulieres lactan. tes, à faſcivatricibus, ne lac fic ademptum, quo infantes alendi funt, præferuari poffe, i Thomas Iordanus, in libe dePefte, prodidit. - Q " ppe multis experimentis obferuatum re, tulit (hoc fecum geſtao - ullas prorſus laga. ruin, lamiarú aut ftriguin infidias lacrátibus nocere. CNICO Meſpili lignum,collo appenfum grauidas ab abo orth preferuare. Wm quadam æſtate apud D. Ioannem Nicolaumn Cucillum Brancacium, mei amantifsimun, ytpuerum curarem interef ſem, fortè inter me, & Doininam D. Man. já Cotoneam e Toleris, eius vxorē, de abor tus præſeruatione, tunc vtero gerentem, có: uentum est. Retulit domina hæc Meſpili li gnum collo appenfum mirè ab abortu gra uidasdefendere;idq; millies à fuis maiori bus foiffe expertum. Confiteor in plerifq;, tale lignum fuifle à me expertum, atq;certú, & rarum remedium ſemper inueniffe fe: fi quidein multæ aborrientes, & dolore, & fã. guinis fluxu (appeofo ligno reſtrictæ ſunt, &ab abortuſeruatæ, adeò quòdined parti cularem virtutem abortú prohibendiinefile seor, Qua induftriabomines abſtemios reddere valeamus. Vleis experimentis comprobatum re perio Anguillas, vel Mullos in vino M fuffo peri sfuffocatos vini faftidium inducere: & enim ex eo bibant homines, procul dubio abfte mii fiunt. Infuper philoſtratus in vita Apol loni, ona noćtuæ elxaca, & infantibus pro cibo allata, hydropotos in tota vita illos reddere ſcripſit. Mizaldus, Ragam viridem, ex iis, quæ in fontibus ſaliunt, viuam in vi. no fuffocatam, idem efficere, fi tale vinum potetur, prodidit. Rotundam Ariſtolochiam mirè piſces ftu pidos reddere. Ira eſt Ariſtolochiæ virtis in piſces: ipfa enim illos odore ad fe al licit,moxftupidos reddit. Proprerea fi eius radicem contritam, calciq; commiſtam, fiue eius decoctionem cum calce pacato flumine aut maris littore piſcatores confpergent, piſces agminatim confluere videbunt. Ili autem puluere deguftata, veluti examina ti ſupernatantes capientur. Puellam veneno ab infantia nutritam, Alexandro ab Indorum Rege fuiße miffam. Ndorum Rex Alexandri fortunæ inuidés, vt illum interimeret, miræ pulchritudi nis mifit puellam, ratus forfitan Alexandru confeftim cum ea concubiturum. Illa au tem Nappelli veneno ferè à cunabulis erat educata, propterea more Serpentum ſcin tillances habebat oculos. Hos Ariftotelesar piciens, caue tibi ab hac (dixit ) 6 Alexan der; nam virus peftilentiſsimum alit, vode tibi exitium paratur. Poft paucos dies pleri q; proci huius commercio venenari periere ex quo Ariſtotelis praſagium mirabile fuit iudicatum. Ex Auerroe. Quale fitigneum prafidium, quodin morbis ab Aegyptis, & * Arab.bus vfurpatur. N lib. deMedicina Aegyptiorum prodi. dit Alpinus, quo pacto illiin morbis cor. pora adurant. Accipiunteniin lineam peti. am cubiti longitudine, latitudine verò tri um digitorum, quam ad formam pyramydis aptant goſsipioque implent; ipfius latior pars, parti adurendæ applicatur, alterumg; capuc accendunt, comburió; cam dia per miteant, ye faſciculus crematur. Continuò ramen dum cutis vritur, ferro circumcirca accingunt carné,ne caloris incendio aliqua oriatur inflammatio.Hocinfuperinuolucro parando obſeruant, vein medio meatus ex iftar fafciculi: ita enim euentatio fue refa piratio aliqua paratur, In vftione autem per aćta offium medulla in carneaduſta, quoad eſchara cadat yantur.Hic vrendi modusAe. gyptiis &, Arabibus familiaris eft. Olim in Creta familiasquaſdam mirè faſes: natricesadfuiffe A quoſdam, tum fæminas in hiſce parti bus animalibus, pueriſque laudando faſci num attuliffe: adeo quodij;fiad ouile, por cileque quodpiam adiuiffent,confeftim in teritum pleriſque produxiffe: Quare mirum haud eft, quod legitur in Creta quaſdam fa. milias adfuiffe, quæ laudando faſcinum is. ferebant. His profectonatura quædam ferè venenofa efficitur, & ex oculis inde fpiritus efflant venenatos,quibusanimalia,pueri, & grandiores faſcino maculantur. Laudando autem venenum promptiusoperatur: fiqui dem laus propria, gaudium affert, quo cordis fpirituumque dilaratio oritur, & veneno. a ditus præparatur.Ex Fracaſtorio - de fymp. sta Antypat.rer. Cyprint verticis oſsiculum mirabiliter Epilep. ticisfubuenire. N Cyprini caluarix vertice quoddam re peritur ofsiculum triangulare lapidisin ftar, quod in curanda Epilepſia; principeng loců obtinereaiunt. Táta enim efficacia epi lepticicis fubuenit, vt morbusis numquam reuertatur,Hoc, vbifuturæ in vertice calua six Cyprinicômitrútur intus fubfiftit,prop I cerea terea ſi illa capello penetratur, ſtacim fora profilit,Andernacushoc ofsiculum nummi Germanici cruciferi appellati,magnitudine exiſtere prodidit,atque ſalutare eſſe Epilep fiæ remedium, Calphurnius Bestia Romanus qua pia vxores dormientes interemerit. Nonnulliex veteribus in venenisnofçé & dili gentiam inter alia Aconitum venenorus omnium elle ocyfsimam comprobarlot: fi quidem tactis huiufinoti veneno genitali bus lexus faninini animaliuin, eodem die mortem inferre viſiun eft.Hacvia Calphur nius beitia, veditaretur forſiçan, vxores dor mientes interemit, de quo à M.Cæcilio ac cufatus eft.Hincilla -atiox peroratio eius in digito mertuas. Confimili induftria Ladica laus Neapolis Rex, cum cuiuſdam medici Prochytami filiam adamaret, cum eaque concumberet, Florentinorum confilio ex cinctus eſt, AcetoStitillitieo Bythagoram vitam longiſsi meproduxiße. Afecit:feripfit enim eius viulongāhonia nes vitá conſequi, & vfquead eius extremum: finem permanere integrè, & dextra valetu dine.lole cu quinquagefimum ageret awaum  hoc remedio vfus eft &eius vfu ad centefi. muum, & decimum ſeptimum productus et integer & nulla vnquam aduerfa valetudine tentatus: cuius optimam facultatem admira. tus, confanguineis co umuuicauit, vt illings vfum haberent. Oleiom lixiuio mixtum in lattis fpeciem tran fire. ' rmè experimen: o oleum lixiuio mixtú, fi diuag retur,in lactis ſpeciem tranfire, comprobatum eſt: eft enim lixiuium tenue, atque calidum,oleum autem cum aêreum fit à lixiuio attenuatur, & proinde aerem con cipit,ex qua albedoiunaſcitur. In aquis etis am, quæ diu agitantur,lactis ſpecies quædam exoritur ex confimili induſtria. huius indi. In cium ſpuma eft, quæ cun fic tenuis, aérem concipit, & dealbatur, Ex Cardano. Quainduftria Scythe abſque cibo, potu per plures diesexiftant. Miraett herba Scythicæ operatio, qua scythæ per plures diesfiue cibo, po - tuque viliere dicuntur. Hanc ij circa Boeri. am inueniuntcreſcentem, & ad famem ficou timque tolerandam vtuntur: fi quidem guftu dulcis, vt liquiritia eft, & in ore detenta fa mis, fitifq; fenfum habetar, Idem apud cales C: Hippice præſtat, eò quòd hæc planta equis confimilem generet effectum. Aiuntmulci, Scythas his herbis duodesos eriam dies, fac mem, &ſicim non ſentire.Ex Martbiolo. Catellos calorem natiuum augere, membros rumque dolores conſopire. P Ro excitando nativo calore, membro. rumque cruciatibus demulcendis, Carelo li præſtantiſsimi(Galeni teſtimonio,7. Me thod med.)exiſtimantur:illorun autem hu. ius naturæ haud omnes habentur, fed ijpræ cipuè,quibus pilus concolor eft. Propterea in Chiragra, podagra, & in omni Arthri. tis fpecie cruciatus, quamlibet efferatos, parti affectæ adhibitos s præſtantiſsime confopire àmalcis comprobatuni repe ris. plurima è terra furſumtapi, iterumque deorfum cum pluuis pracips tari, Aximam yellera,rang,vermiculi,lapil li,ligna,vabijgeneris frumentacealac, fanguis, & id genus alia terræ permixta, quæ cum pluuijs quandoque præcipitari afpici. mus,, nobis præftant admiracionem, adeo quod à cafu infolito plerique perterriti, Cæli mipas metuunt; Celiat aixen admira. tio,fi eorúcauſas penfitamus:hæc enim pri mo mò ventorum effluuijs, ventorumque inipe tu terræ permixta furfum feruntur,mox cum pluuijs iterum deſcendunt. Propterea nec ſemper mirum,autinſolens à ſapientibusiu dicatur: CorneliusGemma, inCoſmitriticaca 6.hæc caufas legitimas à coeleftibus Syzygi. is habere prodidit: fed tamen eo vſque pro gredi ſoiere,cum fpecie fua, tum magnitu dine,vt etiam in portentis principem inue niant locum, Cum Pſylis, &Marfis, Serpentes haudbabere inimicitiam. M Irabile eft, Serpentes, quià mundi pri uerfam,inimicitiainque iniuere,cum - Pſyl lis, & Marfis nec odium nec difconuenienti am retinere, Neceſſe ctenim elt, ve ijs aliqua miftio non omnino contraria oriatur,auto dor, autaliud, è quo fpecies minus ingraca videatur; ita profecto inter homines ipſos. criam contingit: quandoque enim fine cauſa nonnullos odimus,alios amamus,prout re sum.fpecies ad animam noſtram perue. niunte, quibus conuenientiam, & diſconnenientiain capta mus. Ex Fracastor rian - ) Oling Olim vasta, ego robuſtafuifle bominuincor pora. Vamuis Plinius,cæteriq;ſcriptores, ho ninum corpora, robur, vitam ſemper imminui conquerantur;tamen olim Gigan ces extitiffe, &vaſta hominum fuillecorpo. ra negandum non eft.D.Auguftinus lib.15.de Ciuit.Dei.dentem gigantis in quodam flu mine inuentum fuiffe prodidit,quiminutim diuiſus,centum ex noftris dentes ſuperabas. De Pailante ſcribitur admirandum.Hic Ae neam contra Turnum Regem Rutilorum adiuuit, mortuustandem, & fepultus, vbi nunc Roma eft, (reference Solino)Anno O. atingefimo poft Chriftum Dominum dam quiædam ædificia Romefierentcafu in ſepul chro quo arte mirabili cum lucerna ardenti códitus erat, inuétus eft, & integer erectus altitudinem nuricapite excellebat.Quid de Aiace, & quid de Turno; & de ingenti,faxo, quodvterque in hoftem conjecir, referatur nouúhaud eſt.Quid tandem de Oreſte, filio Agamemnonis,cuiuscadauer oéto cub tirá longitudinem excedebat, atque de alijs in numerisdicatur,apud fcriptores reperitur. Idcirco præter ftirpem giganteam,quæ poft diluuiumimminuca eft, alia corpora vastitatem & robur maximum retinuiffe conce. dendum eft; in præfentiarum verò homi. num corpora huiuſmodi comparata, tam pufilla funt, vt præ illis inania effe videan tur. Ex Helinando Chronographo. Equum Phaleris accin&tum pulcbris, acri oremfieri., chris ornantur phaleris, tum acriores, tum pulchriores iudicentur. Eſt de his cla. rum exemplum de Bucephalo Alexandri, qui phaleris accioétus Regijs neminem præter Alexandrum (teftimonio Aeliani) ad fe aſcendere paciebatur, & quoderat 18 illo mirabilius, veaſcenſus facilior effet, demittebatur cum dominus equitare vole bat.Phaleris autem remotis,quilibet medi. aftinus aſcendere, &tractare poterat. Ego quidem domimulam habeo,cuius tanta eft ſagacitas,vt fi feruus meus ephipium parat, habenafque illa humilis,demiffa, & quafi gaudens perfiſtic,viAernatur, hilariſque in. cedit, & acrior: fin autem clitellas, calcitro fa, indomita, feraque confeftim fit, necta lem ſarcinam, niſi vinctis pedibus ferre ſu Atinet, adeò quòd feruus ab opere defiftere cogitur. Exitiofißimum effe homini,ſub Lunaradijs ſomnum facere. Vnæproprium eft,in hæc inferiora hu miditatem immittere: quare exitioſum elt,lub eius radijs diu dormire; quippè dor mientes obleruatum eft ægrè excitari, atque proximos infanis fieri, Lunæ vires in lignis, quæ ad ædificia colliguntur,potiſsimum ex perimur:conciſa enim Luna creſcente, funt ferè emollira per humoris conceptionem, idcirco tanquam inepta à fabricis reijciun rur. Agricola 'experimento cognouerunt, fruméta de agris in Lunæ diminutione colo lecta diutius ficca permanere. Hæc à veterie bus Lucina vocabatur, & à parturientibus inuocabatur: Lunæ enim diftendere rimas corporis,meatibuſgue viam dare munus eft: propterea, tale ſydus partui ſalutare, illum. queaccelerare putabant. Archelaum,Mithridatispræfe&tum, ligneam turrim incombuſtibilem confeiffe. Dmiranduin profectò iudicatum eft AArchelai,Mithridatispræfe&ti,cótra Syllam commentum:hic enim turrim ligue. ain iocombuſtibilem condidit,quam fruftra ille incendere conabatur. Erat currista. bulata alumine collinita, in ijs autem cruſta durior erat obducta, & alumen, plumbique albi  albicineres pigmentis copioſè commifti: quia induſtria ab igne feruata ſunt. Confio mili artificio,Ceſar ex larigna materia cir. ca Padum,Caftellum etiarn conftruxit, Ex Lemnio. Viſcum quercinum fola fufpenfioneEpilepti. cis fubuenire. X grauibusfcriptoribusmultiorbicua losè viſco querciofola ſuſpenſione vulgari filo transfixos idem præftare in 2 molienda,& præcauendaepilepfia tradunt, quod peonię maſculæ radix,aut ſmaragdus è collopendens efficere creditur, Reculit Iacchinus in Epilepticerum curatione, fe mel ea ratione,qua ligno guaiaco vtimur, Viſcum quercinum per dies 40. propinafre, & profuiffe quidem, non tamen Worbum abituliffe,nequelicuilleiterum id temedij iofaciliori morbo experiri. Isterbraſsicam o vites maxisnum ineſe dif fenfum. Focabilis equidem difcordia inter braſsicam, & vites reperitur, propte reade Reruftica fapientes fcriptores, VICCE à braſsica offendi, deterioreſque & fucco, &odore, fi ſecusplancatur, fieri prodidere. Experimento hoc comperitur:nam gerinen ijspropius cu accellerit, auerſü ab inimico Notabilis compulſum odore retrograditur. Infuper G inollam, vbi braſsica elixatur, vini vel mi nimum conijcitur, quippe nec braſsica cona coqui vnquam poterit, & quod mirabilius eft, colorem proprium amitter. Hacmotira tione ſapiéres,ebriis braſsicæ ſucçú propinát, quo ebrietas ſubitò foluitur. Conuiuates pa riter, ne à vini copia potenciaģ; offendantur (Germanorum inftar ) braſsicam crudam primò comedere debent: ita enim viruna ad ſatietatem, abfq; ebrietaris periculo haua rire valebunt. Cati nigerrimiefum cerebrum, homines dementare, Ericulofum eft, verſicoloris, &maximè nigerrimicati cerebrum alicui efirm prz bere: ad iufaniam enim homines ducit, & quod peius, cerebri meatus obftruit, ſpiri. Etuſý; impedit animales, Inter fcriptores Per trusApoinenfis, huius efuadeò io ſanirehow' mines dixit,vt præftigiis quafiobnoxii videa antur. Ponzertus pariter cati pilos venenoſos eſſe prodidit, citly; anhelitumfebrem heoti cam induccre. Exbetulacorticibus, ardentesfaces comparari Etulæ cortices non modò ignem confe. tim recipiunt, verùm atque flammam pariung  Mha pariunt ardentem; quo fit, vepleriq; faces, pro noctis obſcuritate fuganda, ex iis com. ponaot, bene rati lucidiorem has flammam, quãpini fædam parere: ex liquore autem picis inſtar, qui dum vtuntur deftillat, oriri hociu dicatur, cuius natura cùm facile accendatur, mirum haud eft: talem effectum producere. Hæmorrhoidalemn berbam contactu Hamer rboides fünare. Ira eft Hæmorrhoidalis vis, & poté. tia in perfanandis Hæmorrhoides: fi enimhuius radicibus, Hæmorrhoidales do lentes tanguntur, atq; illæ per diem circa fe. mur ferantur, & mox in camino fumanti (afpendantur, procul dubio effectusfanatur: fiquidé Hæmorrhoides que atq; radices ex iccărur, fiaccelcıyor: qua caufa herba ab effe ctu nomen deduxir, nec immeritò: namin iftarum infiammatione, &doloribus, fi hu us radices contufæ applicantur, confeftim, & dolor, & inflammatio mulcentur. Ex Ex Tante. Marine Paltinuca radium,identium do loresmitigare. entium dolores multis experimentis ex Marinæ pattinacæ radio mitigari vifi func; huius eniin radio, qui in piſcis cauda cpa, situr, dentes tanguntur, & gingina ſcari. ! x herbis non paucæ Ecale ſcar ficantur, quo præſidio quan cítiſsime dolor euanefcit. Prodidit Dioſcorides, lib. 2,64p. 9. radiuin hunc dentes frangere, & e urcare.quomodo autem hoc perficiat docu it Plinius lib. 3. cap 4. Conteritur enim is, & cum Helleboro albo miſcetur, quorin miſtura fi dentes illiti fuerint, fine vexatio ne extrahuntur, Plerasg, berbas, Solisexortum, & occafuma ostendere, Solis ortum, & OC cafum noffe videntur tantaq;huius lyde. ris ſectandi,talibus auiditas nafcitur, vt Gr. miter inter kas, & folem magnam in ſe lym pathiam credamus. Profe&to fos calendula in Solis ortu aperitur, &in occafii clauditur; ex quo villicorum horologium à nuleis di citur. Sequuntur Solis fphæram non modo papauer, & illudtithymalli genus, quod vo. cant helioſcopon; ſed etiam malua, lupini & cichorea; intenſius autem Lotus herba re ctatur, &exortum quotidianum, &occafum noſcit. Hæc (Theophrafti teitimonio ) cau lem, &florem veſpere mergit, & circa me. diam noctem tota in lacum irruit, & adeo occulcatur, vt nec manu admiffa quis valeat inuenire, verciturmox panlatimg; erigitur, &in Solis exortu extra aquas confirrgit; for P 3 reing  Temą; aperit, & patefacit, caliterá; etiam num confulit, vc alièab aqua abeffe videa quarum Sodo Qualssin Sodomi, & Gomorriveſtigiso riantur fru & us. LtiſsimiDei decreto quinq; vrbes 211a ciquicus incentæ ſunt wuum, & Gomorrhum præftantifsimæ fiudj erbantur.Harum in fauillis quædam noſcú. tur veſtigia; Giquidem cæleftis ignis reliquiæ adhuc perfiftunt. Quod autem illic admira bile perfpicitur.viridancia fpectantur poma, formaci vuarum racemi, nec quis elt, qui e dendi haud cupiditatem habeat: illa. autem manibus capta faciſcunt, & in cinerem refol. uuntur, fumuggsexcitant, quafiadhucarde ant. Ex Egeſippalib. 4. Magnam inter vterun, ammasinef Seſympathiam. On exiguus inter mulierum vterum, & mammas contéplatur confenfus: quip pe alterum alterius pathema oftendere on laruamus, A venis inter has partes coniunctis maximè ratio ošteditoriri ſympathiá:ex iis e nim materias ab vtrifq; contentis transferring &exonerari experimur.In menftruorum re dundantia Cucurbitula fub mammisappofita, fluxum cohiberi ab Hippocrate docemur,  Lactis copia in puerperis dum magna grauit q; fuerit, die feptimo puerperii octauo, 10 nog; in vterum à naturaefunditur. Suppreisi menfes in virginibus, & viduis caftis, non femel io mammasrefiliunt, & la & tis copiam fuſcitant. In mulierum pubertate accedente menftruo vtramq; parteni creſcere vidernus. Quo artificio Solis defectumfirmiter com prehendere paleamus. Aria induſtria pleriq; conantur folis defectam deprehendere;hocautem có pertum eft, artificio illius defectionem fir miter apprehendi, Pelues hora inſtanti capi. antur, quæ non aqua, fed aut oleo, aút pice implendæ ſunt; ratio enim fuadet, humorem pinguem non facile curbari, atq; imagines perinde, quas recipit conſernare. Equidem in magines in liquido & immoto tantum appa rereconfueuerunt, propterea in olen, & pi. ce, commodius, & firmius, quomodo Luna Solilc opponat, & illum abſcondat accipere poterimus. Ex Seneca in Natur. Quaft. Virginummammillarum tumorem acis cuta impediria Ac inter alias, cicuta pollet efficacia, vt contufa cum vmbeila, atq; virginü B H mammillis impofita, tumorem, & excref centiam valeat prohibere; fortaffe nutrimé cum impedit, quo minus augeantur, vt in pu crorun tefticulis fuccedit, fi hæc adhibetur: ijenim reatibus alimenti obtufis facilè ex iccantur. Aperiani in hoc loco quod à Bon doletio nultis experimentis comprobatum Teperio de piſce Squarina: hicenim mulie. rum mammis fuperpofitus, illas adeò con. ftringit, ve virginum mammillæ appareant; credunt multi in genitalibus eundem fimili ter effectum producere. Quercusgallis, anniprafagia comparari. Napoleon Onmodò à Plinio, verùm atq; à plea riſq; rei rufticæ ſcriptoribus obſerua tum fuiffe comperio, à gallis quercus maio sibus præfagium aliud anni, quodapud vece res in magno fuiſſe pretio,&opinione legi. tur. Aperiuntur gallæ, quando integræ funt, ibig; muſca, aranea, aut vermiculus repe. ritur: fiquidem planta hæc in gallis huiuſmo di aninialium gignere confueuit. Si mufca volar, angi fertilitatem & bellum futurum præſagiunt; ſin vermiculus repit, annonæ carentiam arguunt; fi autem aranea profiliet fummam caritatem, & peftilentes affectus prædicunt. His ego adderem, præfagia hu. iufmodi, fi Deo placuerit, confimiles ſecta. tur elientus. Vitri puluerem, calculos comminuere. ron folum Galenus, fed Anicenna, & mouendos vitri puluerem excollunt quomo do autem hæc fieret, plurimum infudiui; tandem quæ ab Abecizoare componitur,mihi ex voto ſucceſsit, & vitrum adurere didici. Capitur vieri albi, & perſpicui fruftulum, quod terebinthina coll nire oporter totum, nyox tandiù in prunis detinere, veexcandel. cat; hoc demum in aqua exſtinguicur, ſepti. eſg; iteratur, primò tamen linitur, fecundò cxcoquitur, vltimò extinguitur; quo peracto, vitrum conteritur, & in puluerem lubciliſsi mum mutacur. Propinamus languentibus au rei pondus vel drach.j. cum vino albo, & ef ficaciter calculos comminui experimur. Quo artificio aëris naturimexplorare valeamus. Eris qualitatem, & naturam cum ex plorare libuerit, fpongia bene ficca, atq; munda ſèreno cælo per noctem fub diuo exponenda eft; illa eniin fiſicca mane fuerit, ficcu's P5 АБЫ  liceus & aër erit; fi humecta,nimbolus; fi anoll cervda,humidus,acroridus Inſuper ft recente pané eadem induftria expofueris, di corrupto,ficuin contrahere videbitur;à fic co, fiec ficcus;ab Humido aucem, à ftacu pro prionon mutabitur.Siaër fuerit peftilens, carnesexpofitæ corrumpuntur,atque colo rem mutant;fic eciam & adipes.Siaércraf fus erit,patebit in marmore, & filicibus, qnę in cali natura admodum madere folent; cós tra verò in aere'tenui, liges humidus eſſet, hę enim in tali con ica humeſcunt. Ex CATO dano. Quali fratagemate homines, mortui Š videantur. Vltis experimétis confirmatum repe rio fublimatum, ffue aqua vitæ cum fale miſce tur, ac in patina (ſublata qualibet alia lua ce ) accenditur in cabiculo, nocturno tem pore, vbi homines reperiantur; fiquidem ipfi immobiles fuerint, fpeciem mortuorús repræſentabunt. Pleriq; vt Aethiopes fin gant, lucernam accendunt oleo plenam, cum quo ſepia atramentum fit dilucum, fi we calchantuni, aut ærugo, nec fine ratio ne:oftédit enim,lux eorû colores, quæ in iis sát quæaccédācur: oportet tamen iu cubi culorcliquas luces adimere, Nerein VA No Nereidesfaciehumana dy venufta, prezi que fuifferepertas Ereides, quas vulgus Birenas appela lat, plurimæ in locis maritimisinué tę funt;quodauté cátusdulcedine nauigātes hein foporem perliciant, & capiant,nos. in lib. 1. de Hominis vita, abundedifferui mus, vbi de Tritonibus, Nereidibus, ho. minibuſqs in maridegēribas, quos marinos vocant tractatur; Poetarumq; fabulæ eno. dantur, Vidithas Theodorus Gaza & Gee orgius Trapezont ius, homines nagnæ e ruditionis: Gaza in Pelepomeno exorta maris tempeftate, Nereidem proiectain in lidcore reperije viuentem, & fpirantem, ynleu hrniano, facie decora, corpore fqua mis hirto ad pubem vſq, cætera autem ia locuftæcaudam definebant: ad hanc viſen dam magnus fuit concurſus, illa tamen e vac maefta, crebrog, ſuſpirio fatigata & frequentia hominum circumdata gemitus dedit & lacrymas emiſit,quibusmacus mi. fericordia,ad mare deduxit, vbimagno im petu fluctus fecauit, & ex oculis omnium cuanuit. Quid Trapezontius, pleriqs. alii viderint, in loco cita. to narrauimus De Apunx natura, earumque mirabiliſa gacitate. Tu quidem anceps fui in fcrutanda A pummellificatione,foetu, & cera:nam & apud auctores magna reperitur controuer. fia, num illæ ge nerent, & aliundeprolem habeant.Poft auem exactum fcrutinium cu iufdam amici va lido experimento Ariftoter lis opinionem veram eflecomprobaui;fiqui dem Apese floribus fauos conftruunt, exar borum lacryma ceram fingunt, & mella ex aëris'rore captant.Hæ primum fauos confi. ciunt,mox fotin collocant, ore calidum ſpirantes,vt vitain recipiat.Mellificanræfta. te, & autūno cibi caufa;mel autem autinale cleatius eft.Foetus in vere ferotino debilis fit: nã & naiori ex parte emoritur. Multi aiunt oliuas, & examinum copiam cógenerem ha. bere nataram: nam fi altera augetur, alcera abundans fit: fi vna deficit,altera deprimitur ratio eft:nam mella ficcitates augent;lobo. lem verò imbres; quofit, vt ſimuloliuæ, & sopia examinam fit. Vinorum aliquot existere genera natura mirabilis. R aliquot vinorum genera mirabilis naturæ quod? co A quod vua & guftu, & fenfuà cæteris minime diſcrepanr, nec vinum á ymis; tamen quod Heracliam Arcadiæ fit, viros reddicinfancs epotum, & mulieres fteriles: & apudcabyni. am Achaiæ abortum facic: & in Thiffo vi num quoddam lomaum producit; quoddam verò, vigiliam Ex Tbeophraſto lib.9. Plant. Quoartificio ignem manibus abſque læfione tractare valeamus. Pud plerofque fcriptores inueni, ig nem fine læſione poffe tractari, fi tri. tomaluauiſco cum ouorum albumine, ma.. nus liniuntur,ac defuper alumen inducitur.. Hoc autem experimentuin à Magno Alber to captum eſt, apud quem aliud legitur hu. ius negotijartificium:fi enim Ichthyocolle, & aluminis æquales partes capiuntur, & ad inuicem commiſcentur, fiacetum his ſuper funditur; quicquidtali miſcellanea illitum in ignem proijcitur, vtique non comburie tür. Menftrua in ſenio ferèquibufdam fæminés 46 cidere. Vàm fallax fit tum Ariſtotelis, tum ali orum iudicium,quodin mulieribuscir ca quadragefimum annum,fiue quinquagefi mum menftrua deficiant, quotidiana demone strat experiencia. Mulierem hic cognoui, Qyour P7 Victoriam nomine, eamque honeftam & bene morigeratamshuic in anno 45.méftrua ceffarunt, & faufta valetudine vixit,cum au tem fexagefimum ferè annum attingeret, ce teilli menfes rubei,bonique coloris redie. De vberague, quæ priusflaccida erant,more: virginum turgidula facta ſunt lactifque tan ta copia impleta,vt impulſu ferretur: quarez, vt puerulú filiæ fuæ lactaret àmeadmonita eft. Alteram cognoui, quæ vfque ad annum 65.femper menftrua paffa, & hodie viuit, & menftrua fingulis menfibus fuentia habet Hæcautem raròcontingunt.. Bufonislapidem contra venena mirabileinha bere virtutem. Pleriſque lcriptoribus excollitur lapiss ille terreſtrisinuenitur: ſiquidem contra venena folo contactu valere expertü eft; propterea inflationes abeftijs venenatis illatas diſcute re, venenúq; elicere aiut.Scribit Lemnius, tu mores, & dolores ex forieibus,araneis, vel pis,fcarabeis,gliribus, aliifuevenenofis 2. nimalibus caufatos fclo lapidis blaul do attritu.euanef cere Aquarum Fluuios natur& mirabilis repe $ rire. N multis locis aquarum exortas, mira cfficaciæ inuenirilegimus Scribit Arift. in terra Aſsirithidæ aquas naſci, quas cum oues biberint,moxgs inierint, nigros agnos generare. In Arandria dnos ineffe fluuios ad.. notauit, quorum alter candorem, alter nio gritiem facit pecoribas:at Scamander am gis, quem Homerus Xanthuniappellauit, fia uas reddere oues creditur. Mirabilers in concepta imaginationis effe per rentiam Maginationis potentiam tam miram effe Phyfici confitentur ve viſa per cóceptum in partu fæpiſsimè eluceſcant. Referam hi ftoriain admirandam ex Ludouico Vives 12; de Ciuit.Dei de huius negotio conſcriptam In Brabantia Buſco ducis quædam vrbs eft, in qua more eiufdem Prouinciæ quodam die rempli vrbis feſtum celebratur, quo tempore varii ludi apparantur.Sunt aliquot, qui ſtato die diuorum perſonas induunt:nönulli vera Dæmonů.Ex his vnus cū viſa puella exarfif. fet, & demúfaltado ſe ſe recepiſſet, & apreprā Vt er at perfonatus vxore fua in le &tum con. ieciſiet,ſe exeaDanonem gignere velle di.. cells  D cens, concubuit, & concepit inulier: clim autem in partuinfantem peperiffet,'s fimul ac primum editus eft, Calcitare cæpit forma, quali Dæ nones pinguntur. Dentium.stupores à portulaca confeftim amoueri: Entium ftupores,qui ab acidis.edulijs Connarci confueuere,ex aqua aut luc co, vel frondibus portulacæ commanfis, quam citifsimèdiffoluuntur.Ipfe cum qua-. damæftate cùm fiti maxima, tùm dentium: ftupore affligeretur,cömanfis ipfius frondi bus, &à fit, &à ftupore fubito liberatussú, Ab amico quodam audiui parculacæ fuccúi collinitum,abfque dubio verrucas exter minare,mihiautem experiundi locus haudi adhuc datus eft. Ex Aphrodiſeo, Ceraferum aquam ftillatitiam in Epilepfia ! fummumeſſeremedium. Ninitis experimentis Ceraſorum aquam 10 laccurrendis Epilepticis conprebari reperio propierea à loanneAgricola in lib.. Herbar.maximèetiam extollitur. Qua pro vita producenda inter arcana natu 12 connumerentur. APudreru naturalium (crucatores acer rimos inueni, idque in arcanis conſer wari Hellebori nigri fólia Saccharo cómilta degluci deglutientem ad iuglandis magnitudinenia in offenſam valetudinem, ad ſenectutem vſ. que conſeruari.InfuperSilicem ignitum lin. teiſque parum madidis inuolutum,& pedi. bus applicitum,pernicioſos valetudinis vaki pores extrahere. Quoartificio in mulieribuscrinesdenfiores, copiofiores comparare paluamus. Nter ſelectiſsima prælidia, quæ ad capil lorum copiam generaodam ineffe cre duntur,Maluæ radix connumerari poteft:: fi enim caput mulierum livinio lauatur in quo elixa fit maluæ radix, & deinde fucco maluæ crines, inungantur, profecto ya bercim prouenient, & cicila fimé. Giulio Cesare Baricelli (n. San Marco dei Cavoti) è un filosofo.  De hydronosa natura sive de sudore umani corporis Hortulus genialis Thesaurus secretorum De lactis, seri, butyri facultatibus et usu  Indice   baricelli — implicatura sudorosa — de hydronosa natura — de medicinae praestantiae — amazones cur mammas dextras resecaverint — olearum sterilitatis praesagium — nili flumines proprietas — de mundi creatione — murium sagacitas — pluviosa tempestatis prognostica — agricolas non semper tempestates et serenitates praedictunt — valeriana miravis contra epilepsiam — transformationes hominum in bestias non esse reales — daemonis astutia apud indos — quid picus de scientiarum  varietatis sentiret — subditos principis vitam ut plurium imitari — rutam et allium serpentibus adversari — animalis oriri et vivere posse in igne compertum est — lacus asphaltritis mirabilis naturae — pisces marinos salubriores et rapidiores fulminibis esse — mulieris —  hominos — cibus — gigantes in orbem — mulieres — excellentia — falsissimum est salamandran in igne vivere posse — sabbatici — lactandis infantibus  menstrualis — pharmacum — animal — tauri — faxa — aegypti reges — sterilitatis praesagia — aeris salubritatem — lintea — hominibus — hydropes — plenilunio — nationibus — romulus — serpentaria — echinum — animi pudorem — animalia — alexandri morti — sanari — cervi sudori — vires — balnei — adam — rutam — verbenam — anima — aeris — sulphuris —  caraba — baccas — linguam — galli — homines — magis — fuco — cacoethica — vipera — traulos —  morbos — lupi — vitrum — pregnantes — periculo — pro corporis — corporum hominum — utero — paterna — araneus telas — menstruali — rutam — corpora — achatis — hominibus — hominem — utero —  praesagium — utero — tritico — scorpionum — hominibus — bubulo — epilepsiam —  arbores lapides — bardana — literas — homines — hominibus — hominibus — filios parentibus signum — mare rebrum — hydrargyri — lupum — epilepsia — flatu  corpora — pestilenti — efficacia — animalium — seminis — basilicum — torpedinem — animalia — armenia — febre — lumaca — amantissimam — astronomiam — martisque — passione  cantharides — adagium — parere fetus — iucundi —de amoris origine — aqua — virtutes — sagacitas — lapidis — naturam — partus — amorfus — equorum — spectacula — marinum vitulum  epilepsia — vinum — homines — homines — cervi — gagatis — epilepticos — hominum — laudano — mortem — pacto — a viro — hepaticos — mortem — mithridatis — ossa — bryonia — herpetes — vina alba — flores — absynthium — chalcantho — coralio — lethargicos — infantes — prunellae — catuli — gallum — corios — artificio — theodorus — radicem — dilligentes — canicula — quatuor elementis — phreneticos — digitum — carnes — vicera — testiculis — dentium —  hippocrate — animalibus — apii — satyrii testiculum — hominibus — radicem  hominis extractum — praesidia — hominem — antidotorum — cancri — quomodo — morbi — animantium — pulchritudine — septentrionalibum — hemorraghia —  lingua ardor  aegyptios — gentium — solis — animalium — cervorum — masculinum fetum — mirandulani — hydrargyro — incognita — tempestates — epiro — hecla — hominum — galenum — graecos — cane — athritide — lionem — iumenta — acutis — acetum — piscis — foeminas — corporis — alexandrum — hominum —  ruditas — angina — capillos — volucrum  agricolas — galege  infantis — oryalum — homines — lapides — collegium — alexandrum — laparhiorum — feminum — aegyptios — methodo — olivarum — admirandu — millepedum —  frequentem — mulieres  daemonum  carduum — infantes — menstrualem — corpori — medicina — animalia — unicornu — mulierum — naturalem — febris — precognosci  medicis — masculorum — hydrargiri — bryonia  consolidanda — chymicam — corpus — hominum — venenum — semen — lupos — homines — luna — leonardi — hominibus polypidium  ibidis — mulieres — industria  corpora — gallicam — hominis — hominibus — regem — homines — aquilone — usum — usum — oleo — genus — leones — artificio mergum  lacertas  educandis — artificio — serpentes — virginitatem  virginale — vitellos — humana vita — vena — materia — alexandri — mulieres — hydrophobos  puerorum   labiorum — utero  semine — aegyptorum — taxi — epilepsiam — aspides  infantes — vitrum — homines — vini — syrium — nuptis — agreste — hydrophobiam — hepatis — viventes — arundinem  cynanchem  parere filios  vino — praesagia  gallinarum — aquam —  mandragoram — corpora — vita hominibus — semina — infantium — vitam  philomelam  castorem — duces  lingua — vinum — equorum  croci  hominis — aspidum  hermaphroditos  imaginationis potentian — climactericos — inter homines — carolum  animantia  liberos — garamantes  caminus  horologium — infantium  praesagia — vinum — virorum — familiarem  romanos — ambarum — tympaniam — venenum —  toxica  socrati  magia — epistolam — aqua frigida  menstruorum  lapides — homines  testiculos  humanam salivam  homines ridendo —  parthi — partum accelerare — serpentum  hydrargyrum vim — anginam — vermes  mamillis lumbricos — infantis  elephantiasim  cyprinorum  leporine — hydrargyrum — gravidas  homines abstemios — aristolochiam — alexandro morbis — creta — cyprini  calphurnius bestia romanus — aceto oleum — scythae  catellos — plurima — martis — robusta hominum corpora — equum — homini lunae — mithridiatu — viscum — vites — betulae haemorrhoidalem — dentium dolores — sodomi — uterum — solis — virginum — praesagia — vitri — aeris — homines — facie humana apum natura vinorum ignem menstrua virtutem aquarum in conceptu imaginationis esse potentiam dentium stupores epilepsia pro vita producenda mulieribus Giulio Cesare Baricelli. Keywords: sweat, il sudore umano, sudore e la regola, stirgilo, amore, Socrate, Aristotele, controversia sull’origine del sentiment dell’amore, Socrate, l’idea di causa in Aristotele.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baricelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Baroncelli – compassione – filosofia ligure – filosofia italica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Savona). Filosofo italiano. Grice: “I like Baroncelli – he can be hyperbolic – “Mi manda Platone,” surely he only requested! My favourite is his ‘compassione,’ which is ‘calco’ of ‘sumpatheia’ and therefore at the core of my balance between conversational egoism and conversational altruism.” Flavio Baroncelli (Savona) filosofo  Nato e cresciuto a Savona, si laurea in filosofia all'Genova nel 1969 con relatore Romeo Crippa, di cui diventa assistente.  Insegna Storia dell'età dell'Illuminismo all'Trieste.  Dal 1977 al 1981 è di nuovo a Genova, dove tiene la cattedra di Storia della filosofia moderna.  Nel 1981 diventa ordinario all'Università della Calabria. L'anno successivo ritorna a Genova dove prende la cattedra di Filosofia morale.  Nel 1988 un grave incidente motociclistico durante una vacanza in Turchia lo allontana per qualche periodo dall'insegnamento e dalla ricerca, attività che riprende all'inizio degli anni novanta come visiting scholar all'Madison, nel Wisconsin.  Nel frattempo collabora con molti quotidiani e periodici, come La Voce di Indro Montanelli, Village, Il diario della settimana, il Secolo XIX.  Tornato a Genova, diviene molto amico del filosofo Franco Manti, segretario generale dell’Istituto Italiano di Bioetica. Riprende la vita accademica per allontanarsene a causa della malattia che lo porterà alla morte sopraggiunta nel 2007.  Il pensiero di Baroncelli ripropose un'etica planetaria alla luce del mondo globalizzato, invitando a riconsiderare i valori e le identità storiche dei gruppi umani occidentali riorientandoli a favore di un sistema di valori e di identità individuali e culturali di tipo mobile e pluralistico. Ha qualificato le varie culture come sistemi aperti in grado comunicare e di essere traslati o esportati ovunque nel mondo, nella convinzione che gli esseri umani appartengano tutti alla stessa specie e siano tutti abitanti dello stesso pianeta.  Pensiero e la ricerca Profondamente influenzato da David Hume e dallo scetticismo inglese, si è occupato in prevalenza di temi etico-politici come il razzismo, la tolleranza, il liberalismo e il politically correct.  Altre opere: “Un inquietante filosofo perbene: saggio su Davide Home” (La Nuova Italia, Firenze); “Sulla povertà, idee leggi e progetti nell'Europa moderna, Herodote, Genova-Ivrea); “Il razzismo è una gaffe” “Eccessi e virtù del "politically correct", Donzelli, Roma); “Viaggio al termine degli Stati Uniti Perché gli americani votano Bush e se ne vantano”  Donzelli, Roma); “Mi manda Platone, Il Nuovo Melangolo, Genova Saggi "Giustizialismo" in Ragion Pratica, "Post-fazione" a Lysander Spooner, No treason, "Etica e razionalità. Un finto divorzio?" in Materiali per una storia della cultura giuridica, Il riconoscimento e i suoi sofismi" in Quaderni di Bioetica,  "Come scrivere sulla tolleranza" in Materiali per una storia della cultura giuridica.  Note  Franco Manti per la fondazione Pubblicità progresso, Manti, Diversity, Otherness and the Politics of Recognition, in Nordicum-Mediterraneum,  14, n. 2, Akureyri,, Ospitato su archive.is. Citazione: To Flavio Baroncelli, a friend I met only too late, / whose lively intellect, critical sense, friendliness / and clever irony I just had time to appreciate.  Info dalla pagina del Dottorato in filosofia dell'Genova. Registrazione audio[collegamento interrotto] dell'intervento a una trasmissione di Radio 3 dall'archivio RAI Trascrizione di un dibattito con gli studenti sulla tolleranza dal Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche di Rai Educational Necrologi Bertone, Vittorio Coletti, Salvatore Veca e Pietro Cheli. Altri dello scrittore Bruno Morchio e dell'amico Daniele Miggino. Sezione speciale della rivista Nordicum-Mediterraneum dedicata a Flavio Baroncelli. Pagina di Wordpress su Flavio Baroncellicon alcuni testi inediti. Flavio Baroncelli. Keywords: compassione, filosofia ligure, Home, etica, ragione, giustizia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Baroncelli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barone – linguaggio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “I like Barone, but I’m not sure he likes me! You see, in Italy, there’s ‘scienze filosofiche,’ and ‘scienza’ was indeed a way to describe philosophy! But at Oxford, you have to take the great go! Lit. Hum., and I doubt Barone did! – ginnasio e liceo, as the Italians have it! Therefore, his views on ‘filosofia e linguaggio,’ never mind his rather pretentiously titled ‘logica formale,’ ‘logica trascendentale,’ ‘algebra dela logica,’ etc. have little to do with, well, Italian!” Laureato in Filosofia a Torino nel 1946 come allievo di Augusto Guzzo e Nicola Abbagnano, visse a Viareggio. Professore di Filosofia teoretica all'Pisa, dove fu preside della facoltà di Lettere e filosofia dal 1967 al 1968, fu poi docente di Filosofia della scienza nonché direttore dell'Istituto di Filosofia nella stessa università (1960-80). Insegnò anche Filosofia morale alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Si dedicò soprattutto a studi di storia e filosofia della scienza, pubblicando numerosi libri. Nel 1979 curò l'edizione italiana delle opere di Niccolò Copernico. Socio nazionale dell'Accademia delle scienze di Torino (dal 12 febbraio 1985), della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti in Napoli, e dell'Accademia Nazionale dei Lincei, a Milano fu presidente del Centro del C.N.R. di studi del pensiero filosofico del Cinquecento e del Seicento in relazione ai problemi della scienza.  Pensiero Particolarmente interessato alla filosofia di Nicolai Hartmann, Barone ne trasse spunto per un confronto tra la dottrina realistica e quella neoidealista. La sua riflessione filosofica si sarebbe poi focalizzata sui problemi epistemologici e della filosofia della scienza.  Come pubblicista affrontò temi etico-politici sul rapporto tra individuo e società dal punto di vista della ideologia liberale e liberista.  Il tema principale delle opere di Barone riguarda la filosofia della scienza e la storia della scienza e della tecnica. Si deve a lui la prima pubblicazione in Italia di una monografia sulla filosofia neopositivistica.  Il suo pensiero si contraddistingue per lo stretto rapporto tra epistemologia e storiografia della scienza, settore, questo, in cui Barone ha preso in particolare considerazione il tema della nascita dell'astronomia moderna, da Niccolò Copernico a Keplero e Galilei.  Intorno agli anni sessanta, inoltre, Barone si è dedicato con particolare attenzione agli sviluppi culturali, epistemologici e filosofici della nascente informatica.  Altre opere: “L'ontologia di Nicolai Hartmann” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Rudolf Carnap, Edizioni di Filosofia, Torino); “Wittgenstein inedito, Edizioni di Filosofia, Torino); “Il neopositivismo logico, Edizioni di Filosofia, Torino); “Assiologia e ontologia: etica ed estetica nel pensiero di N. Hartmann, Torino); “Leibniz e la logica formale, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicolai Hartmann nella filosofia del Novecento, Edizioni di Filosofia, Torino); “Logica formale e logica trascendentale,  I, Da Leibniz a Kant, Edizioni di Filosofia, Torino); L'algebra della logica, Edizioni di Filosofia, Torino) Metafisica della mente e analisi del pensiero, Edizioni di Filosofia, Torino) 1748: viaggio di Hume a Torino, Edizioni di Filosofia, Torino); “Mondo e linguaggi” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Determinismo e indeterminismo nella metodologia scientifica” (Edizioni di Filosofia, Torino); “Concetti e teorie nella scienza empirica, Edizioni di Filosofia, Torino); “Nicola Copernico, Opere (F. Barone), POMBA, Torino); “Immagini filosofiche della scienza, Laterza, Roma-Bari); “Pensieri contro, Società Editrice Napoletana, Napoli); Teoria ed osservazione nella metodologia scientifica, Guida, Napoli); Verso un nuovo rapporto tra scienza e filosofia, Centro Pannunzio, Torino); La fondazione dell'ontologia di Nicolai Hartmann (F. Barone), Fabbri, Milano); Leibniz, Scritti di logica (F. Barone), Zanichelli, Bologna). Note  Francesco Barone, Neopositivismo, in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Barone, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sito ufficiale, su francescobarone.  Francesco Barone, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Barone, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Barone, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Francesco Barone, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Barone,.  David Hume, il filosofo della non certezza di Francesco Barone, La Stampa, Addio a Barone il filosofo che diffidava dei paradisi in terra di Dario Antiseri, Corriere della Sera, Archivio storico. Francesco Barone. Keywords: linguaggio, assiologia, la semantica di Leibniz, la sintassi di Leibniz, logica matematica, logica formale, logica trascendentale, logica aritmetica, Hume a Torino, simbolo, logica simbolica, Leibnitii opera philosophica, assiologia ed ontologia, mondo e linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barone – dialettica fiorentina – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alcamo). Filosofo italiano. Grice: “I like Barone; at last a priest that takes Italian humanism SERIOUSLY!” --  Dopo avere finito gli studi teologici nel Seminario Vescovile di Mazara del Vallo, fu ordinato sacerdote il 13 marzo del 1937. Frequentò, quindi, la Pontificia Università Gregoriana di Roma dove conseguì la laurea in Filosofia trattando la tesi dal titolo: L'Umanesimo filosofico di Giovanni Pico della Mirandola.  Ebbe subito la nomina di Canonico della Collegiata di Alcamo, poi dal 1949 al 1956 quella di Vicario foraneo e Visitatore dei Monasteri; dal maggio 1951 fu nominato anche Canonico Onorario della cattedrale di Trapani.  Nel mese di novembre 1956 fu pure nominato Cameriere Segreto Soprannumerario di Sua Santità; fu quindi professore di lettere e filosofia del Seminario di Mazara del Vallo e, per 16 anni, delegato Vescovile alla dirigenza dell'Istituto Magistrale legalmente riconosciuto "Maria Santissima Immacolata" di Alcamo.  Per diversi anni, è stato anche Rettore della Chiesa della Sacra Famiglia e della Badia Nuova; inoltre è stato membro del Consiglio Presbiteriale diocesano e docente di Filosofia presso il Seminario Vescovile di Trapani. Altre opere: “Il Santuario; Alcamo); “La Nuova parrocchia di S.Oliva; ed. Bagolino, Alcamo); “Giovanni Pico della Mirandola profilo biografico del celebre umanista; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “L'Umanesimo Filosofico di Giovanni Pico della Mirandola Studio del Pensiero Pichiano; ed.Gastaldi, Milano-Roma); “Quattro saggi; ed. Accademia degli Studi "Ciullo", Alcamo); “Donna IdealeIdeale di donna; ed. Accademia degli Studi "Ciullo", Alcamo); “Didactica Magna di Comenius (traduzione italiana); ed. Principato, Milano); “Scuola Libera, ed. Bagolino, Alcamo); “Il Vero Maestro -Lineamenti di educazione; ed. Bagolino, Alcamo); “Verità e Vita; ed. Cartografica, Alcamo, De hominis dignitate, di Giovanni Pico della Mirandola, Firenze); “La Congregazione di Gesù Maria e Giuseppe nella chiesa della Sacra Famiglia di Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo); “La più bella preghiera, Alcamo); “Antologia pichiana: letture filosofico-pedagogiche; ed. Virgilio, Milano); “La docta pietas, di Sebastiano Bagolino erudito alcamese del sec.XVI; tip. Bosco, Alcamo); “Maria fonte di Misericordia e Madre dei Miracoli Patrona di Alcamo; tip. Sarograf, Alcamo); “Dialogo con gli invisibili; tip. Bosco, Alcamo). Note  trapaninostra,//trapaninostra/libri/salvatoremugno/Poesia_narrativa_saggistica/Poesia_narrativa_ e_saggistica_ in_provincia_di_Trapani_02.pdf  Tommaso Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, Papa, Memorie storiche del clero di Alcamo, Alcamo, Accademia di studi Cielo d'Alcamo, trapaninostra,// trapaninostra/ libri/salvatoremugno/ Poesia_narrativa_saggistica/ Poesia_ narrativa_ e_saggistica _in_ provincia_di_Trapani_ Vincenzo Regina Tommaso Papa Identities-Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Letteratura  Letteratura Categorie: Presbiteri italiani Insegnanti italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore Alcamod Alcamo. Giuseppe Barone. Keywords: dialettica fiorentino, pico, umanesimo toscano, pico, pichiano, pichismo, uomo, degno, la degnita dell’uomo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barsio – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mantova). Filosofo italiano. Grice: “I like Barsio – he reminds me of G.Baker – there he is, Baker, succeeding me – and an American! – as tutorial fellow in philosophy at St. John’s, and dedicating his life to Witters – So when reminiscing, in my “Predilections and prejudices” about them years, I said, “God forbid that you dedicate your life to the oeuvre of a minor philosopher like Witters – it’s good to introject into a philosopher’s shoes as you attain to grasp the longitudinal unity of philosophy, but look for a non-minor pair of shoes!” – “Barsio is a radically minor philosopher – in that, he never had to grade – I always hated grading and seldom did it! – since he lived under the Gonzagas at Mantova – and he just phiosophised to the sake of the pleasure he derived from it! My favourite is his elegy to his enemy, Pomponazzi – but his satirical curriculum vitae is fantastical, but possibly true!” -- Noto anche come Vincenzo Mantovano, frequentò le corti del marchese Federico II Gonzaga e di sua moglie Isabella d'Este, alla quale pare avesse dedicato il poemetto Silvia e la corte del marchese di Castel Goffredo Aloisio Gonzaga, al quale dedicò il poema latino Alba. Studia filosofia a Bologna. Altre opere: “Silvia, poemetto in tre libri, Pamphilus; Alba, dedicato al marchese Aloisio Gonzaga, signore di Castel Goffredo; Labyrintus, dedicato a Federico II Gonzaga. Ireneo Affò, Vita di Luigi Gonzaga detto Rodomonte, Parma., su books.google. Gaetano Melzi, Dizionario di opere anonime e pseudonime di scrittori italiani, Milano, Giuseppe Coniglio, I Gonzaga, Varese, su books.google.  Vincenzo Barsio, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  ICCU. Vincenzo Barsio., su edit16.iccu. Marsio. Vincenzo Barsio. Keywords. dialettica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barsio” – The Swimming-Pool Library.

 

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Grice e Barzaghi – scuola di anagogia – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monza). Filosofo italiano. Grice: “Barzaghi is a genius; the Italians hate him! In his “Compendio di storia della filosofia,” there’s no mention of Cicero!” – Grice: “Barzaghi is the Italian Copleston – what is it with religious minds – cf. Kenny – that have this inclination towards the longitudinal unity of philosophy?!” – Grice: “Barzaghi just ignores the most prosperous period in Roman philosophy; not so much Romolo, but whatever happened in Rome after that infamous ‘embassy’ of Carneade, an Academian, Critolao, a peripatetic, and Diogoene di Celesia, a stoic!” --  Direttore della Scuola di anagogia, fondata dal cardinale Giacomo Biffi. Discepolo del filosofo Gustavo Bontadini e frate domenicano, è stato l'interlocutore privilegiato di Emanuele Severino sulla questione di Dio e del cristianesimo.   Nella sua opera Oltre Dio, Barzaghi si interroga dapprima sull’essenza del cristianesimo per giungere ad affermare la necessità, per il credente, di assumere alcune fondamentali posizioni filosofiche riguardo la vera comprensione della realtà: «Se il Cristianesimo è essenzialmente la partecipazione della vita di Dio, cioè della vita eterna, per comprenderlo occorrerà porsi dal punto di vista di Dio, cioè dell’eterno» (p. 13). Secondo Barzaghi, l’Essere assoluto «non può essere inteso come qualcosa accanto ad altre cose, e conseguentemente diviene il punto di vista rigoroso per l’ispezione del tutto» (p. 17). In questo senso, la filosofia di Emanuele Severino, che si presenta come alternativa al teismo, offre in realtà per Barzaghi il fianco a un nuovo percorso argomentativo in favore dell’esistenza di Dio (un Dio però non inteso come oggetto: da qui il titolo dell’opera, che evoca esplicitamente un’espressione di Dionigi): se ogni cosa è eterna, e tale dunque è anche il suo apparire, esso deve continuare ad apparire, eternamente, anche quando “non appare”. «Dunqueafferma il filosofo –, se tale apparire non permane nell’orizzonte dell’apparire che è la mia coscienza, perché consta l’apparire-scomparire dell’ente, deve comunque continuare ad apparire […] in modo determinatissimo, dunque alla sola scienza di Dio cui eternamente appaiono gli eterni. Non ammettere questa scienza di Dio, cioè Dio, significa ammettere che l’apparire, che è pur un non-niente, sia un niente nel momento in cui non appare più determinatamente, individualmente» (p. 24). Questa scienzachiamata nel linguaggio tomista scientia Dei visionis«ha la fisionomia dell’apparire infinito di cui parla Severino nei suoi scritti» (p. 17).  Nel pensiero barzaghiano, il punto di vista sub specie aeternitatis (dal punto di vista dell’eternità) diventa la condizione imprescindibile di tutta la riflessione teologica e filosofica. In teologia, solo questa prospettiva riesce a rendere metafisicamente plausibile l’affermazione rivelata dell’«Agnello immolato nella stessa fondazione del cosmo» di cui parla il libro dell’Apocalisse, così da poter parlare di una «inseità redentiva dell’atto creatore». Nella riflessione filosofica, poi, la prospettiva sub specie aeternitatis consente di avere uno sguardo «dialetticamente onninclusivo», per cui ogni ente rispecchia in sé l’eternità del tutto e di ogni altro ente secondo la nozione di exemplar.  Ne Il fondamento teoretico della sintesi tomista, Barzaghi propone appunto l’idea di exemplar come cardine speculativo, approfondendo e oltrepassando la proposta di S. M. Ramírez, neotomista spagnolo (1891-1967) di individuare nella “dottrina dell’ordine” la struttura più sintetica di tutto il pensiero di Tommaso d'Aquino. L’exemplar rappresenta «il minimo di complessità per muoversi nel massimo della complessità» (p. 31). Ma per compiere questa operazione di analisi, occorre esprimersi attraverso l’analogia, «riflesso logico gnoseologico dell’ordine ontologico [e] mezzo inventivo ed espressivo del conoscere» (p. 47), che acquisisce conseguentemente una notevole importanza nel pensiero di Barzaghi. Nell’esemplare (exemplar) si trova il centro della spiegazione causale, dal momento che in esso si presenta in modo simultaneo tutto l’ordine che lega le cause aristoteliche: il fine, l’agente che intende il fine, la forma implicata, e la materia che la deve accogliere. E l’esemplare trascende la mera dimensione funzionalistica: in quanto contiene tutto (compreso l’esemplante nel suo riferirsi all’esemplato), è una totalità, e possiede quindi caratteristiche di liberalità e assolutezza: è «sottratto alla dipendenza e al dominio» (p. 90). In una frase, che sintetizza bene il punto di vista anagogico della filosofia e della teologia di Barzaghi: «Dio, conoscendo se stesso, conosce tutte le possibili realizzazioni similitudinarie della propria essenza, cioè tutte le essenze create e creabili» (p. 96). Seguendo infine l’esempio specifico di Bontadini, suo maestro, egli fa risiedere nell’atto creatore intemporale la consistenza della totalità delle cose, cioè delle creature, giacché queste sono «nulla come aggiunta a Dio» (p. 98). Secondo tale prospettica dell’exemplar, si può così realizzare, senza aporie dogmatiche, la visione del Deus omnia in omnibus (Dio tutto in tutto).  Il dibattito con Severino Il primo dibattito fra Giuseppe Barzaghi ed Emanuele Severino avvenne nel 1995 nella forma di disputa tra le posizioni della teologia cattolica tomista e quelle della filosofia severiniana. Il dibattito trovò, al di là delle aspettative degli organizzatori, alcuni punti di possibile convergenza, che portarono il filosofo-teologo alla pubblicazione di Soliloqui sul divino (1997), in cui l’autore cerca per la prima volta di rileggere le intuizioni di Severino in un modo che egli definirà più tardi voler essere quello con cui Tommaso d'Aquino, filosofo e teologo cristiano, leggeva e faceva tesoro dell’insegnamento filosofico di Aristotele, filosofo pagano. Ciò rese il rapporto fra i due pensatori un dialogo di reciproca conoscenza e stima. Il 2 novembre 1999 Severino dedicò a Barzaghi un articolo sul Corriere della sera, in cui indicava il sacerdote monzese come il fautore del più interessante tentativo di riportare la sua filosofia al contesto cristiano da cui si era volontariamente staccato. In tale articolo, il filosofo ateo definiva “aperto” il dilemma sulla possibilità o meno per il cristianesimo di porsi come casa abitabile per l’uomo contemporaneo, a patto però di diradare, sull’esempio di Barzaghi, la nebbia che circonda il discorso religioso attraverso una ripulitura dei concetti a partire dal punto di vista dell’eterno. Seguirono poi altri dibattiti pubblici, come quello a Milano e quello a Bologna. Altre opere: “Metafisica della cultura” (Bologna, ESD); “L’essere, la ragione, la persuasione, Bologna, ESD); “Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell’essere, Bologna, ESD); “Soliloqui sul divino. Meditazioni sul segreto cristiano, Bologna, ESD); “Philosophia. Il piacere di pensare, Padova, Il Poligrafo); “Oltre Dio, ovvero omnia in omnibus. Pensieri su Dio, il divino, la Deità, Bologna, Barghigiani); “Maestro Eckart, Cinisello Balsamo, Ed. San Paolo); “Anagogia. Il Cristianesimo sub specie aeternitatis, Modena, ETC); “Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena, Cantagalli); “Compendio di storia della filosofia, Bologna, ESD); “Compendio di filosofia sistematica, Bologna, ESD); “La Fuga. Esercizi di filosofia, Bologna, ESD); “L’originario. La culla del mondo, Bologna, ESD); “Il fondamento teoretico della sintesi tomista. L’Exemplar, Bologna, ESD); “La maestria contagiosa. Il segreto di Tommaso d’Aquino, Bologna, ESD); “Il Riflesso, Bologna, ESD); “Lezioni di dialettica, Bologna, ESD); “Il bene comune secondo S.Tommaso d’Aquino, in “Communio”  L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in “Divus Thomas”, Ambientazione teologica del concetto di “gioia”,in I. Valent, Cura e la salvezza. Saggi dedicati a Emanuele Severino, Bergamo, Moretti & Vitali); “I fondamenti metafisici della mistica, in M. Vannini, Mistica d’oriente e occidente oggi, Milano, Paoline,  La potenza obbedienziale dell’intelletto agente come chiave di volta del rapporto fede-ragione, in “Angelicum”, Articolazione teoretica della teologia trinitaria in chiave tomistica, in A. Petterlini, G. Brianese, G. Goggi, Le parole dell’Essere. Milano, Bruno Mondadori, Desiderio e abbandono. Maestro Eckhart e Tommaso d’Aquino: le due facce di un'unica metafisica, in C. Ciancio, Metafisica del desiderio, Milano, Vita e Pensiero); Anagogia epistemica, in R. Serpa, Antropologia, metafisica, teologia. Studi in onore di Battista Mondin, filosofo, teologo, ciclista, Bologna, ESD); L’unum argumentum di Anselmo d’Aosta e il fulcro anagogico della metafisica. Essere logici nel Logos, in T. Rossi, Figurae fidei. Strategie di ricerca nel Medioevo, Studi, Roma, Angelicum University Press, Anagogia: voce in “Enciclopedia Filosofica”, Milano, Ed. Bompiani, L’epistemologia teologica di Tommaso d’Aquino. Analisi e approfondimento, in G. GrandiL. Grion, Rivelazione e conoscenza, Soveria Mannelli, Rubbettino,L’intero antropologico. Con Gentile oltre Gentile verso una rifondazione metafisica dell’antropologia tomista. Ovvero le virtualità tomistiche del discorso filosofico sull’autocoscienza e la corporeità umana, in “Divus Thomas”. Il luogo poetico e contemplativo del sapere filosofico-teologico. L’anima del giudizio scientifico, in “Divus Thomas” Mistica cristiana come estetica assoluta, in  Mistica forum, Bologna, Lombar Key, Fenomenologia, metafisica e anagogia, in “Divus Thomas”, Il bisbiglio del “Logos” e il suo riflesso nella ragione, in “Divus Thomas”, Il destino sempiterno dell’Occaso. L’inseità mistica della ragione, in A. Olmi, L’eredità dell’occidente. Cristianesimo, Europa, nuovi mondi, Firenze, Nerbini, La commozione come filosofia del valore. Saper nuotare negli affetti. L’ambiente invisibile della vita cristiana: il Fondamento, in V. Lagioia, Storie di invisibili, marginali ed esclusi, Bononia University Press, Bologna, Abitare teologicamente la natura. Lo sguardo metaforico di Tommaso d’Aquino. Teoresi e struttura. Riflessioni e approfondimenti sulla rigorizzazione bontadiniana, in “Divus Thomas” Creazione dal nulla o relazione fondativa, in S. PinnaD. Riserbato  Fenomeno & Fondamento. Ricerca dell’Assoluto. Studi in onore di Antonio Margaritti, Città del Vaticano, Ed. vaticana, Anagogia e teoria del fondamento, in “Divus Thomas” Metafora. La trasparenza nella trasposizione, in M. RaveriL. V. Tarca, “I linguaggi dell’Assoluto, Milano, Mimesis,, L’eternità dell’essente in teologia, in G. GoggiI. TestoniAll’alba dell’eternità”. I primi 60 anni de ‘La Struttura Originaria’, Padova, Padova University Press, Dibattito con E. Severino, in “Divus Thomas”. Il quadro anagogico e i segreti della musica di J. S. Bach. La Ciaccona e il Contrappunto XIV de L’Arte della Fuga, in “Divus Thomas”. A. Postorino, La scienza di Dio. Il tomismo anagogico di Giuseppe Barzaghi...  Data l'importanza dell'anagogia nel pensiero di Barzaghi, gli è stata commissionata la stesura dell'omonima voce sull'Enciclopedia filosofica (Bompiani), nonché, sul versante teologico, la voce «mistica anagogica» sul Nuovo dizionario di mistica dell’Editrice vaticana.  RaiCultura: Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto  Dialogo tra Emanuele Severino e Giuseppe Barzaghiparte 1 e parte 2  E. Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa, Articolo pubblicato sul Corriere della Sera, Dionigi, I nomi divini (testo critico di M. Moranicommento di G. Barzaghi), Bologna, ESD,, II, 3.  All'alba dell'eternità. I primi 60 anni de 'La struttura originaria' (UniPa)  Apocalisse 13, 8  Cfr. G. Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Nuovi saggi di teologia anagogica, Bologna, ESD, Santiago María Ramírez op, De ordine placita quaedam thomistica, Salamanca, San Esteban, Barzaghi, Lo sguardo di Dio. Saggi di teologia anagogica, Siena, Cantagalli,  UniPdL’eternità dell’essente  RaiScuola: Giuseppe Barzaghi. Dio e il concetto filosofico…  Si veda ad esempio: E. SeverinoG. Barzaghi, L’alterità tra mondo e Dio: la verità dell’essere e il divenire, in: “Divus Thomas” Severino, Nascere. E altri problemi della coscienza religiosa  Dialogo Severino-Barzaghi a Milano  Giornata di studio dello Studio filosofico domenicano di Bologna  RaiCultura. Giuseppe Barzaghi, Dio e il concetto filosofico di eternità del Tutto su raicultura. Interviste ai filosofi: Giuseppe Barzaghi su you tube.com. Giuseppe Barzaghi. Keywords: scuola di anagogia, ana-gogia, il quadro anagogico, anagogia, greco ‘anagogia’. Implicatura storica, la porta di velia, girgentu, l’implicatura di milesso, il segno di boezio, filosofia italiana. Scuola di anagogia, Bologna, fidanza, Aquino, filosofia romana, carneade, l’ambassiata greca a Roma, filosofia, la scuola di Crotone, l’impicatura di Gorgia di Leonzio. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzaghi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Barzellotti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “The good thing about Barzellotti’s treatment of Cicerone’s dialettica is that he pours in all his expterise on two fields: Italian mentality, Roman mentality – so he can understand, in a way an Englishman cannot, the way Cicerone dealt with the ‘dialectic,’ Athenian dialectic, if you wish, and turned it into a ‘Roman’ dialectic --. He of course never considers English interpreters, only German! And refutes them!” -- “You’ve got to love Barzellotti – he is critical of the idea of ‘Italian philosophy,’ but not of what he calls ‘The Oxcford school of philosophy,’ – Philosophy has no country-tag; she belongs to humanity; a DOCTRINE, or a school, may have a ‘national’ identification – And part of the problem with Italian philosophy is that there was Italian philosophy before there was Italy!” Grice: “My favourite is his tract on Cicero, who he sees as an Italian!” -- Senatore del Regno d'Italia nella XXII legislatura. Allievo di Terenzio Mamiani e di Augusto Conti, entrambi filosofi spiritualisti, si professò poi seguace del Neokantismo. Si interessò soprattutto alla storia della filosofia con particolare riguardo ai problemi di psicologia artistica e religiosa. Ebbe la cattedra di Filosofia morale alle Pavia e di Napoli. Divenne professore di Storia della filosofia all'Roma. Fu ammesso all'Accademia nazionale dei Lincei. Nominato senatore del Regno d'Italia.  Fu iniziato in Massoneria nella Loggia Concordia di Firenze, appartenente al Grande Oriente d'Italia.  Altre opere: “La morale nella filosofia positive” (Firenze: M. Cellini); “La rivoluzione italiana” (Firenze: Successori Le Monnier); “La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica” (Roma: Tip. Barbera); “David Lazzaretti di Arcidosso (detto il santo), Bologna: Zanichelli);  “Monte Amiata e il suo profeta, Milano: Fratelli Treves); “ “Santi, solitari, filosofi: saggi psicologici” (Bologna: Nicola Zanichelli); “Studi e ritratti, Bologna: Zanichelli); “Taine, Roma: Loescher); “L'opera storica della filosofia, Palermo: R. Sandron). Note  Vittorio Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Cappelletti, Giacomo Barzellotti, in Dizionario biografico degli italiani,  7, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Barzellotti, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1930, giacomo-barzellotti. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giacomo Barzellotti, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Giacomo Barzellotti, su accademicidellacrusca.org, Accademia della Crusca.  Opere di Giacomo Barzellotti, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giacomo Barzellotti,.  Giacomo Barzellotti, su Senatori d'Italia, Senato della Repubblica.  Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi italiani Professore Firenze PiancastagnaioAccademici dei Lincei. Se questa ricostruzione, che vengo tentando, del movimento filosofico nella seconda metà del secolo XIX in Italia,dovesse rigida mente obbedire alle leggi di una storia della filosofia,alcuni scrit tori,che rientrano nel nostro quadro, ne andrebbero certamente esclusi. Lo notammo a proposito di T. Mamiani;e torna opportuno dichiararlo per Giacomo Barzellotti. La prima legge della storia della filosofia è, che il suo oggetto è costituito dal pensiero filosofico, ossia dalla metafisica, o concezione della realtà, che voglia dirsi.E però non potranno far parte di essa gli spiriti che a questa conce zione non abbiano comunque lavorato,o che non ne abbiano sentito il bisogno o che non ne abbiano avuto le forze. Il Mamiani non ne ebbe le forze, benchè vivamente desiderasse di pervenire a una filosofia, e ben presto creasse a se medesimo l'illusione di esservi pervenuto. Il Barzellotti pare invece che non abbia sentito il biso gno; e, ingegno letterario anche lui, abbia cercato nell'attività este tica piuttosto che nella speculativa il vanto di scrittore: più accorto in ciò e sia detto a sua lode del Mamiani, che per voler essere quel che non era, non fu nè anche quel che fino a un certo segno,avrebbe potuto essere. Il Barzellotti, invece, è stato uno degli scrittori italiani più noti e più letti dell'ultimo trentennio del secolo: il suo nome può dirsi a buon dritto che sia divenuto popolare: il solo forse tra quelli di scrittori di cose filosofiche. Chi non ha letto i due volumi di saggi pubblicati dallo Zanichelli: Santi, solitari e filosofi (1) e Studi e (1)Santi, sol.efil., saggi psicologici, Bologna, Zanichelli,2.a ediz.,ritratti?(1).A questa popolarità egliappuntoaspirava,consciodelle attitudini del suo ingegno; e ha messo da parte i problemi, a cui non era nato. Li ha messi da parte come fanno tutti quelli che limettonodaparte,--negandone il valore. Ma nell'averlimessi intanto da parte per suo conto è il suo merito e il segreto della sua fortuna letteraria. Rileggiamo una confessione, che è nella prefazione ai Santi, solitari efilosofi: « Più d'una volta al sentirmi chiedere quasi come tessera d'ingresso ai posti distinti dell'insegnamento o al favore di certi cenacoli letterari o filosofici una di quelle professioni di fede assoluta nei dommi di qualche sistema,ho pensato involontariamente a quelle domande che le signore fanno spesso nei giuochi di sala o nei loro albums profumati, mettendo vi in mano illapis per la risposta:-- Guardi, mi faccia ilpiacere di dirmi o di scrivermi qui, subito,che cos'è l'amore,e poi che cosa ella pensa dello Shakespeare epoianche,secrede, del Goethe;ma chelarispostasiabreve,la prego,non più che dieci righe,perchè,quaggiù,vede,ha da seri vere anche la mia nipotina ». Vale a dire:il Barzellotti ha bensì aspirato ai posti distinti dell'insegnamento filosofico.C'era avviato,era quella la sua car riera:e l'ha percorsa ormai tutta con onore,fino alla cattedra di storia della filosofia nell'università di Roma; ma egli non ha potuto mai persuadersi che per occuparsi di filosofia bisognasse aver fede assoluta in un sistema:che per mangiar frutta,direbbe Hegel, bi sogna contentarsi di mangiare ciliege,pere,uva ecc.Non che pro prio abbia ricusato la filosofia, in generale. La sua filosofia l'ha avutaanche lui; ma «diametralmente opposta» aquelladichigli venne sempre chiedendo a qualesistemaegliaderisse;opposta «appunto in questo: che il suo resultato più sicuro, e ormai consentito da quanti oggi vivono la vita intellettuale dei nostri tempi, si è la dimostrazione critica dell'impossibilità di chiuder la mente umana inunaforma sistematica d'interpretazione dell'universo da potersi dire definitiva per la scienza».Un'opposizione,come puòvedere chiunque abbia studiato con mente filosofica la storia della filosofia, affatto illusoria:fondata sopra quella confusione dell'universale e del particolare (per rispetto al concetto della filosofia) messa in canzonatura da Hegel nel luogo citato dell'Enciclopedia. In realtà, nessuna forma sistematica ha voluto mai essere definitiva; ma s'è (1) St. e ritr., ivi, 1893. sforzata di organizzarsi a sistema, per essere qualche cosa di filoso fico, per vivere nel pensiero, che non può esser pensiero senz'esser uno. E lo stesso Barzellotti nota una volta che perfino il Kant,il grande avversario dei sistemi,costrui anche lui la sua Critica in forma complicata ma strettamente organata di sistema. E che questo orrore dei sistemi significhi, pel Barzellotti,non negazione critica della metafisica (com'egli, si vedrà,avrebbe voluto significasse), ma, a dirittura, liquidazione,anzi evaporazione della filosofia, negata nella sua universalità perchè negata in tutte le sue forme particolari;loattesta,non foss'altro,ladichiarazioneseguente: che il valore intimo di cotesta sua superstite filosofia « sta tutto nel penetrar ch'essa fa oggi del suo spirito critico i metodi e la parte più alta delle scienze naturali e matematiche non meno che delle morali».Sit diva, dum nonsitviva.L'ideale delfilosofo,Helm holtz (tante volte citato dal Barzellotti): un fisico. Voltando,quindi,in effetti le spalle alla filosofia,ilBarzellotti sentiva bene di non dover riuscire ostico ai nemici della filosofia, ossia agl'ignoranti di filosofia. Le sue idee intorno a questo punto della secolarizzazione delle menti, riescono molto interessanti e istruttive, perchè aiutano a intendere tutta la psicologia dello scrit tore:« Tra noi in Italia,oggi,lo so da lunga esperienza,solo a far balenare un momento sul frontespizio d'un librolatestadifilosofia c'è da vedersi impietrar davanti dallo spavento o dalla noia quante facce di lettori s'eran chinate a guardarlo ». Di chi la colpa? Della filosofia o dei lettori? Il Barzellotti avrebbe una gran voglia di gettarla tutta addosso alla prima; m a poichè una certa filosofia deve credere di coltivarla anche lui,una filosofia invisibile perchè cela tasi nelle scienze speciali o nell'arte, un pochino di colpa l'ha pur da dare ai lettori, lamentando « quell'abito come lo chiamerò d'antipatia o di pigrizia mentale? – che nella scienza e nell'arte ci fa rifuggire dalle forme più alte e più complicate del pensiero, che ci sanno di aspro o di esotico ». Ma, s'intende, il maggior torto è della filosofia: È l'effetto del discredito meritatissimo, in cui la filosofia cadde tra noi parlando per tanto tempo il gergo barbaro del pensare e dello scri vere di troppi ormai che ne hanno fatto una casistica da medio evo in ritardo,e che,o predicassero dal pulpito delle nostre scuole ortodosse,o negassero Dio e l'anima mettendo in cattivo italiano i loro imparaticci francesi, inglesi o tedeschi, hanno nella filosofia impedito tra noi quasi sino ad oggi quella definitiva secolarizzazione delle menti che per tutto fuori di qui segna da un pezzo l'avvenimento della cultura moderna. In Italia,un lettore che abbia familiare l'abito di mente inseparabile dalla cultura e dalla scienza contemporanea,è raro che,aprendo per distra zione o in mancanza d'ogni altra lettura,un libro di filosofia,non lo faccia con quello stesso viso con cui un giornalista della capitale si la scia,in viaggio,dare le ultime notizie di una crisi ministeriale da un suo corrispondente di Cuneo o di Brindisi.E avrà anche torto;ma che dire,quando il fatto stesso del mancare tra noi un pubblico di lettori per la filosofia mostra chiaro che in Italia la filosofia non sa,meno rare eccezioni,farsi leggere,cioè non sa pensare e scrivere,non voglio dire coipiùepeipiù,ma almeno coipiùcolti,con coloro che pensano;il che poi significa ch'essa non vive ancora tra noi la vita della mente contemporanea? La filosofia, per vivere la vita di questa mente contemporanea, deve abbandonare il suo barbaro gergo. Si potrebbe pensare dataluno che l'unico movimento di qualche vigore che si sia avuto in Italia negli ultimi tempi,è quello hegeliano di Napoli. Ma quello, secondo il Barzellotti, riuscìpiùascuoter elementi,chea fecon darle di germi durevoli,a cagione appunto della sacra tenebra delle formule, nella quale i più di quegli scrittori s'avvolgevano, del gergo tra barbaro e bizantino che facevano parlare al loro pensiero oracoleggiante (1). Ma, che cosa è questo gergo e quest'oracoleggiare se non la forma specifica della filosofia,inaccessibile,naturalmente, non solo ai più, ma anche ai più culti, quando la loro cultura non abbracci anche la filosofia; e la filosofia non liquida o vaporante nella sua astratta universalità, ma solidae concreta nellasuccessione progressiva delle sue forme storiche, fino a quella, alla quale una determinata ricostruzione della storia mette capo? E la secolariz zazione dello spirito, e il farsi leggere della filosofia che altro p o s sono significare se non distruggere quella differenza specifica che costituisce il valore del grado spirituale proprio della filosofia? Intendiamoci: non già che il filosofo debba scriver male. Il Barzellotti dice della Vita del Vico che « ha dal lato letterario il difetto di tutti i libri delgranfilosofo: èmalescritta»(2). E non è vero,com'è vero invece che è « mal composta,oscura,involuta ). Oscuro e involuto rimase appunto gran parte del pensiero delVico; e quindi l'oscurità e l'involuzione della forma. Ma il Vico scriveva benissimo,esprimendo con efficacia potente d'immagini i (1) Vedi lo scritto Il pessimismo filosofico in Germania e ilproblema m o. rale dei nostri tempi, nella N. Antologia  p. 56. (2) Dal rinascimento al risorgimento, Palermo, Sandron. suoi concetti; ma,s'intende,quando avevadeiconcetti:laddoveè certo, come lo stesso Barzellotti dice, che a lui mancò « la co scienza chiara, luminosa del proprio pensiero, che è la parte prima ed essenziale dello scrittore ». In altri termini, egli non pervenne alpossessocompletode'suoiconcetti,parecchideiquali,enon i secondarii, rimasero in uno sfondo di penombra in quella gran mente che così largo giro ne volle stringere nella sua speculazione, sbozzata con persistente lavorìo intorno a una materia non veramente omogenea,tradistoriaedifilosofia.IlVico scrive male dove e in quanto pensa male; e questo è il Vico che non conta nella storia. Ma ilVico che conta, il filosofo vero e proprio è uno scrittore sommo.E non potrebbe essere altrimenti,perchè l'arteelafilosofia non sono due muse sorelle,ma l'unico Apollo,lo spirito,che non sale alla filosofia se non attraverso l'arte, e non supera mai se stesso, come avvertì per primo Aristotile, se non conservando se stesso, crescendo sempre sopra disè.– Chiscrivemale,perciò,appunto perchè scrive male non è filosofo. Ma lo scriver bene del filosofo non è lo scriver bene del poeta;altrimenti verrebbe meno la differenza, tra l'uno e l'altro, che nessuno vuol negare. E comeil poeta scrive sempre bene se vien poetando, così il filosofo scrive bene anche lui se, anzi che pensare a scriver bene, pensa piuttosto e riesce a filosofare, anche a costo di finire per ravvolgersi in un gergo. Non c'è pure il gergo della poesia? O non era poeta chi diede l'espressione classica della impopolarità essenziale delle forme alte dello spirito nell'odi profanum vulgus? Pel Barzellotti,invece,il filosofo può farsi leggere,se si contenta di metter da parte la filosofia. Nella menzionata confessione, premessa ai Santi, solitari e filosofi (1), lo dice chiaro: « lo vorrei, senz'aver l'aria di presumer troppo,poter dire press'a poco quello che un amico mio diceva ai lettori d'un giornale,annunziandovi la prima edizione del Lazzaretti: perdonate a questo libro quel po' di filosofia che l'Autore ci ha voluto,a ogni costo,mettere (giacchè patisce, poveretto!,diqueste malinconie);perdonateglielaingrazia di quel tanto dipiùedimeglioche illibro visaprà farpensare oviracconteràovidescriverà come opera d'arte».Vedremo fra pocoinche consiste quel po' di filosofiadacuiilBarzellottinon s'èvoluto mai distaccare;ma non bisogna dimenticare,che quel che di più e di meglio egli ha inteso di mettere ne'proprii scritti (1) Santi, p. 52 n. Perchè dunque parliamo qui del Barzellotti, e in questa parte dedicata ai platonici Ecco: queste note, senza voler essere propriamente una storia,mirano piuttosto a rivedere criticamente i giudizii correnti intorno agli ultimi scrittori italiani di filosofia. Ora il Barzellotti, per giudizio comune, avrebbe partecipato al movimento dei nostri studii filosofici, e avrebbe agito nella cultura nazionale appunto come filosofo. Domandate ai suoi molti lettori se egli sia uno scrittore di filosofia o un prosatore, un artista; novantanove su cento vi risponderanno che è sì un artista,ma un artista-filosofo, o meglio un filosofo-artista; uno dei pochi, o il solo dei nostri filosofi, che abbia saputo liberare la scienza della forma pedantesca della scuola e del barbarico gergo abituale, per esporla in saggi eleganti, ossia in maniera accessibile a tutte le persone colte e di gusto. Ripeterebbero, insomma, quel che il Barzellotti stesso ha sempre pensato e detto di sé. Perchè, bisogna pur dirlo, niente riesce più a render perplessi e a sviare igiudizii,di questa specie di sofisticazioni della scienza,operate dai secolarizzatori o popolarizzatori della medesima. Il po ' di filosofia viene apprezzato non in ragione del suo valore,che può esser nullo,ma in ragione dell'arte, in cui si diceepuò parere che si siamesso; l'operad'arte,egual mente, non è giudicata con tutta la severità che si userebbe verso le opere di arte pura, che non avessero quella difficoltà di una materia ribelle all'elaborazione artistica; e i critici letterarii, inetti a giudicare quel po'di filosofia, indulgono a quell'arte gravida o sazia di sapere. Perchè, s e h o detto che il Barzellotti è u n artista più che un filosofo,non credo poi (se mi è lecito proprio questa volta una digressione letteraria che possa dirsi un artista finito, e che il suo capolavoro (Lazzaretti) siaun capolavororiuscito. È ilmeglio riu scito di questi suoi tentativi artistici, pel senso vivo del paesaggio e dell'anima popolare di quell'angolo della Toscana, in cui il Barè al di qua della filosofia: è qualche cosa che può far pensare,una riflessione morale e psicologica;è soprattutto opera d'arte.Dello scritto su David Lazzaretti, che può forse considerarsi come il capolavoro del Barzellotti, il quale i nesso si propos e ben sì di fare uno studio di psicologia religiosa,lo stesso autore dice che « vorrebbe essere,se pure non pretende troppo,un'opera d'arte,ma senzadar nel romanzo ».Vedi in questo fasc. l’art. del Croce, pp. 337-8. zel lot ti era vissuto fanciullo, e tornato spesso a rinnovare le sensa zioni dei primi annim. Ma anche lì quel po'di filosofia come stuona in quell'ambiente pastoraleenell'ingenua psicologiadel misticismo lazzarettiano! E come appiccicato è lo studio sull'origineelosvol gimento e i caratteri di quel moto religioso sulla cornice dell'im mediata azione, in cui l'autore l'ha voluto inquadrare, per aver agioa descrivere meglio iluoghi,che furono scena dei fatti del Lazzaretti,e individuare itipi de'suoi seguaci!L'azione, troppo povera,è una gita di caccia,a cui l'autore per altro non partecipa, restando sempre in disparte ad almanaccare sull'anima del barocciaio di Arcidosso.Dopo la caccia c'è una colazione,sull'erba;e alacolazione questa volta pare pigli parte anche Barzellotti. Ma quale parte? Egli titrova nel cerchiounuomo del paese, Filippo, il,bigonciaio, un discepolo del Lazzaretti; e subito ne profitta, dicen dogli che avrebbe avuto caro di sapere « molti particolari intorno aDavid e alla vita che i suoi seguaci avevano fatto con lui in quelluogo »,lisulla torre di Monte Labbro Il lettore,nemico della filosofia, a cui il Barzellotti s'indirizza, s'aspetterebbe la conversa zione dell'autore con Filippo,il quale dovrebbe farci entrare a poco a poco con i suoi ricordi in tutto quel mondo morale che l'autore civuolrappresentare.Difficileimpresa,certo;ma soloachi,come ilBarzellotti,non avesse davvero il suo Filippo rivelatore vivo e parlante nella fantasia; sibbene gli scritti del Lazzaretti,gli appunti delle relazioni fornitegli da amici del luogo,le deposizioni dei lazza r e t t i s t i, e poi i volumi d e l Renan, e l e opere dell’Hartmann e q u a l che fascicolo del Nineteenth Century sul tavolino. Barzellotti,che pure ha scritto un bel saggio sulla sincerità nell'arte,in quel punto della sua opera non si ricorda di quelle sue giustissime idee: e dopo aver detto come inducesse Filippo a parlare,continua: « Mi rispose con un leggero atto della testa che acconsentiva,e ci mettemmo tutti amangiare ».Ma alla conversazione non ci fa assistere.«E ora mi pare da vero tempo che anche i lettori conoscano per:filo e per segno i fatti cui ho accennato tante volte, e li conoscano, quello che più importa,in ordine alle loro cause e alle condizioni sociali e morali de'luoghi, o, come oggisidice, dell'ambiente nelquale ebbero origine ».E segue infatti il corpo,per dir così,dello studio sul Lazzaretti: centoquaranta pagine (1), in cui Filippo e la colazione sondimenticati.Poi l'autoreripiglia:«Questecosemi andavano per la mente cinque anni dopo la morte di David mentre co'miei (1) Santi, pp. 121-262. amici stavo nel piazzale davanti all'eremo di Monte Labbro.Passato quel silenzio profondo dei primi bocconi. »;– e torna a saltar su finalmente Filippo,che però il B. non ci fa mai udire.Sicchè nel l'immaginazione dell'artista durante quella colazione,oltre che per tutte le considerazioni seguenti sul carattere della fede di Filippo, ci sarebbe stato il tempo per andar pensando a tutte quelle 140 paginediroba! L'elemento descrittivo e drammatico resta affatto estraneo e sovrapposto allo studio storico-psicologico. E questa so vrapposizione,questa mancanza di fusione,che accuserebbe per sè, quando non vi fossero le dichiarazioni esplicite dello scrittore,le sue preoccupazioni artistiche, mentre egli realmente non si mette mai inunasituazionesinceramenteartistica, sono il maggiordifetto che io vedo in questi suoi tentativi d'arte.- E un altro mi sia lecito anche notarne,che è in fondo una conseguenza del primo,e mi fa tornare al mio soggetto speciale: la lungaggine, la prolissità dello scrittore:difetto da lui stesso additato come uno degli effetti più gravi della rettorica, della vuotaggine di gran parte della lette ratura italiana. « Solo chi ha poco o nulla da dire dice sempre di più di quello che dovrebbe dire »(1).Appunto,la esiguità del con tenuto spirituale del Barzellotti gli ha fatto scrivere molte e molte pagine a cui s'attagliano parecchie delle osservazioni da lui fatte intorno a cotesto difetto della letteratura italiana, dominata dallo ideale umanistico.Non c'è scritto di lui in cui sia detto breve e chiaro quello che l'autore s'è proposto di dire;e spesso si stenta ad afferrare il suo concetto, tra le molte parole non abbastanza precise e determinate,in cui egli si sforza d'esprimerlo,cioè di concretarlo,quasi per una serie di approssimazioni al pensiero, che non si riesce afermare inuna formavivente.Tipica,per questo riguardo,mi sembra la prolusione letta a Napoli nel 1887:La morale come scienza e come fatto e il suo progresso nella storia (2). E valga per esempio questo squarcio,che ne tolgo a caso: Perchè è bene che io lo dica fin da ora,o signori,anche a titolo di quella schietta professione di fede scientifica che mi pare d'esser tenuto a farvi qui. Il modo in cui io concepisco la legge intima dell'organismo e della vita delle scienze morali o,meglio,delle scienze che io chiamo più propriamente umane,e quindi dell'etica,che se ne può dire quasi il centro, non è quello stesso che pare presupposto da quanti oggi ponendo, (1)Dal rinascimento al risorgimento, p.206. (2)Rivista ital.difilos.del FERRI, con ragione, l'esperienza a fondamento di tutto il sapere umano,non di stinguono con qual divario profondo il processo di costruzione ideale del pensiero scientifico sui dati sperimentali si faccia nelle dottrine naturali e in quelle morali e storiche. Là l'ufficio, l'opera della scienza sta nel ritrarre, nel rilevare a uno a uno, sino a i piùintimi, i tratti della fisonomia eternamente immota e impassibile della natura, che anche nel l'inesausta ricchezza delle sue produzioni, ripete eternamente se stessa; stanel far penetrare,se posso dir cosi,la parola,più e più criticamente riveduta delle teorie e delle ipotesi,quasi scandaglio che tenti un fondo impossibile però a toccare mai tutto,sempre più verso l'ultima espres sione approssimativa di un vero che, inesauribile in sé,sappiamo però essere e durare ab eterno eguale a sè stesso. Ed ecco perchè, una volta messe queste scienze sulla via maestra del metodo sperimentale, e fu, o «signori, merito imperituro della filosofia del sec.XVI, latradizione del l'acquisto lento, faticoso, ma sicuro del vero,vi si stabili con una fermezza che non ha pur troppo riscontro alcuno nella storia delle scienze del l'uomo e della società. In questa l'opera ideale costruttiva,la funzione che vi ha il pensiero scientifico di assimilare a sè il vero dei fatti sperimentati e osservati e di trarlo quasi in sostanza sua, è, mi pare, tutt'altro. È un farsi, uno svol gersi della vita e dell'organismo riflesso della scienza insieme con quello spontaneo del vero umano e sociale che si spiega,che fluisce inesauribilmente ricco, fecondo e vario ne'secoli.E l'occhio delle scienze morali, intento a scrutarne le leggi,è simile a quello di un osservatore che da punti di prospettiva via via sempre nuovi studiasse, camminando, le forme,le proporzioni e la direzione di un'immensa folla di oggetti che gli simostrano dinanzi. Sbaglierò; ma a me pare che, tolti i fronzoli e i particolari inutili, il pensiero adombrato in tutta questa pagina sarebbe stato espresso forse più chiaramente, se si fosse detto press'a poco così: lescienzemoralisifondano,alparidellescienzenaturali,sul l'esperienza;ma siccome la natura è sempre quella, el'uomohauna storia, le verità scoperte dalle scienze naturali hanno una stabilità e fermezza incompatibile con quelle via via determinate dalle scienze morali, alle quali spetta di seguire il processo storico del loro o g getto. Egli è che al Barzellotti, mente coltissima, è mancata proprio quella qualità ch'egli è andato sempre cercando:l'intimità,il con tatto dell'anima con le cose. Quindi l'artifizio e lo stento,la forma levigata, elegante,ma alquanto vuota e sonora. Le sue professioni difedefilosofica,percuilodovremmo aggregareaineokantiani, sono semplici adesioni formali, spesso ripetute con la premura di chi tiene ad apparire spirito moderno, del proprio tempo (come (1) Nella N. Antologia, Fil. Sc. Ital. egli ha detto di sè tante volte); ma non corrispondono a una par tecipazione effettiva della sua mente ai problemi critici e morali, ridestati dal ritorno a Kant.Lo scritto,che secondo lo stesso Bar zellotti, dovrebbe essere più significativo per questa sua adesione al criticismo (La nuova scuola del Kant e la filosofia scientifica contemporanea in Germania ) (1); e al quale egli infatti s'è riferito ogni volta che ha voluto documentare l'affermazione sul suo in dirizzo di pensiero,è un'esposizione informativa,condotta innanzi senza un indizio di vero consenso, che le considerazioni dei neo kantiani trovassero nell'anima dell'autore. E quando verso la con chiusione questi dice che « la natura relativa d'ogni nostra cogni zione sensata è inconciliabile colla pretesa che ha il dommatismo di determinare positivamente l'essere delle cose in se stesse, di poter penetrare sino alle sostanze e alle forze ch'egli suppone al di là de'fenomeni » non puoi dire sicuramente se questo sia il pensiero di chi scrive,o il pensiero di quegli scrittori di cui que sticihaparlato. Meno che meno potresti cogliere ilpensierodel Barzellotti nel suo precedente scritto La critica della conoscenza e la metafisica dopo Kant, lavoro prevalentemente storico, per cui l'autore si attiene più alle storie del Fischer e dello Zeller, che alle fonti originali. In una storia dell'idealismo postkantiano,di cui questo scritto voleva essere un saggio (ma si arrestò allo Schelling), un neokantiano vero non può non far apparire i suoi  criterii filosofici; e non c'è sforzo d'oggettività storica che possa fargli dire che l'interpetrazione realistica (a cui tenne sempre più fermamente lo stesso Kant) della critica risponde alla lettera del kantismo,e l'interpetrazione idealistica del Maimon,del Beck,del Fichte, ri sponde piuttosto allo spirito. Un neokantiano non avrebbe scritto che il concetto realistico del noumeno (come qualche cosa che è in sè,indipendentemente dalle forme del conoscere,ed opera sui sensi)è in Kant un residuo del dommatismo antico che la Critica non era mai riuscita a spogliarsi interamente, e che stuonava coi risultati negativi e idealistici della dottrina della conoscenza;e che era una contradizione (2): un pensiero non pienamente consentaneo a se stesso in ogni sua parte. Al Barzellotti il partito di superare idealisticamentelaCritica,come fece ilFichte, dopo l'Enesidemo, pare «ogni giorno più,non che consigliato, imposto inesorabilmente dalla necessità logica che trascinava le dottrine del Kant alle loro ultime conseguenze». Ma tutto questo è detto,anziripetuto, non con l'accento energico di una convinzione maturata per proprio conto;sibbene con quella stessa indifferenza che è propria di chi osserva da spettatore assolutamente disinteressato. Che cosa pre cisamente debba pensarsi di quel benedetto noumeno,che è lo spettro pauroso dell'idealismo moderno,non sembra che sia affare che tocchi l'animo del Barzellotti: il quale potrà dirsi a sua voglia neokantiano(2);ma nonfarà mai ilneo-kantiano,perchè non sen tirà mai veramente il problema filosofico. E non ha fatto quindi nè anche ilplatonico,benchè all'indi rizzo dei platoneggianti italiani egli si accostasse ne'suoi scritti gio vanili,il principale dei quali è la tesi Delle dottrine filosofiche nei libri di Cicerone, in cui si vede ancora lo scolaro di A. Conti edi T. Mamiani. Egli doveva pensare anche a sè quando,discor rendo della Filosofia delle scuole italiane,— della quale fu sempre uno dei compilatori ordinarii,e se ne poteva dire la sentinella avan zata verso le letterature filosofiche straniere,di cui scriveva una cronaca;– disse: «I collaboratori di quella Rivistahannopienali bertà di pensiero e di discussione; anzi varii tra di essi professano dottrine molte diverse da quelle del Mamiani; ma si raccolgono intorno a lui come al rappresentante più autorevole di quel moto speculativo,che aiutò il nostro risorgimento e ci riscosse da una inerzia intellettuale di più che due secoli » (3). Anche al Barzellotti, insomma,piaceva di essere un filosofo delle scuole italiane,insieme col Mamianielasuaonrevolgente. Anche aluipareva,p.e.,che il«merito innegabile della scuola hegeliana(diNapoli)apparirebbe maggiore allo storico imparziale,se essa avesse tenuto più conto delle disposizioni naturali e tradizionali dello spirito italiano » (4). Egli dunque si mise nella schiera del Mamiani; e io non potevo staccarnelo, non avendo potuto trovare ne'suoi scritti la dottrina filosofica sua, che ne lo separasse. Vedi specialmente le proteste nella pref, ai Santi,p.xxm n. (3) La filosofia in Italia, nella N. Antologia (4)  (1) Nella Rivista difilos,scientifica. Cosi nel libro sul Taine qui appresso cit.,p. 168 dirà sempre: « La dot trina idealistica chefa del mondo sensibile esterno un mero ordine di fenomeni e di segni datici dalle sensazioni, debba dirsi, per ora almeno, l'ultima parola della scienza, venuta a confermare la parte indubbiamente vera delle teorie del Berkeley e del Kant ».Vedi poi l'articolo su L'idealismo di A. Schopenh. e la sua dottrina della percezione, nella Fil. dellesc.ital.; la cui conclusione favorevole ai filosofi che « tempo e spazio accolgono in se elementi, a u n tempo, ideali ed empirici, subbiettivi e  obiettiv i, hanno il loro essere e la loro legge così nel pensiero come nelle cose,così in noicome fuori di noi – non vedocomepossaacc larsiconl'idealismo berkeleiano! Masipuòpar lare di contraddizione? (4) Credaro nel Grundriss di UEBERWEG-HEINZE. Cfr. La morale come scienza e come fatto, Riv. ital. di filos., e la pref. ai Santi,p.xxi n. Nella prolusione con cui iniziò a Pavia il suo insegnamento ufficiale universitario, nel 1881, Le condizioni presenti della filosofia e il problema della morale (t), puoi ravvisare tutto lo scrittore. Ivi più schietta la professione di fede neo-critica: l'idealismo da Fichte a Hegel accusato non solo di aver voluto costruire luni verso da un sol punto, con un solo principio assoluto,ma di avere altresì dimenticato « quello che le aveva lasciato detto il maestro, che cioè,se i fatti senza le idee sono ciechi,queste alla lor volta, non cimentate coll'esperienza, riescon vuote e ingannevoli » (tra vestimento del genuino pensiero kantiano e disconoscimento del genuino pensiero hegeliano); la riflessione filosofica definita per artifizio(2); approvato- comegià nella Morale della filosofia positiva l'indirizzo psicologico-sperimentale dato dagl'inglesi alla filosofia dello spirito; fatto buon viso alla loro teoria della re latività del conoscere (dove l'autore vede un kantismo ricondotto addietro fino a Berkeley (3); dato corpo in certo modo a quella specie di eccletismo, che gli è stato talvolta attribuito (4), e a cui egli stesso in alcuni scrittisi può dire che abbia accennato parlando di una mediazione tra il criticismo e l'evoluzionismo (5); rifatta un'altra volta la storia del ritorno a Kant, nonchè della scuola spe rimentale inglese,per conchiudere che oggi il filosofo « non prova più in sè quello che pure era,ed è tuttora,così proprio de'meta fisici, il sentimento superbo di un preteso primato sui cultori dell altre scienze, la vana persuasione di potersi segregare da loro nella solitudine di un infecondo sapere assoluto, superiore alle indagini pazienti de fatti e all'esperienza, e ambizioso di tutto darle, senza nulla riceverne ». Qui si abbandona,come ognun vede, esplicitamente l'eterno proposito della filosofia. Niente di superiore ai fatti e all'esperienza. Il filosofo non deve aspirare se non,come tutti gli altri scienziati,a fornire col proprio lavoro alcuni pochi tra gl'infiniti dati, tra le infinite verità d'esperienza e di ragionamento a c cessibili alla mente umana nel suo sublime tentativo d'interpretare l ' unità delle cose e delle loro leggi. Nien t'altro che dati ! Non c e r t o «un'assolutadisperazionedelvero»,ma «una fede assai condizionata nel valore di quelle forme del vero che la mente umana accoglie in sè successivamente »; un « abito di mente critica inquisitiva per eccellenza, che non riposa mai o quasi mai in una conchiusione, che rifà di continuo i proprii convincimenti ». Abito di mente, insomma,da spettatore,non da artefice della verità. E chi lo afferma si vede bene che,accortosi della vanità di questo affaticarsi perenne nel tentativo sublime,quanto a sè,intende mettersi da un canto,e stare a vedere.Qui, nella ricerca della verità, non c'è l'anima del Barzellotti.Di questa ricerca egli non vede se non una vita vana,dicui nessuno spirito può vivere.Onde vidirà: l'uomo è nato non tanto a pensare quanto ad operare.E per operare ci vogliono quei saldi convincimenti,che la scienza non può dare. Perciò è che la filosofia non può prendere il luogo delle credenze religiose. Il Barzellotti non dice propriamente perchè, e gira attorno a questo problema,che è dei più delicati circa il valore della filosofia. Ma fa alcune osservazioni,che ritraggono lo spirito dello scrittore. Non tutti possono vivere su principii, che siano il risultato del ragionamento; infiniti sempre attingeranno la norma delle azioni « dal cuore,dall'immaginativa, dalla fede, dalla per suasione affettuosa immediata, da un che in somma non ragionato, m a sentito e intuito ». Contro chi cred e, come il Renan, che p o s s a la scienza un giorno trasformare e governare tutta la vita,bisogna notare che « delle due forme di conoscenza ond'è capace la nostra mente, la concreta e diretta,o vuoi intuitiva, ha sull'astratta e sulla riflessa infiniti vantaggi nella pratica della vita. Se non che,tale appunto quale è, ottimo istrumento e guida all'azione, la conoscenza intuitiva ha in sè questo di più specialmente proprio e suo e d'opposto all'indole del sapere scientifico; appunto perchè concreta, particolare e attinta dalla viva esperienza e quasi dal contatto delle cose e degli uomini, essa è tutta individuale, e per ciò incomunicabile:più che vera e propria cognizione, potrebbe dirsi un certo tatto finissimo. La scienza stessa., in ciò ch'essa ha in sè di più intimo e d'organico, presa come un tutto che si muove e vive d'una vita inseparabile da quella d'ogni mente che l'ha in sè e l'ha fatta sua propria, riesce non meno individuale e incomunicabile di quello che sia l'intuito, l'arte, l'esperienza immediata,la convinzione istintiva ». Quindi l'inefficacia della scienza; quindi il segreto della forza delle religioni,che s'impossessano di tutto l'uomo. Perchè la religione abbia quest'afflato, che manca alla scienza, il Barzellotti non dice.E la verità dell'osservazione consiste,a parer mio,nell'esperienza personale dell'autore, di cui essa deve ritenersi un indizio. È la scienza sua,da cui egli si sente ingombra la mente,non riformata l'anima,che non può cacciar di nido la religione. Se la metafisica, l'alta veduta speculativa investe tutto l'uomo nei grandi pensatori, egli è che il pensatore in fondo è un artista.Onde ilBarzellotti plau dirà al pensiero del Taine (in Idéal dans l'art): « che tra i diversi modi,in cui l'uomo coglie la verità delle cose,il più potente e il più vero è l'Arte.Essa infatti penetra,per dir così,giù sino al cuore del grande organismo della natura,e non si limita a darcene,come falascienza,soloilprofiloesterno,leleggigenerali quantitative,ma ce n'esprime l'intimo senso,ce ne fa sentire nel loro lavorìo se greto le forze vitali, le potenze originarie e germinali » E al Taine tributa la gran lode di aver avuto « anima e mente da ca pire come la scienza,che ci dà solo gli elementi generali e comuni dei fatti e delle cose,non riesca nello studio dello spirito umano a rendercene tutto il vero, se non è compenetrata con l'Arte, che intuisce il particolare, l'individuale, ciò che sfugge all'analisi e al l'astrazione » (2), E l'autore continua: « Qui sta con buona pace dellapedanteriatogataditanticheoggisichiamanodotti– la superiorità dell'Arte,se siagrande e vera, sulla scienza pura, quanto al comprendere l a vita, il carattere e i sentiment i u m a n i. Si può esser certi infatti che nessuno specialista, nessuno scienziato nello stretto senso della parola,arriverà mai a scuotere una di quelle grandi verità della coscienza e dell'ordine morale,che finora sono state trovate tutte dai fondatori di religioni, dai metafisici sommi – artisti del pensieroessipure— daipoeti,dagliscrittori,da co loro che il volgo degl'indotti e dei dotti chiama uomini non p o sitivi » Ippolito Taine, Roma, Loescher E così ci accostiamo al po'di filosofia del Barzellotti: a quel po'almeno, che è la nota metafisica vera e sincera, che risuona nel l'anima sua. E questa nota suona spesso negli scritti del Barzellotti, benchè non sia che una nota. La religione,dice in uno scritto su L'idea religiosa negli uomini di stato del risorgimento, è «qualcosa di analogo all'artee d'irriducibile,per una legge del nostro spirito,ad altre forme della sua vita interiore »: « la cer tezza delle verità religiose venirci dal sentimento e dall'intuito, e appartenere a un ordine affatto diverso da quello della certezza che cipossonodare le dimostrazioni della ragione» (1).– Enellostudio La giovinezza e la prima educazione di A. Schopenhauer e di G. Leopardi: « L'uomo, egli (lo Sch.) soleva dire con parole che esprimono forse l'aspetto più nuovo e più vero della sua filo sofia, ha le sue radici nel cuore, non nella testa » Quindi quel sentimento,che in uno scritto,anche precedente,sullo stesso Schopenhauer, è detto « ormai cessato da un pezzo in Germania; ma dura tuttavia, e cresce nei lettori colti d'ogni paese.: quello del bisogno che tutti abbiamo,ma che in specie gli studiosi hanno di stringersi in più intima armonia colla natura e colla realtà » (3). Questo estetismo o misticismo estetizzante venne al B. dai ro mantici tedeschi,dallo Schopenhauer,oggetto di suoi studi insistenti? Certo non ha che vedere col suo preteso criticismo, che è uno scetticismo ingenuo, appena larvato. Ma visiriconnettenelsensoche, dimostrandoci il temperamento spirituale dell'uomo, ci fa inten dere la sua naturale avversione alla vera e propria filosofia.Questo estetismo a me pare appunto la tendenza naturale del suo spirito; e non prende infatti la forma dimostrativa e sistematica,che in altri scrittori si atteggia almeno a una critica gnoseologica del natura lismo, dal Barzellotti non mai fatta; ma resta sempre una ten denza, che determina l'indirizzo degli studii del Barzellotti, quando egli trova la sua strada.Più che un concetto pensato e ragionato dalla sua mente,è un carattere reale della sua mentalità:per cui egli si può dire che abbia trovato la sua strada quando ha comin ciatoa scrivere I suo studiieritrattiesaggi psicologici, intorno a scrittori,indirizzi di cultura,epoche o popoli:dove non ha certo teorizzato sulla tendenza, che ho detto, ma ha obbedito ad essa, cercando il concreto, l'individuum ineffabile, con l'intuizione del (1) Dal rinasc. al risorg. Santi.  - l'artista, vedendo, come egli disse, « nello studio dell'uomo oltrechè un'arte d'intuito e di divinazione felice,la lenta opera d'una scienza che ormai ha saputo prendere la sua via in disparte dai sistemi »: rimettendo,insomma,in armonia sè con se stesso, riducendo tutta la filosofia all'arte, cui natura più lo traeva. Se nonsivogliadire arte,dicasi storia; ma illavoro mentale del Barzellotti non mira al di là della rappresentazione individuale del concreto.E questa è la sua filosofia; la quale ha inteso a «unireilpiùpossibile- egli dice l'arte alla scienza » e « provarsi a ritrovare sui modelli vivi, che danno la storia, le biografie intime e l'osservazione delle cose sociali,quanti più poteva dei tratti veri,parlanti di quell'anima umana, che la scienza delle scuole e delle accademie ci ha per troppo tempo fatta conoscere solo in copie vaghe,generiche,lavorate di fantasia e di maniera »(1). Da S. Agostino al Lazzaretti, dalla psicologia delle tentazioni a quella del pessimismo filosofico, dal Taine al Nietzsche, dallo spi rito paganeggiante del rinascimento alla tempra morale della deca denza, alla religiosità dei nostri uomini del risorgimento, al river bero della nostra anima nazionale nella letteratura, il Barzellotti dall'8o in circa ad oggi si può dire che abbia raccolto tutte le forze della sua mente intorno a particolari problemi storici di psicologia, cercando così attraverso i procedimenti intuitivi dell'arte quella ve rità alla cui visione non s'era potuto elevare col metodo razionale del pensiero speculativo:spargendo, in verità,gran copia di osser vazioni fini ed acute principalmente sulla storia dellaforma mentis, com'egli ama dire, del popolo italiano.Se incotestaarte, peraltro, egli sia riuscito di solito a toccare il segno,non è il luogo questo di ricercare: se dovessi esprimere il mio giudizio, direi che per sif fatte indagini di storia psicologica al Barzellotti manca,per otte nere la rappresentazione piena e viva dell'anima umana,ciò che forma davvero lo storico e l'artista: lo sguardo diretto all'intimo della individualità; la quale non si potrà mai ricostruire,se non s'affisa prima di tutto il centro vitale del suo organismo; laddove il Barzellotti gira troppo con considerazioni e divagazioni generali intorno ai personaggi e agli stati morali presi a studiare.E gli manca altresì, per lo più, quella piena e diretta conoscenza dei particolari, in mezzo ai quali soltanto è dato d'imbattersi negl'individui vivi, in quelle anime vere, che il Barzellotti è andato cercando. Santi. Di questa sua veduta estetizzante dello spirito umano bisogna ricordarsi per intendere nel loro genuino significato i motivi della comunicazione fatta dal Barzellotti intorno al metodo storico nella trattazione della storia della filosofia al congresso romano di scienze storiche: contro la quale insorse il vecchio Lasson in nome della universalità della ragione e della scienza. Pel Barzel lotti la filosofia dev'essere rappresentata dallo storico come la filo sofia di una nazione o di un'altra,quale in una certa epoca essa si costituisce in stretta attinenza con tutte le condizioni della cultura circostante, e sulla base degli abiti e delle forme di mente individuali del filosofoo prevalenti nel tempo dilui.E certo una storia per ogni parte compiuta della filosofia non può non tener conto ditutta cotesta condizionalità dei sistemi filosofici; ma ad un patto: che si rammenti non essere la condizionalità, nè qui nè altrove, la realtà condizionata;e quando tutta la cultura contemporanea che agi sullo spirito di Kant sia nota,e tutta spiegata la psicologia per sonale di questo pensatore e del suo secolo,restare tuttavia da in tendere tutta la sua filosofia, in quel che ha di veramente filosofico, ossia di valore universale ed eterno. Qui la verità affermata dal Lasson,edal Barzellotti disconosciuta, per quel suo occhio, fatto per vedere il particolare,cieco all'universale. E poichè l'universale è l'intimità vera delle menti speculative,anche qui ei conferma ilsuo difetto di attitudine vera a penetrare nell'intimo degli spiriti. Egli vede i pensatori, e non vede il pensiero; e però non vede n è anche veramente i pensatori. Ne son prova isuoi molteplici saggi sullo Schopenhauer e sul Kant. Ma Barzellotti è stato forse letto invano per la cultura intellettuale e morale italiana? Io non credo. Non è stato un filosofo, e neanche un artista riuscito. Ma è pure stato un nobile scrittore, che ha agitato molte menti e molti cuori intorno a questioni morali e religiose troppo trascuratetra noi; è stato un lucido specchio di molta parte della cultura filosofica straniera contemporanea; ed è stato un forbito scrittore, imitabile esempio ai pedanteschi filosofanti italiani degli ultimi tempi. -- Di alcuni criteri direttivi dell'odierno concetto della storia, che restano tuttora da applicare pienamente e rigorosamente alla storia della filosofia, massime di quel periodo che va dal Rinascimento a Kant, negl’Atti del Congr. intern. disc. stor. (Roma).  -- Fra i più malagevoli ufficj della critica istorica è per certo il determinare come e quanto contribuisca l'ingegno di ciascun popolo alla sua grandezza intellettuale e civile, di quanto egli sia debitore alle tradizioni dei suoi maggiori, o alla civiltà delle nazioni contemporanee; que stione ardua, e più che alla storia appartenente alla filosofia, perchè risguarda una legge intima ed arcana della natura, onde nell'armonia delle facoltà umane s'avvicenda l'operare e il patire, il conservare e il produrre, la reverenza alle tradizioni e la libertà dell'ingegno inventivo. Alla difficoltà d’un tale esame, la quale cresce a misura che ci avanziamo verso i tempi più antichi,in cui fanno difetto i documenti e le notizie necessarie ad illustrarne la storia, sono dovuti i giudizj severi di molti critici in torno alle lettere e alla filosofia de’ romani -- giudizj che introdotti da un pezzo nelle scuole, e avvalorati dal quasi comune consentimento, negano del tutto o quasi del tutto indole nuova ed originale alle manifestazioni dell'ingegno latino. Gl’argomenti che si allegano per sostenere tali sentenze io mi dispenserò dal recarli, e perchè assai noti nella storia delle lettere e della filosofia, e perchè tutti [Questa ultima affermazione tanto più è conforme alla storia, in quanto, sebbene la maggior parte dei critici odierni ricusi da un pezzo nome autorità di filosofo al senatore romano, è per altro consentito da tutti che i suoi scritti filosofici si conservarono chiari per benefica efficacia lungo tutta la decadenza delle lettere e delle scienze latine, e per avere mantenuto e trasmesso nei principii dell'Era cristiana, e giù pel Medio Evo le dottrine della filosofia greca alle scuole de'Padri e de'Dottori] concordi nel sostenere che ai Romani, poco atti sin da principio per naturale tempra d'ingegno, e di stolti per lunga età dalle intestine discordie, dalla brama del dominare e dall'esercizio delle armi, e finalmente abbagliati dallo splendore della civiltà greca, manca una libera disposizione a ritrarre e a creare il vero ed il bello negl’esercizj della scienza e dell'arte. Degerando, Brucker, Tennemann, Ritter, Kuehner ed altri. Ai quali argomenti quando per sè non rispondesse abbastanza la ragione istorica, la quale vieta potersi sempre dedurre da ciò, che un popolo fa in certe condizioni di tempi e di civiltà, quello che in altre condizioni avrebbe potuto e saputo fare. Se non mostrasse il contrario la scuola dei giureconsulti, che dalla coscienza del genere umano e dalle forme logiche greche compose con tradizione costante quella scienza del gius costitutrice delle nazioni europee, se l’ “Eneide” emula all'Iliade, Lucrezio maggiore d'Esiodo, la Commedia di Plauto, le storie di Livio, di Sallustio, di Tacito, la satira togata di Giovenale e di Persio, l'elegie di Catullo non indicassero assai che il genio latino, libero nella imitazione, sa aggiungere all'ideale del vero e del bello un che d'universale e di solenne, un certo senso pratico e positivo, e un'intima rivelazione degl’umani affetti, ignota fin allora ai gentili e resa più perfetta dal cristianesimo, io mi restringerei alle sole opere filosofiche di CICERONE, che sono, parmi, una fra le prove maggiori del come la scienza dei nostri padri, modestamente operosa, recasse la sua parte alla civiltà universale.   e all'età del Rinnovamento. Ritter, Hist. de la Phil. ancienne, Paris, Ladrange. Kuehner, M. T. Cic. In phil. E jusq. Partes merita. Hamburgi. La storia della filosofia ci mostra di fatto che CICERONE fu a’ padri latini molto in pregio, e segnatamente a Lattanzio che lo chiama eccellente, e lo cita nel de Opificio hominis, e nelle Institutiones divinæ più volte; poi a Agostino che ri conosce dall' “Ortensio” la preparazione al cristianesimo, e in più luoghi della Città di Dio,e altrove lo cita o ne tira le dottrine; altresì a san Girolamo che tanto l'amò da riferire in una sua epistola il sì famoso castigo avu tone divinamente, poichè, meglio di cristiano, meritava chiamarsi “ciceroniano.” Fra iDottori più principali è noto come Boezio togliesse da Tullio il pensiero sulle consolazioni perenni della filosofia, e apparisce lo studio che di questo egli fa sì da'pensieri e sì dallo stile; come Aquino ne arrechi l'autorità in più luoghi della sua Somma, come Alighieri lo meditasse. Più tardi Erasmo esalta CICERONE con lodi famose. Dopo, l’autore della “Scienza nuova” attinge in parte dal libro “De Legibus” la filosofia d’un gius ideale eterno celebrato nella città dell'universo col disegno della provvidenza. Ad una fama sì lunga e sì costante, e che per certo dove avere una causa non soltanto, come si afferma generalmente, in quella forma popolare e spontanea, onde le dottrine del filosofo latino si porge all'educazione morale e civile, ma nell'intrinseco loro valore speculativo, non disconosciuto nè anche oggi da uomini egregj (Forsyth, Life of Cicero, London), contrastano singolarmente i giudizj di alcuni critici. La opinion e espressa da tali giudizj, a volerla riassumere in breve, è la seguente. M. T. Cicerone, ingegno universale, acutissimo e disposto ai combattimenti dell'eloquenza, più che alle severe indagini speculative, pensa e compì negli anni del suo ritiro dalla pubblica vita un compendio largo, chiaro, eloquente della filosofia in servigio dei suoi connazionali di giuni sino a quel tempo di tali studj, o costretti ad attingerli da fonti esoteriche. Da questa pretesa insufficienza dell'ingegno speculativo di Tullio, dal fine pratico e letterario ch'e'sipropose, e dal difetto di studj preparatorj la Critica deduce la natura delle sue dottrine; le quali, benchè guidate sempre da criterio sano, e da una retta applicazione del senso comune, non vanno troppo addentro nei fondamenti della scienza, affermano per lo più senza esame maturo, nè costituiscono, come le dottrine dei migliori filosofi, un largo e ben architettato disegno di scienza. Brucker, Hist. Crit. Phil., Tennemann, G. Bernhardy, Grundriss der Römischen Litteratur. Braunsweig. Facendoci a cercare l'origine di tali giudizj abbastanza severi, parmi se ne potrebbe addurre innanzi tutto una causa assai remota, ma in parte relativa al modo ben differente, con cui gl’antichi e i moderni giudicano il valore di certi uomini e di certi principj. Tale è la ri forma cominciata in Italia col Bruno, col Cartesio in Francia, e in Inghilterra con Bacone, che spezzando ogni autorità del passato, e quanto sino allora un'eccessiva venerazione avea recato a fastidio, proclamò l'assoluta libertà della riflessione filosofica, l'assoluta novità dei sistemi. Come s'intendessero quella libertà, e quella novità; e quali resultati ne seguitassero alle lettere, alle scienze, alle arti, al vivere privato e civile, come se ne avvantaggiasse o ne patisse la morale e la religione, la scuola, la famiglia e lo stato romano, non è qui luogo a mostrarlo, e le son cose oggimai troppo note. Nè io voglio negare i benefizj innegabili della riforma,e soprattutto di quella introdotta nelle scienze sperimentali da Galilei, e da Bacone; chè, se la riflessione libera ed esercitata desunse mirabili frutti di dottrina da ogni campo dell'umano sapere, e se ne avvantaggiò la scienza dell'uomo, ne crebbero l'erudizione, la filosofia, le discipline morali e civili; perfeziona i suoi metodi la medicina, si levò gigante la chimica, la geologia sfogliando  il libro della natura vilesse le età del mondo. Se tanti incrementi ne provennero alle industrie e alle manifatture, onde il viaggiatore trascorre paesi e province con velocità più che umana, e in mend’un baleno il salutori congiunge gl’amici, benchè separati dalla immensità del l'oceano, di tutto ciò alla riforma della filosofia è debi trice l'Europa. Ma le è pur debitrice di quella inquieta brama del sapere speculativo, onde si successero sistemi a sistemi del tutto nuovi sui più impenetrabili misteri della conoscenza umana, e quel nuovo si cerca da molti nell'inusitato e nello strano più che nel vero; così co minciata in Italia la licenza della riflessione esaminatrice sui fondamenti della filosofia, ecco il panteismo superbo del Bruno e del Campanella. Poi, scontenti del panteismo, ci diedero dottrine dualistiche il Malebranche e il Guelinx, l'idealismo e il sensismo ci vennero dal Berckeley e dal Locke, lo scetticismo dal Bayle e dall’ Hume; più tardi le sconfinate immaginazioni degl’alemanni,e un ridurre Dio e l'universo all'uomo, dall'uomo al pensiero, dal pensiero all'idea, dall'idea novamente alla materia, ed ultima conseguenza di tutto uno scetticismo più sconsolato, un correre con tinuo a una felicità e a una beatitudine ignota senza raggiungerla mai;ecco i resultati dell'aver voluto tutto inno vare! Posta in tal guisa la filosofia su questo cammino delle restaurazioni assolute, e detto una volta che la scienza dee rifar la natura (non,come è chiaro,dovere anzila scienza presuppor la natura tal quale essa è, con tutti i suoi dati, con tutte le sue relazioni, dover verificarla, non annientarla), l'indirizzo introdotto nell'esercizio del pensiero filosofico da quella folla di sistemi eccessiva mente inquisitivi, doveva esser tale,che quando poi, soffermata un istante la foga delle invenzioni, il pensiero istesso si sarebbe rivolto sopra i suoi passi, e ne sarebbe nata compiuta e perfetta la storia della filosofia, quella storia ritenesse come presupposto del suo metodo, che unico,o quasi unico criterio per giudicare della eccellenza di un filosofo e della sua filosofia, fosse l'assoluta indipendenza del pensiero esaminatore dallo stato della naturale certezza, fosse in una parola la compiuta novità del sistema. A questo criterio, desunto dallo scetticismo e padre di parziali opinioni, furono conformati più o meno quei metodi falsi e incompiuti che si seguirono da oltre mezzo secolo in qua nello scrivere storie della filosofia, onde ne derivò in Francia e nella Germania una folla di libri, come ad esempio la storia comparata dei sistemi di Degerando,e la storia di Tennemann,dove si giudi cano le varie filosofie alla stregua del problema sull'origine dell'umane conoscenze, e dall'avvicinarsi che esse faccian più o meno alle dottrine del criticismo di Kant; e un tal criterio ci spiega come più tardi negli storici più temperati e meno imparziali, segnatamente alemanni, e nei filosofi delle altre nazioni, immuni dal criticismo, continuasse ereditato dalla riforma questo soverchio studio dei sistemi inventati, esclusivi, che ricusano dalla natura qualunque presupposto sull'efficacia delle potenze conosci tive, e se ne avvalorasse l'opinione levata a cielo ne’diarj e ne’libri di filosofia, sulla così detta individualità d'ogni sistema,e incomunicabilità delle dottrine speculative. C o n siderate le quali cose,non dovrebbe far maraviglia se quel tempo che corse tra lo scorcio del secolo decimosesto e i principj del decimosettimo,quando Italia e Francia, stanche dell'autorità abusata dagli scolastici, volevano innovare tutta quanta la scienza (e fu allora appunto,come nota Brucker, che si tentarono i primi lavori speciali sulle dottrine dei romani e di CICERONE),se quel tempo, dico, non era troppo opportuno a giudicare imparzialmente una filosofia studiosa delle più antiche e venerate tradizioni. E nel vero anche più tardi in tutto il secolo XVII, se n'eccettui coloro che rifiutarono i dubbj del Cartesio, ma tennero il suo metodo d'esaminare la coscienza, quali Bossuet, Fénelon e i più segnalati di Porto Reale, agli altri che s'appresero ai dubbj, e venner giù giù negando i pregj dell'antichità, nemici d'ogni tradizione, non poteva andare a genio davvero quella riflessione modesta e tranquillamente efficace che il grande oratore avea recato sulle verità eterne della coscienza, desumendone le armonie universali delle dottrine temperate dal senno e dalla moderazione latina. (Vedi l'opinione che ebbero di Tullio Pomponaccio e Campanella, citati dal Brucker. Ma d'altra parte, se per ispiegare questa opinione si nistra invalsa in Europa contro la letteratura e la filosofia d'un popolo, che fu per eccellenza il popolo delle tradizioni, giova riportarci alle sorgenti diquella critica, ec cessivamente nemica al passato, questi giudizj poco reve renti che oggi si ripetono dai più, apparvero solo nella storia della filosofia nata ne'principj del secolo passato in Germania ed in Francia.Tra I francesi, per tacere dei più antichi, Degerando vi spende un capitolo nella sua Storia comparata dei Sistemi, dove enumerati prima gli ostacoli che impedirono ai Romani un proprio esercizio dell'indagine speculativa,nota opportunamente non essere stata abbastanza osservata dał comune degli storici la grande efficacia che ebbe l'ingegno latino sulla filosofia trapiantata, ond'essa assunse colore ed indole più positiva, e dalle soverchie astrazioni si ricondusse al reale. Passa poi ad esaminare gli scritti di Cicerone nel quale rinviene le note distintive d'ogni altro filosofo ro mano,cioè una scienza desunta dalle greche tradizioni e composta con metodo ecclettico dalle scuole differenti, una scienza accessibile ad ogni intelligenza educata, e confa cente a spirar vita nell'eloquenza, ne'costumi, nell'arte politica; scienza supremamente pratica e applicabile agli individui e agli stati. Histoire comparée des systèmes de philosophie considérés relativement aux principes des connaissances humaines, par Degerando. Giudizj assai meno temperati comparvero in Alemagna, dove fiorendo mirabilmente le discipline filosofiche e istoriche, e pubblicandosi tuttodì lavori speciali che illustrano con somma accuratezza ogni parte delle lettere antiche, prevalse però più che altrove la severità della Critica, che negava ogni nota originale alle lettere e alle scienze  C   Tra i critici alemanni va innanzi agli altri in ordine di tempo e di autorità Giacomo Brucker vero fondatore della storia della filosofia. Ma considerando però il capitolo dove egli parla della filosofia de'romani e di CICERONE, ti accorgi tosto che quell'uomo dottissimo moveva egli pure dal presupposto non esservi stata in Roma che una semplice continuazione delle scuole greche; e secondo le varie specie di queste scuole divide lo storico il suo trattato intorno alle dottrine romane annoverando CICERONE tra iseguaci della Nuova Accademia; quantunque confessi poco appresso ch'ei non seguì alcuna forma particolare di setta, ma inclina a quel Sincretismo istituitoda Antioco. Veramente Brucker nel proporsi il quesito,perchè mai i romani e CICERONE non crearono una filosofia propria, non ne accusa, come oggi Forsyth, la infelice disposizione dell'ingegno latino -- the unmetaphysical character of the Roman intellect. Life of Cicero. Ma quanto ai Romani in generale ei ne trova la causa nelle occupazioni della vita civile, e nella setta Accademica, che criticando e sindacando tutti isistemi, svogliava gl'intelletti da nuove speculazioni; e quanto a CICERONE, nella natura del suo ingegno, più immaginoso assai che penetrativo, ond'egli (dice lo storico) prefere il probabile all'esame profondo del certo, e delle dottrine rappresenta nelle sue opere la parte viva e oratoria più che il severo ordine dei giudicj e delle deduzioni,e la generale armonia del sistema. Brucker, Hist. Crit. Phil. Al giudizio dato da Brucker si avvicina in gran parte quello di Tennemann,e nelle loro opinioni v'ha molto di vero e di certo, oltre la solita accuratezza nella esposi  8 latine, appoggiandosi ben di frequente a così deboli prove da far credere quasi che la movesse un'infelice gelosia di nazione. Ora da qualche anno in Inghilterra e nella stessa Germania si torna con più studio al passato, e molte parzialità si correggono; ed io sono certo che ri composta in pace l'Europa, ilprimo debito di giustizia alle memorie latine lo pagheranno gli scrittori di quelle grandi e generose nazioni. zione dei fatti;ma per quanta possa essere la reverenza dovuta ai due storici insigni della filosofia, come non accorgersi che il loro esame,informato da un criterio an ticipato e parziale, riesce insufficiente a cogliere il vero significato d'una dottrina, come quella di CICERONE, la cui nota essenziale consiste nel rifiuto d'ogni opinione di setta, e in un principio universale, che supera ogni si stema? Ma se tanto può dirsi a buon dritto del Brucker e del Tennemann, merita più speciale considerazione l'esame assai temperato,e per certo ingegnoso,che fece degli scritti filosofici di Tullio, Ritter nella sua storia della Filosofia antica. Le indagini dotte e meditate di Ritter movendo dai tempi antistorici della Filosofia,e procedendo lungo i tempi della civiltà indiana, ionica e delle colonie italo greche fino all'origine delle scuole socratiche, da queste al loro declinare e disperdersi in una confusione di sistemi sparpagliati e sofistici, giungono a quello ch'ei chiama terzo periodo dell'antica filosofia, all'età che intercede tra ilcadere delle repubbliche greche sotto la romana, la rovina di quest'ultima, e il sorgere del Cristianesimo. Due cause potenti egli allega del nuovo indirizzo preso in quella età dalla filosofia greco-romana,e le ritrova nella storia delle due nazioni, che allora si ricambiavano una vicendevole efficacia nelle lettere, e nelle scienze, e nel vivere privato e civile. Nei Greci, perchè la costoro scienza impoverita oramai dall'uso eccessivo della facoltà creatrice nei tempi anteriori, dallo scadimento della li bertà e dei costumi, e costretta, per accomodarsi all'in gegno e all'educazione dei nuovi dominatori,a vestire le forme ed il metodo d'una disciplina scolastica, non d e sunse più le sue dottrine immediatamente dalla riflessione, ma ritornò agli antichi sistemi,li paragonò,li esaminò, li accordò, desumendo da essi stessi e incompiutamente, non dalla natura intima del pensiero, il principio del l'esame e dell'accordo. Nei Romani, perchè essi non of frirono ai Greci alcuna guarentigia di riforme scientifiche, ma vissuti sino a quel tempo in mezzo ai tumulti della vita civile,e fra lo strepito delle armi,tranne una certa tendenza, che li moveva agli ordinamenti giuridici, nè la natura, nè la educazione loro si porgeva punto alle indagini della scienza. Quindi (osserva il dotto alemanno) era ben naturale che, date quelle condizioni morali,civili e scientifiche, dall'accoppiamento dell'ingegno greco e latino derivasse un Ecclettismo erudito; derivò infatti; e di questa filosofia, l'indole della quale è sostituire la li bertà della scelta alla libertà dell'ingegno inventivo, accomodarsi alla natura degli scrittori,abbandonato l'or dinamento scienziale non fidarsi all'esame, e se occorre, attenersi principalmente all'autorità del consentimento comune,eitrovò la più importante manifestazione,oltrechè nel pendio generale dei tempi,nella vita,nell'animo e nelle opere di Cicerone. Ei ne considerò con raro accor gimento la vita,e vedendo come la parte ch'ei tiene nella storia della Filosofia, è perfettamente d'accordo con quella che occupò nella storia civile dei tempi; come furono le medesime qualità e gli stessi difetti che, se lo levarono alto nella vita pubblica e nella filosofia, non gli consen tirono per altro di giungere al sommo e nell'una e nel l'altra, ricercò queste qualità e questi difetti nell'indole di lui, e non gli parve rinvenirvi accoppiata alla vivezza dell'ingegno oratorio, al sentimento squisito del diritto, all'amore per gli altri,e particolarmente pe'suoi,all'ope rosità indefessa,a una rara previdenza dell'avvenire,quella sicurtà in sè stesso e quella fermezza di volere che costi tuisce il grande scrittore e l'uomo di stato. Condotto, egli dice, dall'efficacia di condizioni esteriori a filosofare, come nella sua gioventù, mentre applicava la filosofia all'esercizio dell'eloquenza,egli avea frequentato le prin cipali scuole di Grecia, così nel suo ritiro dalla pubblica vita non seguì una dottrina particolare, ma trascelse il meglio di tutte; la quale incertezza di studj, che non a p profondivano la scienza, ma la assaggiavano appena, ri sentiva della incertezza della sua condizione politica, perchè ei scrisse le sue opere principali durante gli scon volgimenti del primo triumvirato,la dittatura di Cesare e il consolato di Antonio,tempi calamitosi per la libertà, nei quali escluso da ogni ingerimento civile, e fuggendo il cospetto degli scellerati, andava consolando la sua soli tudine colle meditazioni della scienza. Era quindi ben naturale che il grande oratore, vissuto da lunghi anni in tanto splendore delle pubbliche faccende, non si ripo sasse volentieri negli ozj solitarj delle sue ville; la d e bolezza innata dell'animo suo, come gli avea impedito di rimaner fermo al governo delle cose civili, di valersi della sua autorità per contrastare ai principj della ti rannide cesarea, ora gl'impediva di darsi a tutt'uomo agli studj della filosofia; ed ei ne scriveva ad Attico, e all'amico dipingeva con vivi colori questo penoso on deggiar ch' ei faceva tra l'amore onde era tratto agli studj, e il desiderio di prender parte ai pubblici affari, tra la sfiducia sua nelle consolazioni della scienza,e una sublime speranza che lo levava al disopra delle umane cose. Da queste intime qualità dell'indole di CICERONE deduce l'istorico Alemanno la natura della sua filosofia, ch'è,secondo lui,un moderato scetticismo,espressione fe dele di animo titubante; scetticismo moderato,perchè seb bene talvolta, oppresso dal peso delle sventure proprie e della patria, ei mostri dubitare del vero eterno e della virtù, nondimeno conserva sempre intemerata la nobiltà della vita, e il desiderio di una morte gloriosa; ma tuttavia scetticismo, perchè riconoscendo la natura assoluta del vero, ammette solo come verosimili le dottrine che ne d e rivano, e dubitando interroga tutte le scuole, prende ad esame tutte le opinioni greche,e accordandole insieme più con intendimento politico, che con vero criterio di scienza, ne vuole arricchire il patrimonio della romana letteratura. Sennonchè tra le varie dottrine in cui si di videvano le scuole greche, una ve n'era che s'accordava mirabilmente agli intendimenti, e all'ecclettismo scettico abbracciato da Cicerone; e questa era la dottrina della Nuova Accademia.Se Tullio infatti poneva ilfondamento della filosofia in un dubbio moderato sui principj delle umane conoscenze, la Nuova Accademia, guidata allora da Filone, che gli era stato maestro nella sua giovi nezza, riconosceva come legittimo questo dubbio, e lo temperava con la verosimiglianza; se l'oratore romano voleva che le dottrine della filosofia conferissero ad a d destrare il pensiero e la parola negli esercizj della elo quenza, nessuna scuola si porgeva meglio a questa di sciplina della scuola dei Nuovi Accademici, che oltre all'essere stata sempre frequentata da uomini eloquentis simi, si riduceva in sostanza a un metodo disputativo; infine se egli raccoglieva le principali dottrine della filo sofia greca,per comporne una scienza accomodata all'in gegno eall'educazionefilosoficadeisuoilettori,laNuova Accademia,che disputava contro tutti e di tutto, che la sciava al filosofo la maggiore libertà dei proprj giudizj, gli si porgeva opportuna a disegnare in brevi tratti ai Romani lo stato della filosofia passata e contempo ranea, ad innamorarne i lettori, senza perderli in vane e astruse dottrine, o incatenarli a un sistema. Cice rone dunque (secondo l'opinione del Ritter) come ecclet tico dubitante,come oratore e come espositore della filo sofia greca ai Romani, abbracciò le dottrine della Nuova Accademia; e va notato particolarmente, sì perchè questa è l'opinione più universalmente accettata intorno alla vita filosofica di Tullio, e alla parte che tengono le sue dottrine nella storia della filosofia, e perchè il comune degli storici ricollega quasi sostanzialmente a quel si stema le sue opinioni sulle parti principali in cui si divide la scienza. Così opina anche il Ritter, e prendendo ad esame le opere tulliane, secondo la tripartizione plato nica della filosofia più comune agli antichi (egli avverte però che,stante l'incertezza dello scrittore e delle dottrine e la loro qualità, tutta pratica e positiva, la distinzione delle tre parti non è abbastanza spiccata), rinviene in tutte più o meno chiaro,più o meno deciso il dubbio della Nuova Accademia. V'ha dubbio deciso nella parte fisica, perchè ivi abbondavano più che altrove le dispute e le contradizioni dei filosofanti; dispute sulla natura delle cose, dispute sull'esistenza e sulla natura di Dio e sua provvidenza, sulla natura dell'anima e sua immortalità; e di tutti questi veri Cicerone o dubita compiutamente,o ammette solo una leggera verosimiglianza. V'ha dubbio anche maggiore nella parte logica, anzi è questa la più povera e la meno determinata di tutte le sue dottrine,e perchè ei la collegava meno d'ogni altra agl' interessi pratici della vita,e perchè il sensismo degli Stoici e degli Epicurei, che aveva a combattere, non potea tener fronte agli argomenti della Nuova Accademia; finalmente v'ha dubbio manifesto anche nella morale, perchè s'ei con traddice ricisamente alla ignobiltà delle dottrine epi curee, la controversia tra gli Stoici e i Peripatetici lo lascia indeciso da un lato tra un'idea trascendente della virtù, a cui lo muove la grandezza dell'animo romano, dall'altro la fragilità di natura; incertezza che pure lo segue nella politica, e nelle attinenze della politica colla morale. Talchè Ritter movendo dal presupposto che  la filosofia di Tullio non fosse che eloquente dell'indole particolare dello scrittore e dei tempi, negò ogni certezza e ogni legame di scienza in ciascunasuaparte;ogniconcatenamentologicaledelle tre parti tra loro (perchè quella logica e quella fisica non sono per lui che un'appendice della morale, considerata da Tullio com'arte pratica della vita); negò ogni unità di disegno scientifico, perchè mancava allo scrittore l'unità del principio fondamentale, posto dalla riflessione, e a cui rispondesse l'universale armonia del sistema.Onde a rias sumere in breve ciò che rappresentino alla mente del l'istorico tedesco le dottrine tulliane,direi ch'e'le con siderava qualcosa più e qualcosa meno d'un ecclettismo; ma una scelta a cui manca e libertà di riflessione e criterio di scienza. (Hist. de la Phil. anc.) una manifestazione [Se noi ci siamo alquanto trattenuti nell'esporre le opinioni di Degerando, Brucker e Ritter, è stato segnatamente per due ragioni; la prima perchè poteva recare non piccola luce intorno ad una questione che   abbiam preso ad esaminare,e su cui sono infinite le dispute dei critici e de'filosofi, il giudizio degli storici migliori che vanti la nostra scienza; e in secondo luogo affinchè i pochi cenni, che ne abbiamo dato,muovano gli studiosi a ricercare con maggior diligenza le variazioni e iprogressi, che ha fatti sino a noi la critica sulle dottrine filosofiche di Cicerone. Questa critica non pare immeritevole di qualche considerazione, perchè rappresenta quasi in sè stessa quel moto graduale dell'esame, e quel lento chiarirsi de' principj supremi, che governano i fatti, o n d e si generava in Europa la storia della filosofia. I primi tra questi storici,come Stanley e De Burigny, che nuovi del cammino, e spaventati dalla grandezza dell'impresa, fecero lavori imperfetti e meglio tentativi di storie, che storie vere, o tacquero affatto, o poco parlarono di Cicerone che nella modestia delle proprie opinioni (magnus opinator) non aveva dato un sistema. Negli storici se guenti, che abbiamo citato, e segnatamente nel Brucker quella critica comincia a chiarirsi;vi si medita con più ampio concetto la parte che ebbero i Romani nell'adu nare le greche dottrine, nel farle proprie, e trasmetterle a noi;Cicerone v'è considerato,non già come un filoso fastro qualelochiamò ilPomponaccio,ma comeunvasto e ben disciplinato intelletto,che,scorrendo ilcampo della filosofia greca, ne chiamava a rassegna ad uno ad uno i sistemi. E contuttociò quella critica era ancora ben lon tana da un esame profondo e spassionato delle dottrine tulliane; dovevansi emendare molte inesattezze, tor via molte preoccupazioni (qual era,per esempio,quella che faceva di Cicerone un perfetto seguace della Nuova Accademia, e un ecclettico dubitante), e, quel che soprattutto importava,trattandosi di M. Tullio,che tanto ritrasse da Socrate e nel metodo e ne'principj,conveniva cercare per entro alle sue dottrine l'immagine della vita e del carat tere dello scrittore. Tale intendimento apparisce in alcune memorie del sig.Gautier de Sibertche hanno per titolo,Examen de la philosophie de Cicéron, lette all'Accademia francese delle Iscrizioni e Belle Lettere, nella seconda metà del secolo scorso; dove si esamina accuratamente la parte oggettiva delle dottrine tulliane, si dimostra il vincolo di sistema che le congiunge, e si difende dalle accuse di scetticismo la fama del grande Oratore. Lavoro merite vole di molta considerazione per sanità e profondità di giudizj, se a questa non nocesse talvolta l'aver guardato più alla materia delle dottrine che alla loro forma scien tifica, e considerato Cicerone come filosofo compiuto e dommatico in ogni parte,anzichè avvolto di continuo nelle dispute degli opposti sistemi.(Mémoir. de l'Acad. des Inscript. et Bell. Lett.) A questi difetti sembra (come vedemmo) riparare in gran parte l'esame del Ritter, che sebbene ritenga molto delle sue opinioni private e di quelle della filosofia che lungo tempo ha dominato in Germania, nondimeno rias sume in breve quanto di meno inverosimile può dirsi sul preteso ecclettismo ciceroniano. E dirò anche di più, che l'esame del Ritter, fondato com'è in una conoscenza profonda delle opere di Cicerone, contiene innegabili verità, qual è quella,per es.,che nello svolgimento delle dottrine del grande Oratore esercitasse una singolare efficacia i suoi tempi, la sua nazione, la sua indole propria; che speciale qualità di questa indole fosse sovente un ondeggiare fra la fiducia e la dispera zione del vero e del bene eterno,e che a queste dubbiezze contrastasse efficacemente il senno pratico della natura romana. Ma d'altra parte noi siamo ben lungi dal credere che il dotto Tedesco,e quanti innanzi e dopo ne tennero le opinioni, abbiano considerato nel suo vero aspetto l'indole delle dottrine tulliane; chè, se non può negarsi da un lato esservi in esse un che di necessariamente re lativo alle condizioni dei tempi e alla natura dello scrit tore, e quindi mutabile, non necessario e contraddicente alla natura assoluta e apodittica della scienza,non è men vero dall'altro ch'ei pur rinvenne nell'intimo delle dot trine contemporanee, e nello studio profondo dei veri eterni specchiati in sè stesso e negli altriuomini,un criterio certo, universale, infallibile da costituirvi la scienza. V’ha dunque nella filosofia di Cicerone questo che di oggettivo e di soggettivo, di relativo e di assoluto, di mutabile e di necessario; m a l'una e l'altra qualità si ricollegano insieme per nodi di universale armonia; armonia di relazioni tra l'uomo di un tempo e l'uomo di tutti i tempi,tra il romano e l'abitatore di tutta la terra, tra Cicerone oratore e politico e Cicerone filosofo; armonia esterna e oggettiva a cui risponde quell'altra interiore, attestataci dalla coscienza, tra il pensiero e l'affetto, tra la volontà e la ragione,tra l'intelletto e le verità immortali. E certo a queste considerazioni, disco nosciute dal Ritter e dagli altri critici Alemanni, badò Raffaele Kuehner,autore sin qui del più compiuto esame delle dottrine di Cicerone ch'io mi conosca,edito in A m burgo l'anno 1825,quando rispondendo al quesito pro posto da uomini dottissimi; se Cicerone meritasse o no il nome e l'autorità di filosofo,pensava che algrande Ora tore s'appartiene giustamente quel titolo per l'ampiezza dell'ingegno,la vasta cognizione delle dottrine contem poranee, l'uso ch'egli ne fece volgendole in latino a cul tura e ammaestramento dei suoi concittadini, e infine per la facoltà unica in lui, ond'egli seppe abbracciare tanta mole di scienza, fissare l'indagine della riflessione sulle verità principali, e comparando tra loro le varie dottrine, ricomporle coll'efficacia del proprio giudizio in unità di sistema.(M.T. Cic.in phil.ejusq:partes merita, Auc.R. Kuehner.Hambur. Pars altera.Cap.VI; Utrum Cic.philosophus judicandus sit,nec ne,anquiritur) E questi pajono anche a m e i meriti veri e innegabili del senatore romano; e nondimeno ogni qual volta io rileggo quelle sue opere, nelle quali spira tanta univer salità di pensieri e d'affetti, universalità veramente latina, incui ilvero è sìprofondamente immedesimato col buono, e tutta s'accoglie la sapienza delle scuole socratiche, mi pare che la critica delle sue dottrine possa ricevere a n cora notevoli perfezionamenti, sempre che col chiarirsi Posto ciò, non sarà difficile, parmi, determinare con sufficiente chiarezza in quali confini si contenesse l'effi cacia che l'ingegno di Cicerone ebbe nella riforma della filosofia quand'essa fu trasferita di Grecia in Roma, e in quali vicendevoli attinenze stiano tra loro quanto di già meditato e discusso gli venne dalle scuole d'oltremare, e quanto vi seppe recare egli stesso rivolgendo il pensiero sui fondamenti della scienza, questione che (conforme a quanto è detto più sopra) noi ci siam proposti di chia rire nel presente discorso, fermandoci a tre punti segna tamente:cioè,qual era la condizione della filosofia greco romana ai tempi di Cicerone, e con qual metodo egli esaminasse e combattesse le dottrine delle principali scuole tentando di conciliarle; finalmente qual filosofia derivasse dalla deliberata opposizione e dal metodo compositivo del l'Oratore latino.  successivo di quella legge,che regola la filosofia nel tempo, se ne va perfezionando la storia. Ora quella legge può solo spiegare, a mio avviso,l'ufficio della filosofia de’Giureconsulti e di Cicerone, e dall'ufficio desumerne la na tura e i principj. Può spiegarne l'ufficio, già manifesto e considerato da molti rispetto alla Giurisprudenza e agli ordini militari e politici, alla Religione e all'Architettura, che è di comprendere in sè il buono degli altri popoli, tentando ridurlo a nuovi ordinamenti di scienza; può spiegarne la natura, che è appunto quella comprensione universale, tanto diversa dall'ecclettismo, che procede per accozzamento disordinato dei sistemi,anzichè ricomporre le intime relazioni delle verità naturali sul disegno della coscienza;finalmentepuòspiegarneilprincipio,cheèl'esa me dell'uomointeriore,contrappostosull'esempiodiSocrate al dubbio, o all'esame arbitrario e imperfetto dei sistemi contemporanei; tre punti importantissimi, a mio parere, e che, ben meditati, danno luogo a chiarire i principali problemi esaminati sin qui dalla critica sulle dottrinedel sommo Oratore. Gli storici più reputati della filosofia si accordano tutti in mostrarci un manifesto scadimento delle dottrine greche,il quale apparve dopo il fiorire dell'antica Acca demia e del Peripato, e crebbe fino ai tempi di Tullio, accompagnandosi,come suole avvenire il più delle volte, colle vicende degli ordini privati e politici. I quali sin dalla prima metà del secolo V avanti l'èra volgare venuti a mirabile altezza d'incivilimento, e generatori in pochi anni di tanti miracoli di virtù e di dottrina, quanti presso altre nazioni può appena rammentarne la storia di molti secoli,mancata la virtù che liaveva nutriti,prima ancora d'invecchiare, si corruppero e precipitarono, rappresen tando in sè stessi un'immagine stupenda, abbenchè fug gitiva, della vita dell'uomo. E invero la gioventù della Grecia fu tutta in quei memorabili anni ne'quali i suoi figli per ben due volte ricacciarono in Asia gl'invasori Persiani, in quei combattimenti ne'quali la sua m a rina doventò signora del Mediterraneo, ne crebbero i suoi commerci e le sue industrie, ne trassero argomento a sublimi ispirazioni i poeti e gli artisti; così da quel primo incitamento si propagò in tutte le repubbliche greche,e segnatamente in Atene, un moto fecondo d'opere, d'istituti,di dottrine,d'eleganti costumi,che nutriva in sè nella crescente corruzione del Gentilesimo germi di rinnovamento,fecondati più tardi dalla riforma di Socrate e dalla filosofia di Platone, nelle dottrine de'quali tu vedi scolpita quella vita operosa del pensiero e de'co stumi popolareschi, quel conversare continuo, quelle di spute in piazza e per via, quella reverenza delle tradizioni sacre,quel sentimento profondo del divino e dell'immor tale che accompagnava la giovinezza del popolo greco. Ma passata appena una generazione dal fondatore del l'antica Accademia, le conseguenze della malaugurata guerra del Peloponneso si facevano sentire, l'abuso scon II. umana  sigliato delle libertà cittadine recava frutti di servitù, e la Macedonia invadeva.Chè se quella può dirsi con qual che ragione l'età virile del popolo greco,nella quale raf forzatosi di potenti ordini militari e principeschi sotto il regno di Filippo, portò guerra con Alessandro nel cuore dell'Asia,vendicandoiTrecento delleTermopili,èquesta una virilità che giàdeclina a vecchiezza;e n'è indiziola filosofia d'Aristotele,superiore a Platone nel severo or dinamento scienziale, e nell'indirizzo fecondo dato alla riflessione sul reale e alle scienze d’esperimento,ma su perato da lui nella sublimità della dialettica, nella vi vezza delle tradizioni sacre, e nella idealità del sistema. M a ormai la discesa dei tempi non si poteva più tratte nere; e la Grecia passata dal dominio degli Spartani a quello de Macedoni, dai Macedoni, morto Alessandro e diviso il regno nei successori, sotto un tritume di piccole tirannidi, non ebbe nè anche, come più tardi avrebbe avuto l'Italia del secolo XVI,un legame di alleanza poli. tica fra i suoi stati tanto da conservare un'effigie qua lunque d'unità nazionale,e mancò,come l'Italia del se colo XVI,di quella efficacia di salde istituzioni che una monarchia prudente suole introdurre nei popoli guasti da libertà licenziosa. Non è quindi a maravigliare se quella stessa Atene, che avea veduto un Pericle non attentarsi a spogliare delle apparenze civili l'autorità quasi regia consentitagli dai cittadini, pativa più tardi la signoria d’un Demetrio di Falera,e quel popolo istesso,che avea punito di morte Socrate accusato d'irreligione, salutava col nome d’iddio un Demetrio Poliorcete, e lui pro fanatore d'ogni cosa e divina accoglieva nei sacri penetrali del Partenone. Sono questi i segni più indubitati della vecchiaia d'un popolo, e quel lento e continuo scadere dell'ingegno e della vita del popolo, oltrechè negli ordini politici,appariva in ogni altra parte della sua civiltà. Scadevano sempre più gli ordini materiali, perchè a quel primo moto di commercj e d’in dustrie,nutrito dalle libere istituzioni,era succeduto quel solito languore, quel ristagno d'operosità, che è conse   guenza necessaria (e noi lo sappiamo) delle arti dei go verni assoluti;e la signoria de'mari, ristretta per l'in nanzi agli stati del continente e dell'Arcipelago greco,si allargava ora ai Fenicj, agli Asiatici, agl’Italioti.Si cor rompevano i costumi, e la corruzione tanto più rapida procedeva, quanto più nel crescente oscurarsi delle anti che tradizioni si sentivano funesti gli effetti delle cre denze gentili; e quella vita di raffinata eleganza non più temperata dal moto e dalla severità dell'educazione re pubblicana, si affogava ne'diletti del senso; e al senso, non più al pensiero, servivano le arti del bello divenute adulazione di tiranni e di meretrici; infine di tutto ciò come causa ed effetto risentivasi la filosofia, di rado a v versando, più spesso secondando il pendio della corrut tela universale. E noi, lasciato da parte lo scetticismo, che fece un breve e inopportuno tentativo in Pirrone,di remo più specialmente dei principali sistemi fioriti in questa età, e che spiegarono maggiore e più diretta effi cacia sulla filosofia latina. Onde mossero dunque questi sistemi? Ritenendo essi qual più qual meno, sebbene con notevoli alterazioni, il metodo e il fondamento delle dottrine socratiche, co minciarono da un ritorno ai sistemi che avean posto fine all'età antecedente della filosofia italogreca, ritorno evi dentissimo negli Stoici, e che ci spiega com’essi, mentre derivarono da Socrate la loro morale,e ne ritennero in parte il dualismo, retrocedettero in fisica al panteismo degl'Ionj, e come contrastando alle lusinghe dei tempi coll'idea sublime del bene, li secondarono poi brutta mente desumendo la causa e la ragione suprema dalla materia e dal senso. E anche questa volta la confusione del panteismo nacque da un modo fantastico e altutto ar bitrario di conciliare ciò che si presenta alla ragione ed al senso,la immobilità dell'essenza e la mobilità del fenomeno, il mutabile e l'immutabile, l'ente e il non -ente, il necessario e il contingente, il relativo e l'assoluto; e più, da un pervertimento del concetto di causa prima.Per pensare, 0, meglio,immaginare quella conciliazione, bisognava porre un unico principio, in cui esistessero ab eterno identifi cati in stato di quiete una potenza ed un atto indeter minati ambedue, e che si determinassero poi al momento in cui l'universo dall'indeterminatezza primordiale dovea passare alla forma e agli atti successivi.Gli Stoici y'an darono alterando il concetto di causa prima. Causa, essi dissero, è ciò per cui una cosa s'effettua; ora niente pro duce un effetto, che non sia corpo; dunque l'essenza uni versale di tutte le cose è un che di corporeo; e quindi essi partivano dal punto direttamente opposto a quello dacuierano mossi Platone e Aristotele;chè,sel’Ateniese e lo Stagirita concepivano la materia come negazione di essere (to un ow), e il primo segnatamente poneva l' es senza assoluta nell'incorporeo e nell'intelligibile,gli Stoici invece concepirono la materia corporea come il primo principio e l'intima realtà delle cose tutte. Ma che cosa era questa materia? Questa materia primitiva ch'è in Platone e in Aristotele, e che più tardi troviamo negli Scolastici, senza qualità e senza forma, sostanza oscura, infinitamentepassivaesuscettibilediforme,infinitamente divisibile,è una finzione immaginativa, è una vTÓGeols (nel doppio significato antico e moderno) collocata a capo delle cose tutte per ispiegarne in un modo qualunque la possi bilità,ed eludere l'antico assioma ex nihilo nihil;ma non avvertivano que' pensatori che, se v'è un caso in cui l'as sioma abbia un vero valore, è appunto questo,poichè la materia pura potenza è un che vuoto,nudo ed inefficace, è il nulla vestito dalla fantasia delle qualità del reale. Cercata la causa nel seno medesimo dell'effetto, anzi iden tificata coll'effetto, il germe del panteismo doveva svol gersi necessariamente,e sisvolse.Come?Si tornò al di namismo di una parte degli Ionj, e poichè fondamento del dinamismo è l'ammettere che il moto fenomenale delle cose si faccia per isvolgimenti di forze intrinseche ad esse, si concepì nella essenza intima dell'universo,che a somiglianza d'Eraclito dicevasi dagli Stoici essere il fuoco artificioso, rūp témuczor,un'energia primitiva,un che infinitamente attivo,cagione unica di tutti i fenomeni delle cose,e della loro forma determinata,perchè traendo ad atto le forze intime della materia, ne va foggiando questo univers0 sensibile,(τον θεόν σπερματικός λόγον όντα ToŬ zoopov. Diog.L.,VII,136,e Cic., De N. D. La falsa induzione che per vizio d'antromorfismo finge le potenze e gli atti universali della natura ad esempio delle facoltà umane,non si arresta qui, ma informa da cima a fondo la fisica degli Stoici. Essi considerando che in noi principio primo di moto e d'at tività è l'anima, chiamavano anima quella virtù infor matrice delle cose tutte, e l'universo rassomigliavano a u n grand e animale; perchè, diceno (usando un argomento di panteismo rigoroso adoperato più tardi dal Campanella ), se le parti del mondo sono animate,sarà animato anche il tutto, e se le varie parti del corpo sono mosse dall’anima, e l'anima è governata dalla ragione, anche i moti del mondo proverranno dall'anima universale, il cui princi pato risiede nella ragione. Quest'atto, anima e ragione dell'universo per gli Stoici era Dio; e quindi si capisce com'essi trasportando sempre nel divino le facoltà del l'umano, concepissero Dio da un lato come principio prov vidente e ordinatore, e dall'altro come energia primitiva, come causa e unità di tutti imoti fenomenali,e perchè,m e n tre lo simboleggiavano sotto la cieca e inevitabile neces sità del destino (dep.zpuéva), che contenendo la materia l'agitava di causa in causa con movimento perpetuo, attribuissero a questo spirito divino abitatore della m a teria la divinazione delle cose future.(Cic.,De N. D.,De Divin., De Fato,pass.)Concependo in tal modo la materia come contenuta e vivificata intimamente dall'unità della forza divina (unità che per il principio della filosofia s o cratica distinguevano in forze secondarie ed opposte),non è maraviglia che gli Stoici, tornando anche in questa parte agli Ionj,attribuissero qualità divine alle grandi potenze della natura, come agli astri,agli elementi,ai vizj, alle virtù,e segnatamente all'anima umana,e ne deri vasse la loro interpretazione fisica delle mitologie. Quindi dai principj della loro scienza naturale uscivano la logica e la psicologia.Che cosa è l'anima?Essa per gli Stoici,come tuttele altre cose,come Dio stesso,ècorporea;ma come forza primitiva e principio di moto partecipante all'atti vità universale, intimamente è divina; e la sua unione col corpo la immaginavano come una compenetrazione, sì per il loro principio della compenetrazione delle so stanze, e sì per la somiglianza, che l'anima dell'uomo ritiene coll'anima universale compenetrante e vivificante l'universo delle cose;e come quest'anima universale, seb bene distinta in altre forze seconde,è in sè stessa prin cipio unico de'moti e de'fenomeni delle cose, così in noi tutti i fatti dell'anima riducevano all'unità del principio dominatore (nepovezov ) che è fonte e causa motrice delle facoltà seconde. E qui è notevole assai,che mentre l'in dirizzo dato all'osservazione dell'uomo interiore dalla riforma di Socrate salvava gran parte della psicologia stoica dalle conseguenze materialistiche del principio che la informava, quella loro inclinazione a studiare i soli fenomeni della materia ricomparve nella dialet tica, e ne proveniva il sensismo. Movevano anche que sta volta da un cattivo concetto di potenza e di causa. E valga il vero. A quel modo stesso che in fisica aveano pensato la prima potenza e la comune possibi lità delle cose come un che vuoto e privo naturalmente d'entità e d'efficacia, così immaginarono nell'anima la possibilità del conoscimento come una potenza nuda, inefficace e priva di contenuto,simile, dicevano, ad una pergamena senza caratteri (ώσπερ χαρτίoν άνεργον εις c.Troypapiv ), dove, svegliatosi l'atto dell'anima (come l'atto primitivo di Giove nella materia) all'occasione delle sensazioni, imprime le rappresentanze o le pav Tuoive delle cose. Che cosa poi fossero queste fantasie è facile a immaginarlo, e ce lo dice anche il nome. Nel quale comprendevano gli Stoici la totalità dei fatti interiori presenti alla coscienza ed originati tutti dai sensi, nè potevano dare al conoscimento altra qualità in fuori dalla sensibile, e perchè l'anima umana,come parte delDio animantelecose tutte,ritiene ilsuo modo di conoscere,che conforme alla sua natură è un cono scere sensitivo, e perchè essa stessa l'anima è corpo, e perchè, l'essenza universale di tutte le cose essendo cor porea, non si può dar conoscenza se non di corpo. Or che ne veniva da ciò? Ne veniva che ammettendo essi da un lato ogni conoscenza derivare dai sensi, dall'altro non potendo negare la natura dell'intelligibile necessaria, assoluta e profondamente opposta alla natura del sensibile, ponevano le idee come una trasformazione della sensa zione operata dall'anima, precedendo in tal modo i sen sisti francesi. M a, di grazia, sì gli uni che gli altri sfug givanoforseallanecessitàdellacontradizione? Ne rimaneva una intrinseca al loro sistema e maggiore di tutte,quella cioè di negare all'anima un primo principio, una capa cità naturale al conoscere e immaginare ch'essa poi ve nutale la materia di fuori, doventi all'improvviso o p e rante e di operazioni tutte sue proprie. M a in tal modo il sensista tira più là la questione, e non la risolve; per chè,quando eisarà pervenuto a un dato termine dellasua dimostrazione, io gli mostrerò com'ei si trovi in opposi zione diretta ai principj su cui l'ha fondata. Dice:Nego nell'anima qualunque notizia primitiva e fontale delle idee;e aggiunge:ecco però come nell'anima stessa si generano quelle idee.L'oggetto esterno fa impressione sui sensi; i sensi per mezzo dei nervi comunicano le i m pressioni al cervello,e l'uomo acquista l'idea dell'obbietto sentito. Ma è qui appunto dov’io prego il sensista a darrestarsi. Poichè, manifestatasi in noi la notizia, che al certo provenne dall'occasione de'sensi, se la mente si volge a considerarla nella sua natura,vi riconosce bensì da un lato un referimento esterno all'obbietto onde spe rimentammo l'efficacia causale,ma d'altro lato vi scuo pre anche una più intima e segreta relazione cogli atti dello spirito, e coi sommi principj del vero, obbietto i m mediato della potenza conoscitiva.Tale contradizione che deriva dal confondere insieme la natura del sentimento e delle cose e la natura ideale, non potranno mai fug gire i sensisti, se pure essi non vorranno ammettere la  conseguenza più legittima del loro sistema,vo'dire il m a terialismo; al qual proposito bene osserva il Leibniz nei Nuovi Saggi (lib. II), che coloro i quali s'immaginano l'anima informa di una tavoletta,o di un pezzo di cera,in cui nulla sia scritto prima della sensazione, trasferiscono in lei le condizioni passive e inefficaci della materia. Se consideriamo adunque attentamente il sistema de gli Stoici,esso ci si presenterà da un lato come un pan teismo, dall'altro come un dualismo. È un panteismo se guardiamo a ciò che, secondo il Ritter, ne formava il d o m m a fondamentale, all'unità primigenia e finale delle cose tutte e al concatenamento o consenso delle parti della natura informata dall'anima universale e divina, ond'era costituita per gli Stoici la legge del Fato; ma è invece un dualismo,se vi meditiamo la opposizione tra Dio anima del mondo e il corpo del mondo, tra la materia e la forma, il passivo e l'attivo, il più e m e n perfetto nelle esistenze, l'unità assoluta di Dio e la diversità delle cose,diversità che pur dee terminare una volta rientrando nella indifferenza primitiva di Dio. La quale opposizione, che ha reso non ben definito il giudizio di parecchi istorici sulla qualità di questo sistema, io credo derivasse non tanto da quella medesima incertezza tra la confusione dell'età orientale ed italo-greca e il nuovo bisogno delle distinzioni dialettiche, che è pur manifesta nelle dottrine di Platone e d'Aristotile, quanto dall'avere gli Stoici, più assai de'loro predecessori,esagerata l'in duzione che dalla notizia dell'uomo litrasportava a quella dell'universo e del divino. E fu qui dove peggiorarono assai dai sistemi anteriori. Peggiorarono in fisica, perchè seb bene Platone nel Timeo dimostrasse che l'universo tutto quanto era animato,e Aristotile,adombrando per via con trariaildivenirehegeliano,trasformasselamateriaintutte lecose,ambedue silevaronpiùalto,eoltrequell'universo animato e al di là di quella materia,l'uno contemplò l'Ar tefice divino, da cui s'irraggiava nelle cose e nelle anime la luce degli esemplari eterni, e l'altro intravide il fine supremo desiderato dalla universale natura; peggiora E d ecco circa in quei medesimi anni, nei quali fioriva Zenone Cizico,e spiegava le sue dottrine infette di panteismo e di dualismo (verso l'a. 300 prima di Gesù Cristo), apparire la negazione particolare dei sensisti e degli idealisti con Epicuro e con Arcesilao. E quanto al primo, chi ben consideri la sua filosofia, vi troverà un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine o anteriori o contemporanee; chè se già era cattivo indi zio in Zenone e in Crisippo l'imitazione degli Ionj e d'Eraclito, fu pessimo in Epicuro il ritorno ai sofisti della stessa età italo-greca, e segnatamente a Democrito. Notammo anche come nonostante la rigidità e l'altezza della morale stoica,vi si scorgeva chiaro un esame s e m pre più imperfetto e parziale dellaumana coscienza;ora questo è anche più manifesto negli Epicurei, i quali non si contentarono come gli Stoici, lasciate da un lato le naturali tendenze,di porre la virtù e la beatitudine in un sublime disprezzo dei beni della vita;m a scesero più basso restringendo l'una e l'altra al godimento dei piaceri del corpo; e riducendo i piaceri dell'animo alla speranza e al ricordo dei piaceri del senso.Nel che essi secondavano bruttamente l'abbandono sensuale dei tempi; nè già mi reca maraviglia,in quella età in cui,rotto il freno ad ogni licenza, si maturava negli ozj voluttuosi la servitù della rono in logica,stante che se Platone,giunto alla nozione suprema dell'essere,se ne faceva scala per salire agli universali divini, e Aristotile distinguendo dal senso l'in telletto, poneva in quest'ultimo l'apprensione dell'uni versale, gli Stoici non ammettevano che il senso, e dal senso desumevano la necessità della scienza; peggiora rono finalmente in morale all'osservazione compiuta e perfetta delle tendenze naturali, qual era nell'Accademia e nel Peripato, sostituendo un esame sempre più povero e sminuzzato della coscienza morale,onde il concetto del bene diventò più che umano, e quell'idea solitaria e i m passibile della virtù parve quasi uno scherno in mezzo alle infinite sventure deitempi.(Cic.,De Fin.,IV,V. Ritter,XI,L. 1,2,3,4.) Grecia, quando la Nuova Commedia svelavaagliocchi delle moltitudini affollate le più seducenti sembianze del vizio,e ne'ginnasj d’Atene convenivano le meretrici a disputare co'filosofi,immaginarmi Epicuro che siede dettando nei suoi giardini in mezzo alle gioje del convito i precetti della morale.Eppure più secoli dopo in una etànon meno ar rendevole al senso di quella d'Epicuro,e che precedè di poco quel tuono di uno dei più grandi rivolgimenti eu ropei, v'ebbe chi nelle scuole de'filosofi difese Epicuro mostrando velato nei suoi precetti morali sotto l'appa rente arrendersi al senso un rigore più che da stoico; ma quel rigore, nota bene CICERONE (De Fin.), e r a un finto stoicismo e una maschera da saggio,che mal si addiceva sul volto del filosofo gozzovigliante,era una sod disfazione ch'e’dava,malgradosuo,all'autoritàdelsenso morale e della pubblica opinione. E poi,se quel sistema mancava d'ogni fondamento scientifico,come poteva cer care nella necessità dei principj ilpernio della morale?E che tutto per Epicuro fosse relativo,contingente,fuggitivo, nulla universale,necessario e assoluto, lo mostra il con cetto ch'e’s'era fatto del giusto,stabilito da lui come una norma destinata a tutelare la vita del saggio,e che quindi mutava sostanzialmente a seconda degli interessi civili.Posto così a capo dei precetti morali il puro sen timento animale,non poteva non derivarne una logica (o,come Epicuro la chiamava,una Canonica) che peggiorasse il sensismo del Portico e non movesse un passo oltre la sensazione. Infatti, mentre gli Stoici andavano almeno fino all'idea che proveniva dalla percezione, e passavano dal soggetto all'oggetto per l'attinenza di causalità (Vedi CICERONE nel secondo degli Accademici), Epicuro,lasciata da parte l'idea,riconosceva il criterio del vero nella sola realtà della sensazione, e negando che dal senziente si desse certo passaggio all'entità del sentito, lastricava la via all'idealismo degli accademici e alle dottrine scet tiche d'Enesidemo e di Sesto Empirico. Infine; negata ogni interiore attività dello spirito, riconosciuta nella sola opposizione dei resultati sensibili la verità e la    falsità della sensazione,ristretti i fondamenti delle inda gini scientifiche alla pretta significazione delle parole, a m o 'dei Nominalisti; ecco in due parole la logica dell’Orto (Cic., De Nat. Deor.) Nè a diverso cammino si volgeva la fisica fondata da Epicuro sull'atomismo meccanico di Democrito. Ora,se ben con sideriamo, questa dottrina naturale del filosofo di Samo paragonata al dinamismo stoico è un nuovo perverti mento della ragione scientifica,e più che con la filosofia del senso si accorda con quella della materia. E di fatto, laddove gli Stoici che avean molto de'materialisti, pur trascendevano il fenomeno sensibile,e vi rinvenivano l'intima energia, l'intimo atto che dava vita e movimento alle cose, gli Epicurei lasciando da un lato la potenza nascosta, se ne stavano contenti agli effetti, cioè alle trasformazioni esteriori delle molecole materiali. Quindi la dottrina d'Epicuro intorno agli atomi, mentre,come nota il Ritter, ha l'apparenza d'essere la confutazione della sua logica materiale fondando tutta la scienza del mondo su quelle nature elementari, non accessibili al conoscimento, n'è invece (dico io) la riprova maggio re, perchè io non veggo in quelli atomi se non un abbaglio di fantasia che pretende spiegare in modo ar cano i fenomeni più ovvj dell'aggregazione e della dis gregazione molecolare.(De Fin.,L.I.)Che manchi,come io diceva più sopra,nelle dottrine del filosofo di Samo qualunque criterio di scienza, si vede quindi da ciò che in quelle intimamente repugna fra i principj e le con seguenze. Egli non ammetteva nell'ordine dell' essere niente che non cadesse sotto l'apprendimento dei sensi; ma poseaprincipiodituttelecoseilvuotoimmensoegli atomi nè sensibili in modo alcuno nè intelligibili. (De Fin.,L. 1. 6.) Credè immaginando la spontanea diversione degli atomi dalla perpendicolare, sottrarsi alla inesora bile legge del Fato; m a s'imbattè in un'altra potenza non meno cieca e inconcepibile, nella potenza del caso. (De N. D.,L. I;De Fato, C. X.) Finalmente un ultimo indizio di quanto poco conto ei facesse dei veri i m m o r  tali presenti alla coscienza dell'uomo, è che voleva spe gnere per mezzo delle sue indagini fisiche quel concetto arcano dell'infinito per cui la nostra mente dalle cause seconde si leva fino alla Causa prima, quell'intimo senso di stupore e d'ammirazione che destano in noi,le tempeste, ifulmini,le meteore,icieli sereni,lenottistellate,le so litudini de'mari, voce della natura a cui risponde dal profondo dell'anima un'altra voce che ci parla di Dio. (Lucr.,De rer.nat.,Ritter,L.X,C.II.Vedianche gli op. di Plutarco tradotti dall'Adriani: 1. Che non si può vivere lietamente secondo la dottrina di Epicuro;2. Della superstizione.). Contemporaneo d'Epicuro, e un poco posteriore a Zenone,poneva Arcesilao i fondamenti dell'idealismo ac cademico. L'incertezza delle notizie intorno alla sua vita e ai suoi scritti ha dato occasione a purgarlo dall'accusa di filosofo dubitante,dicendosi ch'e'non negava ilpositivo delle dottrinesocratiche, ma soloopponevailsuodubbio temperato al dommatismo stoico di Crisippo (Vedi Gautier de Sibert, Mem. de l'Ac. des Inscrip. et Bell. Lett., tom.XLIII),e Sant'Agostino nel libro Contra Academicos, L. III, p. 111), ci rappresenta questa dottrina come un domma filosofale, svelato prima nell'insegnamento del l'antica Accademia, e ristretto poi nel mistero all'appa rire del sensismo stoico, e adombrante l'intimo significato della filosofia di Platone: due essere i mondi, uno intel ligibile, l'altro sensibile; quello vero, verosimile questo, perchè fatto a somiglianza degli archetipi eterni; del primo per via delle idee generarsi nel saggio la scienza, del secondo una semplice opinione di verosimiglianza.M a quando io penso che il vescovo d'Ippona dettava quel libro poco innanzi la sua conversione, scampato appena dal dubbio della nuova Accademia, e che per guarire lo scetticismo inveterato del tempo cercava le più riposte armonie della sapienza antica colle dottrine cristiane, attingendo principalmente a fonti neoplatoniche; quando ritraggo dalla testimonianza concorde dei più deglistorici che Arcesilao andò più là di Socrate, dicendo non potersi nè anche sapere di saper niente, che aprì scuola d'insegnamento pro e contro ogni opinione, negando in tal modo il vero assoluto e ammettendo soltanto quello relativo ai principj d'ogni sistema; e che finalmente quel suo idealismo operò direttamente sul dubbio univer sale degli Empirici; allora son tratto ad attribuire a un pervertimento delle dottrine Socratiche, e alla efficacia de’tempi quello che Agostino riferiva al semplice accor gimento d'Arcesilao.(Cic.,De Oratore,III,18.)Socrate opponendo all'orgoglio del sofista la modesta affermazione del saggio,negava potersi trarre da una cavillosa dialettica l'onnipotenza della ragione, e dalle dottrine meccaniche degli lonj il conoscimento intimo delle cose.Platone tenne fermo quel dubbio, temperandolo col conosci te stesso, e sceso a considerare i più riposti veri dell'umana coscienza, vi riconobbe il combattimento della ragione coll'appetito, dell'intelletto colla carne, quel non so che d'immortale e di terreno ch'è in noi, e che lampeggia nelle serene aspi razioni del vero,del bello e del buono,e s'abbuja nelle tempeste de’sensi;quindi trasportando quell'intimo co noscimento all'esteriore forma delle cose,e al giudizio della loro perfezione, ne derivò la dottrina dell'ente e del non ente, della üln e del c o s. E qui (si noti) consisteva essenzialmente il positivo e il negativo delle dottrine platoniche. Poneva egli, è vero, da un lato il concetto della scienza nel salire dai particolari agli universali,da ciò che muta a ciò che non muta, dalla sensazione al l'idea che rappresenta l'essenza, e il fondamento della sua dialettica stabiliva nel cogliere fra i molteplici ele menti de'fatti particolari il concetto supremo che tutti li contiene.Ma d'altra parte mosso dall'idea trascendente della scienza,e dalle tradizioni delle dottrine panteistiche orientali ed eleatiche, onde germinava il dualismo, egli faceva del particolare, del mutabile, del sensibile un che intimamente oscuro,e non soggetto al conoscimento,perchè partecipante della materia che è l'opposto dell'ente,e alle Matematicheealla Fisicaindagatrice de'fattinegònome di scienza. Si dirà forse ch'e'rimediava a questa dualità riconoscendo necessaria attinenza tra gliArchetipi divini e le cose, e nella mente dell'Artefice eterno che le informava della perfezione di quelli, e nella mente dell'uomo per via della reminiscenza, onde per lui si dava reale pas saggio dalla opinione al sapere; m a la illazione del d u b bio, che scendeva dalle premesse del suo sistema,non si arrestava, perchè, se a Dio è coeterna la materia,e l'una è negazione dell'altro, chi mi assicura che fra termini sì disparati possa darsi attinenza di conoscimento?nè,derivato da Dio l'intelletto, basta la sola ipotesi ch'egli fingeva della preesistenza degli animi nostri in una vita anterio re,e un debole legame di verosimiglianza tra iparadigmi e le cose,'per verificare la certezza di quelle notizie che civengonodaicontingenti.E perfermo,indebolitacosìdal principio della filosofia platonica la relazione tra il cono scente e ilconosciuto,non v'era che un passo a negare o l'uno o l'altro di questi due termini; e il termine intelli gibile negarono gli Stoici, alle cui innovazioni aveva aperto la via il semi-panteismo materiale del Peripato, e quella negazione sensistica esagerarono gli Epicurei col restrin gersi nello studio della materia; restava a trarre l'altra conseguenza del sistema platonico negando il sensibile, e ciò fece Arcesilao colla sua dottrina ideale-scettica, scetticismo però non al tutto compiuto, perchè non n e gava l'entità del vero nelle cose, m a poneva soltanto in dubbio la loro corrispondenza reale coll'apprensione del l'intelletto. È dunque vero in parte quel che affermava Agostino che la dottrina della nuova Accademia (o media che voglia chiamarsi) ebbe la sua ragione d'origine nel fondo del sistema di Platone,e la sua ragione di svolgi mento nel sensismo contemporaneo di Crisippo, m a è anche vera l'osservazione del Ritter che quel metodo di dubbio fu corruzione del metodo socratico, e resultò dall'idea della scienza qual era nell'antica Accademia,idea troppo trascendente la certezza naturale,e che togliendo l'atti nenza tra il soggetto e l'oggetto imprigionava il pensiero nella coscienza solitaria, e al dualismo innestava la Critica della conoscenza.(Ritter,tom.XI,C. VI.Conclus.)  La quale non ancora matura e compiuta in Arcesilao si svolse nei successori, perchè,laddove il filosofo Pitano sostenendo la sua tesi contro i sensisti moveva special mente dalla fallacia de'sensi e dall'oscurità della materia; Carneade,che gli successe,introdusse in quella tesi maggior rigore scientifico,quando esaminò ex professo l'entità della relazione inclusa nel conoscimento, e distinguendo nella percezione sensitiva o rappresentazione due lati,uno ri feribileall'oggetto,l'altro al soggetto,mostrò XIX secoli prima del Kant non darsi vera certezza del sapere, per chè il conoscente trae in propria forma la materia del conosciuto. V'ha egli dunque un nuovo peggioramento in Carneade? Sì; perchè e'negò fede espressamente alla validità della ragione, dicendo non potersi dare un crite rio certo pel ritrovamento del vero, e dovere contentarsi il sapiente della semplice verosimiglianza; onde per lui l'idealismo accademico si accostò sempre più alla nega zione universale, che compiendo le dottrine anteriori di Pirrone, ricomparve più tardi;e n'è prova evidente il pas saggio ch'e'fece dal dubbio sui fatti esteriori al dubbio sull'entità oggettiva delle idee universali che si specchiano nella coscienza, manifestato da lui ambasciatore per gli Ateniesi in Roma nel discorso sulla giustizia,dove to gliendo nota d'universalità e d'assolutezza al concetto del bene,abbattevaifondamenti dellamorale(Cic., De Rep., L. 1. Ritter,L. XI,Cap.VI.) 5.E ildiscorsodiCarneadeudivanoaffollatiiRomani, nella cui patria splendeva quella gran scuola paesana dei Giureconsulti dove l'idea della personalità umana,e la n o zione del dovere e del diritto si desumevano da principj d'immortale necessità, e dove la natura della legge dovea definirsi più tardi congenita alla natura di Dio.(V. Cantù, St. Un.Brucker,Degerando,Ritter,Kuehner.Cic.,Tusc.IV, 1,2,3.) È noto infatti come fino dal secolo XVII G. Batt. Vico nel suo libro De antiquissima Italorum sapientia indagando nella storia de’fatti umani iprincipj universali che reggono il sapere, trovasse vestigj di antichissime e profonde speculazioni ne'linguaggi primitivj d’Italia; il che,se non prova che presso quei popoli, come ad esem pio i latini (intesi per lungo tempo e unicamente ai ne gozj civili),fiorisse un vero e proprio esercizio d'indagini scienziali, mostra però che v'era nel loro ingegno un'in tima disposizione a filosofare. E questa disposizione d o veva attuarsi quando ilpensiero latino libero dalle stret tezze presenti, e sollevato a un ideale più ampio,dal sen timento di nazione si sarebbe volto a considerare l'umana natura specchiata in sè stesso, e nell'universalità della storia. Queste erano le preparazioni e le cause del fatto; l'occasione esterna venne dalla celebre ambasceria di Cri tolao, Carneade e Diogene babilonese. (A. di R. 585. V. gli autori soprac.) Volgeva intanto a metà ilsecondo se colo innanzi l'Era volgare,e Roma,vinto Antioco in Asia, distrutta Cartagine,e sottomessa definitivamente la Grecia colle guerre Macedoniche, e colla memoranda presa di Corinto,riceveva dai vinti la tradizione delle arti e delle discipline civili per parteciparle novamente e sott'altra forma all'Europa ed al mondo. Ma quelle arti e quelle discipline che giungevano d'oltremare non più informate dalla libera spontaneità dell'ingegno dei padri, educato alla scuola del sentimento civile e del magistero divino, ma guaste dal dubbio della nuova Accademia,e infette da signorie corruttrici e da profonda sensualità di costu mi,trovarono nei Romani dismesso l'abito della severità antica, e omai volgente a rovina quella repubblica inde bolita dalle mollezze d'Affrica e d’Oriente. Sallustio, C a til.,C.X.c.f.XI.XIV. Non èquindiamaravigliarechenon ostante i tentativi di molti ingegni valorosi, dall'unione di due civiltà semispente non nascesse un grande rinno vamento; chè ogni rinnovamento è possibile quando nelle rovine dei popoli s'accoglie una favilla immortale di vita, e un impulso efficace li risospinge ai principj; non possibile allora,in quelli anni ultimi dell'Era pagana, in cui, ecclissato ogni lume d'antiche tradizioni, spenta la famiglia e ridotto in pochi lo stato, Europa, Affrica ed Asia precipitavano nella barbarie. Nè c'inganni quel moto apparentemente efficace di letteratura e di scienza ma  era 3   nifestatosi nelle città greche, e nelle corti di Pergamo e deiTolomei.Tranne inRoma, dove fino allamorte d'Au gusto durarono potente incitamento alla libertà degl'in gegni le sembianze,e la memoria degli ordini repubblicani, nel resto d'Europa nell’Asia e nell'Affrica le lettere e le scienze doventarono trastullo di principi e di cortigiane, o sollievo di popoli in gioconda schiavitù sonnecchianti, o (come apparisce da Filone Ebreo,dalla Kabbala,da Apol lonio Tianeo,Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio ed altri) doventarono contemplazione solitaria di pochi stu diosi, onde alla spontaneità dell'arte che crea sottentrò l'erudizione ragunatrice dei commentatori e degli illustra tori, e il panteismo greco -asiatico da cui poi derivarono gli Alessandrini; e un vero e fecondo avanzamento ebbero soltanto le scienze matematiche e d'esperienza sostenute dai principi e dalle città mercantili e dalla agiatezza dei tempi.Ma d'altra parte (ed è un esempio che s’è rin novato più volte) indietreggiavano ogni giorno più le di scipline speculative;nè solo (come vedemmo)quanto alla materia,ma altresì quanto alla forma scientifica dei si stemi;perchè, se è legge connaturata all'umano intelletto che in quella dirittura necessaria di relazioni, che passa tra il soggetto esaminato e la riflessione esaminatrice, consista intimamente il metodo d'una scienza,una volta guasta o distrutta la notizia dei veri principali, se ne scom piglia l'indirizzo della riflessione, non si ravvisa più chiara l'integrità della coscienza su cui cade l'esame,e n'è dis fatta la scienza. Richiamando ora in breve le cose discorse, che mai ci mostra la storia della filosofia da Socrate a Cicerone? N o n altro che un continuo scadere della riflessione scientifica da sistemi più ideali e che al sentimento del divino e del l'immortale accoppiavano il rispetto delle più antiche e v e nerate tradizioni, ad altri infetti di materialità e dispregia tori d'ogni magistero divino ed umano;quindi da dottrine che offrono più ampio disegno di riflessione,e più perfetto ordinamento scienziale,si sdrucciola ad altre che alla c o m prensione totale della coscienza e delle sue relazioni fanno seguire un esame monco,spicciolato,minuzioso,eaimetodi positivi e dogmatici (benchè misti di legittimo esame) im e todi semplicemente negativi e gl'inquisitivi. Questo è il pen dío naturale del pensiero filosofico in quell'età,che dalle altezze del disputare platonico ci conduce nelle ruvide a n gustie di alcuni trattati aristotelici,dagli archetipi eterni, all'anima informatrice della materia corporea, poi al Dio animante di Zenone e agli aridi sillogismi di Crisippo per terminare nel materialismo d'Epicuro, e nella negazione della nuova Accademia; che infine dalla interpretazione sublime della Mitologia,qual era in Platone,ci guida all'in terpretazione fisica e storica degli Stoici e d'Evemero. Ma la nuova Accademia di contro alle dottrine d'Epicuro,se non forse quanto alla materia, era un nuovo peggiora mento quanto alla forma scientifica, perchè Epicuro rico nosceva almeno molti veri, e offriva un disegno di pro prie dottrine sulle principali teoriche della scienza; gli Accademici negavano soltanto, e, tranne poche e sparpa g l i a t e affermazioni i n fisica e d i n moral e, restringevano il soggetto della filosofia al problema del conoscimento; ora da questo idealismo che solo ammetteva pochi veri par ticolari, e scioglieva ogni attinenza del conoscimento coi proprj obbietti, non v'era che un passo alla negazione scientifica d'ogni verità della scienza, e da questa al d u b bio popolare e grossolano e ai sistemi empirici e positivi che non sono più scienza. E anche allora fu detto o sot tinteso da uomini dottissimi che unico criterio del vero era il mancare d'ogni criterio,che la scienza era ilm e todo,e che unica e naturale forma del pensiero filosofico era la storia;e da questi abbagli di critica stemperata che sirinnovano anche oggiinFrancia,inAlemagna einItalia, nacque l'ecclettismo erudito degli Stoici e de'Peripatetici, e le dottrine empiriche d'Enesidemo e di Sesto,come oggi dagli eccessi della critica Kanziana pullularono gli Empirici Alemanni, l'Ecclettismo del Cousin e la Filosofia P o sitiva di Augusto Comte.In quelle condizioni della filosofia era,com'oggi,indispensabileunariforma,elariforma,come moto contrario alle cagioni del male, dovea consistere segnatamente nel tornare ai princip j della coscienza n a turale, abbracciando la universalità dei suoi veri, e affer mando interoeindivisibileciòchelesetteaffermavano spar pagliato e diviso.Fu questa l'opera immortale di Cicerone, e a tentarla egli ebbe occasione e conforto dalle qualità dell'ingegno latino, mosso da antiche tradizioni e da indole propria allacomprensione delle attinenze scienti fiche, dallo stato politico e civile di Roma, e dal contrasto ai dubbj che laceravano la scienza. Di fatto, se era pos sibile una riforma in tanto scadimento di civiltà e di dot trine, più che altrove ella dovea tentarsi in Italia ed in R o m a, dove le sacre tradizioni primitive s'erano conser vate più schiette per opera degli affetti di famiglia e d e gli ordinamenti civili; durava ancora potente l'efficacia della civiltà etrusca ed italica, ed ora dilatato il dominio romano all'Europa, all’Affrica e a gran parte dell'Asia, vi correvano,come a centro comune delle genti conosciute, la scienza, la letteratura, le arti, le industrie, compagne della grandezza, e vi s'accoglieva,quasi a compire la m a e stà della gran repubblica dominatrice,lacoscienza del ge nere umano.Quindi in Roma era più che altrove potente ilsentimento dell'universale, condizionenecessariaal na scere della Filosofia. D'altra parte,se volgiamo gli occhi alla Grecia,ci si presenta un turbinìo d'opinioni e di sette a cui non tien dietro la storia; la filosofia era lacerata in sistemi che ponevano la scienza nel paralogisma, e sempre più tralignanti dagli istitutori scendevano il pen dío della negazione universale; gli Epicurei e i Cirenaici, facili secondatori della corruttela dei tempi, ogni giorno più sprofondavano nell'ateismo e nel senso;i Platonici e iPeripatetici,come Cratippo,Stasea,AndronicodiRodi, Alessandro Afrodiseo si diedero all'erudizione, e poichè non sapevano creare nulla di nuovo,rimestarono con cri tica infeconda le dottrine anteriori; lo stoicismo con P a nezio e con Possidonio, allontanatosi dall'aridità delle dottrine di Zenone, favorì l'eloquenza trattando la filoso fia in modo più popolare,e ravvicinandosi alle altre scuole socratiche; ravvicinamento anche più manifesto in Filone e in Antioco,contemporanei ambedue e maestri di Cice rone, l'ultimo dei quali segnatamente intese a conciliare il Portico colla nuova Accademia,e riconobbe la validità del conoscimento. Infine secondavano da un lato quell'in dirizzo le dottrine romane qual più qual meno imitatrici delle greche, e perciò prive di u n metodo proprio e di proprie speculazioni; mentre dall'altro lato (sebbene al quanto più tardi) si apparecchiava nelle dottrine de'N e o platonici e Neopitagorici greci un congiungimento tra la sapienza orientale e le scuole socratiche. Sembrerà forse a qualche lettore che dettando questi cenni sui principali sistemi antecedenti a M. Tullio, ci siamo allontanati di troppo dai confini di una semplice introduzione; m a il rimanente di questo discorso farà m a nifesto che a ben chiarire la natura del filosofo nostro,i suoi intendimenti,lefontidellesueopereeilconcettoche egli ebbe di riformare e riordinare la scienza, era neces sario distendersi alquanto intorno alle scuole precedenti e contemporanee e all'efficacia loro sulle parti della filo sofia. Per fermo allorchè l'oratore latino, fuggendo nella solitudine di Tuscolo e di Cuma il cospetto degli scelle rati,poneva mano all'Ortensio, appariva,come ben notailRitter,una straordinariapo vertà di speculazioni scientifiche in tutta Europa; poche e sparpagliate verità rimanevano intatte nei fondamenti del sapere; l'umana coscienza illuminata una volta dai principj morali, allora in quella rovina d'ogni umano prin cipio taceva, e al mancare della materia desunta dalla considerazione dell'animo umano,la forma scienziale, seb bene apparentemente raffinata, impoveriva ogni giorno. Impoveriva di fatti la logica, venuto meno colle dottrine di Zenone il vero concetto del principio e dell'atto del conoscimento, e ridotta da Arcesilao e da Carneade a cogliere solo, sfuggendo gli universali, le contradizioni particolari dei varj sistemi;il semipanteismo stoico e dei Platonici posteriori, confondendo sempre più l'ente col non-ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, uccideva la fisica e s'attraversava al buon uso dei m e  37   todi sperimentali; la morale per ultimo risentiva d'ogni setta,massime della epicurea, le cui ultime dottrine ve nute in luce nel secolo scorso dai papirj Ercolanesi colle opere di Filodemo Gadarense, contemporaneo e famigliare di CICERONE, testimoniarono anche una volta la vacuità e i vaneggiamenti di una scienza decrepita.(Vedi Hercu lanensium Voluminum quue supersunt.Nap.,1793.) Pertanto in quelle condizioni di civiltà e di dottrine due sole vie rimanevano aperte all'indirizzo del pensiero speculativo; o un ecclettismo erudito, o un ritorno all'uni versalità e all'unità della scienza coll'indagine dell'uomo interiore,del senso comune,e delletradizioniscientifiche e religiose; impresa che, sebbene difficilissima e degna di sublimi intelletti, non poteva esser sorgente a specula zioni copiose, mirando più che altro a sceverare il certo dall'incerto, il teorematico dal problematico, il necessario dal mutabile, il consentito dal disputato. La qual cosa, mentre è una conferma dei meriti di Cicerone come filo sofo,e della modesta grandezza della sua dottrina, ci spiega il divario notevole che lo distingue dai filosofi contem poranei, e la brevità delle speculazioni latine; e di fatti, se è vero che la storia della filosofia ci offre a quegli anni in Roma un ecclettismo erudito, testimo nianza imperfetta dell'universale disposizione degl' inge gni a ritornare sul passato, e a ricostituire la scienza sull'armonia delle attinenze universali, è anche vero che Cicerone, solo tra i suoi contemporanei, tentò ridurre l'ec clettismo romano a vera e propria forma di scienza, imi tatore e seguace di quella scuola dei Giureconsulti, che desumendo dalle consuetudini e dal gius naturale la santità delle leggi, aveva aperta la via ad un ritorno della rifles sione filosofica sulla coscienza morale. Quella sentenza del Segretario fiorentino, che af ferma,doversi ogni umana istituzione ritirare verso i principj, fa manifesta a chi consideri il cammino del pensiero e delle opere umane nelle età della storia,una legge di scadimento e di progresso, di barbarie e di ci viltà, di rovine e di restaurazioni, che si verificò in ogni tempo, così negli ordini civili,come in quelli della filo sofia. La ragione di questo fatto m i sembra chiara e nel l'un caso e nell'altro;è chiara negli ordini civili,iquali, se hanno per principio e per fine l'adempimento delle necessità umane e la conservazione del viver sociale,una volta allontanati da quello riescono a contraddire la loro natura; è chiarissima poi nella scienza, e massime nella filosofia, che costituita nel proprio essere di scienza pri ma da un ripiegarsi della riflessione sul pensiero come pensiero,e sulle verità universali,ricereimmediatamente dalla natura ilproprio soggetto,ipostulatiedilmetodo. La filosofia dunque,come scienza sovrana che ha imme diatamente innanzi a sè la ragion di sè stessa, è ripen samento del pensiero naturale e delle sue leggi,è,in una parola, ripensamento della natura; la qual cosa concessa, sembra doversi dedurre ch'ella abbia altresì nella natura la possibilità di un indefinito svolgimento, e la possibilità delle proprie riforme, se pure non vuol pensarsi che l'ef fetto sia inadeguato alla causa, e la vita dell'animale e della pianta alla virtù generativa del proprio germe.A chi affermando diversamente volesse mostrarmi, o che il pensiero non vale a trar fuori dalle prime notizie, con progresso indefinito di dimostrazione,la scienza, o che la riflessione del filosofo può introdurvi alcunchè non sup posto antecedentemente dalla natura, io addurrei per ragione la coscienza, spettacolo sublime dei fatti interni e dei più ardui problemi sulle verità principali, evidente e misterioso ad un tempo,dove si acchiude come in ger me la possibilità del sapere che si svolge ne'secoli, ad durrei per ragione la storia,che ci mostra d'età in età i più grandi intelletti muovere alla ricerca del vero ignoto dall'affermazione compiuta della coscienza, deftinirne le più alte questioni concordemente alle tradizioni più a n tiche, e alla parola del genere umano e di Dio, e fra i delirj e i vaneggiamenti delle sette conservare e tra mandarsi l'un l'altro la Filosofia perenne. La testimonianza più lampeggiante di questa verità ne’secoli pagani sono per certo le due riformedi Socrate e di Cicerone; entrambi trovarono la filosofia perduta in dubbiezze infinite; entrambi la rilevarono con uno sforzo supremo tornandola alla coscienza; l'Ateniese divino in gegno, e iniziatore fecondo di un moto speculativo che non è ancora cessato;più modesto intelletto ilRomano, ma non meno benemerito della buona filosofia,per avere tentato, solo, in un popolo nuovo fino allora a ogni eser cizio di speculazione e nell'universale scadimento della civiltà e della scienza, ciò che il Maestro avea potuto compireincondizionimeno avversedelsapereedeipub blici costumi. Per convincerci di ciò,basta paragonare la Grecia dei tempi di Socrate con Roma dei tempi di CICERONE. E nel vero quel principio di corruzione e di sfi nimento che il paganesimo già da lungo tempo recava in sè stesso, s'era mostrato segnatamente in Grecia sin dal  D'altra parte i tempi in cui Cicerone, nato in ARPINO di famiglia provinciale il terzo giorno di gennajo -- coss. C. Atilio Serrano, e Q. Servilio Cepione), venne a Roma per apprendervi l'esercizio dell'eloquenza, che gli e via alle cause del foro e al pubblico arringo, sono tempi di più profondi rivolgimenti civili, conseguenza delle due grandi questioni che da lunghi anni empivano la storia romana, la prevalenza degl’OTTIMATI sopra la plebe, la prevalenza di Roma sopra il resto di Italia e del mondo. Cantù, St. Univ. Già sin da quando tonò la prima volta nel foro la potente parola de’ Gracchi, un moto profondo in favore delle franchigie popolari e dei diritti di cittadinanza romana s'e venne propagando in Roma e nel rimanente d'Italia, e quel moto crebbe cogli anni, e coll'ampliarsi della potenza repubblicana, e ruppe finalmente nelle dissensioni civili di Mario e di Silla, e nella guerra sociale. Cominciarono allora que'tempi pieni di sedizioni, di esilj e di sangue, ne'quali la libertà, mantenutasi per tanti anni incorrotta, fu solo istrumento dell'ambizione di pochi, e la gloria militare, guarentigia d'indipendenza, venne adoperata a sovvertire le leggi; non più libera nel fôro la parola degli oratori,non più inviolata la persona e le sostanze d'un cittadino romano, dispersa la pubblica ricchezza, venduti a chi più li pagava i consolati e le amministra l'entrare della guerra del Peloponneso; poichè pessimo segno del decadimento di un popolo è sempre il succedere delle interne gare alle lotte d'independenza; ma il vivo agitarsi della gente greca, calda ancora di gioventù vi gorosa,ne'commerci,nelle riforme civili,ne'viaggi,nel l'agricoltura, nelle arti, manteneva allora negli ordini materiali e politici qualche seme di bene,e negli ordini in tellettuali volgeva le menti allo studio amoroso del vero l'efficacia della filosofia italica, che avea recato dal l'Oriente gran parte delle tradizioni primitive, la fantasia greca, intesa a rendere l'animo interno nelle manifesta zioni dell'arte plastica, e infine una gagliarda educazione del pensiero nella dialettica de sofisti.   zioni delle province, interrotti i giudizj, annullati i d e creti del senato e del popolo; così passarono i settanta anni precedenti al regno d'Augusto, finchè l'abuso della libertà messe capo ad un governo assoluto.Causa di tanta rovina fu per fermo la crescente corruzione d'ogni principio morale, chè una libertà partorita dal sangue di tanti uo mini grandi, e da secoli di virtù, non si perde senza crollare i fondamenti dell'edifizio civile; e qual fosse a quel tempo la pubblica moralità in Roma,ce lo dice Sal lustio complice e accusatore dei delitti narrati. Sall., Catil. Quellacorruzione,profondanegli ordini civili, non appariva minore negli ordini dell'intel ligenza; innanzi tutto perchè, il progresso intellettivo di un popolo non andando mai scompagnato dal suo pro gresso morale,e la scienza essendo un che vivo, affet tuoso, e supremamente civile, l'armonia del sapere col l'armonia della vita è legge innegabile nella storia delle nazioni; e secondariamente perchè la scienza era stata sino a quel tempo più spesso istrumento di dominio in mano degl’OTTIMATI che manifestazione della coscienza e dell'indole latina. Scendono da questi fatti due considerazioni impor tanti sul nostro filosofo. Prima che, mentre (come nota più d'uno storico) la letteratura e la filosofia fu colti vata in Roma dai principali uomini di stato come arte di governo, Cicerone mostrò co’suoi scritti ch'e'fece della scienza e della cultura, non già un istrumento per domi narelarepubblicaesalireaglionori,ma,uomo dipace qual era,e conservatore degli ordini civili che avean for mata la gloria degli avi, studiò la scienza del vero l'arte del bello per contrapporla alla corruttela de tempi, e all'oscurarsi d'ogni principio morale. La seconda con siderazione è che Tullio s'oppose segnatamente, e con maggior vigore che a qualunque altra,alla dottrina degli Epicurei.Ora,se consideriamo che l'epicurea era quella fra le scuole contemporanee che avea posto più profonde radici in Roma,e che mentre ciò era al certo l'effetto della civile corruzione, ne doventava poi alla sua volta. M a qui c'imbattiamo subito in una questione importante. Cicerone e egli soltanto condotto a filosofare da cause straordinarie ed esteriori? quando si pose a scrivere aveva egli profondamente meditato sui più ardui problemi della vita e dell'animo umano? possedeva quell'ampiezza e universalità di studj speculativi necessaria per indirizzarlo nella via della scienza? Parecchi critici tra i quali Ritter, Degerando, e Bernhardy lo hanno negato, e affermarono non potersi chiamare “filosofo” vero esso che studia la filosofia come semplice istrumento dell'arte di persuadere. Sembra altresì che una simile domanda gli e stata fatta da taluni fra i contemporanei, quandoudiamo lui stesso, il testimone più autorevole nella storia della sua vita, re plicare espressamente dicendo: io nè cominciai tutto a un tratto a filosofare, nè da’primi anni della mia vita consumai in questo studio mediocre opera e cura,e allora, quando meno parera, io era maggiormente intento a filosofare -- De Nat. Deor. -- parole che potrebbero forse sembrare dettate da soverchio amore di sè stesso, se i primiindizj che ci rimangono de'suoi studj, e le opere antecedenti alle filosofiche non mostrassero assai che il suo ingegno sivolse'sui principj, sui metodi e sui più ardui problemi della scienza prima. Della qual cosa uno fra gl'indizj più certi si è l'ain piezza e la comprensione ch'e'diede a'primi suoi studj, indizio notevole per chi ricordi il disprezzo che i più fra i romani contemporanei affettavano verso la filosofia relativistica di Carneade. Ma in Cicerone apparisce un sentimento vivo, e quasi direi religioso, dell'unità della scienza; poeta elegante e vigoroso, poi traduttore di cose filosofiche, udiva i più eccellenti m a e stri d'ogni filosofia, studia con Q. Mucio Scevola il giure, coi più autoreroli cittadini la scienza delle cose una causa, vedreino essere immenso il beneficio che il grande uomo recò alla sua patria, più ancora che come riformatore filosofo, come riformatore civile.   civili, la declamazione con Esopo e con Roscio, ed ebbe a maestri di rettorica Molone Rodio, e Demetrio di Siria. Cic. Bruto, Forsyth, The life of M. T: Cicero, London. Nutrito l'ingegno con tanta larghezza di cognizioni, appena si fece avanti nel foro,si accorse,com'egli stesso ci dice (Brut.93,e pro Archia, V I), ch e a costituire il perfetto oratore non e su f ficientela destrezzaelacopiadella parola, ma bisognava che la materia scientifica desse pienezza e fondamento alla forma dell'arte; quindi ei considerò sin d'allora la filosofiainunmodo involuto e comprensivo come una scienza che abbracciava le regole della vita,dell'arte oratoria,del diritto, d'ogni disciplina umana e divina, philosophiam matrem omnium benefactorum benequedictorum(Brut.93); omnis rerum optimarum cognitio,atque in iis exercitatio philosophia nominatur (De Orat.); concetto univer sale, che apparisce in uno fra i primi suoi- scritti, nel de Inventione, dove parla delle virtù secondo le dottrine platoniche, e introduce l'eloquenza fondatrice delle città e del consorzio civile. Un tal concetto che certo doveva poi chiarirsi cogli anni, e uscirne un disegno più specifi cato di dottrine morali e speculative, mostra che il suo amore per la filosofia si accrebbe col suo progresso nel l'eloquenza, talchè in lui (come osserva Ritter) l'oratore preparò lo scrittore in filosofia, ed anzi leggendo attentamente il De oratore, il Brutus e l'Orator vi senti spirare da cima a fondo un alito di speculazione di scienza.Il dialogo De oratore è finto a imitazione del Fedro, e la tesi sostenuta dei disputanti appartiene intimamente alla filosofia, poichè trattasi ivi di sta bilire se l'eloquenza sia una dottrina universale od un'arte, s' ella debba restringersi al puro esercizio del la parola, o allargarsi alla scienza delle cose divine ed umane. E qui v'è contrapposto deliberatamente nelle stesse persone dei disputanti il concetto più ampio e più universale,e per conseguenza più filosofico,che Ci cerone avea del sapere, al concetto parziale e negativo de'suoi contemporanei; Crasso infatti, che rappresenta l'opinione dell'Autore, movendo dal principio che una sola è la sintesi delle materie scientifiche,e che su tutte può e deve cadere l'esercizio dell'eloquenza,reputa ne cessario al perfetto oratore quasi tutto lo scibile u m a n o, e conferma questa sentenza coll'autorità degli antichi presso i quali l'arte del pensare e del dire erano state sino ai tempi di Socrate indivisibilmente congiunte. Lo stesso argomento è trattato nell'altra opera Orator, dov'egli cercò pure l'ideale dell'oratore perfetto assumendo a principio le idee archetipe di Platone; talchè l'armonia della scienza colla vita, dell'una e dell'altra colla letteratura e coll'arte,l'accordo della materia scien tifica colla forma oratoria, e della ragione col gusto, costituisce nei libri rettorici di Cicerone una vera e pro pria unità di concetto. Considerando questo principio universale,a cui il filo sofo latino rannodava le discipline letterarie,e l'alto sen timento ch'egli ebbe dell'arte, io sempre meglio mi per suado che la vita d'oratore e di politico fu per lui un apparecchio necessario agli scritti speculativi. Più tardi, allorchèlalibertàvenneinmano degliscellerati,eilgran cittadino si astenne volontariamente dall'esercizio della pubblica vita,tornò agli studj non mai interrotti dalla giovanezza, cercandovi la pace che gli negava l'animo addolorato per le sventure civili,una nuova occasione ad esercitarvi l'eloquenza muta nel senato e nel fôro, un mezzo per confortare a virtù le fiacche generazioni, e arricchire la letteratura della sua patria di questa nuova gloria, sino a quel tempo non partecipata coi Greci (Tusc., De divin., De off., Ad f a m. ). Chi considerasse partitamente un solo di questi fini, senza comprenderli tutti nell'unità della mente e dell'animo dello scrittore, mostrerebbe di non averlo compreso; a lui l'inclinazione oratoria e l'amor nazionale porgevano il pensiero di un nuovo accordo della scienza coll'arte nelle opere di filo sofia, onde si aprisse questo nuovo campo intentato agli ingegni latini; i mali e le necessità del suo tempo gli consigliavano le dottrine morali e civili come riforma dei costumi corrotti, e dall'intendimento letterario,nazionale e morale insieme congiunti e contemperati uscì per l'ef ficacia dell'ingegno,degli studj anteriori, e della riflessione psicologica, la riforma speculativa. La quale armonia di cause determinanti e di fini fra l'animo dello scrittore ed i tempi, è notevole in Cicerone; perchè vi si fonda quella unione socratica tra il vero ed il buono, onde la filosofia di lui, come quella d'ogni socratico, tanto più è affermativa e solenne,quanto più gli argomenti metafisici hanno attinenza colle ragioni morali, nè ciò per quello che oggi si chiama senso pratico, e che si crede diviso dalla ragione speculativa, m a perchè appunto la ragione prima del conoscimento si riconosce identica colla legge dell'operare. Se tali erano i fini, con cui si accinse a filosofare, tra l'indole positiva e morale delle sue dottrine, e il loro cri terio speculativo non v'ha per fermo alcuna contradizione, chè anzi quella contradizione apparente,che Ritter e Bernhardy han creduto di rinvenirvi, si dilegua tosto quando raccogliamo dalla piena lettura delle opere filo sofiche un'idea complessiva del concetto della filosofia, e seguendo le varie definizioni ch'egli ne diede,perveniamo fino al punto in cui concepisce chiaro l'ordine scienziale. Il primo e più notevole concetto ch'egli ebbe della filosofia, considerata come vera dottrina, si è di una scienza moderatrice delle azioni e istitutrice della vita: vitæ philosophia dux, virtutis indagatrix, expultrixque vitiorum; animi medicina philosophia; a questo propo sito il conosci te stesso di Socrate ei lo prendeva in un senso puramente morale, senso che apparisce più volte nella Repubblica,e nelle Leggi, e nelle Tusculane, dove si agitano questioni relative alla vita e ai costumi,e per quanto abbiamo da chiari indizj appariva pure nell’Orten sio,opera perduta,dov'ei tesseva l'elogio della filosofia rac comandandola allo studio dei concittadini come dottrina su premamente morale e civile.(V.Hort.,fram.,e specialmente il fram. 21, L. I. ed. di Lipsia) Ora siffatto concetto involgeva di necessità un criterio scientifico; innanzi tutto perchè chi medita l'ordinarsi d'una dottrina scienziale, qualunque ella sia,ad un eser cizio d'operazioni, si suppone averne penetrato l'intima essenza in cui quel principio regolatore risiede; e poi perchè il vero relative alla vita,sebbene manifestoin noi pel sentimento morale, s'attiene alle parti più vive e più affettuose dell'essere umano,ond’è mossa la rifles sione a ripensare da sè stessa e con proprj principj l'ordine speculativo delle conoscenze. Pervenuto a tal punto il filosofo, non ha da fare che un passo per racco gliersi nella coscienza morale, e quindi trar fuori con metodo ascensivo e discensivo d'induzione e di deduzione tutto quanto il disegno dell'edifizio scientifico; la qual cosa apparisce a chi prenda ad esaminare in Cicerone l'ordinamento logico degli scritti morali. Dove si scorge com'egli procedendo di passo in passo nell'induzione, dall'idea morale di legge e di diritto, che lampeggiava nella coscienza d'ogni cit tadino di Roma,si levò a concepire un ordinamento di relazioni e di gradi dagli esseri inferiori a'supremi; re lazioni che intercedevano tra Dio e l'uomo per l'eccel lenza della ragione, tra uomo ed uomo per somiglianza di natura intellettuale e socievole; e quindi usciva una specie d'equazione ideale tra Dio e le creature, tra gli enti ragionevoli, e i non dotati di ragione, per la reci procanza dei doveri e dei dritti;e vi s'acchiudevano in germe Teologia naturale, e Antropologia, Cosmologia e Filosofia del buono. Questo largo disegno di veri morali fu il principio da cui Tullio moveva nella via della scienza, e lo mostrano i libri politici e civili antecedenti in ordine di tempo alle altre opere speculative. 3. Ora soffermiamoci un poco.Mostrato così per suc cinto quale idea egli avesse della Scienza prima e dei suoi principj, domandiamo che cosa debba pensarsi sul dubbio accademico quasi universalmente a lui attribuito. La questione su tal soggetto,disputata a lungo dai critici    e storici della Filosofia, durante il secolo scorso,mentre gl'ingegni si dividevano incerti tra l'amore dell'antico e la curiosità del nuovo,e l'Enciclopedia affermava dogma ticamente le sue negazioni, mosse ne'più de'casi dal pre supposto che Cicerone,come seguace della Nuova Acca demia, ponesse il dubbio universale a fondamento di scienza. Così opinò Bayle,e,sebbene alquanto meno risoluti,lo affermarono Brucker, Degerando e Bernhardy. Per combattere una siffatta obbiezione non rimanevano alla critica che due sole vie; o negare di pianta lo scettici smo della Seconda Accademia, o rifacendosi da un nuovo e più accurato esame delle dottrine di Tullio, cercare quale e quanta efficacia vi esercitasse quel dubbio, o come metodo semplicemente,o come principio fondamen tale ed interno. La prima di queste vie fu seguita dal sig.Gautier de Sibert in una memoria scritta da lui sui Nuovi Accademici,la seconda da Raffaele Kuehner.Ma il critico francese,sebbene dottissimo,quando volle mostrare che la Nuova Accademia non negava la possibilità della scienza, contraddisse alla storia, nè rispose al quesito del come conciliare la certezza dei libri morali di Tullio col dubbio quasi assoluto d'Arcesilao e di Carneade. L’alemanno mostra invece con maggior verità come il filo sofo nostro, seguace della Nuova Accademia quanto al metodo inquisitivo dei veri particolari,ne temperasse per altro il dubbio ravvicinandolo alle fonti socratiche. Ma ilKuehner,cheraccolseconstudioletestimonianze fatte da Tullio ne'più de'proemj sulla bontà e la modera zione del suo metodo,non ha considerato abbastanza nei libri morali come a quel precetto apparentemente negativo dinon cercare che il probabile,edirattenerel'assenso,con trappongasempre,ad esempiodiSocrate,l'altrosuprema mente affermativo del conosci te stesso.Nè il tornare che egli fa tante volte a raccomandare ilfamoso placito del savio ateniese, si prenda come artifizio rettorico,o come vano e miserabile ossequio alle tradizioni. L'esame più diligente e spregiudicato delle sue opere (io lo affermo sin d'ora) mostra che il dubbio universale e sistematico, il dubbio di Carneade,del Cartesio e del Kant,non antecedeva nella mente dell'oratore-filosofo allo stato di scienza. Egli,prima d'esserefilosofo,come uomo,come romanogiàsisentiva e si riconosceva nel vero;e quel vero,a cui l'animo spon taneamente piegava sin da'primi anni per inconsapevole virtù di natura,l'intelletto glielo mostrava più tardi adu nato, e come raccolto nell'evidenza interiore; evidenza non solitaria,non priva d'oggettività,non fenomeno puro, quasi paesaggi riflessi sulla tela da magico apparecchio dilenti,ma uno spettacolo interno,a cuirispondevano. tre grandi attinenze dell'uomo con sè stesso,coll'universo e con Dio; un'armonia d'enti che la scienza dovea tras formare in armonia di principj. “Nam quum animus cognitis perceptisque virtutibus, a corporis obsequio indulgentiaque discesserit, volupta  sed Delphico deo tribueretur. Nam quiseipsenorit,primum. A questo proposito ci giova riferire le sue parole tolte da un luogo eloquente del dialogo delle Leggi, dove egli stesso in propria persona descrive il concetto ed il metodo della scienza prima. Ita fit (così il testo latino, che io trascrivo per maggiore esattezza secondo l'ediz. di Lipsia riveduta da Klotz) ut mater omnium bonarum rerum sit sapientia, a cujus amore Græco verbo “philosophia” nomen invenit, qua nihil a dîs immortalibus uberius, nihil florentius, nihil præstabilius hominum vitæ datum est. Hæc enim una nos quum ceteras res omnes tum quod est difficil limum docuitutnosmet ipsosnosceremus:cujuspræcepti tanta vis et tanta sententia est,ut ea non homini cuipiam, aliquid se habere sentiet divinum ingeniumque in se suum sicut simulacrum aliquod dedicatum putabit, tantoque munere deorum semper dignum aliquid et faciet et sentiet, et,quum se ipse perspexerit totumque temptârit,intelliget quem ad modum a natura subornatus in vitam venerit quantaque instrumenta habeat ad obtinendam adipiscen damque sapientiam, quoniam principiorerumomnium quasi adumbratas intelligentias animo ac mente conceperit, quibus illustratis sapientia duce bonum virum et ob eam ipsam causam cernat se beatum fore temque sicut labem aliquam dedecoris oppresserit, omnem que mortis dolorisque timorem effugerit, societatemque caritatis coierit cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem su sceperit, et exacuerit illam,ut oculorum,sic ingenii aciem ad bona eligenda et reiicienda contraria, quæ virtus ex providendo est appellata prudentia, quid eo dici aut cogitari poterit beatius?Idemque quum cælum,terras,maria rerumque omnium naturam perspexerit eaque unde ge nerata,quo recurrant,quando,quo modo obitura,quid in his mortale et caducum,quid divinum æternumque sit viderit, ipsumque ea moderantem et regentem paene prehenderit seseque non unius circumdatum mænibus loci, sed civem totius mundi quasi unius urbis agnoverit, in hac ille magnificentia rerum atque in hoc conspectu et cogni tionenaturæ, diimmortales, quam seipsenoscet!quod Apollo præcepit Pythius, quam contemnet, quam despi ciet, quam pro nihilo putabit ea,quæ vulgo ducuntur amplissima! » Atque hæc omnia quasi sæpimento aliquo vallabit disserendi ratione, veri et falsi iudicandi scientia et arte quadam intelligendi quid quamque rem sequatur et quid sit cuique contrarium. Quumque se ad civilem societatem natum senserit, non solum illa subtili disputatione sibi utendum putabit, sed etiam fusa latius perpetua oratione, qua regat populos, qua stabiliat leges, qua castiget i m probos, qua tueatur bonos, qua laudet claros viros, qua præcepta salutis et laudis apte ad persuadendum edat suis civibus,qua hortari ad decus,revocare a flagitio, con solari possit adflictos factaque et consulta fortium et sa pientium cum improborum ignominia sempiternis monu mentis prodere. Quae cum tot res tantæque sint, quæ inesse in homine perspiciantur ab iis, qui se ipsi velint nosse, earum parens est educatrixque sapientia. De Leg. Qui s'espone a dettatura del nostro filosofo il suo metodo dell'osservazione interiore induttivo e deduttivo, quale uscì dalle dottrine di Socrate e di Platone, e si  continuò, accolto dal Cristianesimo, lungo le scuole m i gliori dell'universale Filosofia. Vi si distinguono tre cose: lo ciò che antecede; 2o ciò che accompagna; 3o ciò che sussegue alla scienza. Lo stato che antecede la scienza non è il dubbio, m a un riconoscimento pratico e speculativo dell'ordine universale.L'uomo ha innanzi tutto un sentimento ar cano della sua somiglianza con l'Essere infinitamente perfetto; e quel sentimento della dignità umana, e quel l'aspirazione all'immutabile e all'assoluto in cui vero e buono sono congiunti, e la ragione procede da uno stesso fonte identica colla legge morale, risveglia in lui l'evidenza intima de principj speculativi, ond’e’si leva alla cognizione di sè stesso e di Dio, capisce pei mezzi l'eccellenza del fine a cui nacque, e costituendo in ar monia pensiero e volere,premette la riforma morale di sè stesso alla riforma speculativa.Due condizioni del sog. getto rendono possibile in lui la contempla zione dell'og getto che è scienza:prima la retta disposizione dell'animo purificato spiritualmente dalla morale, l'istinto sociale educato dalla vita civile, l'istinto religioso santificato e nutrito dal culto; in secondo luogo rende possibile la scienza la capacità delle potenze conoscitive, che non sa rebbero potenze ordinate alla notizia del vero,se un che di determinato e d'efficace, se una verità prima non le costituisse tali nell'essere loro;ma è prima necessaria la retta disposizione dell'animo,perchè ilpensiero avvalorato dalcuore (animo acmente) ravvisi nell'intellezione prima (adumbrata intelligentia), un po'confusa e indeterminata, le notizie riflesse. Ciò posto, si procede allo stato di scienza,e il filo sofo movendo dall'esperienza interiore, col soccorso della Dialettica dottrina delle conseguenze e conciliatrice dei contrarj, levasi alle ragioni supreme dell'essere, del co noscere e del fare,si forma i concetti d'origine e di fine, di contingente e di necessario, di temporaneo e di eterno, che gli sono via a discendere di nuovo alla notizia di sè stesso e del mondo, notizia comprensiva ed universale che lo palesa inferiore soltanto a Dio, eguale ai suoi simili, e cittadino dell'universo. 3. Dall'ordine universale della Scienza prima discen dono due dottrine applicate, e strette in vincoli di co munanza fra di loro: la eloquenza civile e l'arte dello stato. Tali erano per Cicerone i fondamenti, ed il metodo della scienza. Ora ecco, secondo che riassume un istorico recente della Filosofia, quali erano isuoi criterj: « Nella coscienza di noi stessi Cicerone, come Socrate,più di So crate forse perchè romano,sentiva l'universalità del vero, distinta dalle opinioni particolari,e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni uni versali anch'esse; e però egli inculcava sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo,ossia nella retta ragione (De off); e contro gli Epicurei fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc.e ne'Tuscul.e quasipertutto);echiama insoste gno il senso comune e le tradizioni umane e divine.Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di Dio e l'immortalità dell'anima umana,e dice ne' Paradossi contro gli Stoici: « Noi più adoperiamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pen sardellagente.»(Proem.) E nelleseguentiparolede' Tu scolani si vede com’ei raccogliesse,di mezzo alle opinioni varie,le tradizioni universali de'filosofi e le divine;« Inol tre,d'ottime autorità intorno a tal sentenza (cioè l'im mortalità dell'anima) possiamo far uso; il che in tutte le questioni e dee e suole valere moltissimo (in omnibus, caussis et debet et solet valere plurimum ); e prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate); la quale quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ) tanto più forse discerneva la verità.» (Tusc.,I,12).E tra'filosofi, ch'egli cita,preferisce appunto Ferecide,come antico,antiquus sane;e indine conferma l'autorità con quella di Pitagora e de'Pitagorici;il nome de quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun altro    paresse dotto. E dice più oltre che, secondo Pla tone,la filosofia fu un dono,ma quanto a sè,una inven zione degli dèi: « Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud,nisi, ut Plato ait,donum, ut ego, inventio deorum? » Nel che s'accenna il principio divino della Sapienza e della tradizione.(Conti, St. della Filo sofia) 4. Se per ciò che risguarda i principj e i fondamenti della filosofia egli mosse direttamente da Socrate affer mando la chiarezza naturale del soggetto scientifico,e l'efficacia della conoscenza, quanto poi al metodo più propriamente detto, indagatore dei veri particolari, fu se guace, o come ci dice egli stesso,restauratore della Nuova Accademia (deserte discipline et iam pridem relicte ), restaurazione che, a mio parere, può e debbe chiamarsi una vera riforma; perchè l'idealismo d'Arcesilao e di Carneade tralignava nel dubbio, e, piuttosto che all'An tica Accademia, si ricongiunse agli scettici dell'età italo greca e a Pirrone; m a Tullio attingendo alle fonti socra tiche si riscontrò nelle tradizioni genuine della sua scuola. Questo fatto s'è rinnovato in Italia nel secolo XVII, quando Galileo Galilei tornando al vero metodo aristote lico dell'induzione, restaurava la filosofia naturale; più peripatetico in ciò, come egli stesso scriveva al Liceti,di tutti i peripatetici de'tempi suoi. Riassumendo il tutto in poche parole, Cicerone attri buiva alla filosofia universalità di fini, di principj e di metodo, e tutto ciò comprendeva,come Socrate,nel senso generalissimo della voce sapienza, talchè dopo averla descritta ne'libri oratorj come un semplice esercizio di raziocinio, e in alcune opere morali come una dottrina puramente pratica e positiva,ne'Tuscolani e nel secondo libro degli Officj la chiamò con significato più largo: scienza delle cose divine ed umane e delle loro cagioni. Suolsi affermare comunemente dai critici e dai filosofi che Cicerone diè prova di scarso ingegno speculativo non componendo le sparse verità in un sistema ordinato. La quale accusa vuol bene determinarsi; perchè,se con essa   si nega che Cicerone aggiungesse copiose speculazioni alla materia delle dottrine contemporanee, e che componesse le verità antecedentemente trattate dalle scuole socrati che in un compiuto e perfetto sistema, ha ragione la cri tica, m a la critica ha torto,se vuol negare che a Cicerone mancasse qualunque disegno di scienza, o un proprio cri terio per l'ordinamento formale delle dottrine. L'affermar ciò, rispetto a Cicerone, importerebbe nel vero affermarlo pure di Socrate,e d'ogni altro riformatore; chè il sistema della filosofia di Tullio (se così vuolsi chiamarlo), come quello di Socrate, non è ordinato secondo un disegno po sitivo corrispondente all'ordine del soggetto ripensato dalla coscienza, m a si svolge nella stessa opposizione alle sette, e in quella opposizione egli scuopre il concetto della scienza,e il metodo,e i criterj che gli son guida,indizio manifesto che,mentre da un lato egli demoliva le dot trine sofistiche dei contemporanei, edificava dall'altro sui fondamenti incrollabili della coscienza umana. Ora si avverta come il considerare in tal modo questa temperata efficacia della speculazione di Tullio, che ri pensa e rifà le dottrine degli altri con un proprio criterio positivo di paragone e di scelta,in contrapposto alla pas sività negativa dell'eclettico erudito che ricopia quelle dottrine e le raguna nella memoria,anzichè comporle nella riflessione; è metodo forse non seguito fin qui dai prin cipali critici di Cicerone,e tale che potrebbe condurre a meglio comprenderlo e giudicarlo col chiarire molte que stioni, tra le quali non ultima quella sull'uso ch'egli fece dell'autorità quanto ai fonti delle sue dottrine,trattata a lungo in Germania, e sì bene dal Kuehner nel capitolo quinto, parte seconda della Dissertazione citata. E tale è il metodo che noi abbiam preso a seguire, ond'escono alcune conseguenze e regole pel nostro esame. In primo luogo, poichè solo per nostro avviso, il contrapporre Tullio a'suoi contemporanei può dimostrare quanta altezza d'ingegno e potenza d'analisi gli abbisognasse per isceverare dalla confusione de'sistemi le verità principali, chiarirle e ordinarle in forma di scienza, terremo l'uso   d'esporre ogni volta le principali opposizioni de' sistemi, e poi qual giudizio ne recasse il filosofo latino.In secondo luogo avremo questo a principio di critica, notato da altri, che, poichè le opere di Cicerone sono per la m a s sima parte dispute scritte, e, come tali, ritraggono nei varj personaggj il conflitto delle opinioni, e le nature differenti degl'interlocutori, convien distinguere con ogni diligenza quando egli riferisce la propria, e quando l'opi nione degli altri, quando egli stesso prende parte al dia logo, o si tien fuori, quando tratta ex professo una m a teria,oquandosoltantol'accenna (V.Degerando, Brucker, Kuehner, Middleton.) Finalmente si consideri bene che l'ordine di questo ragionamento mostrerà come una pro gressiva verificazione dei principj supremi nella mente di Tullio, a misura ch'egli passa dalla filosofia fisica alla logica, e poi alla morale; ed è perciò che qualche argo mento interrotto in una parte delle dottrine, verrà ab bandonato e poi ripreso in un'altra, quand'egli,conside randolo sotto un aspetto diverso, sempre più lo verifica, e sempre più lo chiarisce. Le fonti da cui trarre le dottrine di Cicerone, sono principalmente i suoi libri di filosofia, che ci pervennero la maggior parte, se n'eccettui le traduzioni Oeconomica Xenophontis,Protagoras ex Platone, Timæus de Universo (trad., come app. dal proem., dopo gl’Accademici; i libri vriginali, Hortensius de philosophia,Consolatio de luctu minuendo (scritta poco prima dei Tuscolani), De Gloria, Commentarius de virtutibus,Cato,sivelausM. Catonis, Deiure civili in urtem redigendo; de'più fra'quali rimangono frammenti. Gli altri, non interi tutti, e che in ordine di tempo si distribuiscono cosi: De republica,De legibus(composti dopo il De republica), Paradoxa,Academicorum (ne fece due edizioni dette Acad. priorum in 2 libri, e posteriorum,in 4 libri;della prima c'è rimasto il secondo libro, della seconda il primo; anno 709),De finibus bonorum et malorum; Tusculanarum disputationum (compiti avanti la morte di Cesare), De natura Deorum, De Divinatione, De fato, De officiis, Cato major de senectute, Lelius de amicitia (scritto dopo il Catone maggiore av.gliOfficj);furono variamente distinti dai critici secondo la loro materia e la forma. Ritter li distinse in riposti ed in popolari, clistinzione che più esattamente potrebbe ridursi all'altra de'dialoghi speculativi, come i libri Accademici, de'Fini, delle Leggi,della Natura degli Dei;dagli scritti che hanno È noto quanto siasi discusso tra i critici sulle dale dei libri di Cicerone.Cilusa principale del dissenso è il non trovarsi d'accordo quauto al determinare l'anno della nascita dell'Autore. Forsyth lo dice nato il 3 di gennaio, ma aggiunge in nota a p. 2, che, secondo il calendario Giuliano, egli sarebbe nato l'ottobre. In questo anno pongono la sua nascita Middleton, Kuehner ed altri autori meno recenti;onde seguita che,mentre, a cagione ll'esempio,essi fanno il De consolatione,l'Orlensio,gli Accademici, il De finibus e le Tuscolane, e le opere De Natura deorum, De Divinatione, De Fato, De Offi riis, Cato Vajor e Lælius; il Forsyth e l'edizione di Lipsia (riveduta dal Clolz so quelle dell'Orelli e dell'Ernesti), riferiscono i primi cinque trattati. Noi stiam o col critico di Lipsia, e col Forsyth,perchè mollo recenti,e temperati assai nei giudizj.Del resto di parecchie opere si conosce la data.Intorno a quella del De Republica e De Legibus rimane qualche incertezza. Il dott.P. Richarz. in una dissert., De politicorum Ciceronis librorum tempore natali (Wir ceb.), stabilisce avervi speso Cicerone oltre a dieci anni, Questa ed altre molte dis sertazioni di critici tedeschi e francesi, citate da noi,ricevemmo dalla cor. tesia dell'illustre A. Vannucci, a cui rendiamo pubblica testimonianza di gratitudine.  un fine pratico,ad esempio gli Officj,dell'Amicizia,iPara dossi, le Tusculane e qualche altro. Noi abbiam seguito l'altra distinzione più principale, ammessa da tutti icri tici, e che fino a un certo punto concilia l'ordine logico o sistematico o tematico  dei libri coll'ordine di tempo, tra le opere fisiche – filosofia naturalis -- De natura Deorum, De divinatione, De fato, e il Somnium Scipionis parte della Rep.), le logiche -- Academicorum, Topica, De inventione, etc. --, le morali – De finibus,Tusculanarum, Paradoxa, De legibus, De officiis, De republica, De senectute, De amicitia). Avvertendo che la distinzione non siprenda troppo assoluta, ma che si guardi alla qualità che prevale. Fonti secondarj, ma dausarsiconmolto riserbo, sono,secondo nota opportunamente Middleton nella vita di Cicerone,le Orazioni e l’Epistolario; e noi vi aggiungiamo le opere rettoriche, segnatamente il De Ora tore e l'Orator. La distinzione accennata delle opere fisiche,logiche e morali risponde al concetto della scienza, e al metodo della antica Accademia seguito da Tullio nell'ordina mento generale delle dottrine, e ne partisce la filosofia nelle tre grandi teoriche dell'essere, del conoscere e del l'operare. Premessi questi principj generali, si passi ora al l'esame più specificato delle dottrine. Il prendere ad esame con quella larghezza e diligenza,che è necessaria alla critica istorica, le varie parti delle dottrine tulliane, è cosa invero che ricerca un abito non ordinario di osservazione, e un sentimento vivo delle attinenze scientifiche; perchè, sebbene, come fu notato nel capitolo antecedente, non si trovi nell'Arpinate un pieno disegno di filosofia ordinata a sistema, basta leg gere alcuno dei suoi libri speculativi per accorgersi tosto ch'ei ritraeva da Socrate,non soltanto ilmetodo esterno del disputare e la sobrietà dell'esame, m a altresì quella riflessione larga e compiuta, onde l'Ateniese coglieva nel l'universo delle idee la unità della scienza. E di fatto socratici veri sono, come ben nota Ritter,tutti coloro che videro chiaramente la necessità di collegare la scienza de'fatti interni con quella dell'universo, l'osservazione morale coll'esperienza e la fisica colla psicologia. Nes suno dunque fu più vero e perfetto socratico del nostro Autore. Anch'egli si accorse, come già il suo Maestro, che se un sentimento naturale, abbenchè indeterminato, dell'attinenza tra il pensiero nostro e gli oggetti, mosse la riflessione ne'primi passi della scienza a riconoscersi per illusione identica col mondo esteriore,illusione da cui poi i Pittagorici, gli Eleati e gli Ionj traevano il pantei smo,e uscì la dialettica de'sofisti, un secondo passo a ristorare la scienza caduta nella materia e nelle astra zioni eccessive, doveva essere l'affermazione dell'uomo interiore, e di quella sintesi intellettiva e morale, sola realtà oggettiva, in cui mirando il pensiero potesse rav visaresèstesso in attinenza colle cose con Dio.Suquesti fondamenti Socrate restaurava la vera dottrina dell'es sere,dottrina che tratta di Dio,dell'universo e dell'uomo, considerati nella loro esistenza, natura e relazioni su preme, e abbraccia in sè le scienze fisiche e matemati che, la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia. Tutto ciò veniva compreso dagli antichi sotto il nome universale di Fisica (usato in più luoghi da Cicerone ), e la Fisica includevano nella Filosofia, perchè questa trat tando degli enti nel loro ordine universale contemplato interiormente dalla coscienza,porge alle dottrine d'osser vazione esteriore il soggetto e i principj. Or qui bisogna avvertire che questa unione intima delle parti scienziali, sentita vivamente dalle scuole antiche italiane, e confer mata da Socrate (il quale, nemico della fisica sofistica degli Ionj,favorì invece coll'osservazione interiore la fisica buona), dava occasione, come sempre, ad un bene e ad un male; il bene era l'altezza della riflessione scientifica, che comprendendo nell'unità de'principj l'intelligibile e il sovrintelligibile, la natura e il divino, scorgeva sempre più addentro i legami che stringono la teologia naturale, la psicologia e la cosmologia; il male era che le scienze sperimentali così intimamente collegate alla filosofia spe culativa,mentre se ne avvantaggiavano da un lato rispetto all'universalità, traendo dall'accordo colle altre parti del l'umano sapere occasione a più vera e perfetta compren sione della propria materia, dall'altra ne scapitavano quanto ai metodi, allorchè all'osservazione esteriore o induttiva, che sola ci può condurre alla notizia dei corpi, si volle sostituire la deduzione, che da pochi generalissimi, posati a priori, scendeva di salto, come nota Bacone, al particolarede'fatti. Due fontiperennid'errorenellescienze sperimentali furono pertanto il panteismo e il dualismo; ilprimo,perchè,data l'unità di sostanza,ne consegue la medesimezza dell'ordine ideale col reale,onde deduce il filosofo darsi vero passaggio dalle idee alle cose,senza necessità di sensata esperienza; il secondo, perchè, fatta coeterna a Dio la materia,ne viene alterato il concetto di finitudine, e il mondo si pensa non più finito e tem poraneo, m a infinito ed eterno, e animata la materia e incorruttibiliicieli;pertalmodo panteismo edualismo ci diedero la fisica fabbricata a priori, quale fu nelle scuole dell'India,nelle Pittagoriche, nelle Eleatiche, in Platone, negli Stoici e nei Peripatetici del medio -evo. Le quali considerazioni son necessarie,parmi,a chiunque voglia esaminare la metafisica di Cicerone, e chiarire come mai,mentre la fisica superioreeledottrinesuDio, sull'uomo e sull'universo sono fondate da lui sopra prin cipj sì alti, vi prendono pochissima parte e indiretta le indagini sperimentali. Ai tempi dell'Arpinate in cui, venuta all'ultima corruzione laGentilità, si rinnovarono esiesageraronotutti gli errori delle età anteriori, quello strano accozzo delle scienze fisiche colle metafisiche era venuto al suo colmo, e potente occasione di scetticismo era il contrasto delle opinioni. Ora v è un luogo sulla fine degli Accademici primi,dove Tullio descrivendo in persona propria la di scordia delle sette contemporanee nelle tre parti della    scienza,e volendo mostrare come quella discordia giusti ficasseildubbio dellaNuova Accademia,sitrattienepiùspe cialmente sulle dottrine de'Fisici (Acad.) D a quel luogo apparisce che il panteismo e il dualismo italico spingendo all'eccesso l'induzione astrattiva, per stabilire l'identità della sostanza prima, avean con cepito a priori un'essenza nascosta e universale delle cose distinta dalle loro qualità manifeste pel senso,e che si convertiva in tutti gli elementi; m a sulla natura di quest' intima essenza si disputava segnatamente tra le scuole pittagorica, eleatica ed ionica. D'altra parte sor geva questione tra le differenti scuole socratiche sull'or dine e sui destini dell'universo;gli Stoici ammettendo una continua successione di mondi, affermavano temporaneo il presente ordine delle cose; Aristotele lo diceva eterno; i primi trasportando l'immagine dell'uomo nel principio supremo, concepivano Dio provvidente nei particolari e negli universali; m a Stratone da Lampsaco e Democrito gli rifiutavano ogni ingerimento nelle cose del mondo, inentre Aristotile,accordandogli la provvidenza dei generi e delle specie, gli negava quella dei particolari. Tal m e todo di ragionare a priori sull'essenza delle cose,occulta intimamente all'umano intelletto,non piaceva a Tullio, ond'e'consigliavaun piùmodestosapere; mostravacome la notizia, che noi acquistiamo de'corpi, movendo dagli effetti, non comprende l'intima essenza e l'efficacia delle cause, e se all'occhio stesso dell'anatomico, che pur p e metra ne'corpi, non si manifesta l'attività che li avviva, molto meno ella si manifesterà al Fisico, che non può tagliare e dividere la natura delle cose per indagare i fondamenti su cui posa laterra. Procedendo di questo passo l'Autore faceva vedere negli Accademici, nei Tusculani e nel libro della Natura degli Dei,come i dubbj opposti alle eccessive affermazioni de'Fisici intorno alla essenza delle cose si trasportavano dalla Nuova Accade mia sull'esistenza,natura e destini dell'anima,sull'esi stenza e natura di Dio e sue relazioni coll'universo, e sulle altre principali verità della scienza. Nei luoghi citatiadunque e in qualche altro ancora,in cui l'oratore latino dipinge il dissidio delle scuole sulle verità naturali, non può negarsi ch'egli si faccia seguace della Nuova Accademia; e non pertanto s'ingannerebbe col Ritter chi, attingendo di preferenza a quei libri che han fine principalmente metodico, e dove le dottrine della Fisica superiore si toccano per incidente, ne inferisse il dubbio universale di Cicerone sui fondamenti di tutta la scienza. Nella fisica ciceroniana si vuol distinguere infatti le verità problematiche dalle teorematiche; le prime ri feribili all'intima essenza e natura de'corpi, alle leggi de’loro moti,alla costituzione fisica dell'universo;l'altre risguardanti l'esistenza e natura di Dio, dell'uomo e del mondo, considerati nell'ordine loro e relazioni supreme. Quanto ai problemi naturali,egli non impugnava la pro babilità che la scienza pervenisse a risolverli, e, come primo presupposto somministrato dalla filosofia alle dot trinesperimentali,ammetteva lapercezionede'corpi;ma di contro all'orgoglioso dommatismo degli Stoici, degli Ionj e degli Eleati gli pareva assai più degna del saggio la modesta verosimiglianza della Nuova Accademia,e fu per certo impresa vantaggiosa alla Fisica, in una età come quella quando gli errori del panteismo,e il difetto dei metodi e degli istrumenti toglievano fede alle verità di sensata esperienza, professare una modesta ignoranza del vero per arrestare in tal guisa i rapidi progressi dello scetticismo universale. E lo scetticismo, diceva Cicerone, si sarebbe aperta la via quando que'filosofi dommatici non avessero considerato, come sentenziando con assoluta certezza di cose occulte e dubbiose, si toglievano poi l'autorità d'affermarne altre d'evidenza maggiore; os servazione importante e che mostra come anche rispetto alla scienza sperimentale Tullio non professasse un dub bio assoluto, m a riconoscesse un ordinamento di gradi dal verosimile al certo. Acad .prior.e De repub. M a la prova maggiore si è che, mentre le intermi nabili e vane questioni ond'era ingombra la fisica, lo la sciavano sconfortato e dubbioso,un desiderio nutrito dall'ingegno potente e dall'animo roma no,loinvogliava delle indagini naturali,di quelle indagini onde ci leviamo sopra noi stessi, e dispregiando la picco lezza delle umane cose,proviamo un vivo sentimento del divino e dell'immortale. « Nè anche io penso (così scrive Cicerone) che sidebbano tor via tali questioni dei fisici; poichè viè un certo naturale alimento degli animi nel considerare e contemplare la natura;ce ne sentiamo inal zati,e fatti più grandi, e nel pensiero delle cose supe riori e celesti dispregiamo queste nostre del mondo come leggiere e di nessuna importanza; anche l'indagine stessa di cose grandissime e occultissime diletta oltremodo; se poi c'imbattiamo in qualcosa che sembri verosimile,l'ani mo nostro è compreso da quel piacere che supremamente è degno dell'uomo.» (Acad.prior., De fin.,IV,5). Innamo rato quindi della fisica, come fonte di più alte specula zioni, egli rigettava le fantasie grossolane di Democrito e d'Epicuro . De fin. Loda Zenone perchè imitatore dell'antica accademia diligente indagatrice della natura (De fin.); e i quesiti del l a fisica che lo mossero a tradurre il Timeo di Platone, gli avevan det tato qualche anno avanti le pagine più eloquenti del trattato sulla Repubblica; il ragionamento di Filo e lo stupendo sogno di Scipione. De rep., De fin., Tuscul.  Due conseguenze,per quanto ci sembra,discendono dal contesto generale dei passi sopraccitati,e da una lettura complessiva dei libri fisici di Cicerone: 1o che il filosofo latino, a misura che dalla ricerca delle cose sensibili, e dell'essenza loro occulta all'intelletto dell'uomo,argo mento de problemi, si levava col discorso induttivo ai teoremi della scienza, scopriva illuminate da una luce interiore le verità più alte, sebbene in mezzo alle tene bre del gentilesimononardisse determinarle; 2ache,ofosse la dottrina stoica a cui pendeva,o l'indole viva e meri dionale del suo ingegno, nella natura egli sentiva e rico nosceva il divino; e tale attinenza sentimentale e logica della sua mente tra ilfinito e l'infinito,tra il contingente   e l'assoluto, tra il temporaneo e l'eterno gli era scala a pensare la relazione ontologica;e questa poi per abito alsemipanteismo-dualistico di Platone e degli Stoici lo conduceva probabilmente a immaginarsi l'intelletto umano emanato da Dio,e Dio e le creature supreme disgiunte dall'universo de'corpi. In questo metodo che sale per gradi di verosimiglianza dalla natura al divino, metodo improntato sulle meditazioni socratiche,sta l'essenza della fisica di Cicerone,e n’escono chiarite e per ordine le sue dottrine sull'esistenza e natura di Dio, dell'universo e dell'uomo, sulla provvidenza e sulla libertà dell'arbitrio. 2. La dottrina sull'esistenza e natura di Dio tiene il primo luogo nella fisica di Cicerone.La causa di questo primato apparisce evidente innanzi tutto per la sovranità incontestata dell'idea di Dio nella scienza. Dio, oggetto necessario e reale assoluto ed eterno che si manifesta come prima causa al di fuori di sè stesso nell'universo degli enti, e li governa volgendo l i a d un fine immortale, che ne è prima legge,in quanto si rivela all'intelletto dell'uomo nel mondo degl'intelligibili,come ragione prima,signoreggia per fermo tutto l'ordine scienziale;e infatti,sebbene l'inda gine della coscienza interiore sia principio e fondamento al sapere nell'ordine della riflessione, è pur certo che i veri, i quali si dicono da’filosofi più noti rispetto a sè stessi, e son centro d'infinite relazioni, come quello di Dio,partecipano all'uomo quell'ampia veduta ideale,che sola lo conduce alle armonie della scienza. Nè il primato del concetto di Dio si menoma punto se la mente sale da ciò che muta a ciò che non muta,e dalla natura al di vino, una volta ch'ella v’ascende guidata da un concetto necessario d'attinenza causale, attinenza di termini cor relativi, l'uno dei quali è Dio stesso presente con arcana e invisibile efficacia nel soggetto pensante. Anche senza l'unità assolutadeipanteisti,lafilosofiasicompone dunque in forma di scienza,e la psicologia e la cosmologia si congiungono insieme nel massimo problema della teologia naturale.La qual cosa è assai provata dal metodo di Socrate, che movendo dalla coscienza produsse in Platone una compiuta armonia di sistema, e aiuto il filosofo latino, venuto in tempi di povere e scucite speculazioni, a ser bare un vincolo di dottrine nei suoi libri di fisica, che scritti in ordine successivo di materie e di tempo,debbono quindi esser presi ad esame da noi come un solo trattato. Premesse queste cose, viene spontanea la domanda: quale fosseilpensierodell'oratorelatinointorno a Dio.Se dopo una attenta lettura dei passi delle sue opere, dove tal pensiero s'accenna,e un diligente ragguaglio di questi passi tra loro,ci facciamo tal quesito, verrà spontanea pure larispostach'egli dell'esistenzadiDio,diquelladell'anima e sua immortalità, della provvidenza e del libero arbitrio non dubitava,e soltanto accoglieva una più o meno decisa incertezza quanto al determinarne la natura; e il suo criterio in sì ardua questione della filosofia era un vivo intuito e un sentimento più vivo dell'eccellenza e della armonia delle cose palesata internamente dalla coscienza morale, esternamente dai principj supremi di universale consenso.(Kuehner. Scholten, Dissertatio philosophico-critica de philosophiæ ciceronianæ loco qui est de Divina Natura. Amstelaed. In questo criterioioravvisoil riformatore e il filosofo vero; il riformatore, perchè m o veva da ciò che v’ha di più vivo e di più efficace nel l'uomo, dall'autorità delle tendenze morali, il filosofo, perchè non se ne stava già al testimonio privato e indi viduale,ma con deliberata indagine scientificacercavale note del vero nella ragionevole natura dell'uomo, e nel suo carattere d’universalità. Tale osservazione è degna d'es sere avvertita sin d'ora,perchè parecchi istorici della filo sofia,tra iquali anche Ritter,considerando ilmodo ora dubitativo, oradommaticoconcui Cicerone si esprimeinsif fatta dottrina, ilsuo riserbo nell'accettare le opinioni degli altri, nell'esaminarle, nel ventilarle, han voluto dedurre che egli in questa parte,filosofo di non troppo sottili spe culazioni, più che a una severa riflessione, se ne stasse al sentimento individuale destituito da criterj scientifici. (Ritter, Hist., Brucker, Degerando.)    M a questi storici non hanno considerato a quali tempi si abbattè Cicerone; tempi di sfrenate passioni, di orribili scelleratezze, di guerre sterminatrici, ne'quali ogni fon damento dell'edifizio civile crollava, e la scienza,abban donato il sublime ministero di propagatrice del vero, si prostituiva alguadagno. Alloralavocedel senso comune e degli affetti naturali, alterata dalla Gentilità, non so nava nelle plebi,quale una volta,testimone dei veriuni versali e delle tradizioni primitive; la voce del popolo non era più quella di Dio. Allora la tradizione scientifica, che ravviata da Socrate s'era andata continuando, benchè con notevoli alterazioni,lungo le scuole socrati che, pervertita dagli ultimi sofisti avea perduto ogni sen timento del vero;talchèalfilosofo,chenon avesse voluto o bestemmiar colle plebi o delirar coi sapienti, non ri maneva che cercare iprincipj della scienza nella propria natura non corrotta e nell'antichità veneranda. Ecco il fondamento che cercò Cicerone alle principali dottrine della teologia,ed ecco icriterj che lo guidarono in mezzo ai ravvolgimenti delle scuole sofistiche. Qui per altro è necessario notare che,quando diciamo che in tempi di sì corrotta filosofia Cicerone ebbe e metodo, e indagini pro prie,e guide non fallaci del vero,noi non lo rappresen tiamo immune del tutto dalla funesta efficacia delle dot trinecontemporanee, nèintendiamo ch'e'fossesì fortunato da ravvisare scevre d'errore nel santuario della coscienza le verità principali.- Ebbe egli compiuta e perfetta n o tizia della natura di Dio e delle sue perfezioni? conobbe senza mischianza d’errori i d o m m i della spiritualità e i m mortalità dell'anima umana?ravvisò semplici e schiette, senza infezione di panteismo e di dualismo,le attinenze dell'Ente supremo coll'intelletto dell'uomo e col mondo? - I o so che tali quesiti furono proposti più volte dagli storici della filosofia, e poichè parve che Tullio non s e m pre rispondesse chiaro e deciso all'esame dei postulanti, gli fu negato nome e autorità di filosofo, e valore d'in gegno speculativo. (Brucker lo difese dall'ateismo; redi Bayle, Diz. Art.Spinoza).E veramente la conclusione Il metodo ch'e'si propose apparisce manifesto dai tre libri D e natura Deorum; e tal metodo discende dal fine di tutto iltrattato. Or qual eraquelfine? Chiamare scenderebbe di necessità dai principj, quando si potesse provare che la riflessione scientifica s'è trovata in ogni tempo nel medesimo stato di certezza di contro al sapere naturale e al soggetto della scienza,o che lo spirito umano nonsegueun cammino diprogressivosvolgimentonellaetà dellastoria;e sela criticamoderna immune da preoccupa zioni, adoperasse sempre una stessa severità imparziale nell'esame d'ogni filosofo. Ma la cosa procede ben altri menti; perchè da un lato il razionalismo alemanno coi suoi seguaci d'ogni paese, che ammette ogni perfeziona mento scientifico come un prodotto spontaneo e succes sivo della ragione nel tempo,non potrebbe,senza rischio di contraddire ai principj del proprio sistema, negare che la forma logicale e il fondamento delle dottrine dei filo sofi antichi sia rispetto a quel de'moderni notevolmente imperfetto; d'altra parte il filosofo del Cristianesimo, che afferma oscurate e corrotte prima della venuta di Cristo le tradizioni e le verità primitive, e restituite dalla parola rivelatrice del Verbo quelle tradizioni e quelle verità all'intelletto dell'uomo redento, non può non ravvisare nelle dottrine cristiane un perfezionamento notevole delle dottrine gentili; infine, ed è conseguenza del già detto, nessuno rimprovera ai filosofi Indiani, Italo-Greci, a So crate, a Platone, ad Aristotele l'ignoranza, l'errore e le manifeste dubbiezze intorno a parti sostanzialissime della scienza. Le quali cose premesse, è inutile,parmi, far conside rare al lettore di Cicerone ch' e' non vi troverà deter minato senza ondeggiamenti d'idee e d'espressioni il con cetto di Dio; anzi dirò di più che tal concetto in parecchi luoghi delle sue opere (come nel De natura Deorum ) apparisce più assai negativo che positivo. Resta ora che cerchiamo in breve per quale indagine lenta e progressiva giungesse il filosofo nostro a una verificazione sempre m a g giore di quel concetto divino.   ad esame le principali opinioni de'filosofi intorno a Dio, discuterle,confutarle, e mostrare come le loro controversie sovra una parte sì nobile della scienza siano ben sovente occasione e pericolo di scetticismo. Con questo intendimento venuto egli ad esporre l'occasione del dialogo, racconta come essendo stato invi tato nel tempo delle Ferie latine in casa dell'accademico C. Aurelio Cotta pontefice e suo familiare e trovatolo insieme con C. Vellejo, che allora avevavoced'esserein Roma ilprimotragliEpi curei,e Q. Lucilio Balbo, stoico da paragonarsi ai più prestanti fra iGreci, cominciarono questi a disputare, lui presente, della natura degli Dei, spartendo tutta la m a teria in tre punti principali; vale a dire: se vi fossero Dei,quale fosse la natura loro,e quale intervento aves sero nelle cose del mondo e degliuomini. La qual spar tizione è conservata in appresso sì nell'esposizione delle dottrine di Vellejo e di Balbo, come nelle risposte di Cotta, che replicando ogni volta a ciascuno di loro, li confuta entrambi. Il dialogo sulla natura degli Dei,che è dei più im portanti fra i libri speculativi del nostro autore, si riduce in sostanza a una esposizione viva ed eloquentissima delle incompiutezze dei sistemi sofistici, contraddicenti alla c o scienza e al suo naturale riconoscimento, e si vede quivi come gli errori più perniciosi sul concetto di causalità prima che è fonte a noi del concetto di Dio,accumulati da secoli, corrompevano allora le speculazioni gentili. Il panteista, immedesimando Dio colle creature, pervertiva l'idea della sua natura infinita e assoluta, introducendo nell'ente senza difetti il maggior de'difetti,la negazione dell'infinito e dell'assoluto; il dualista che svolge l'unità primordiale del panteismo, segregando il Creatore dalle cose create e indiando la natura, si perdeva nella contra dizione immortale di due infiniti coeterni, onde moltiplicando il divino, l'annienta; il materialista e l'idealista l’un o affogato nel senso, l'altro confinato nella fredda solitu dine dell'idea, o si vedevano dileguare il concetto di Dio  tra i fenomeni della materia, o lo perdevano di vista nelle indefinite astrazioni; m a l'uno e l'altro riuscivano a n e garlo,perchè sempre si nega per necessità di sofisma l'evi denza non affermata per difetto di logica. Ora egli è a p punto questa legge inesorabile dell'errore che Cicerone volle rappresentare mettendo alle prese l'Epicureo con lo stoico, e sottoponendoli entrambi al sindacato della Nuova Accademia. E invero quell'ardita e sconsigliata filosofia d'Epicuro che riesce sì lusinghiera vestita dello splendore di Lucrezio, si mostra in tutta la sua nudità nel discorso di Vellejo (Lib.I, dal C. VIII al XXI).Po neva egli come certo che gli Dei sono,perchè la natura avea impressa negli animi di tutti la loro anticipata notizia (apódnbev),e ne accennava vagamente l'essere e la figura, facendoli eterni e perfettissimi e conformati a si militudine umana,ma non da materia corporea e sensi bile,bensì da un fortuito accozzo d'immagini simili rin novantisi all'infinito (imaginibus similitudine et transi tione perceptis); gli Dei così costituiti dipingeva beati, e non curanti nè di sè stessi, nè delle cose pertinenti agli umani. Ora è chiaro che le conseguenze d'una siffatta dottrina eran ridurre la natura di Dio ad un puro con cetto della mente,ad un'immagine d'inerzia non conci liabile coll'ordine e col moto d'ogni cosa creata. Ma a più alto concetto di Dio si levava lo stoico Lucilio. Gli Stoici che,come vedemmo nella prima parte,ammettevano contenuta nell'indeterminatezza primordiale della materia passiva, oscura, divisibile, capace all'infinito di forme un'intima energia che traendola all'atto ne costituiva la vita dell'universo, concepivano Dio in questa vita,e m o vevano per affermarlo esistente dall'universale consenso, dai prodigj,dall'armonia delle cose,e dalla eccellenza dello spirito umano. Sostenuta da questi argomenti la prova fisica della provvidenza di Dio che va dal C. XXXIII al LXVII del libro secondo, è uno dei più mirabili tratti dell'eloquenza romana. Giunti a questo punto,se esaminiamo la polemica della Nuova Accademia contro le dottrine d'Epicuro e di Crisippo, ci si presenta la questione, a lungo agitata nelle scuole, qual sia in questo libro il vero pensiero di Tullio su Dio,e se il dubbio accademico si manifesti in lui sotto la per sona di Aurelio Cotta. I critici più antichi lo affermarono risolutamente, alcuni più recenti come Scholten, Kuehner e Ritter, con qualche riserbo. M a sì gli uni che gli altri si avvicinarono al vero senza comprenderlo a pieno; perchè essi ponevansi ad esaminare quel libro preoccupati dal concetto che Cicerone conforme a ciò che dice in varj de'suoi proemj,e nel proemio del De natura Deorum, partecipassequividel tutto il dubbio fon damentale e sistematico, il dubbio di Carneade sulle verità principali; laddove bisognava invece considerare come il quesito proposto risguardasse intimamente il complesso delle dottrine, nè quindi potesse essere risolto badando a qualche frase staccata, m a solo serbando nell'esame la rigorosa armonia delle parti col tutto. Alla qual cosa, se non m'inganno, noi ci aprimmo la strada sin da prin cipio,quando distinguemmo nell'oratore latino due parti, e quasi due forme dell'indagine scienziale; per l'una, che chiamerei intrinseca e dommatica, egli si ravvicinava ai principj socratici, e ammetteva i fondamenti del vero nei fatti della coscienza; per l'altra estrinseca e negativa, che eraildubbio della Nuova Accademia, moderatamente partecipato da lui, egli confutava i sistemi contemporanei con dedurre da più negazioni particolari una compiuta affermazione del vero. Assumendo egli in tal guisa le dot trine d'Arcesilao, più come istrumento metodico e inqui sitivo,che come sostanza delleproprie opinioni,ed anzi, quel che è maggiormente notevole, rifiutando il dubbio fondamentale sulla validità della scienza,stabilito da A r cesilao e da Carneade, doveva avvenire (siconsideri bene) che il fondamento delle teoriche tulliane contraddi più volte a quella sua apparenza di dubbio,talchè vi fos sero in lui quasi due persone distinte, l'una delle quali negava,l'altra implicitamente edecisamente affermava. Ora si avverta un poco come questa contradizione, non però sostanziale,apparisca, più che altrove,evidente nel l'opera che noi esaminiamo; e come,introducendosi ivi da un lato Cicerone che assiste al dialogo senza prendervi parte, e dall'altro Cotta che vi sostiene la parte di con futatorecol metodo della NuovaAccademia,èdato occa sione alla critica di verificare con bastante certezza le sue opinioni, raffrontando insieme la persona del ponte fice con quella dello scrittore. A persuadersi di ciò ba sterebbe considerare qualmente, se Cicerone intendeva celarsi sotto la persona di Cotta,era inutile allora che introducesse sè stesso;ma egli si dipinse là in mezzo a que'disputanti, chiuso in un silenzio veramente sublime, per rappresentare in sè l'immagine viva del sapiente, che, sebbene certo per natura di veri infiniti, tuttavia procede cauto e riguardoso all'acquisto della certezza scienziale. Noi affermiamo sin d'ora che Cicerone possedeva da n a tura la certezza del teorema che prendeva a chiarire, perchè egli stesso,alludendo a ciò nel proemio dove dis corre in persona propria, ci dice che le discordie dei dotti intorno a materie importanti sono occasione potente di scetticismo anche a coloro che han fiducia in qualche cosa di certo (I. 14); e perchè i due primi capitoli del libro primo sono un testimonio irrepugnabile del come il filosofo latino ponesse l'esistenza di Dio e la sua prov videnza sui fondamenti della certezza morale. Il dubbio di Cicerone nel libro De natura Deorum era dunque semplicemente verificativo delle ra gioni già possedute, e avea per fine sostituire alla cer tezza naturale la certezza scientifica. M a d'altra parte chi guardi le dottrine della Nuova Accademia, quali ci sono rappresentate nella persona di Cotta,che le conduce alle ultime conseguenze,siaccorge tosto che la loro indole negativa non era già apparente e metodica, m a procedeva dall'intima essenza dell'idea lismo d'Arcesilao, il quale dubitando d'una reale corri spondenza tra l'essere delle cose e le potenze conosci tive, dovea dubitare pur anco della certezza naturale e del senso comune, testimone per lui d'un'ingannatrice evidenza. Questa è la ragione per cui Cotta nelle sue ri sposte moveva dal negare agli Epicurei ed agli Stoici la nozione preconcetta di Dio, attestata dal senso co mune. Ora siavvertacome la Nuova Accademia non affermando un proprio e fermo fondamento di vero negli umani giudizj, e solo una tal quale verosimiglianza eguale per tutti, mancava di prin cipj certi e positivi da costituirvi la scienza,e conseguen temente anche di un criterio sicuro a cui ragguagliare la critica de'sistemi contrarj. Questi sistemi, conforme alle opinioni della Nuova Accademia, non erano quindi alcun chè di vero o di falso secondochè si avvicinavano o si dilungavano dai principj irrepugnabili della scienza; con tenevano tutti, sebbene in gradi differenti, la verosimi glianza concessa all'umano intelletto, e solo quando il legame logico, che intercede di necessità tra le conse guenze e i principj, non era strettamente serbato, allora soltanto si dava in essi l'errore. Un tal criterio, sostan zialmente negativo e relativo,abbisognava (sidirà)diun criterio positivo e assoluto desunto dall'evidenza de'prin cipj supremi,su cui posa incardinata la necessità logica d'ogni sistema;ma laNuova Accademia non vibadava, e ragguagliando ciascuna filosofia colle premesse del pro prio sistema, tentava coglierla in evidente contradizione. (Nelle opere di Cicerone passim.)  Un si manifesto contrasto tra il dubbio verificativo e scientifico del nostro Autore, e il dubbio scettico della Nuova Accademia apparisce in ogni passo de'suoi libri, in cui egli introduce la persona di qualche Accademico che confuta gli opposti sistemi; apparisce poi più evi dente che mai nella conclusione del De Natura Deorum, dove Tullio, uditi i filosofi disputanti, termina dicendo: la disputazione di Cotta (Accademico) sembrò a Vellejo (Epicureo)più vera;a me l'altra diBalbo (Stoico)più verisimile; il che è quanto dire che la Nuova Accademia dubitando di Dio si avvicinava agli Epicurei, mentr'egli, certo di questo vero,si allontanava dagli uni e dagli altri accettando in parte le dottrine del Portico.E che dim e  gli opoteva eglifareinmezzoalturbiníode’sistemi?Estinte quasi del tutto le sacre tradizioni, il consentimento p o polare offuscato dai vizj, da un lato, imbestiati nella materia negavano gli Epicurei la spiritualità del concetto di Dio, e la sua provvidenza, dall'altro negavano gli Accademici la efficacia del senso comune nell'affermare Dio,e sottili argomentatori lo contrapponevano al male; ai primi Tullio opponeva nel proemio citato la dignità dell'umana mente,ilbisogno innegabile della religione consentito da tutti;ai secondi,l'efficacia del testimonio universale,gli affetti dell'animo,isupremi principj della ragione e la libertà del volere (Tusc., d e Nat. Deor., De Leg., passim);del resto egli pendeva verso gli Stoici,e perchè consentivano il consentito da lui, e perchè lo in namorava quel loro sublime concetto della umana eccel lenza e dell'armonia delle cose.Come poi egli movesse dalla coscienza morale, osservata al lume d'un criterio scientifico, sarà dimostrato in altra parte di questo dis corso col libro delle Leggi, dove l'efficacia esercitata nell'animo nostro dall'idea d'una suprema sanzione gli faceva porre a proemio di tutte le istituzioni civili Dio provvidente,e allegarne per prova la natura dell'uomo, solo fra gli animali, in cui sia innata la notizia di Dio, e alberghi un animo immortale originato dal cielo. De Leg. Premesse queste considerazioni, se ne possono dedurre tre cose. Il vero intendimento di Cicerone nello scrivere il De Natura Deorum fu,esporre e confutare i principali sistemi contemporanei, e a tal fine egli assunse come istrumento metodico e inquisitivo il dubbio della Nuova Accademia,senza accettarne lo scet ticismo; 2o Cicerone non rappresentò sè stesso nella per sona di Cotta, m a soltanto la forma estrinseca del m e todo proprio; 3o Il filosofo latino volle significare nelle parole del proemio, e della conclusione,e nel silenzio ser bato in tutto il dialogo ch'egli aveva di Dio un alto concetto, che quel concetto nella sua mente era certo di certezza naturale, m a che in mezzo alle tenebre del Ge n tilesimo e alla discordia dei dotti,non ardiva determinarlo in ogni sua parte, e sostituirvi una assoluta cer tezza di scienza. Ora si domanda, perchè non riuscisse a Cicerone definire a sè stesso questo concetto. Dimostra l'Ontologia come l'intelletto dell'uomo investigando le proprietà metafisiche dell'ente in ordine ai concetti universali, distingue l'essenza dall'essere di una cosa;quella come idea generale rappresentante una possibilità di cose indefinita, questo un che d'attuale, di esistente e di determinato in sè stesso. Ora si badi che ciascuna cosa esistente, sebbene offerta all'intendimento dell'uomo dall'intelligibilità universale della sua essenza, in quanto è esistente,vale a dire in quanto è un atto reale dell'essere, cade per via de'sensi sotto l'apprensione delle potenze conoscitive,e come tale è appresa particolare e finita; dall'apprensione poi di molti finiti nella serie degli atti intellettuali la mente dell'uomo,soccorsa dalla riflessione, le va si al concepimento delle cose infinite. Ma il concetto dell'infinito, che è cima della piramide ideale,può es sere inteso in diversi significati; l'un significato che ci offre l'entità assoluta, necessaria e in ogni sua parte perfetta; l'altro che ci rappresenta una semplice entità indetermi nata,e un mero portato dell'astrazione mentale.Però seb bene un intervallo notevole disgiunga nell'intelletto del filo sofoe dell'uomo volgareitre concetti del finito, dell'infinito e del non definito, merita di essere considerata quella ragione qualunque di rapporto e di similitudine per cui essi possono scambiarsi talvolta. La riflessione naturale aiutata dal lume della scienza e dalla pienezza delle tra dizioni divine, avea concepito ab antico, indi al termine dell'Era pagana ravvisò con evidenza maggiore nelle dot trine cristiane l'idea dell'infinito assoluto, dell'ente per essenza correlativa necessariamente all'idea del finito, vide in quest'ultimo, naturalmente determinato e imper fetto,come non darsi possibilità d'attoinfinito,così nean che necessità d'eterna esistenza,onde dedusse ilfinito procedere per atto creativo dall'infinito, il temporaneo dall'eterno,il contingente dal necessario.Tale è la teorica cristiana della creazione, fondata sopra una serie logica di concetti, la cui necessità è confermata a noi tutti fino dai primi anni in una voce interiore che ci parlò sublimi cose di Dio,in un continuo desiderio,che ci travaglia inconsapevoli per tutta la vita in cerca d'una perfezione immortale. Nel procedere che fa la mente a questo apice dei concetti v’ha per altro un pericolo d'arrestarsi per via;chè sebbene ilsentimento e l'intuito dell'infinito non possa verificarsi nell'uomo senza una segreta unione del l'intelletto con Dio (qualunque poi sia questa unione,e in qualunque modo s'effettui), e sebbene per l'attinenza di creazione l'atto infinito ed eternale del Creatore costi tuisca nelle cose finite alcunchè di somigliante a sè stesso, cioè un'indefinita potenzialità d'atti,di forme, di m o menti,è però assurdo scambiare quell'attinenza coll'iden tità, e quella potenzialità indefinita coll'infinito che la pone.Tale assurdo è l'origine del concetto d'indefinito applicato alla causa creatrice.Fingasi ch'io pensi iltempo, lo spazio, o l'indefinita potenza del mio pensiero; allora (e può facilmente avvenire ciò che tutti provammo alla vista di pianure interminate e di mari, o in un facile abbandono della mente a sè stessa), se in quell'arcana presenza di Dio la fantasia prende il di sopra sulla r a gione, io mi rappresento quell'ordine d'atti, di durate, di coesistenze come infinitamente continuato, continuato per una perpetua remozione di limiti che, a dir così,sono e non sono ad un tempo; e quell'abbaglio di fantasia si muta in un concetto reale,ed io penso l'infinito,l'eterno, l'immenso di Dio sotto l'immagine d'indefinito.Così nacque ilpanteismo in Asia,in Italia ed in Grecia;e così pen sano l'assoluto i panteisti Alemanni, e l'Hegel segnata mente. Veduta la differenza d'origine dei tre concetti di finito, d'infinito e d'indefinito,si domanda ora quanto all'essere loro quale d'essi sia negativo. Per fermo l'infinito,se ne togli il materiale significato della parola, evidentemente nel suo concetto non ha nulla di negativo, desso che non ha limiti ond'è costituita negli enti la negazione dell'es sere; non limiti di contingenza,perchè necessario, non limiti di tempo, perchè eterno, non limiti di modi e di mutazioni,perchè assoluta sostanza;anzi èinfinitamente positivo come causa infinita, e perchè dotato d'efficienza assoluta pone dal nulla l'effetto, e perchè ne rappresenta in sè in modo sopraeminente e immensurabile le perfezioni finite.Il finito poi da un lato è negativo nella sua essenza ideale, come rappresentante all'intelletto un che fornito di limiti, dall'altro lato è positivo nel suo essere come atto sussistente e determinato; l'indefinito che è propria mente l ' i po y dei greci, è negativo nell'essenza e nel l'essere;nell'essenza c o m e astratta potenzialità del finito, nell'essere come un qualcosa che perennemente diviene, e non è mai; e dico che è negativo in ogni sua parte, per che se il positivo del finito consiste nell'essere determinato come atto individuo e concreto, l'indefinito che nega quella indeterminatezza, si riduce ad una pretta astrazione mentale e per ultimaconseguenzarisolvesiinnulla.A chipoisi maravigliasse che ilconcetto d'indefinito,cima delle astra zioni, si fosse pôrto per tanto tempo e a tante nobili menti in luogo del concetto più naturale assai d'infinito a spiegare la divina entità, io addurrei per ragione lo strano giuoco della fantasia che nelle nature vivamente passionate si mesce alle operazioni delle potenze cono scitive, addurrei l'oscurarsi delle sacre tradizioni onde avviene che nell'animo abbandonato a sè stesso la divina luce dell'intelletto soggiaccia agli adombramenti del senso, e infine, ultima conseguenza di ciò,la superbia dell'uomo che Dio e l'universo volle rassomigliati a sè stesso. Io parlo cose ben chiare a chi abbia sufficiente notizia della Storia della Filosofia, quando dico che la Paganità tutta avanti l'Era volgare,e nell'Era volgare tutti i filosofi più o meno infetti di paganesimo ignorarono ilvero con cetto dell'infinito applicabile alla natura di Dio;dico il vero concetto,e non escludo che anche tra'pagani alcuni, e segnatamente Platone,vi si accostassero in parte; tale è l'evidenza suprema di quella idea all'umano intelletto, e tale il sentimento non repugnabile che la creatura rav vicina al Creatore. Ma tornando alnostro filosofo,egli,come tuttipiùo meno gli antichi, come tutti i pagani, rimase molto al di qua dal concetto genuino e legittimo dell'infinito. C o n tuttociò,sebbene nel De Natura Deorum rappresenti del concetto di Dio la parte più negativa,tra perchè quivi egli procedeva per metodo d'eliminazione confutando i sofisti, e perchè mostrò avvicinarsi all'idea indefinita che ne avevan gli Stoici,è noto alla Storia della Filosofia che nelle sue dottrine s'incontra sovente l'altro concetto più positivo degli attributi dell'anima considerati come corre lativi, o analogici agli attributi di Dio. Questa teorica, accennata in fine del De Natura Deorum, ritorna negli ultimi capitoli della Repubblica,e nel primo libro dei Tusculani. Argomento di quei capitoli della Repubblica è il sogno di Scipione Affricano imitato dalla Repubblica di Platone, ed è necessario fermarvisi un poco, perchè, sebbene ivi si tratti dell'immortalità come premio delle virtù domestiche e civili, e perciò la materia contenga un intendimento morale,l'essenza di quelle dottrine si ri connette intimamente alla fisica.La ragione poi è chiaris sima. Nel fondo di tutti isistemi gentili, per quanto con nessi consottilissime prove, eanimatidaun intimo principio diidealità,siannidava pur sempre una ragione dimateria lismo, procedente dall'idea indefinita ch'essi qual più qual meno s'eran formati dell'infinito,e che originandosi da un ristagno dell'immaginativa nei fenomeni della m a teria e del senso,ivi la riconduceva pur sempre giù dalle altezze più metafisiche della scienza. I Gentili, e segna tamente gl'Ionj, considerando in tal guisa l'operare delle cause naturali,per quindi dedurne la prima causa del l'universo,tra i fenomeni esterni posero particolare atten zione al moto, e perchè al moto si riducono sostanzial mente tutte le trasformazioni della natura, e perchè al moto s'attribuisce in generale la causa de'fecondamenti terrestri; il moto poi richiede un'intima forza motrice delle sostanze, altrimenti non si spiegherebbe come, data l'inerzia della materia,dall'una sostanza e'si comunichi all'altra;ecco perchè negli antichi panteisti e semipanteisti, e nei loro imitatori moderni primeggia il concetto di forza (Büchner, Forza e Materia ); applicate poi questo concetto delle forze particolari all'universalità delle cose, e immaginate un'unica sostanza a cui segua necessaria mente un'unica forza, e avrete il panteismo dinamico di Capila, degl'Ionj, del Timeo e degli Stoici.Questo sistema dinamico ritiene nel suo fondo l'impronta del pensiero che lo concepisce. Di fatto, poichè in esso la riflessione procede astraendo per ragionamento induttivo lungo una serie di cause modali dalla più manifesta e determinata ad una occulta e generalissima cui sidà ilnome di causa prima, e tra le cause modali,fornite di più intima e m a nifesta efficacia,l’anima,che ha coscienza viva del proprio essere,è tratta a concepire sè stessa per prima, ne viene che l'ultima causa si pensi ad immagine dell'anima come un alcunché diuno,origine difattimolteplici,presente col l'unica attività a ogni parte della materia informata,fonte di vita, di movimento,di senso. Stabilita questa dottrina panteistica,apparisce chiaro quali conseguenze ne prover ranno alla dottrina dell'anima. Il filosofo gentile che dal concetto dell'anima è tratto a pensare la causa prima dell'universo, e la natura di Dio che lo informa, discen dendo novamente da Dio e dall'universo in sè stesso, immaginerà l'anima d'origine e d'attributi divini (h u m a nus animus decerptus ex mente divina. Tusc.), ne spie gherà l'intima efficacia e il modo d'operare delle sue facoltà a somiglianza della natura divina, e finalmente confondendo l'eternità, attributo dell'ente infinito, col l'immortalità che appartiene agli spiriti finiti, farà eterna e immortale l'anima,dicendo con Platone che essa è una causa,origine di moto ad altre,senzaorigine essa stessa e perciò senza fine. De Rep., e Tusc. Questa è la sostanza del sistema panteistico (o semi panteistico) esposto dal filosofo nostro negli ultimi capi della Repubblica. Ivi descrivendosi in modo stupendo la costituzione dell'universo, si rappresenta la terra circon data dalle nove orbite dei pianeti animati da divine menti, dei quali l'ultimo che contiene tutti gli altri,è sommo e principe Iddio. D a questi fuochi sempiterni disceso l'animo dell' Da queste considerazioni apparisce quanto sia intima mente collegata alla teologia naturale la psicologia del filosofo latino.Se noi volessimo recare per esteso la ra gione più generale di questo legame, e spiegare coi filo sofi recenti quel modo d'induzione correlativa, onde la mente negando al finito le sue limitazioni, si leva a cono scere l'infinito di Dio,trascenderemmo di troppo itermini della presente questione. Invero la notizia che all'uomo è concessa dell'assoluto divino,procedendo per analogie e rap presentanze il cui contenuto ci è pôrto da elementi speri mentali, dee riuscire di necessità inadeguata all'oggetto; uomo, è il divino esso pure che governa e muove il corpo come il divino principe, l'universo;sempiterno,immortale, rinchiuso nel corpo come in un carcere,e desideroso della sua dimora celeste,dove restituito dopo la morte in premio delle virtù cittadine godrà eternamente la compagnia degli spiriti immortali.In questo luogo son chiare le remi niscenze di Platone e degli Stoici; ma degli Stoici v'è poco; laonde io non vi riconosco col Ritter un prevalere del concetto stoico di materialità sul concetto della spiritualità divina (Hist. de la phil. anc.); perchè, sebbene Cicerone volendo abbellire della fantasia le sue dottrine fisiche ai lettori romani,riproducesse ivi la parte più immaginosa e più sensibile del sistema pla tonico del Timeo,è noto come quelle immagini nascon dono nell’Ateniese una idealità di concetti sublimi,e più m'è argomento che Cicerone in questo luogo si scostò dagli Stoici, il vedere com’ei faccia immortale non sol tanto l'anima universale, m a anche le anime particolari, mentre per confessione del dotto Alemanno, « era con forme alle dottrine degli Stoici il ricusare all'anima indi viduale, come parte dell'anima universale, l'immortalità insensoproprio.» (Ritter, Physique des Stoïciens. Vedi però nelle Confessioni del Mamiani, Ontologia, acutamente accennata l'opinione contraria.)   inadeguata, io dico, perchè l'animo che giunge al concetto di Dio trascendendo infinitamente sè stesso,non può far sì che nelle conseguenze di quella induzione non soprabbondi tuttavia il sensibile e il contingente che si conteneva nelle premesse; e perchè in quella via che dalla natura ci mena al divino,noi siamo ancora molto di qua dal ter mine che dovremmo varcare,sebbene pur di qua piova su noi la luce incommutabile dell'infinito riflessa dal l'universo a quel modo istesso che il sole, non ancora spuntato sull'orizzonte, si rifrange scintillando nel mare. È questa la vera causa per cui Cicerone, comecchè s'avanzasse d'assai soccorso dall'indole sublime,e l'universalità dell'ingegno latino, non giunse però (e lo vedemmo) al concetto ben determinato dell'infinito; ma è vero altresì che uno fra gli studj più belli della Storia della Filosofia si è il cercare nei suoi libri popolari e speculativi come il concetto di Dio,correlativo a quello del l'anima, si va grado a grado perfezionando nelle opere fisiche, finchè perviene alla sua pienezza nelle dottrine morali. Un primo passo di questa ardita speculazione noi lo vedemmo nel De Natura Deorum,libro essenzialmente istorico e disputativo, in cui Cicerone, avvolto nella di scordia delle sètte,e inteso a paragonarle tra loro e a c o m batterle con ogni argomento,non sa affermar che ben poco, e si restringe all'esame delle altrui opinioni; tien dietro a questo nell'ordine de'suoi pensieri il Sogno di Scipione, dove il concetto di Dio si determina meglio, e apparisce anche più chiara la tendenza alle dottrine platoniche; m a quelle dottrine sono trattate ampiamente nel primo libro delle Tusculane,testimonio del suo metodo che de sume i principj dell'osservazione intima della coscienza, e si sforza, trascendendo il creato, di profondarsi nel l'essenza di Dio. In quei capitoli si tratta dell'immorta lità, secondo il metodo della Nuova Accademia;cioè vuol provarsi (giusta l'intendimento metodico del libro) come ammessa o non ammessa la indistruttibilità dell'anima umana,segua in ogni modo che la morte non è da te mersi; l'immortalità poi si dimostra movendo dalla tra dal dizione degli antichi, tradizione efficace quod propius aberant ab ortu et divina progenie, dal consenso univer sale che è legge di natura, manifesto nelle consuetudini, nelle leggi, nelle cerimonie, negl'istituti, e dal senti mento naturale, onde alberga nelle menti degli uomini, e segnatamente dei grandi,il desiderio della gloria che Cicerone chiama con bella immagine un augurio de'se coli futuri. Sostenuto da tali prove la cui efficacia de riva dal fondo del pensiero platonico, egli per ispiegare la condizione dell'anima dopo la morte, ricorreva a de terminarne la natura, e contro gli Stoici che le aveano concesso un'immortalità temporanea, affermava con ra gione essere più difficile assai pensare l'anima rac chiusa nel corpo, che immaginarla libera da ogni m a teria, e tornata ad abitare nel cielo ond'ella è discesa. In queste parole si accenna la spiritualità che prevale tra gli attributi dell'anima; sennonchè il nostro filosofo,che avea penetrato il vero senso scientifico della parola, dicendo: ciò che è spiri tuale, sebbene non percepibile al senso, andar soggetto per altro all'apprensione del conoscimento, venuto poi a determinarlo, rimase un po'titubante;onde,sebbenetra cinque elementi, che secondo Aristotele costituivano la sostanza terrestre, scegliesse il quinto non nominato, più che non inteso a costituirne l'essenza, e rifiutasse le gros solane fantasie d’Aristoxeno,di Democrito e d'Epicuro, quando se la immaginò separata dal corpo, necompose una dottrina non al tutto spirituale. Concedansi queste incertezze, da cui non anda assoluto neanche Platone, al bujo sempre crescente delle speculazioni gentili.Ma da modesti principj si leva il filosofo latino alla sublimità della scienza. Egli è tanto inclinato con Platone ad affermare l'anima come una natura perfetta e immune da ogni contagio colla materia, che la vuol rinchiusa nel corpo come in un carcere; colle dottrine della filosofia moderna ne inferisce la semplicità dal sentimento unico ch'ella ha del molte plice;riproduce,come nella Repubblica, il noto argomento platonico tolto dall'eternità de'principj motori, e chiama plebei quei filosofi (gli Epicurei)che non ne consentivano l'efficacia; espone anche l'altro che all'anima attribuisce l'immortalità per l'intuizione degli eterni esemplari. Che dunque inferiva da queste prove? Egli stante la incertezza de'filosofi contemporanei, non si perdeva a determinare in che proprio consistesse l'essenza dell'anima, o dove la sua sede nel corpo; atte nendosi al concetto di causa,rivendicava al ragionamento induttivo sui fatti interiori la sua validità di contro al l'induzione delle scienze sperimentali; e si volgeva agli empirici materialisti,maravigliandosi come negassero poter concepire l'essenza dell'anima separata dal  corpo,essiche pur tanto poco conoscevano dell'initimo operare della materia; argomento valevole anch'oggi a smascherare i pretesi nemici della Metafisica,se la reverenza alla ne cessità logica de principj fosse mantenuta nel fatto, come è predicata a parole,da quanti amano chiamarsi seguaci delle discipline speculativ e. (T u sc., Cf. Cato M., de Am. Meditando i capitoli della Repubblica e delle Tuscu lane, alcuni del Catone Maggiore e del Lelio, e qualche squarcio delle Orazioni (Miloniana), si vede in tutta la psicologia del nostro filosofo, anzi in ogni parte della sua fisica questo ritorno costante dell'induzione correlativa;nè sfugga all'osservazione del critico una nota importante di questa dottrina, e cioè che, sebbene parrebbe a primo aspetto avere Cicerone desunto la cer tezza scientifica della esistenza e delle perfezioni di Dio dalla contemplazione dell'universo e dell'animo umano, apparisce invece in più luoghi che un sentimento vivo del l'eccellenza di Dio,nutrito dall'indole religiosa, e dalle tradizioni latine, dà lume e certezza al concetto positivo dell'anima. E invero, se egli mostra talvolta di dubitare della semplicità e immortalità dell'anima u m a n a, dell'esi stenza di Dio e delle sue perfezioni infinite non dubita mai.«L'origine dell'anima umana,egli diceva nel De consolatione, non può in alcun modo trovarsi su questa terra. Non v'ha in essa niente di misto, nè di concreto o di terrestre; niente d'aria, d'acqua o di fuoco. I m perocchè tali sostanze non sono suscettibili di m e m o ria, d'intelligenza o di pensiero, nulla hanno in loro che ritener possa il passato, prevedere il futuro, c o m prendere il presente; le quali facoltà sono unicamente divine, e non possono in guisa alcuna essere venute nel l'uomo,se non discendon da Dio. La natura dell'anima è perciò d'una specie singolarissima, e da queste comuni e cognite nature distinta; talchè, qualunque esso sia, ciò che in noi sente e gusta,vive e si muove,deve essere per necessità celeste e divino, e però eterno. Infatti Dio stesso,che èinteso da noi,non può intendersi in altro modo che come una mente liberissima e pura,sgombra da ogni concrezione mortale, che vede e move ogni cosa, e sè stessa con sempiterno moto; di questa sorta e di questa stessa natura è l'anima umana.» Con queste parole conchiude Cicerone nel primo dei Tu sculani la dimostrazione dell'anima e di Dio, dimostra zione mirabile per lucentezza speculativa, e per schietta e dignitosa eleganza; qui lo vedi abbandonato al nobile istinto del genio, e a un'immortale devozione pel bello, levarsi nel mondo degli universali, nella dimora degli spiriti eterni, e indovinare quasi sui vestigj di Platone i fondamenti ove posa la teologia del teismo; salvochè, se il lettore tien dietro al procedere delle prove, e al le game segreto che le connette,s'accorge tosto come per l'abito d'indurre dalle cause modali manchi alla sua d e finizione di Dio la vera trascendenza logica del concetto, sebbene (come vedremo) ve lo ravvicinasse d'assai nel primo delle Leggi la viva coscienza dell'ingegno latino. La maggior parte di coloro che ci hanno preceduto nella critica di Cicerone, hanno esaminato diligentemente l'indole delle prove a cui s'appoggiava la dottrina del l'immortalità, e alcuni andarono tant'oltre, nonostante le sue continue e ripetute affermazioni,che da certe epi stole consolatorie agli amici (la sedicesima e l'ultima del libro V,e la ventunesima del libro VI, ad Diversos)de    Principio etherio flammatus Iuppiter igni Vertitur et totum collustrat lumine mundum, Menteque divina cælum terrasque petissit: Quæ penitus sensus hominum vitasque retentat, Ætheris æterni sæpta atque inclusa cavernis. » (De suo Consul. De Divin. dussero ch'egli ne dubitava; m a a queste accuse rispose vittoriosamente Gautier de Sibert nell'Accademia di Francia,e Kuehner piùtardiloconfermava.Delresto per ciò che risguarda gli attributi divini, e se Cicerone ammettesse uno o più dèi,e se quest'unico Dio facesse veramente eterno,onnipotente,necessario, immutabile,e qual fosse conforme alla sua dottrina la condizione degli animi separati dal corpo, questione trattata da parecchi critici, io son d'avviso che tutto ciò non possa stabilirsi con assoluta certezza, varie opere del nostro filosofo es essendo andate perdute, nè trattando egli espressamente tali materie nelle altre che ci sono rimaste.E nondimeno per chi mediti senza preoccupazione i suoi libri v'è tanto ancora quanto basti a mostrare,come in mezzo a una re pubblica corrottissima e ad uomini scelleratissimi l'ora tore latino cercasse nel concetto genuino di Dio e del l'immortalità un degno conforto alle sventure civili, e un magnanimo entusiasmo alla sua parola propugna trice ultima delle libere istituzioni; egli che in uno dei suoi poemi,composto nel bel mezzo della vita politica, avea definito Dio con quella immagine sublime di vera poesia: Oratornandoalla dottrinateologica, questosegregare la mente dell'uomo da ogni natura corporea,e sublimarla a una parentela soprannaturale con Dio, il che è già accennato nel sogno di Scipione,dove nel senso platonico la natura materiale del corpo è opposta a quella del l'anima, e la vita nostra è chiamata una morte ci dà oc casione a stabilire un punto importante della fisica di M. Tullio, cioè il suo dualismo, o semipanteismo. Di tal dualismo mi pare sipossano arrecare due cause;l'una comune allaleggeconcuisisvolgonoisistemifilosoficinella storia,l'altra ristretta particolarmente all'ingegno di Cice rone.Quanto alla prima causa,se ricordiamo ilgià detto in torno al modo con cui l'uomo partendo da sè stesso conce pisce nell'indefinito del suo pensiero l'indefinito di Dio,e l'anima lungo la serie delle cause modali da sè,prima causa più manifesta e più vicina a sè stessa,immagina la divina causalità, intenderemo come fra le contradizioni del panteismo quella che subito si porgeva più chiara alla riflessione esaminatrice,fosse la medesimezza dell'anima e di Dio infi niticollamateriafinita,passibile,imperfettaedalrifiutodi questa contradizione uscisse il dualismo di Dio e della m a teria,dell'anima e del corpo,dell'intelletto e del senso.Tal dualismo desunto da Platone, benchè in fondo contradit torio esso pure,indica un vivo sentimento dell'eccellenza di Dio e dell'essere umano, e mi piace riconoscerlo come proprio degli uomini sommi; laonde è ben naturale vi dovesse aderire Cicerone, non tanto perchè innamorato degli esempj delle scuole socratiche la cui efficacia infor mava vivamente le dottrine romane, quanto perchè poco amante della incertezza delle scienze sperimentali, e testi mone egli a sè stesso dell'altezza dell'umano ingegno,la cui onnipotenza tante volte gli apparve ne'combattimenti immortali della tribuna. (Vedi più luoghi negli Ufficj e segnat. L. III, c. XLIV, ed opere pass.) E poi se quel dualismo soddisfaceva da un lato le aspirazioni dei più grandi intelletti, e metteva la notizia diDio al sicuro da ogni condizione del finito, d'altro lato il concetto astratto che dava di quello la scuola socratica faceva nascere il dubbio sul come spiegarne le relazioni, pur necessarie, coll'universo dei corpi. Tal dubbio implicava il solito quesito sul come conciliare l'ente col non -ente, il finito coll'infinito, il relativo coll'assoluto, la perenne mutabi lità de'moti fenomenali colla quiete immutabile dell'es senza prima, quesito continuamente proposto dalla G e n tilità,nè mai risoluto,perchè mancava a sciogliereilnodo il vero concetto d'attinenza creatrice.(Vedi Platone,Sofi sta.) Quindi la mente desaggj ondeggiava di continuo da un termine all'altro di quella contradizione immortale. Enrico Ritter, più volte citato, esaminando il sentire del filosofo latino intorno a siffatto quesito, e rappresentando con vivi colori quell'opposizione ch'ei pose tra la natura e il divino, non ne conobbe forse la causa più vera; la quale gli sarebbe apparsa evidente se in luogo di vol gersi soltanto all'indole dello scrittore, l'avesse cercata in questa contradizione che affaticava da più secoli la filosofia pagana. Ma il Ritter s'appose anche in parte, poichè quel vivo intuito delle perfezioni divine ed umane, e della differenza tra la materia e lo spirito che prima avea salvato Cicerone dalla dottrina d’un'unica sostanza, ora lo teneva sospeso nelle contradizioni del dualismo, massima delle quali era il contrasto tra la libertà divina ed umana e le leggi fatali della natura che spegneva ogni fede nella provvidenza, nel libero arbitrio e nella religione degli avi. Come il nostro filosofo mantenendo il dualismo inten desse di conciliare l'efficacia della prima cagione nelle cagioni seconde col moto necessario dell'universo, come spiegasse quell'atto misterioso di causalità con cui l'in finito si congiunge al finito, e lo comprende e lo sostiene senza identificarsi con esso, e, mentre faceva con Platone emanato da Dio l'intelletto,rivendicasse all'altra parte del l'uomo,identica colla natura sensibile,l'autonomia de'pro prj atti,e l'imputazione morale,è quesito di non poca dif ficoltà, sì perchè la sua dottrina fisica del dualismo non è abbastanza accertata,e perchè d'altra parte ne’libri che esaminiamo al presente, ma più ne'morali, s'incontrano affermazioni decise e ben ragionate sulla provvidenza di Dio e la libertà dell'essere umano. (De Leg., Fin., Tusc., N. D., Catil., pro Marcello, ad Att., ad Div. Certo s'egli non fosse nato nell'ultima età dell'era pagana, e avesse accolta quella teorica della creazione ex nihilo, chiamata giustamente da Terenzio Mamiani una delle maggiori conquiste ottenute dalla speculativa dei nuovi tempi sulle età trapassate, (Conf.) ha tratto dalla notizia di Dio creatore un concetto chiaro delle sue re lazioni col mondo, e i due ordini naturale e soprannatu rale gli sarebbero apparsi intrecciati fra loro per quel legame di causa che congiunge la teologia colla scienza del mondo.Ma Cicerone,come tutti igentili,rifiutavala dottrina della creazione, sebbene proposta alla mente dei filosofi e delle plebi forse dalla memoria d'antiche tradi zioni, il che mostra un frammento del libro terzo De Natura Deorum,conservatocidaLattanzionellibro secon do,c.8 delle Istituzioni divine. Esclusa la teorica del congiungimento tral'infinitoeilfinitoperattinenzacrea tiva,non rimanevano,come vedemmo, che due sole vie;o l'unità consustanziale di Dio e dell'universo,o l'assoluta separazione di questo da quello, del molteplice dall’uno, dell'assoluto dal relativo. M a la dottrina de'panteisti menata alle sue ultime conseguenze,oltre all'incorrere in quella lunga serie di paradossi e di antinomie che in parte accennammo, e la cui dimostrazione ha esercitato per tanto tempo l'ingegno de'filosofi d'ogni parte d'Eu ropa, repugnava secondo Cicerone all'indole pratica e positiva del politico e del cittadino; laonde egli la c o m battè acutamente colle armi della Nuova Accademia nel quesito proposto dagli Stoici sulla divinazione o previ sione del futuro. Secondo questa dottrina che usciva dalle premesse della fisica di Zenone,l'uomo poteva prevedere ilfuturo daisegnidellecoseanimateodinanimate,essen dochè l'universo fosse collegato ab eterno da un ordine necessario di cause efficienti;ordine necessario nell'uomo, che era una particella o determinazione dell'anima uni versale;necessario nella natura,dove ogni fatto è gover nato da leggi, e racchiude in sè la ragione de'fatti con secutivi; necessario in Dio stesso che, immutabile per sè, si trasforma ne'fenomeni della natura come in uno svol gimento fatale della propria esistenza. Questa dottrina che si finge esposta dal fratello di Cicerone nel primo De divinatione,è poi confutata dal l'autore nel libro secondo; e quel dialogo è di somma importanza nella storia delle credenze umane,perchè trattando la gran questione del soprannaturale agitata ai tempi di Tullio,riproduce nel calore della controversia quello stato penoso degli animi,sospesi nell'incertezza dei più nobili veri, e in un'età in cui la rovina del politeismo già preparava il rinnovamento cristiano. La conciliazione tra l'ordine necessario del mondo e l'autonomia dell'essere umano è accennata nell'operetta de Fato.Questo libro,o meglio questoframmento,dove si espone un dialogo avuto dall'Autore presso Pozzuoli con Aulo Irzio, console,  scritto, insieme coi due libri della Divinazione,a supple mento dell'altra opera de Natura Deorum per sostenere la libertà dell'arbitrio contro il concatenamento fatale delle cause, e temperare le ultime illazioni de'panteisti e de'dualisti contemporanei. Il metodo dell'osservazione, applicato nei soli termini della natura sensibile,menava al lora (come oggi) alcunifilosofisperimentali ad accettarela dottrina del Fato (detto dagli Stoici eiuzpuévn),inteso come un ordine e una serie di forze,manifestanti la natura di cause, e che s'intrecciano fra loro d'effetto in effetto per leggi costanti d'antecedenza e di conseguenza.Ora è chiaro che da questa dottrina condotta alle ultime conseguenze, uscivaalteratol'ordineuniversale,eilconcettodinecessità che lo sovraneggia. Era alterato dal panteismo,dove ve rificandosi l'identità de'due ordini soprannaturale e natu rale,ogni atto fisico ed umano si riduceva a un deter minarsi necessario della causa divina; era alterato dal dualismo che opponendo Dio allanatura,e immaginando quest'ultima come sospinta da un ordine fatale di cause intrinseche ad essa,non poteva spiegare in eterno come in quest'ordine naturale si dessero fatti liberamente o p e rati. Ma Cicerone si schermiva da questi errori ricor rendo alla osservazione interna, e al concetto di causa. Che cos'è la libera volontà?  salità poi non dee intendersi costituita dalla pura e s e m plice successione de'fatti,ma dallasuccessione lorounita coll'efficienza degli uni sugli altri.Or dunque (riprendeva ilfilosoforomano controCrisippo),argomentano benegli Una libera causa;lacail   Stoici dicendo che nell'ordine prestabilito della natura tutto si opera per cause antecedenti ed esterne, m a non hanno ragione se vogliono turbata questa legge della n a tura dall'operare dell'arbitrio; « poichè quando diciamo di volere o non volere qualche cosa senza una causa, fac ciamo uso non buono di una consuetudine del linguaggio comune, intendendo dire, senza causa esterna ed antece dente, ma non senza una causa qualunque;di fattiil moto volontario degli animi ha tale natura che è in nostropotereeciubbidisce,non peròsenzacausa;chè la causa di tutto ciò è la sua stessa natura (XI).» Non ci è permesso riferire qual fosse in ogni parte la dottrina diTuiliosullalibertàdelvolere,perchè il libro De Fato racchiude importanti lacune; m a apparisce però da più luoghi ch'egli la fondava sulla certezza dell'imputabilità degli atti umani,e per tal via si apriva il passaggio dalle opere fisiche alle morali,nel modo che appositamente e con ordine verrà dimostrato nel capitolo quarto. Concludendo, alle dottrine sin qui esaminate si re stringe le serie delle opere fisiche di Cicerone. Nelle quali vuolsi considerare com'egli avviluppato in una moltitu dine di sistemi contradittorj e negativi,e costretto ad esercitare l'esame della riflessione sopra una materia scientifica ingombra nelle parti più sostanziali dalle te nebre del sofisma, distinse le verità disputabili dai teoremi della scienza,sceverò con critica coscienziosa ilbuono ed il certo delle filosofie contemporanee ponendo l'una a ri scontro dell'altra, e temperandole ne'loro eccessi. Per tal modo le principali verità mantenendosi intatte, soc correvano il pensiero a ricostituire l'Ontologia nei prin cipj della scienza cristiana; e questo è davvero un m e rito insigne e innegabile della fisica ciceroniana, come altri notati da noi sono la sua temperanza verso le affer mazioni eccessive degli sperimentali, il concetto di Dio, ravvicinato alla dottrina di Socrate,e sciolto,per quanto erapossibileallora, dallecondizionielimitazionidell'uomo, la natura spirituale dell'anima,la sua libertà dimostrate in tempi di abbattimento morale e di costumi nefandi. Su  questi principj fondava l'oratore latino la sua fede religio sa;chè se (come nota bene Vannucci) « nella Divinazione ed altrove, allontanandosi dalle forme timide della Nuova Accademia con argomentazione più forte che in ogni altro scritto combattè da arditissimo novatore le credenze usate già come istrumenti oratorj e politici,e mostrò il vano e il ridicolo dell'arte divinatoria, e dei prodigj, e delle imposture sacerdotali; » Senatore e console di R o m a, egli voleva una fede ritemprata alle sorgenti incorruttibili della morale, e che diventasse vero fondamento alla rico stituzione civile della sua patria. 1. Se la scienza, come affermammo più volte, è un portato delle naturali notizie; se, ritenendo essa nel suo svolgimento la natura del principio che la informava, la unità dell'oggetto scientifico, riconosciuta dalla riflessione, si fonda in un primitivo ordine di veri presenti tutti al l'armonia della coscienza,che costituisce il soggetto scien tifico; nessuno può dubitare che i principj della teorica del conoscere, o della Logica non si colleghino intima mente con quelli della teorica dell'essere, coi principi dell'Ontologia. Il fondamento di questo legame che, a n teriore al fatto della scienza, si riproduce tal quale nella scienza stessa, ha la sua ragione nell'idea della persona lità umana, da cui, come da unico fonte, rampolla la triplice attività dell'esistere,del conoscere,dell'operare; l'ha nella stessa natura del vero che unico in sè, se lo esamini sotto duplice aspetto, è prima essere nelle cose, e poi si fa vero contemplato nell'intelletto. La medesi mezza delle due parti suddette della filosofia apparisce per modo indiretto nella continua attinenza che strin fra loro le questioni più importanti della logica e del l'ontologia dai più remoti principj della nostra scienza fino ai tempi a noi più vicini. È un fatto omai noto nella storia della filosofia come il quesito fondamentale della logica, qual sia la relazione che corre tra l'ideale e il reale, quale la corrispondenza tra le leggi del pensiero e quelle della natura, e se dandosi passaggio dall'intelli gente all'inteso,se ne costituisca la possibilità della scienza, quesito contenuto ab antico nella materia delle specula zioni pagane, ricevesse la sua vera espressione scientifica dalle dottrine critiche della Riforma. È altresì noto ai di nostri come dalla posizione deliberata di tal quesito si diramarono due scuole; il Criticismo francese e alemanno, e il Criticismo cristiano, che cominciato dai Dottori e dalla buona Scolastica ne'tempi di mezzo,segue a fiorire segna tamente in Italia ai dì nostri. Ambedue queste scuole, di verse sostanzialmente nei principj ontologici del sistema, dissentono pure nella logica. La prima desumendo le sue dottrine dal panteismo e dualismo antico, resuscitato più tardi da un ritorno della civiltà cristiana ai dommi del Gentilesimo,disconobbe l'attinenza manifestatrice che per legge di natura intercede tra il pensiero e le cose, tra il soggetto e l'oggetto, e quell'attinenza ode naturò in identità colle dottrine d'un'unica sostanza, o riduce a separazione ammettendo col Cartesio un'intima differenza tra le qua litàdell'esteso elequalità del pensiero, d'onde il sistema delle cause occasionali del Malebranche, quello dell'armonia prestabilita del Leibnitz e lo scetticismo di Bayle e Kant. La seconda scuola movendo dal principio che la libertà del pensiero scientifico soggiace per legge di natura alla condizione di non potere alterare l'ordine necessario degli enti fra loro, trovava con sublime e trascendente concetto il legame dell'idealità col reale e nell'intima essenza dell'atto creativo di Dio, che pose primitivamente una coordinazione d'atti fra l'essere delle cose e gl'intelletti creati; e in Dio stesso nella cui n a tura infinita e impartibile s'immedesima l'idealità colla realtà, la realtà dell'essenza coll'eterne idee rappresen tative e causative degli enti creati. Or che si deduce da c i ò? Che se il principio del Criticismo, ond'è ridotto a problema il teorema della conoscenza, ha un intimo riscontro nei fondamenti della dottrina dell'essere, e i si. Ma qui cade per altro una considerazione importante. Il panteismo e ildualismo,sebbene alterassero dai fonda menti la dottrina della conoscenza o distruggendo la re lazione ond' è manifestativo il pensiero, o affermando un'incomunicabilità primordiale tra ilsenso e la materia, principio di corruzione e d'ignoranza, e lo spirito eterno emanato da Dio, non negavano per anco esplicitamente nè l'un termine nè l'altro dell'attinenza conoscitiva;e quando in un sistema, sia pur guasta e corrotta,sia pure implicitamente negata,siconserva nell'intimo significato delle dottrine la piena comprensione del soggetto su cui cadelascienza,qualunquedisputaintornoaiprincipalipro blemi si offre sempre con probabilità di scioglimento alla riflessione esaminatrice. Quella probabilità cessa quando sensismo, materialismo e idealismo, negando due parti sostanziali del soggetto, l'intelletto e l'idea manifestante, causa e mezzo del conoscimento, e la cosa manifestata, termine della cognizione, si chiudono la via ad affermare intera la notizia dell'essere umano, denaturano il legame che intercede tra l'ideale e il reale, e rendono impossibile la psicologia, ingannatrice la logica. Un breveaccenno di questa legge necessaria che si riscontra nella storia delle controversie filosofiche, l'abbiamo già fatto nella prima parte toccando dei sistemi principali che apparvero dal primo scadere della scuola socratica fino ai tempi dell'Arpinate; allora fu osservato da noi come a n dasse di pari passo coll'oscurarsi sempre maggiore dei veri principali e delle antichissime tradizioni l'impoverire della forma logicale dei sistemi,e come l'ultimo grado di questo scadimento fosse segnato dal sistema d'Epicuro, e dalle dottrine logiche della Nuova Accademia. Ora poi stemi che alterarono questa dottrina sono contemporanei ai primordj della filosofia, antichissimo deve essere il fon damento del Criticismo; e ne sono testimonj le più strane teoriche sul modo del conoscimento procedenti dalla fisica de'sistemid'India, d'Italia,diGrecia,come,ad esempio, gli atomi di Capila,gl'idoletti diDemocrito,leimmagini fluenti d'Epicuro e di Lucrezio.  ci sia permesso venire su questo proposito a maggior particolari, perchè, giunti a questa parte delle opere di Tullio dove conviene esaminare la controversia tra gli Stoici e l’Accademia sulle dottrine del conosci mento,rappresentatada luineilibriAccademici,importa massimamente il notare perchè e come ai tempi del filo sofo latino,o poco avanti,ilproblema fondamentale della logica si fosseristretto alla percezione sensitiva; e come dal punto diverso e dai confini onde le due parti dispu tanti consideravano il quesito intorno al conoscere, di penda il valore delle prove allegate, e il principio su premo che governa la controversia. 2. Venendo dunque al proposito, il sistema d'Epicuro e le dottrine dell’Accademia, non che lo scetti cismo e l'empirismo finale ci palesano quasi una spos satezza del pensiero greco,che non val più ad abbracciare la totalità del soggetto scientifico con quell'ampiezza di principj e di leggi con cui Platone e Aristotele l'avevano abbracciata;ma un peggioramentoimportantenellaforma scienziale già si notava nel sistema degli Stoici. Consi derate un poco la sostanza di quelle dottrine,e vi troverete due principj che danno a tutto il sistema due qualità e due aspettiben differenti.Il cardine del sistema di Ze none è infatti l'unità primordiale e finale delle cose tutte, la unità della sostanza prima indistinta e indeterminata, che poi si determina e si partisce per l'efficacia del prin cipio attivo e divino svolgendo da un unico germe la dualitàde'principj.La sostanzaprima,distintaallorain un'anima e in un corpo universali, causa delle anime e dei corpi particolari, costituisce l'essere del mondo che rappresenta la vita di Dio; quella vita diffusa in tutte le cose animate ed inanimate le fa partecipare per un in timo principio di compenetrazione alla natura e all'effi cacia di Dio,e l'anima umana,ch'è più vicina a quella sorgente universale, ne ritrae maggiormente, informando e compenetrando il corpo, a somiglianza dell'anima uni versale, e come quella riducendo a un solo principio m o tore le facoltà seconde; talchè per gli Stoici dall'unità dell'essenza prima esce identificato l'intelligibile col reale, il pensiero cogl’oggetti, l'intendimento col senso. Considerato inquestegeneralità il sistema di Zenoneabbraccia tutto intero il complesso dei veri palesati dalla coscienza, alterandone la natura col Panteismo.Ma se vieni ad esa minarlo più particolarmente, allora i molti principj con tenuti nel seno fecondo della materia prima,e in lei de terminati più tardi, il divino e materia, anima e corpo,intelletto e senso, pensiero ed oggetti,scompajono tutti,e siriducono ad un solo; alla natura informe e indeterminata della materia. Allora ti apparirà vizio capitale di quel sistema la riflessione esaminatrice che, sebbene apparentemente voglia svincolarsi dal senso e dalla materia, concependo a m o 'degli Ionj dinamici nel seno dei fenomeni naturali un'intima energia infinitamente diversa dalla materia, e cagione di que'moti,non sa dominare la fantasia, e ab bandonata al pendío voluttuoso dei tempi,trasporta in quella forza primitiva e in Dio stesso, che la pone in atto, le qualità corporee. Così la dottrina degli Stoici sin dalle sue radici s'infettava di materialismo. Ora è tale il ri scontro dei veri principali nella legge necessaria del co noscimento, che, oscurato il concetto di Dio e delle cose, se ne oscura alla mente dell'uomo la nozione di sè stesso Non è dunque a maravigliare se per gli Stoici al mate rialismo in fisica tenesse dietro il sensismo in psicologia; quindi,giàloaccennammo,alterato ilvero concettodi potenza conoscitiva,scambiarono inostril'occasionedel l'atto apprensivo, che ci viene dai sensi,colla causa intima di quello,veramente causatrice, che è l'attività dello spi rito;quindi,non bene distinto l'operare dei sensi e del l'immaginativa dall'operare dell' intelletto, diedero al complesso dei fantasmi le qualità del pensiero. In questo esame parziale e negativo delle facoltà del soggetto, quale ci offre la psicologia degli Stoici, si nascondeva per fermo una potente causa di scetticismo;chè movendo dal lato indiretto da cui la Stoa considerava il fatto dell'umano conoscimento, e negli angusti confini in cui restringeva la coscienza delle interne operazioni dell'animo,era facile  93   a sottili ragionatori trovare appiglio per dubitare di qual che cosa o di tutto.Vi si prestava la natura dell'idea, che avendo il proprio essere in un'attinenza manifestatrice, se la consideri identica ai fatti animali, ti doventa un mistero; vi si prestava la natura del senso, inesplicabile, oscuro e sostanzialmente erroneo, se non lo risguardi illu minato dalla luce dell'intelletto; vi si prestava infine la fantasia perenne creatrice del falso, facile a denaturare coi più vivi colori del senso gli ultimi resultati della p o tenza astrattiva. Così dal sofisma degli Stoici (e sofisma vuol dire sempre difetto) germinava quello dell’Accademia. Chè, se fu cattivo abito della riflessione esa minatrice nelle dottrine di Zenone il fare ombra dei fe nomeni materiali allo splendore delle idee,e ridurre quasi ciò che v'ha di più vivo nell'umana personalità allo sviluppo meccanico delle funzioni apprensive,fu pessimo nella Accademia,non già l'opporre ilvero all’er rore,il compiuto all'imperfetto esame della coscienza,lo che essa non fece; m a profondarsi nelle sole astrazioni, m a restringersi nel pensiero vuoto,fenomenale, apparente, o al più negl'inganni d'un fallace conoscimento. Quindi a una negazione di negazione si riduceva ai tempi di Tullio, o poco innanzi, la polemica tra gli Stoici e la Accademia.Ed ecco (ciò che cieravamo proposti a mostrare) perchè dopo i notevoli perfezionamenti che la dialettica avea ricevuto dalle scuole italica ed eleatica, da Platone e dall'Organo aristotelico, la teorica sulle fonti del cono scimento, complessiva di tanti veri, s'era allora ristretta alla disputa sulla percezione sensitiva.  94 Tal disputa, dipinta con tanta verità di colori da Tullio nei due libri degli Accademici Primi, e massime nel se condo (chè il breve frammento rimastoci del primo degli Accademici Posteriori, dedicato a Varrone, si riduce ad una semplice esposizione istorica delle principali scuole socratiche), rappresenta in fondo la lotta di tutti i tempi tra ildommatismo inconseguente e lo scetticismo presun tuoso. Quel venire ai cozzi di opinioni eccessivamente af fermative con altre assolutamente inquisitive era, come   dei nostri, un portato naturale dei tempi di Tullio,tempi di contradizioni profonde, nei quali, come oggi, da una parte tutto si disfaceva con rabbia sterminatrice, dall'altra con puntigliosa rigidità si sosteneva qualunque lato anche debole e imperfetto del vero,imperfettamente considerato. La superbia e ildisprezzo erano le armi con cui si scon travano i combattenti, e l'una e l'altro stavano bene a quelliuomini,eloquenti,come noi,nell'esaltareiprincipj, e non logici quanto conveniva nel dedurre da quelli le gittime conseguenze; altrettanto facili ai propositi gene rosi,quanto difficilinell'eseguirli;filosofidaaccademia,e da piazza; politici predicanti la severità antica nelle m o l lezze moderne; uomini a cui mancava la lena di levarsi sulle ali del pensiero alle universali armonie della scienza nel vero,nel bello e nel buono,capaci soltanto d'impri gionarsi nelle angustie d'una dialettica ingannatrice o p ponendo sofisma a sofisma,contradizione a contradizione. Quindi massimo argomento in questo, come in simili casi, del difetto delle due parti che disputavano, era che, se tu esamini l'una e l'altra con animo non preoccupato, e poi non imiti il Cousin, che dall'accozzo fortuito degli errori volle ricomporre il corpo formoso della filosofia, quasi statua da brani dispersi sopra antiche ruine, m a cerchi di compirle ambedue colla pienezza dei veri atte stati dalla coscienza naturale, soltanto allora elle t'appa riranno perfette, e risoluta la tesi, ti vedrai brillare al pensiero la luce d'un irrepugnabile convincimento. La disputa è finta da Cicerone come avvenuta presso Baule in una villa d'Ortensio, presenti lo stesso Ortensio, Catulo e Lucullo. Gl'interlocutori principali sono Lucullo e Cicerone. Lucullo sostiene le parti d'Antioco, del Portico, contro Filone, dell’Accademia. Tullio quelle di Filone contro Antioco. Or qual era il principio da cui moveva, e quali i punti più segnalati in cui si spartiva il ragiona mento? Qui occorre ridurci a memoria un'importante osser vazione del Ritter. Il quale nella sua Storia della filosofia antica, tenendo dietro all'indirizzo che la dottrina sulle fonti del conoscimento avea preso da Aristotele in poi, quando nota la differenza segnalata che correva tra gli Stoici e il filosofo di Stagira, mentre questi moveva sì dalla sensazione, ma senza negare il resultamento del l'attività intellettuale dell'anima, laddove gli Stoici, più vicini in ciò agli Epicurei,cercarono di ravvicinare di più in più il pensiero razionale alla sensazione concependolo solo come una sua conseguenza e trasformazione, aggiunge inoltre che nell'evitare le grandi difficoltà, le quali si o p p o nevano alla dimostrazione di quel loro sensismo, si rias sume intera la dottrina degli Stoici intorno al criterio del vero. Ritter. L'osservazione di Ritter è giusta. Di fatti per quella solita opposizione che trovi in ogni filosofo di setta tra le tendenze vive dell'animo e l'indirizzo artefatto della riflessione, si vedevano negli Stoici due disposizioni opposte che imprimevano qualità contradittorie al loro sistema; da un lato il pendio del l'età e il decadimento della forma e della materia scienti fica li inchinava al sensismo e alla meditazione incompiuta del soggetto su cui cade la scienza; dall'altro la tradi zione socratica e la voce non muta del senso comune li chiamava ad abbracciare il complesso dei veri di natura, le facoltà dell'animo e i termini loro, e a rendere p o s sibilmente perfetta la forma scienziale; antitesi d'opposte tendenze che pur si specchia in quell'ondeggiare continuo del loro sistema tra il panteismo ionio e il dualismo so cratico. Ora che ne veniva da ciò? Dal lato imperfetto da cui gli Stoici consideravano l'umana coscienza quanto alla dottrina del conoscimento, resultava ch'essi sbaglia vano il concetto di potenza,di causa,di relazione, fondamenti primi di tal dottrina;quindi la loro logica si re stringeva alla dimostrazione del conoscimento acquistato per via de'sensi,di cui ponevano l'essenza nella rappresenta.zione vera o comprensiva (parrugia 2270)atlyn), ch'è un patire dell'anima,a cui risponde da un lato l'operare del l'oggetto sentito, dall'altro l'operare dell'anima stessa che conseguentemente alla sensazione ricevuta assente,giudica e ragiona.Ma qui, giova il ripeterlo, stave la fallacia dell'argomento; gliStoicimovevano dalnulla,edaquelnullaface vano uscire la pienezza del soggetto e dei principj costituenti la scienza.E veramente io non negherò mai alla buona filosofia che ilfatto della percezione sensibile,intesa come attinenza reale tra il sentito e il senziente, mi riporti al l'esistenza di due termini de'quali l'uno è causa esterna e occasionale della sensazione, l' altro è causa intima e veramente efficace; non negherò mai che l'illazione di causalità mi mova ad affermare la reale natura dell'ente che opera sugli organi de'sensi,e che il concetto di po tenza m'induca a concepire nelle facoltà conoscitive un qualcosa che le costituisca operanti,un che di positivo e d'efficace che risponde alla passività negativa del sentimento; m a io nego agli Stoici quel loro metodo di facili illazioni, onde identificata la potenza intellettiva col senso volevano dedurre in virtù di universali prin cipj da una condizione passiva delle facoltà del sog getto l'efficacia dell'intendimento, e dalla sensazione mutabile e fenomenale l'incommutabile necessità della scienza.Ma ilfatodellalogicanon's'arrestava;egliStoici ristretti in tal modo nelle angustie dei fenomeni sensibili, tanto più quanto levavano lo sguardo alla cima del sa pere,rammentando le tradizioni del Sofo ateniese, vede vano l'importanza di ribattere le prove degli avversarj che paragonavano la mutabilità e l'incertezza de'fatti animali colla natura assoluta del vero contenuta negli universali concetti,onde germoglia e si sviluppa la scienza. Quindi proveniva il bisogno vivamente sentito da loro di movere da un fatto e da principj indubitabili ed evidenti -- Acad. Quindi la necessità di mostrare,primo, come si possa distinguere la rappresentazione falsa dalla vera; secondo, come movendo dal reale della rappresenta zione apparisca che la mente stessa che è fonte dei sensi, e che essa medesima è senso,abbia una naturale energia per cui tende a ciò che la move al di fuori; mens ipsa que sensuum fons est,atque etiam ipsa sensus est,naturalem vim habeat quam intendita deaquibus movetur. Da questo concetto,fondamentale nella logica degli Stoici,  [La prima parte cadeva sulla domanda: se la perce zione sensibile avesse impressi in sè certi segni della v e rità dell'oggetto rappresentato; il che negava la Nuova Accademia,affermando che in una percezione,fosse pur vera, non era alcuna certa nota per distinguerla da una falsa; dubitavano dunque che per mezzo dei sensi l'entità della cosa sentita passasse tal quale ella era nell'appren sione del soggetto conoscitore. Posta in tal modo la questione, è chiaro che poichè il mezzo di passaggio del vero conosciuto dalla cosa, occasione del sentimento, alle potenze conoscitive, è il senso ed isuoi organi, conveniva innanzi tutto,a provare la realtà della cognizione, argomentarla dalla veracità naturale dei sensi.Dai quali movendo Lucullo ne afferma chiaro e indubitato il giudizio,nulla valendo, ei dice,gli artificiosi argomenti degli avversarj intorno alle false apparenze delle percezioni; poichè: 1°,dato che i sensi siano sani,col buono uso ch'io ne faccio posso ret tificarne i giudizj,posso coll'esercizio e coll'arte aumen tarnemirabilmente laforza; 2°,ilsensoèdimostratovero ne'suoi giudizj dal successivo lavorìo della mente sulla materia da esso somministrata formandosene i concetti delle qualità e delle specie che son via ai principj più universali, ai quali naturalmente l'intelletto dà fede, e tolti i quali ogni arte,ogni scienza,ogni regola della vita cadrebbe. Tutta la teorica si regge manifestamente sul principio di causa e di relazione. Se io, diceva Antioco, ho sperimentato in me l'effetto della percezione sensibile, questa mi riporta ad una causa per via d'una necessaria attinenza. Ma Filone invece (e in ciò è imitato dagli scet tici odierni) ammettendo la possibilità del fenomeno come di un che vuoto,di una mera apparenza senza alcun con tenuto, poneva come probabile che la sensazione non ci scoprisse l'entità di veruna cosa. M a, riprendeva A n tioco, primieramente oltre i naturali giudizi e i giudizj scientifici, che nascono e si fanno manifesti in noi per l'occasione de'sensi, dal germe del conoscimento spunta  98 il ragionamento d’Antioco si dirama in due capi: della percezione e dell'assenso. Il ragionamento di Lucullo, compreso dal quinto al ventesimo cap.del secondo librodegliAccademici,edove l'umano intelletto fa prova di quella forza irresistibile che in mezzo alle contradizioni del sofisma pur lo sospinge ai principj universali del vero, è uno dei più mirabili tratti della filosofia e della eloquenza latina, e chi n'ha seguito con gioja confidente il cammino,se poi si volge ad aspettare la risposta di Cicerone, gli par di vederlo quale si dipinge con vivezza egli stesso « non minus c o m motum quam solebat in caussis majoribus. » Egli per aprirsi la via a dimostrare la sua tesi, non move da una professione di scetticismo assoluto, m a bensì da una cri tica temperata; e si fonda in special modo sull'argomento con cui Arcesilao avea combattuto Zenone, cioè sull'in discernibilità delle percezioni vere dalle false,onde avve niva che al sapiente non rimanesse alcun assenso deciso, m a una semplice opinione di verosimiglianza. Comunque sia, s'è domandato da molti. Cicerone non sostiene egli in questo libro le parti dello scetticismo accademico contro le dottrine stoiche della percezione? non si professa più volte ne'proemj delle sue opere seguace della riforma il fiore dell'appetito istintivo, il quale se voi mi negate avere persuoproprio enaturaltermineilvero,inquanto è conosciuto appetibile, io sono condotto ad affermare nell'uomo l'assurdo di più facoltà naturali che natural mente s'ingannano. Poi il falso non può mai essere ter mine dell'apprensione intellettuale,perchè ilconoscimento coglie di sua natura l'essere delle cose, ma il falso è appunto,rispetto al conoscimento,lanegazione dell'essere; dunque il falsonon può mai cadere sotto ilconoscimento. Finalmente, se nulla è vero, sarà almen vero questo che nulla è vero, perchè una scienza,una dottrina qualunque, per essere costituita nella sua natura, ch'è ordine di veri conosciuti,ha bisogno,come di un metodo e di un fine a cui vada e a cui giunga,così di un principio da cui mova indubitabile e certo. Lo stesso ordine di concetti desunto dal principio di potenza e di relazione regge a un di presso la teorica dell'assenso (Guyaute 985e»).   introdotta da Arcesilao? non scrisse egli i due libri,che voi esaminate, per mostrare ai Romani l'ottimo metodo del filosofare sull'esempio della Nuova Accademia? non han ripetuto e non ripetono ancora a una voce quasi tutti gli storici della filosofia che Tullio, seguace nella sua gio ventù dell'Antica Accademia, s'accostò già maturo alla Nuova, a cui lo traeva il suo istinto oratorio, lo scetti cismo de'tempi, l'animo incerto in tanta folla didottrine contradittorie, e la forma ecclettica di filosofia ch'e'si era proposta? Dunque Cicerone nelle tre parti della scienza,emassime inlogica, seguitò il dubbio dell’Accademia.(Brucker, Degerando, Bernhardy, Ritter).Tal conclusione,di cui demmo qualche accenno nel cap.Idi questa parte,sebbene apparentemente provata da parecchj testi divisi del filosofo nostro, da varie sue esplicite affer mazioni,e segnatamente da tutto il tenore di questi due libri, dove e'prende con lungo ragionamento in persona di Filone a confutare la certezza delle notizie che ci ven gon dai sensi,e dove in ultimo contrappone ex professo la sua dottrina del dubbio sistematico e della probabilità alle contradizioni in cui si lacerava la logica contempo ranea, tal conclusione, dico, non regge avanti al tutto delle dottrine esaminate spassionatamente, e avanti a quella norma di critica, che ponemmo sin da principio,di badar bene alle opinioni che Tullio combatte,e ai metodi che rappresenta in sè stesso senza per altro interamente accettarli. Le affermazioni eccessive della critica odierna, bene merita per tanti rispetti della civiltà e della scienza,hanno la loro sorgente esse pure nel falso principio del Criti cismo speculativo, che togliendo il pensiero scientifico fuori delle sue naturali armonie con sè stesso, colle cose, col Creatore e col genere umano, non riconosce più nello scienziato e nel filosofo l'uomo,e fa della più socievole fra le dottrine un gergo incomprensibile e solitario.Bisogna invece nell'esame dei sistemi non uscir mai dalla n a tura di que'tempi, di quegli uomini, di quelle passioni, di que'pregiudizj, di quelle consuetudini; bisogna immaginarsi i filosofi quali furono in realtà, disputanti e pensanti, uomini di tribuna e di tavolino, soggetti essi, come noi, alle contradizioni frequenti di qualche dottrina anche erronea concessa nel calore della disputa alle prove degli avversarj, colla interna coscienza, testimonio irrepugnabile al vero. Tale è più volte ilcaso di Cicerone, e tal metodo noi tenemmo nella parte fisica delle sue dot trine, e terremo nella logica e nella morale. Il Ritter scrittore accuratissimo nella critica'de'filo sofi,e alemanno davvero nella coscienziosa ricerca dei passi e dei documenti, talvolta, ci duole a confessarlo, compo nendo con disegno ingegnoso brani staccati di varie opere, ne fa resultare in conferma delle proprie opinioni un si gnificato che forse non germoglia dalla totalità del sistema. Così nell'esame della dialettica di Tullio, sebbene non n e ghi che il filosofo latino si leva al concetto dei principj e delle idee universali, cardine dell'intelligenza, pure af ferma che in logica ei riferì una singolare importanza al sentimento, pigliando questa parola nel significato in cui laintendono iRazionalisti,come di un che sostanzialmente opposto alla scienza, e soggetto alla cieca fatalità de gl’istinti. Hist. Ma inprimo luogo, oltrechè Cicerone (e lo vedremo meglio in morale) non fece mai del sentimento un qualcosa di opposto alla scienza, e anzi lo allegò sempre in un significato essenzialmente scientifico, quale una necessaria attinenza del l'affetto spirituale col vero -- De Fin. -- è poi esattaabbastanza l'asserzione di Ritter, checioèiprincipj fondamentali della sua filosofia naturale lo conducessero alledottrinelogicheperviadellasensibilità? Sefosselecito affermare risoluto contro l'autorità dello storico insigne, direi invece che due cause,intrinseca l'una,l'altra estrin seca alle dottrine di Tullio,lo guidarono in logica a con clusioni direttamente opposte, e lo ravvicinarono (pro gressorarointanta corruzionedi tempi) aidommi sublimi dell'Antica Accademia. In tal questione egli si trovò in mezzo al proprio semipanteismo e dualismo e alle dottrine materiali e sensistiche di Zenone. Non è egli vero che il dualismo semipanteistico da un lato rifuggendo alle con tradizioni del panteismo che più repugnano agl'ingegni sovrani, e gratificando dall' altro agli affetti spirituali, segregò la materia da Dio, lo spirito dal senso,e pose la ragione del conoscere nella medesimezza fondamentale dell'intelletto divino e degl'intelletti secondarj? Ora tal sistema, partecipato da quasi tutte le scuole socratiche e da Tullio,rompeva l'attinenza tra il pensiero e I pensati, tra l'ideale e il reale, e restringeva l'intendimento alla semplice e inefficace visione degli universali. Se così è, pare che il filosofo latino dovesse essere ben lungi dal porre nei resultati delle potenze sensitive la certezza del conoscimento;e lo prova la sua fisica dove sull'esem pio di Platone si rigettano i metodi delle scienze speri mentali come incapaci di somministrare una sicura notizia de'corpi, e l'indagine naturale si ammette solo come via di levarsi in virtù di principj superiori ai veri della scienza soprannaturale; lo prova la sua psicologia che tante volte contrappone il fenomenale della materia e del corpo al l'essenza dello spirito, che afferma il commercio dell'anima col corpo risiedere in una semplice comunicazione di moto, isensiesseresoloun emissariodell'anima,un'intelligenza ammezzata, e la personalità umana un gastigo. (Tuscul., De Leg.,De Rep.nel sogno di Scipione). L'altra causa estrinseca che allontanò Cicerone dalla fede che altri poneva nel conoscimento prodotto dai sensi, è l'opposizione ch'ei dovette fare al dommatismo degli Stoici, nella quale opposizione si vede che, mentre da un lato egli temperava colla moderazione dell'ingegno latino il dubbio eccessivo a cui l'avrebbero forse condotto le dottrine della Nuova Accademia, dall'altro sapeva con raro acume di logica smascherare e combattere le intime contradizioni degli avversarj. Qual era la fonte di tutte queste contradizioni? Noi già la conosciamo;era l'eterna differenza che corre tra il sentimento mutabile e fenome nale e l'incommutabile necessità della scienza. Questa necessità sembrerebbe a primo aspetto bastantemente di mostrata nel sistema degli Stoici dal porre ch'essi face vano il conoscimento scientifico nel possesso delle idee pure, e nel rappresentarcelo quasi l'ultimo grado di ferma convinzione,a cui lo spirito umano perviene col passare pei gradi intermedj della ouzoté0:015 – “adsentio” -- e della 2.zténnyes – “comprehension” -- , movendo come da suo principio dalla suurusis, o rappresentazione sensibile – il “visum”. (Ritter; Cic.,Acad.). Ma, seconsideriamo meglio,gli Stoici con quella loro immagine della mano stesa e del pugno chiuso ed aperto determinavano in qualche modo l'idea di una differenza tra il sentimento e ilsapere,ma non uscivano dai fenomeni animali,non sapevano accen nare quella nuova parte essenziale intrinseca al soggetto, che congiunta colla oggettività della percezione costituisce il conoscimento; laonde la Nuova Accademia avrebbe po tutodirloro:è vero che ilsaperedifferiscedalsenso,che il possesso sicuro delle rappresentazioni resulta dalla c o n trazione e dall'energia dello spirito(TÓvos);ma sepervoi l'intelletto non è che il travestimento del senso,mostra teci orsù come la potenza derivi dall'impotenza, l'asso luto dal relativo, il necessario dal contingente. Ora la Nuova Accademia senza levarsi a questi principj universali ch'essa non ammetteva,ma, giusta il suo costume, no. tando piuttosto quelle contradizioni che sidesumevano dal sistema stoico paragonato a sè stesso, pure implicitamente li confessava. Fallita infatti agli Stoici la definizione del concetto della scienza dato per via dell'attività spontanea dell'anima,non rimaneva loro altro scampo che ridurre la ragione del conoscimento alla indubitabilità della p e r cezione vera.Ma come mai dimostrare tale indubitabilità? Questo mutamento notevole che doveva introdursi nel l'indirizzo della questione sul problema della conoscenza per la legge a cui è soggetta necessariamente la vita d'ogni sistema,è attestato dalla storia; perchè,come os serva il Ritter, i primi Stoici dimostravano la necessità del sapere per quella forza interna dell'animo che si mani festa nell'atto d'apprendere la sensazione,e pel bisogno d'ammettere qual termine della facoltàintellettivaeap petitiva il vero ed il bene; laddove gli Stoici susseguenti, al numero de'quali appartiene Crisippo, vedendo che ciò contraddiceva ai principj del sensismo,trassero alle ultime illazioni il sistema ponendo il criterio del conoscere nella rappresentazione vera che si manifesta da sè stessa come prodotta da un obbietto reale analogamente alla sua natura. Nonpertanto una grave difficoltà rimaneva sempre a risolvere anche dopo la modificazione introdotta da Crisippo. Chè se il vizio fondamentale di tutta la loro dot trina stava nel disconoscere quell'intreccio d'attinenze interne ed esterne ond'è manifestativo ilpensiero;iprimi Stoici guardarono troppo al lato interno e soggettivo di quelle attinenze, mentre Crisippo, eccedendo per l'altra parte, si fermò unicamente all'esterno; e quindi rima neva sempre intatto il quesito, se la rappresentazione percetta offrisse piena e indubitata qual era la realità dell'obbietto rappresentato. E invero si ponga mente. Fingasi che un oggetto qualunque a cui noi riferiamo date proprietà di freddo, di caldo, di liscio, di ruvido, d'ottuso, di tagliente etc., faccia impressione sui miei organi s e n sorj,e che l'impressione, trasmessa per la treccia de'nervi al centro del senso, sia occasione a farmi concepire l'idea d'entità; se io esamino allora lo stato interno della mia coscienza, il fatto del conoscimento, unico in sè, mi si paleserà resultante da una mirabile armonia di fatti se condi, successivi bensì nell'esame della riflessione, con temporanei tutti nell'atto delle potenze spirituali. Ciascuno di questi fatti sarà l'operare d'una special facoltà, e cia scuna di quelle operazioni avrà il proprio termine; io poi che mi faccio ad esaminare quel nodo d'attinenze tra il soggetto e gli oggetti, vedo che la qualità dell'atto conoscitivo resulta bensì dalla qualità di ciascuno di quelli atti secondi, ma la sua certezza proviene da una legge di natura che li costituisce contemporanei e correlativi. Fa'che io tolga via col pensiero o l'uno o l'altro di quegli atti e i termini loro, quella stupenda armonia di natura mi si spezza davanti agli occhi, e io cado di n e cessità nello scetticismo; tolgo via l'impressione sensibile  [Il sistema cristiano, che movendo dalla formula di creazione riproduce in uno stupendo ordinamento di veri palesati dall'intimo della coscienza l'universale armonia del creato, può soltanto offrire un'adeguata risposta ai quesiti dello scetticismo sulla questione del conoscimento; perchè solo in quel sistema le attinenze dell'umano p e n siero con sè e cogli obbietti sono rigorosamente serbate, nè può lo scettico separando o negando creare vane a p parenze quasi dell'intelletto segregato in sè stesso,o della fantasia o del senso producenti fenomeni vani non retti ficati poi dal paragone dei giudizj mentali. L'ingegno di Agostino che meglio d'ogni altro comprese in sè stesso le armonie del Cristianesimo e della scienza de'Padri, dava un esempio del confutare cristianamente gli scettici nell'opera Contra Academicos, dove chiaro apparisce lo studio profondo degli scritti di Cicerone, e come quei e il termine materiale? e la conoscenza mi si presenta come un fenomeno soggettivo;non vedo più l'azione dello spirito e il termine ideale in cui cade? e il conoscimento doventa un qualche cosa d'estraneo a me stesso, un in ganno misterioso del senso e della materia.Quest'ultimo segnatamente fu il vizio fondamentale della dottrina degli Stoici nuovi, e in ciò,nota bene Cicerone, essi furono assai meno conseguenti degli Epicurei. Costoro movendo dal principio, che data unapercezione fallace mancava ogni criterio per verificare la certezza delle umane notizie, ponevano quel criterio nella realtà stessa del fenomeno sensibile, più conseguenti, dico, degli Stoici, i quali non ammettendo come veretuttelepercezioni,ma soloquelle che presentavano in sè l'evidenza della cosa percetta, nè riconoscendo d'altronde, come sensisti,la natura pro pria dell'intelletto a cui solo spetta il giudizio sui r e sultamenti del senso, si chiudevano la via per discernere la conoscenza vera dagl'inganni dell'immaginazione; e quindi a buon dritto la Nuova Accademia allegava contro gli Stoici i soliti argomenti della fallacia del senso degl'inganni dei ragionamenti sofistici. Acad. -- germi immortali di vero che il filosofo romano seppe raccorre con rara indagine scientifica nel suo tentativo di conciliare le scuole greche,producessero una vitaope rosa di scienza fecondati dal calore di una dottrina rin novatrice. Nel libro Contra Academicos Sant'Agostino serba a un di presso lo stesso ordine della disputa seguito da Lucullo e da Cicerone, move dagli stessi principj, ribatte le medesime contradizioni;ma un non so che di insolito, d'efficace, d'affettuoso che annunzia una civiltà e una religione nuova tu lo senti là dentro,e non tanto nello stile che, non paragonabile mai all'eleganza tulliana, ritrae pur qualche volta la vivezza e il brio del parlare improvviso, quanto nell'energia insolita dell'argomentare che sfuggendo iparticolari, dove facilmente sipuò intro durre il sofisma, si rifugia nell'evidenza de'principj s u premi. Ma ilmodo d'argomentare usato da Sant'Agostino non calzava agli Stoici; chè essi non ammettendo un'in tima e reale attività dello spirito distinta dal senso e capace di rettificarne gl'inganni, non potevano rinvenire nell'essere stesso della percezione segni indubitati ch'ella fosse verace; e il loro concettualismo non li lasciava af fermare contro il dubbio aceennato dalla Accademia sulla validità del pensiero. Gli storici della filosofia ci han serbato in fatti memoria di una strana dottrina degli Stoici procedente del resto dall'intimo del loro sistema e da quella tendenza dualistica che vi si mesco lava ai principj del panteismo.Qual era questa dottrina? Gli Stoici ponendo in fisica per un lato la realtà delle cose nella sostanza corporea, nè per l'altro costretti dalla logica riuscendo a negare del tutto l'essere delle idee universali, distinsero queste dal reale corporeo,e ne fecero alcunchè di non reale, ma capace d'essere concepito dall'intelletto ed espresso in proposizioni (Asztóv). Distingueno quindi due specie di vero; il sensibile contenuto nelle percezioni de'corpi, e il pensabile ristretto alle in tellezioni della mente,questo procedente da quello e a quello correlativo; volevano con tale dottrina porre su stabili fondamenti la necessità de'principj in cui cade la scienza, nè gli acuti pensatori s'avvidero che, se l'idea può rappresentarmi il reale, ciò accade appunto in con seguenza ch'ella stessa è reale, non s'avvidero che n e gando qualunque conformità tra il concetto universale e l'essenza del concepito, si cade nel concettualismo rinno vato poi da Abelardo nei tempi di mezzo.La Accademia recava alle ultime loro illazioni questi falsi prin cipj della scuola stoica; dal principio del sensismo traeva occasione a dubitare della veracità della percezione sen sitiva; moveva dalle conclusioni del concettualismo per negare la realtà del pensiero imprigionato in sè stesso, e diceva (argomento assai notevole infatti) la dialettica non potere giudicare delle leggi della geometria,perchè aliene dal proprio ordine di veri,non giudicare delle pro prie, perchè non può il pensiero rivolgersi sopra sè stesso per giudicarsi. L'argomento è di recentissima data,come ognun vede,e lo ripetono anch'oggi iseguaci del Comte, I Positivisti francesi. E recenti pure sono le conseguenze che ne deduceva la Nuova Accademia; poichè racchiuso una volta il pensiero in sè stesso, e negata la sua atti nenza colle cose reali,manca ogni criterio a risolvere il problema dei giudizj contradittorj,nè v’ha che un passo a dedurne che dunque la contradizione è una legge ne cessaria dell'intelletto. Questa ultima conclusione, che accenna per altro un notevole perfezionamento della rifles sione nelle teoriche del criticismo, è dovuta al filosofo di Conisberga,m a già è racchiusa implicitamente nei sofismi disgiuntivi della Nuova Accademia. Ac. Costituita dunque in questi termini, la controversia sulle fonti del conoscimento conduceva la Nuova Acca demia a uno scetticismo assoluto,e noi già ne vedemmo non dubbj segni in Carneade; m a era qui appunto dove Cicerone si arrestava temperando col suo vivo sentimento dei veri naturali e colla moderazione latina gli eccessi del metodo da lui fino allora seguito. Quindi usciva la sua teorica sulla verosimiglianza delle percezioni sensibili che riporterò così riassunta dal Ritter. « Les Stoïciens,en admettant la possibilité de saisir quelque chose avec tant de précision qu'il ne puisse y avoir erreur,n'accordaient ce savoir qu'au sage. Ils ne faisaient donc en cela que de refuser cette espèce de savoir aux hommes ordinaires, car eux-mêmes ne pouvaient dire quel est l'homme qui est ou qui a été sage; ils regardaient, au contraire, tout le monde comme insensé, et refusaient en conséquence le savoir véritable à tout le monde. Cicéron n'aspire pas à un pareil degré de savoir; mais il veut que le non -sage aussi sache quelque chose,c'est-à-dire, qu'il ait une per suasion de la vérité des phénomènes sensibles,sans cepen dant pouvoir y croir avec une parfaite certitude.Son opinion est, qu'il y a des impressions sensibles auxquelles nous pouvons nous fier, parce qu'elles ébranlent fortement notre sens ou notre esprit;mais sans pouvoir cependant les adop ter comme parfaitement vraies.Telle est sa théorie de la vraisemblance. Il ne veut pas faire disparaître la différence entre le vrai et le faux; nous avons raison de tenir quelque chose pour vrai et de rejeter autre chose come faux; mais nous n'avons aucun signe certain de la vérité et de la fausseté.Il croit pouvoir prévenir l'objection,qu'il y a ce pendant ceci de certain,qu'il n'y a rien de certain en te nant aussi pour vraisemblable seulement qu'il n'y a rien de certain. C'est ainsi qu'il se purge du reproche que la théorie qui donne tout pour incertain est impossible dans la vie pratique, car cette vie se conforme à la vraisem blance, et la plus part des arts qui s'y rapportent avouent même qu'ils ont plutôt pour but la conjecture que la science. Il ne voit d'autre différence entre son opinion et celle des dogmatiques, si ce n'est que ceux-ci ne dou tent pas de tout ce qu'ils soutiennent;mais qu'il est vrai qu'il considère au contraire beaucoup des choses comme vraisemblables, qu'il peut suivre, sans pouvoir cependant les affirmer avec una parfaite certitude. On voit bien que cette théorie de la vraisemblance s'éloigne un peu de la doctrine de la nouvelle académie, du moins telle que Carnéade l'avait exposée; car elle n'aspire pas à un art de tout rendre également vraisemblable et invraisemblable, mais elle tient quelque chose pour vraisemblable, autre chose pour invraisemblable. Cicéron remarque même qu'en ce point il s'écartait de ses maîtres, particulière ment pour ce qui est des préceptes de la morale.Il avoue à la vérité qu'il n'est pas assez hardi pour réfuter le doute de nouveaux académiciens,par rapport à la morale, mais il désire les atténuer. » (Stor., vol. IV, pag. 108, 109, 110 tradotta dal Tissot.) 4. Il fondamento della teoria tulliana sulla verosi miglianza è dunque nella questione del criterio del vero; e qui, segnatamente nel giudizio sulle percezioni sensibili, apparisce il moderato scetticismo dell'oratore latino;m o derato, dico, e parmi sia chiaro dopo le cose predette che egli avvolto, come Socrate, in mezzo ai combattimenti del dommatismo e dello scetticismo eccessivo, serbò una norma scientifica nell'affermare e nel dubitare, temperò gli Stoici non accordando una fede illimitata al solo te stimonio de'sensi; temperò gli Accademici sostituendo al loro dubbio,uguale per qualunque opinione,una graduata verosimiglianza ne’ casi particolari, combattè gli uni e gli altri rigettando il dubbio assoluto sui principj fondamen taliesulleveritàteorematiche.(Vediiproemj particol. De Off, De Div.,De Nat.Deor., Acad. La sua psicologia in quelle parti che si collega alla logica, sebbene qua e là infetta del dualismo socratico, fa fede com'egli emendasse il vizio della scienza contemporanea opponendo all' i m perfetta riflessione de'sofisti un esame comprensivo del umano soggetto. Con metodo induttivo egli moveva dalla coscienza, ed ivi,riconosciuti inaturali concetti dell'oltre naturale e dell'intelligibile, s'innalzava con essi alla c o gnizione dell'animo -- Tuscul. Nell'animo distingueva la ragione dal senso;la ragione,sovrana delle facoltà umane,ha un immortale e quasi divino istintodel vero,legame primigenio tra il Creatore e icreati;isensi, satelliti e nuncj dell'anima,le danno di molte cose certa notiziaconfusaeammezzata,cheèun qualche fondamento alla scienza, e la scienza ne sorge per la libera efficacia dell'animo, che comprendendo in sè il particolare e ilm u  tabile dei sentimenti, si leva alle idee e alle nozioni uni versali; quindi i sensi ben guidati da natura,nè torti da mala educazione, hanno una naturale rettitudine al vero, nell'animo dove cade il libero giudizio della riflessione, ivi soltanto può introdursi l'errore. De Leg., Tusc., Ac. Così col metodo induttivo di Platone egli sale fino ai principj più universali, d'onde col deduttivo d'Aristotele ridiscende ai particolari; e ne son prova i libri rettorici. Tra i quali merita speciale considerazione la Topica, o logica inventrice, intitolata a Trebazio giovane giurecon sulto e discepolo dell'autore,e dove ogni precetto è ac compagnato da esempj di giurisprudenza. In questo libro che ha per soggetto tutte quelle distinzioni e scomposizioni dialettiche che si ricercano per l'invenzione degli argo menti, e si operano sui concetti che ne sono signifi cativi, Cicerone divide la logica in inventiva e giudica trice, la prima delle quali parti porge gli argomenti per disputare,la seconda li dispone,li analizza e lim a neggia per persuadere.La logica Ciceroniana,osservata altresì ne'dialoghi,ed esposta nel De Inventione, e nel De 'Oratore, è in fondo la istessa logica d'Aristotele quale più tardisimo dificòne gli StoicienellaNuova Ac cademia, e l'accettarono in gran parte i giureconsulti romani e gli oratori; la qual cosa, perciò che risguarda i Topici, si disputava lungamente, non sono molti anni, in alcune università tedesche, come apparisce da un'ac curata dissertazione,De fontibus Topicorum Ciceronis,di Giovanni Giuseppe Klein. (Bonnae) Ivi l'autore prendendo ad esame la questione proposta dai critici a n teriori,se e quanto e con qual metodo Cicerone seguisse in questo libro la Topica d'Aristotele che ci pervenne, ovvero se attingesse ad un'altra di presente perduta, come qualche critico mostrò sospettare; conclude dopo un dili gente ragguaglio dei due scrittori,che le opere loro quanto aiprincipj,e in molte partisecondarie,differiscono note volmente; che Cicerone nella sua Topica non si propose (il che apparirebbe a prima giunta dal proemio) di fare un semplice compendio dei libri Aristotelici;ma resulta da tutto il contesto avere l'oratore latino attinto la m a teria del libro dai Rettorici dello Stagirita e da alcuni precetti degli Stoici e della media Accademia,e poi averla composta col proprio giudizio in una forma di vera e par ticolare disciplina. Sui Topici di Cicerone scrisse con fine più filosofico un ampio e bel commento Severino Boezio,in cui la storia della filosofia ravvisa il primo passaggio tra le dottrine dei Padri e quelle de'Dottori,tra l'ultimo spirare della civiltà latina sotto le conquiste de barbari e ilprimo rinnovarsi delle lettere e delle scienze nella nostra Italia.Or quel c o m mento, che all'indole del trattato, già di per sè stesso analitico, accoppia il rigore della dialettica della Scuola, e congiunge i nomi di Aristotele, di Tullio, di Trebazio Testa e di Severino Boezio, mi rappresenta al pensiero l'armonia delle scienze giuridiche colla filosofia, dell'ana lisi colla sintesi,della dialettica colla storia, della pratica colla speculazione, dell'amore operoso e civile colla sa pienza cristiana. 1. Entrando ora a parlare dei libri morali, apparte nenti alla teorica sulle azioni, l'ordine della materia sembra invitarci, come facemmo nei capitoli precedenti, a dire qualche cosa in generale del disegno scientifico che li collega, e delle attinenze loro più immediate e più rigorose colle altre parti della filosofia di Cicerone. In vero la scienza morale nata sui rudimenti del senso co mune,quale Socrate la menava a conversare famigliar niente fra gli uomini,e più tardi venne accolta e trasmessa sino a noi dalle scuole migliori, si può assomigliarla ad uno stupendo poema, se guardiamo la sublimità de'suoi veri,illegame che unisce i principj alle conseguenze,e l'armonia delle speculazioni colla parte più affettuosa dell'uomo e colla vita civile. Il principio n'è dato dalla  IV. natura, presupposto indispensabile della scienza; chè la riflessione posta una volta su quel cammino ov'essa pro cedendo incontra e ravvisa ad una ad una leveritàpiù prin cipali della Filosofia, move dai primordj della vita vege tativa e animale,manifestati nella puerizia dai sentimenti indefiniti e dagli istinti,passa su su agli inizj della vita razionale, allorchè quei sentimenti illuminati dallo splen dore della conoscenza si palesano come tendenze amorose al vero, al bello ed al bene; in quei termini riconosce la ragione di fine,ed il fine,considerato come qualcosa onde nasce armonia nelle operazioni d'un ente,guida la rifles sione al concetto di legge, d'un archetipo assoluto ed eterno che per mezzo dell'intelletto indirizza il volere a un'immortale destinazione. Principj naturali, bene, fine, legge; ecco i concetti che, intrecciati mirabilmente fra loro nell'armonia della coscienza, costituiscono l'ordito dell'Etica, allaquale, considerata per questo rispetto come scienza direttrice della più nobile parte dell'umana n a tura, fan capo le altre scienze costitutrici della filosofia. La Fisica, come la intendeno gl’antichi, la quale meditando il principio primo dell'essere nell'universo e nel l'uomo,ne ravvisa facile il fine che nell'universo è un termine oltrenaturale di naturali armonie, desiderato dagli enti tutti, e nell'uomo è un'idea di perfezione immortale, appresa confusamente, nè mai raggiunta nell'ordine delle creature. La Logica, perchè trattando dell'ente sotto la ragione di vero,ne scorge facileilpassaggio alla ragione di bene pel concetto d'amabilità, testimonj i sentimenti più schietti della natura che antecedono ilvero e ne ger minano come tendenze ed affetti. Vi conduce la Scienza dei doveri e dei diritti;chè dovere e diritto sono concetti eminentemente morali in quanto da un lato discendono dall'idea della legge,le cui divine esigenze s'impongono alla coscienza degli enti creati,capaci di cognizione,pur ri spettando quelli enti nell'ordine della loro natura; dal l'altro lato vengono su dall'idea dell'uomo,ente dotato d'intelletto e d'amore,che riconosce in sè e nel suo libero arbitrio la sanzione di quella legge,la quale osservando si sente capace d’immortali destini. Così l'ontologia, la logica, la scienza delle obbligazioni e il gius di natura si appuntano, come in unico centro, nella morale, da cui pur si dirama il gius civile, la politica, la legislazione, la storia e ogni altra scienza meditatrice dell'uomo. Il Cristianesimo, dottrina e religione moralmente inci vilitrice, che nata in tempi di costumi nefandi operò un mirabile rivolgimento nella vita dell'uomo, ponendo a capo dei suoi precetti l'amore santificato da tanto sangue di martiri, e ad esempio dei nuovi costumi, l'immagine più che umana del figlio di Maria,il cristianesimo solo poteva dare un perfezionamento vero alle teoriche della morale. E quel perfezionamento lo diede allorchè dichia rando senz'ombra di dubbio l'infinita natura di Dio,la finita natura dell'uomo, si valse dell'idea intermedia di creazione per assorgere al concetto più puro delle loro attinenze, potè meglio chiarire l'idea di fine, di bene e di legge,ricostituire l'ordine dei fini nella natura in telligibile e sovrintelligibile, vedere l'uomo e l'universo ordinati a un disegno della provvidenza;e quindi,posto a capo di tutta la Filosofia il concetto di Dio, se ne sparse nuova luce sulle dottrine del soprannaturale e del naturale, sulla psicologia e la logica, sulla teorica dei doveri e dei diritti; le scienze politiche e civili e la storia ne apparvero nobilitate. Il che è tanto vero, che quel tendere continuo dalle miserie di nostra natura all'i m mortale, all'assoluto, all'eterno,può solo spiegarci le sca turigini arcane onde move un'aura d'ineffabile bellezza, chela scienza cristiana respira,sono ormai più che quat tordici secoli, dai dialoghi di sant'Agostino, e dalle let tere di san Girolamo in poi,sino alla Divina Commedia, alla Somma dell'Aquinate,e alle sublimi fantasie di Serbatti. Considerate le quali cose, se alcuno mi domandasse onde accadde che la Paganità, in tanto e continuo sca dere di costumi e di scienza, riconobbe più volte, senza pur cadere in errori sostanzialissimi,le principali verità della morale,di che abbiamo esempj segnalati nelle Indie, in Magna Grecia e soprattutto nelle scuole socratiche e in Cicerone nostro, addurrei per risposta la vivezza delle umane tendenze e l'efficacia de'sentimenti,che ger minando da naturaciportano inconsapevolialvero ignoto, l'istinto della socievolezza e l'amore per gli enti della medesima specie, che essendo un vivo bisogno dell'uomo, gli mantiene fresca nell'animo la voce degli affetti do mestici e civili, e infine la notevole differenza che corre fra l'apprensione astratta del vero e il sentimento che n'hai nella vita, onde spesso il filosofo discorda dal l'uomo, e il popolano e la povera vecchierella fanno a m mutolire coll'evidenza della rozza parola il superbo sa piente.In Grecia,e segnatamente inAtene,dove nacque Socrate, e dove si conservava nell'amore del bello e nei gentili attici costumi un germe di rinnovamento, rimase aperta la via a tornare sulle antiche tradizioni, attestate dalla coscienza e dal linguaggio, e a derivarne, come scintilla da selce,i principj della morale che fanno sì bella parte delle scuole socratiche. M a quei principj (già lo sappiamo) erano forse più facili a ravvisarsi l’età sus seguenteallasocratica,inRoma;e perchèinRoma s'era insanguinata e commista la civiltà dei popoli italici, in cui si manifestò ab antico una notevole inclinazione alla scienza avvivata dal sentimento e da fini di pratica a p plicazione,eperchè in Roma erafioritaefiorivalascuola dei Giureconsulti, il cui pernio era l'idea morale della legge e del dritto,e infine perchè, se una riforma era da farsi in tanta corruzione di civiltà e di costumi,in tanto scadimento delle relazioni domestiche e civili, e nella notevole prevalenza che da circa due secoli avean preso le dottrine epicuree, certo quella riforma dovea comin ciare dai principj della morale.L'Etica ciceroniana, che è uno dei più nobili tentativi fatti dall'umano ingegno per opporsi, senz'altro ajuto che l'evidenza del vero de sunta dalla natura viva, alla rovina d'un'intera nazione, era dunque preceduta da un grande preparamento; chè giammai si compie un gran fatto senza che nei tempi e nella società,da cui nasce,se ne acchiudano i germi. E i   germi della riforma morale iniziata da Tullio furono, oltre le condizioni civili e politiche di tutta l'Italia e di Roma, i Giureconsulti e le sètte, alle quali s'oppose il riforma tore; le splendide tradizioni delle scuole socratiche, e segnatamente idommi platonici,aristotelici e stoici;ivi egli mirando componeva il disegno scientifico della sua morale;-m a quel nobile magistero l'avrebbe ajutato ad accozzare brani di verità,non a comporre una vera dot trina, a ragunare nella memoria, non ad unire nella ri flessione esaminatrice, s'e'non avesse avuto l'occhio in un principio più alto, superiore ad ogni opinione e ad ogni setta, nell'esemplare della natura considerata nel suo popolo, in Italia, in Grecia, in Europa, nelle genti tutte conosciute, e più viva in sè stesso, cittadino gene roso,scrittore sommo,oratore che tante volte dall'alto della tribuna avea signoreggiato gli umani affetti colla parola onnipotente. Questa meditazione profonda dell'uomo interiore, il cui fine era dedurre le ragioni del giusto dalle attinenze dell'anima e dell'universo con Dio,valse a Cicerone le accuse di quell'acuto intelletto che fu Michele Montai gne. M a il Montaigne, osserva opportunamente un altro scrittore francese, cercava forse troppo sovente materia al sorriso nell'invilire l'uomo e nel rassegnarlo tra i bruti; Cicerone lo stimava creato a qualcosa di più alto e di più solenne (ad majora et magnificentiora quædam ), e riconosceva da Dio la nobiltà dell'umana natura,e l'ef ficacia della ragione e del libero arbitrio, per costituire la morale e con essa la vita civile su fondamenti non peri turi. Premesse queste considerazioni, l'Etica di Tullio, in cui Francesco Forti osservava rappresentarsi la maturità della ragion naturale presso gli antichi, si distingua i n nanzi tutto in due parti determinate intimamente dal l'indirizzo del suo pensiero speculativo nell'esame dei veri morali, estrinsecamente dalla forma filosofica de'trat tati. U n a parte è teoretica e principalmente speculativa; e in essa Cicerone esaminò la ragione delle tendenze n a    turali nell'umano soggetto per ispiegare il problema sulla natura dei beni, e si levò coll'induzione da questo esame ai concetti universali di legge, di dovere, di diritto (De finibus, De legibus); l'altra parte, in cui prevale un fine pratico o di applicazione, movendo essa pure dai principj fondamentali, innanzi chiariti, scende a determi narli nella vita dell'uomo individuo e sociale e nelle dot trine sulle forme di governo (Tusculanarum, Paradoxa, De officiis,De republica,De amicitia eDe senectute).Se poi si considera bene,nella prima parte di tal distinzione, avvertita pure dal Kuehner, è compresa manifestamente un'indagine soggettiva e oggettiva; soggettiva e ogget tiva ad un tempo,perchè nel problema, posto da Tullio intorno alla natura dei beni, la riflessione scientifica si volge da un lato sulle tendenze e sugli affetti spirituali, mentre dall'altro vi riconosce un riferimento necessario a qualcosa d'assoluto, d'immutabile,d'infinito, di essen zialmente oggettivo, all'esemplare di legge, da cui si ge nera in noi l'obbligazione morale; e quindi è che la teorica de'Fini si distingue nel filosofo nostro da quella del Dovere,e sorge fra l'una e l'altra, come centro unitivo delle armonie morali, la teorica della legge. Ponendo mano impertanto all'esame della parte speculativa,cominceremo dalla dottrinadeiFini, trattata ex professo, e con intendimento al tutto scientifico, nel libro D e finibus, a cui fanno corredo con secondaria i m portanza, e con oggetto non immediatamente speculativo, le Questioni Tusculane, e l'operetta dei Paradossi.  Thorbecke in una sua dotta dissertazione universitaria sul principio della Filosofia e degli Officj desunto dalle opere di Cicerone, osserva che il quesito dei Fini,o del sommo bene,occupa un luogo principalis simo nella sua morale. Il critico tedesco allega a questo proposito l'autorità stessa del nostro oratore, che più volte nelle sue opere, e segnatamente nel primo libro degli Officj (I,3),riferisce ilfondamento delle dottrine morali alla disputa sul fine dei beni,e nel De finibus nota oppor tunamente contro gli Stoici non potersi separare, come  [Due metodi si presentavano alla riflessione esamina trice per risolvere il problema sulla natura dei beni. L'uno,che èmetodo comprensivo edessenzialmente scien tifico, necessario in qualunque parte della filosofia,e so prattutto indispensabile in questa, stava nel riprodurre esattamente coll'ordine del pensiero speculativo l'ordine del soggetto, nell'abbracciare quella stupenda armonia di tendenze e di fini, che ci manifesta l'uomo interiore senza nulla tralasciare,nullanegare,nullaesaminare im perfettamente. L'altro metodo invece, che s'informava dalle qualità negative e parziali del sofisma, consisteva nel dimezzare colla scienza ciò che la natura avea unito, nel considerare l'essere umano soltanto in certe sue dis posizioni e facoltà, tralasciando le altre, nell'offrire come opera compiuta del vero e di Dio un informe viluppo di contradizioni e d'errori. Questa seconda fu la via torta e fallace seguita dalle sette grecoromane; quello il m e todo di Socrate e della coscienza tracciato da Tullio, come n'è testimone l'intero trattato de'Fini. La quale avvertenza occorre fare fin d'ora;perchè parecchj storici della Filosofia trovarono anche in questa parte della m o  [ termini identici d'una stessa relazione morale, il principio dell'operare e il fine dei beni. Tale suprema importanza scientifica del trattato dei Fini si desume ancora dal con siderare che la materia di quel problema si estende per un larghissimo campo di relazioni intercedenti fra la psicologia e le dottrine morali.Invero il filosofo,che pone mano a risolverlo,bisogna che mova dai rudimenti di natura, comprenda con diligente esame tutto l'essere umano,e rifacendosi dalle prime tendenze,dove appena appena si manifesta l'affetto, e da quelle che palesano nel sentimento, nell'associazione dei fantasmi e nella m e moria lo svolgimento della vita animale, e il germe del raziocinio, si apra la strada ad esaminare tutto l'uomo nella conoscenza che più tardi acquista dell'essere pro prio,dei proprj doveri,delle prime notiziescientifiche,e a considerarlo come parte della famiglia, come individuo e come membro della civil società.   rale di Cicerone un appicco alle accuse;dissero non avere egli compreso il vero aspetto scientifico della questione dei Fini, e poichè, sprovveduto di un saldo criterio di scienza, tentava comporre le più disparate dottrine, quali erano quelle degli Stoici e degli Accademici e Peripatetici antichi, la tentata conciliazione provare anche una volta la povertà del suo ingegno speculativo. Ritter, Brucker. A una simile accusa, benchè apparentemente sostenuta da validiargomenti,rispondemmo altravolta,eciparve che la prova più solenne e palpabile contro le afferma zioni dei critici avversi forse il prendere in mano le opere del filosofo latino, svolgerle con diligenza, ed esponendo que'suoi dialoghi pieni di tanta vita d'eloquenza e di speculazione, rappresentarlo,se fosse possibile,alla fan tasia dei lettori quale io me lo immagino là nelle cam pagne di Tuscolo e di Cuma seduto all'ombra della quer cia di Mario, e inteso a conciliare le negazioni de'sofisti nell'affermazione compiuta dell'umana coscienza. Il dialogo de'Fini è diviso in tre giornate,e ciascuna comprende una disputa,nella quale Tullio assume sem pre la parte di giudice e di confutatore, argomentando in favore d'Epicuro, degli Stoici e dell’Antica Accademia il consolare L. M. Torquato, M. Catone e L. Pupio Pisone. Il dialogo è introdotto ora nella villa di Cicerone in quel di Cuma,oranellabibliotecadiLucullopresso Tuscolo,e in fine all'ombra silenziosa deplatani nell'Accademia d'Atene. Per cominciare dalla disputa contro Epicuro,occorre qui rammentarci come nella prima parte di questa tesi esami nando le principali scuole che fiorivano in Grecia avanti i tempi di Cicerone, e tra queste la scuola epicurea, vi trovammo un nuovo e sempre crescente pervertimento delle dottrine anteriori o contemporanee,e come tal per vertimento consistesse,a nostro avviso, in un esame sem pre più povero e parziale del soggetto su cui cade la scienza, manifestato, segnatamente in fisica, col fermare l'osservazione al nudo meccanismo degli atomi,in logica con ridurre ogni facoltà dello spirito al senso, e nella morale restringendo la virtù e la beatitudine ai piaceri del corpo e i piaceri dell'animo alla speranza o al ricordo dei piaceri del senso.Una siffatta dottrina,che spegnendo ogni più nobile tendenza dell'uomo, riduceva il sapiente alla condizione del bruto, subito la riconosci come il por tato d'un ingegno profondamente sofistico, solo il sofisma togliendo all'uomo l'intuito vivo delle armonie di natura; chè, posto a capo dell'Etica il puro sentimento animale, se ne oscura la notizia dell'uomo, ente capace non solo disentimento,ma d'intellettoed'amore,noncapiscipiù la possibilità del dovere che dee cercarsi per sè,non già per diletto,e s'offende la dignità dell'umana natura e delle virtù ponendo fra esse la voluttà come una meretrice in un'assemblea di matrone. De fin., De off. Tali sono gli argomenti, tolti altresì dalle in time contradizioni di quel sistema, che Cicerone vibra di rimando contro Epicuro colle armi d'una concitata elo quenza,e davvero la sua risposta a Torquato è un con tinuo contrapporre a un cattivo e sofistico esame del l'umana natura, un esame più alto e più vero delle sue leggi, de'suoi destini, del suo aspirare all'immutabile e all'assoluto;chèilnobile animo dell'accusatorediVerre, e del persecutore di Catilina e d'Antonio poneva da parte ogni dubbio combattendo nelle dottrine epicuree una tra le cause maggiori dell'affrettata rovina di Roma. M a v'è un luogo,noterole su tutti gli altri,in cui l'Ora tore latino, volendo mostrare come l'affetto abbia efficacia viva e spontanea per ricondurci nel vero,rappresenta quella contradizione tra il pensiero e l'operare, tra le dottrine e la vita,non rara neppure ai dì nostri in uomini spon taneamente inclinati al bene per virtù di natura, e che han guasta la mente da malvage filosofie. In quel luogo egli si volge a Torquato, e invoca la sua coscienza di cittadino, il suo desiderio di gloria, le tradizioni de'suoi avi famosi e il suo magnanimo affetto alla patria in te stimonio delle dottrine da lui professate; e gli chiede p e r chè mai non oserebbe sostenerle nei comizj, alla presenza del popolo, o in pieno senato. Crede egli con intimo coif vincimento unico fine della vita ilpiacere? E allora perchè mai v'è tanta contradizione tra quello che fa e dice come cittadino e quello che sostiene come filosofo? Teme egli forse l'odio del popolo? Ma badi, risponde Cicerone, che in questo caso l'errore dell'intelletto non venga raddiriz zato dal cuore; badi che il sentimento universale, onde ogni popolo della terra si leva come un sol uomo a con dannare Epicuro,non sia iltestimonio interiore e inappel labile della natura, repugnante alla teorica del piacere! Questo intimo disaccordo tra la ragione ed il cuore, tra le dottrine della scienza e la vita civile, rappresen tato in Torquato, oltre al mostrarci un alto principio della filosofia di Socrate e di Tullio, che vuole il cono scimento del vero costituito da un'interiore armonia del l'affetto coll'evidenza, serve poi in questo caso a ritrarre mirabilmente i tempi dello scrittore, e a partecipare al dialogolavitaeilmovimento deldramma.I tempi di Cicerone in molte parti somigliavano ai nostri. Dismessa a poco a poco nelle mollezze la severità del costume, s'era affievolito negli animi umani, per l'abito fatto a dottrine sensuali, quel profondo discernimento del retto che non patteggia mai colla coscienza,e sdegna chiamare con altri nomi da quello che sono il bene ed il male. Quindi, come sempre avviene, l'errore nelle opinioni d o ventavapoicausanon lievedidecadimento neicostumipri vati e civili,e non pertanto alla corruzione profonda degli intelletti e delle volontà contrastava potentemente nei più, e in special modo nel volgo,l'efficacia ingenita dell'af fetto del bene. Ora questo che ad altri poteva sembrare niente più che un argomento di fatto della differenza tra le opinioni volgari e le dottrine dei filosofi, avea per Cicerone il valore di una prova scientifica, come testimo nianza resa dalla natura ai supremi principj morali, e questa testimonianza ei la vedeva,da un lato nell'efficacia degli affetti osservati in ogni individuo, e dall'altro nel riscontrarsi la veracità di questi affetti coi pronunciati solenni e infallibili del senso comune. Sennonchè, mentre nel secondo libro de'Fini era i m presa di non grande difficoltà pel filosofo latino il con   futare Epicuro la cui dottrina mancava d'ogni severo prin cipio di scienza, la sua parte di giudice e di contradittore doventa non lieve quando nel terzo e nel quarto libro egli prende ad esame la morale del Portico difesa dall'autorità e dalle parole di Catone Uticense.E invero,qualunquevolta a mostrare la solidità e l'ampiezza dei principj etici e speculativi su cui Zenone fondava la teorica de costumi, non bastasse il suo esame diligente dell'animo umano e degli affetti spirituali osservati in ogni età della vita, varrebbe soltanto ilrichiamare ch'ei faceva la morale, nelle sue parti più generali, ai sommi principj della scienza della natura. Il filosofo di Cittio avea fondato la sua dottrina sul riconoscimento pratico e speculativo del l'ordine naturale, espresso in quella sentenza:vivi confor me alla natura. Πρώτος ο Ζήνων... τέλος είπε το ομολογ ouuevos rõ qurat Eno, così Diogene Laerzio; e in quella sentenza, chi ben la consideri, si riconosce l'efficacia del l'insegnamento socratico, continuato in Zenone, onde a v veniva, e lo notammo più addietro, che, mentre la sua logica e la fisica erano infette da un esame parziale e meschinamente sofistico dell'universo e dell'uomo, la m o rale offriva un assai più largo disegno di veri speculativi. Il principio fondamentale dell'Etica degli Stoici era fuor d'ogni dubbio il concetto puro e assoluto del bene in attinenza cogli affetti spirituali;tuttavia se fu merito insi gne di quella dottrina che essi pervenissero a tale concetto dopo un largo esame psicologico delle umane tendenze,il vizio era che partiti dalla comprensione totale dell'essere nostro e giunti all'idea di virtù, restringevano ogni cosa a quest'ultima,non abbracciando più tutto l'uomo nello spirito e nel senso, nell'intelletto e nel cuore, in sè stesso e nelle condizioni esteriori. Le cose, diceva Zenone, si conoscono dall'uomo o per esperienza,o per giudizio di causa,o per analogia, o per raciocinio comparativo, e in quest'ultimo cade la notizia del bene, alla quale l'animo ascende universaleggiando da quelle cose che sono secondo natura. Laonde dal concetto del bene come d'un che ideale, assoluto e simile soltanto a sè stesso, venne poi il concetto della virtù, al quale il filosofo del Portico saliva per la nozione intermedia d'onesto. Che cos'era l'onesto? L'onesto per gli Stoici altro non era che la convenienza dell'atto umano colla natura, riconosciuta dalla ragione; e quindi essi dicevano, avvolgendosi in un paralogisma, che poichè quel riconoscimento pratico e razionale avveniva nella pienezza delle facoltà intellet tuali dopo l'infanzia, che è quella età in cui le prime cose conformi a natura (prima nature) (tá apota xato qusiv) si appetiscono inconsapevolmente,da queste prime inclina zioni della natura move il principio dell'operare, ma non però quelle cose,che n'erano il termine, si annoveravano tra i beni. Questo principio era vero in parte, ma nel l'esagerarlo sta il vizio fondamentale della morale del Portico; l'esagerazione poi consisteva in considerare l'atto m o rale come avente a fine sè stesso, niente altro che sè stesso, nell'astrarre da ogni condizione esterna della vita privata o civile, e da quell'armonia che intercede tra la ragione e gli affetti, onde il libero volere o è condotto o conduce; nel porre in petto al sapiente quella virtù fredda, impassibile, solitaria, divisa dell'universo e da Dio, come immobile quercia radicata nei macigni delle Alpi. Se poi si considera più addentro nelle ragioni isto riche del sistema, il concetto eccessivo della virtù ci p a lesa un vivo contrasto della morale stoica coi tempi. Qual fosse il secolo di Zenone facemmo vedere più in nanzi. Ora se immaginiamo in quel secolo un uomo di gagliardo volere e di generosi propositi, che ponga mano alla filosofia coll’intendimento di fortificare il co stume,e di avviarlo ad un fine più alto,subito si capi sce come a quell'uomo, profondamente ristucco dalla ignavia dei tempi, la vita del saggio dovesse sembrare una lotta continua della ragione innamorata del bene cogli affetti interiori, col rigoglio dei sensi, colle ree c o stumanze civili, e l'onesto una perfezione quasi supe riore all'umana, e conseguibile solo da pochi sapienti. (De finibus, tutto il libro terzo; Kuehner e Thorbecke passim.)    Esponendo e confutando i principj più generali della morale stoica,abbiamo esposto in gran parte intorno a questa materia le opinioni del filosofo nostro. Solo ci ri mane da cercare in qual modo egli svolgesse le proprie dottrine morali in contrapposto alle dottrine del Portico, e come l'erroneo concetto del bene supremo da lui combattuto nel quarto libro, movesse la sua riflessione a pensare un più vero e men difettivo scioglimento del gran problema morale.Non v'ha forse luogonelleopere da noi esaminate,in cui questa facoltà potente dell'inge gno speculativo di Cicerone si faccia meglio manifesta, e con essa il suo metodo delle attinenze che concilia gli opposti sistemi nell'unità non divisibile dell'uomo. I principj su cui è fondata la confutazione, movendo dalle idee più comuni e più popolari intorno alla poca conve nienza delle dottrine del Portico colle necessità e cogli usi della vita civile, procedono poco appresso a cercare le cause più remote del paralo gisma nei fondamenti del sistema avversario.I giudizi del filosofo latino, informati da un metodo rigoroso d'esame, cadono sempre sul concatenamento scientifico delle dot trine, e sulla loro armonia coll'indole del soggetto; nè sembreranno,iocredo,eccessivamente severi,come parvero a Kuehner, qualorasipensiche Cicerone,traisistemi maggiormente seguiti a'suoi tempi, preferiva ad ogni altro lo stoico, e che inoltre la storia moderna della filosofia riassumendo l'esame di lui sulle dottrine m o rali del Portico, solennemente lo confermava. In prova di ciò Enrico Ritter, più volte citato, considerando l'idea che del saggio s'erano formati gli Stoici, e su cui fondano la morale, vi scopre il principio d'ogni lor paradosso, e di parecchie false opinioni sulla vita dell'uomo; poichè, se da un lato, egli nota,si nascondeva in quella idea un alto intendimento civile, ne veniva poi necessariamente alterato il concetto della vita e dei doveri affermandosi quivi l'apatia del saggio, ovvero (come suona in greco quella parola) il suo affrancamento assoluto da ogni pas sione e da ogni causa esterna che turbasse la tranquillità del suo spirito. Ritter, Morale des Stoïciens, Questa era un'ambiziosa ostentazione del sommo bene, così la chiama ilnostro Oratore,ostentazione degna d'una filosofia da ottimati che faceva privilegio della s a pienza, e l'appartava lungi dalla modesta sublimità del senso comune. Laonde gli Stoici (prosegue Tullio), per non essere da quanto il volgo, mutavano i principj della natura,dicevano che l'uomo è anima e corpo,che visono nel corpo alcune cose desiderate da noi come beni; m a poi,avendo fatto nell'uomo eccellente l'animo sopra ogni altra sua facoltà, designarono per modo la natura del bene sommo come se l'anima non sovrastasse soltanto,ma fosse unica parte della umana persona. E qui è notevole davvero come ricercando il nostro filosofo le cause ultime dell'errore nel principio stoico del bene supremo,si va gradatamente avvicinando al con cetto positivo e scientifico della morale.Io dico che dalla confutazione degli Stoici esce un concetto positivo e scien tifico della morale, perchè quivi egli non segue le forme irresolute della Nuova Accademia, nè desume gli argo menti più validi dalle contradizioni relative e parziali del sistemaavverso,ma procedepiùinnanzi, indagasottilmente l'intervallo che separa il conoscimento diretto dal cono scimento riflesso, e pone la vera indole della scienza nel suo differire dalla natura,a quel modo che il compiuto differisce dall'incompiuto, l'attuale dal virtuale e il per fezionamento dal perfettibile. La scienza, dice Cicerone, move dai principjdi natura, e come tale ha nella stessa natura la possibilità d'ogni suo sviluppo ulteriore; la scienza non crea l'uomo,ma ne è un perfezionamento, non genera le notizie dirette,m a le chiarisce,le distingue, le corregge,le riduce a principj; non disegna ella stessa l'immagine dell'umana virtù, nè dispone l'uomo a desi derarla, m a trae in atto quelle essenziali e ingenite dis posizioni; talchè l'opera sua è un continuo avvicinarsi al concetto del bene,seguendo un archetipo eterno di perfezione, e somiglia all'opera dello scultore che riceve da altri già disegnata e delineata la statua per ridurla poi a compimento colla virtù del proprio scalpello. « Ut Phidias potest a primo instituere signum idque perficere, potest ab alio inchoatum accipere et absolvere,huic similis est sapientia: non enim ipsa genuit hominem,sed accepit a natura inchoatum. Hanc ergo intuens debet institutum illud quasi signum absolvere.Qualem igitur natura homi nem inchoavit? et quod est munus,quod opus sapientiæ? quid est quod ab ea absolvi et perfici debeat? Si nihil in quo perficiendum est præter motum ingenii quemdam, id est,rationem,necesse est huic ultimum esse ex virtute agere: rationis enim perfectio est virtus: si nihil nisi corpus, summa erunt illa, valetudo, vacuitas doloris, pulcritudo,cætera.Nunc de hominis summo bono quæ ritur. Quid ergo dubitamus in tota ejus natura quærere quid sit effectum? Quum enim constet inter omnes,omne officium munusque sapientiæ in hominis cultu esse occu patum, alii ne me existimes contra Stoicos solum di cere, eas sententias adferunt, ut summum bonum in eo genere ponant, quod sitextra nostram potestatem,tam quam de inanimo aliquo loquantur, alii contra, quasi corpus nullum sit hominis, ita præter animum nihil cu rant, quum præsertim ipse quoque animus non inane nescio quid sit -- neque enim id possum intelligere --, sed in quodam genere corporis, ut ne is quidem virtute una contentus sit,sed appetat vacuitatem doloris.Quam ob rem utrique idem faciunt, ut si lævam partem negli gerent, dexteram tuerentur, aut ipsius animi, ut fecit Herillus, cognitionem amplexarentur, actionem relinque rent. Eorum enim omnium, multa prætermittentium, dum eligant aliquid,quod sequantur,quasi curta sententia. Atveroillaperfectaatqueplena eorum,quiquum de hominis summo bono quærerent,nullam in eo neque animi neque corporis partem vacuam tutela reliquerunt.»  Questa bella dimostrazione, che il Kuehner annovera tra le dottrine interamente proprie di Tullio, e che trascorre con tanta signoria di sè stessa dalle nature inferiori alle superiori, ponendo la legge che governa il sapere a riscontro colla legge dell'universo, mostra quanto alto fosse pel filosofo romano il concetto della Scienza Prima,ed è uno splendido testi monio della sua potenza speculativa e dell'universalità dell'ingegno latino.Concepiva il Romano lascienzacome un ripensamento della natura, e la natura, considerata nell'ordine che la informa, era per lui un'arcana ar monia d'attinenze; talchè la scienza ei la immaginava come un ripensamento delle naturali relazioni, che in tercedono tra i varj gradi della vita nell'universo, tra le varie parti della natura fisica, intellettiva e morale nell'uomo, e poi tra la natura e la speculazione, e tra la speculazione e la vita civile. Filosofo vero è per lui chi ripete veracemente,tal quale gliela diè la coscienza, quell'armonia di natura;filosofo falso o sofista chi con fondendo o separando riesce a negarla. Quindi era sofista l'epicureo, che meditando l'uomo solo nella parte più bassa di sua natura, e chiudendo gli occhj davanti alla luce non estinguibile dell'intelletto, poneva nel piacere il supremo dei beni; era sofista Erillo che disconoscendo la libera attività del volere, confinava la virtù nell'in tuizione inefficace e disamorata del vero scientifico; ma non errava meno lo stoico, che pervenuto al concetto di virtù movendo dalle naturali tendenze, a un tratto le abbandona per rifugiarsi in un ideale di sapienza che alla natura dell'uomo contraddiceva. Cf. De legibus. Considerata sotto questo rispetto,l'idea altamente c o m prensiva,che Tullio s'era formata della scienza morale, lo ravvicinava ai principj delle scuole socratiche.La ra gione parmi assai chiara;poichè,posto una volta,com'è di fatto, la scienza non essere altro che un fedele ripen samento dell'umano soggetto, e dall'ordine dei principj intrinseci ad esso venire l'ordine esterno costitutivo del metodo dilei;ammesso inoltre infilosofiailrinnovamento essenziale d'ogni riforma essere,come nelle istituzioni ci vili, un ritorno verso i naturali principj dell'animo; da ciò consegue che la misura per determinare la bontà del metodo d'una scuola, e il suo avanzare o allontanarsi dall'istituto riformatore,sarà ilparagone tra la pienezza della forma scienziale e l'integrità della materia esaminata; talchè, dato un degeneramento delle scuole successive dal principale istitutore, chi prendesse a confutarle richia mandole ad un esame più pieno dell'umana coscienza, s'incontrerebbe per via diretta negl'intendimenti del ri formatore. Tale è il caso da noi esaminato rispetto al filosofo latino. Il principio della morale delle scuole so cratiche è il conosci te stesso. Ora è noto quale fosse la pienezza e la comprensione del significato, che il filosofo ateniese dava a quel precetto in ogni parte della filosofia, e come il sentimento della perfezione ideale, connaturato all'ingegno greco, e reso più vivo dalle armonie pitta goriche,traesse lui,uomo di smisurato intelletto, a im maginare la virtù costituita da un armonico concorso delle facoltà umane fra loro e coi termini esterni, e a conce pire il cittadino nell'ideale dell'uomo perfetto. Tale indirizzo dell'ingegno greco nei principj costi tutivi della morale seguitarono Platone e Aristotele; ma l'uno, giovane della fantasia e dell'affetto,e nato in una civiltà, giovane ancora, e che serbava nell'evento delle istituzioni civili tutte le speranze d'un avvenire glorioso, sebbene affermasse l'effettuamento del bene assoluto non potersi dare q u a g g i ù, perchè il bene assoluto è l'ente i n finito, in sè e per sè sussistente,e partecipato solo im perfettamente dalle cose finite, pure faceva consistere la virtù in un continuo avvicinarsi dell'uomo a quell'esem plare immortale di perfezione, e riconosceva nei beni ter reni un'effigie lontana e appena un'analogia della beatitudine eterna (Quo i w s i s Sew. De rep. e Thea et. ). Aristotele, ingegno più virile e più temperato e ritraente dai tempi, in cui, perduto il fatto delle libere istituzioni, se ne ve niva creando con affetto maggiore la scienza, se rinvenne il perfetto della vita nell'intuizione del vero specula tivo, si volgeva di preferenza alla pratica, e faceva del pensiero un semplice avviamento all'azione, della politica la parte principalissima della sua morale. Il concetto del bene, rimasto assai indeterminato nelle   dottrine del figlio di Sofronisco, si bipartisce dunque nel l'Accademia e nel Peripato; Platone lo congiungeva alla psicologia e alla dialettica; Aristotele lo ravvicinava alla politica; con che, si avverta bene, noi vogliamo solo far notare certa speciale prevalenza nella forma scientifica delle due scuole, non già determinare una essenziale diver sità nei fondamenti della morale. Chè la pienezza dell'osser vazione interiore, tanto raccomandata da Socrate, durava lungo tempo ancora nei successori d'Aristotele e di Pla tone, e fu tra le cause principali ond'essi, concordi con Zenone nel sostanziale del sistema, ne combatterono il metodo e il concetto del bene supremo come un trali gnamento dalle dottrine dei loro istitutori. Da queste considerazioni s'inferisce più cose.Primie ramente si comprende come il pensiero dell'oratore latino sulla teorica del bene morale, considerato sotto il rispetto o semplicemente speculativo, sia universale, comprensivo e di un importante valore scientifico, sia un testimonio di più del suo risalire mediante un principio più alto e più generale,non certamente partecipato dalle scuole negative e sofistiche,  ai veri supremicostituenti la scienza. Da que ste considerazioni esce anche nuova luce sull’intendimento a cui mira il libro De finibus. Quest'opera è di una singolare importanza per la storia della scienza morale, e, a considerarla bene, si vede che Tullio a fin di mostrare e chiarire la perfetta dottrina sulla natura del bene su premo, si valse del metodo più famigliare a Socrate e a Platone, metodo che potrebbe dirsi ab absurdis, assai usato nelle dimostrazioni dei problemi di Geometria;pose cioè più concetti particolari e negativi del bene perfetto, e su via di contradizione in contradizione si levò elimi nando, e integrando insieme, al concetto più universale e più comprensivo. Per talmodo egli,imitando il Socrate del Convito, del Fedro e della Repubblica,addestrava il giovane ingegno latino a scoprire nel particolare e nel mutabile delle opinioni l'idea universale che signoreggia la scienza. Conforme a tal metodo, se egli nel primo e nel secondo libro confutava Epicuro mostrando quant  fosse difettivo il suo principio che ponera il bene ed il fine nel puro sentimento animale,e se nel terzo e nel quarto esponendo e correggendo le dottrine del Portico richiamava i filosofi a meditarne la parte imperfetta, cioè il prevalere soverchio del principio spirituale e sog. gettivo nel concetto del bene;nel quinto libro intro dusse a coronamento della morale ilsistema dell'Accademia e del Peripato. Questo libro è una sintesi di tutta quanta la scienza; vi si studia l'uomo dai primi rudimenti della vita vegetativa e animale su su fino agli albori della vita intellettiva e morale; vi si mostra come l'istinto primitivo della conservazione esca in sentimento, il sentimento germini in affetto,e quell'affetto,incerto e inconsaputo da prima, a poco a poco coll'apprensione più viva di noi stessi e della differenza che ci distingue dagli altrianimali,simuta inconoscimento; vis'insegna come debba la filosofia tener conto nelle sue meditazioni di questa piega üei sentimenti animali e spirituali, perchè le sono scala all'evidenza del vero che più tardi la ri flessione esaminatrice coglie nei penetrali della coscienza. Invero quando io leggo il trattato dei Fini non mi posso capacitare come vi siano stati alcuni critici che han vo luto scoprire nel quinto e nel quarto libro, e nella con ciliazione ivi proposta tra gli Stoici e l'Antica Accademia, non altro che un misero tentativo dell'eclettismo latino; poichè (giova ripeterlo)mentre investigava ilfine scientifi camente,Cicerone conciliava le scuole,ma integrando col metodo dell'osservazione interiore; procedeva sì ravvici nandoisistemide'filosofi,ma ilprincipiodellaloroarmo nia desumeva dall'esemplare della natura, ch'è sistema immortale di Dio. Vedi riassunto e citato diligentemente ilDe finibus nella dissertazione già allegata di G. R. Thorbecke, e in quella di Kuehner, Vedi pure per ciò che risguarda ilconcetto di tutto il trattato l'importante dissertazione di Hinkel: De variis formis doctrine moralis Peripatetico rum usque ad Ciceronem, earumque cum cæterarum scho larum placitis comparatione. Marburgi Cattorum). Il concetto scientifico della morale di Cicerone, quale noi l'abbiamo meditato sin qui,comprendendo nella sua pienezza tutti i principj costitutivi di quella dottrina, e unificando in un termine superiore, che era l'integrità del soggetto umano, le contradizioni parziali delle scuole, dà luogo a risolvere una delle più importanti questioni mosse dagli storici sulla morale dell'oratore latino. I m perocchè ci spiega in qual modo, concorde coll'antica Accademia e col Peripato nei principj supremi e nel l'idea del bene e della virtù, quanto poi alle parti a c cessorie,che avevan per fine determinare il contegno del saggio rispetto a sè stesso,e nelle relazioni civili,egli se condasse talvolta gli Stoici la cui severità, civilmente con siderata,glipareva un argine saldocontrolastraboccata corruttela dei tempi. Procedendo con tal criterio, i libri attinenti a questa parte soggettiva della morale appajono informati da un solo ed unico disegno di scienza,e ven gono distribuiti per classi in ordine al metodo e agli in tendimenti. Infatti dall'opera dei Fini, la quale tiene la parte suprema dell'Etica, ch'io chiamai soggettiva, e discorre del bene e della vita con fine immediatamente scientifico, scendono conforme a questo principio le Questioni Tusculane, e il libro dei Paradossi. Manifestano un fine positivo o d'applicazione e un esercizio di metodo le dispute Tusculane,dove in mezzo ai precetti stoici,esposti nella maggior parte dell'opera, traluce l'intendimento di offrire, in tanta corruttela delle pubbliche istituzioni e dei costumi romani,un alto esemplare del saggio,capace di volgere le menti a studj più generosi; e divisa la filosofia in più questioni (loca),si prende in ciascuna a ribattere le istanze proposte col metodo della Nuova Accademia. Poi un semplice esercizio di metodo forense rivelano i Paradossi, nei quali Tullio poco dopo la morte di Catone Uticense prese a lodare secondo i principj stoici le virtù dell'amico, e mostrò agli studiosi dell'eloquenza come qualunque soggetto di filosofia, il più remoto dalle opi nioni volgari,si porgesse ad un utile esperimento dell'in gegno oratorio. « Ego vero (così egli dice nel Proemio)  illa ipsa quæ vix in gymnasiis et in otio Stoici probant, ludens conieci in communes locos.» 3. Insino a questo punto, esponendo fedelmente l'in dirizzo delle indagini speculative di Cicerone nella con troversia intorno al bene supremo,noi paragonammo volta per volta le sue opinioni coi principali sistemi contemporanei. Da quindi innanzi procederemo con metodo di verso e più spedito, giunti a parlare di quella parte della sua filosofia, dove egli si avvenne a minori opposizioni,e dove la sua riflessione era soccorsa più largamente dalle idee nazionali e dai principj del Diritto romano.  mente la parte soggettiva della morale,che,come vedem il fine dell'operare affetti e nel più intimo della coscienza mo sinqui,indaga umani, e col riscontro di Tullio non lieve di veri incer avvalorata indubitabili tezza alla riflessione più che altrove cadendo l'indagine affettuosa dell'essere mai dalla scienza, potea far velo al giudizio; separabile o perchè la discordia senza metodo più ragione i problemi e le controversie. Ma con si governa sicuro, e con più evidenti da sottili argomenti, offriva ai tempi esaminatrice. Forse perchè in quella oggettiva della nella quale egli,esaminate tendenze,el'istinto filosofale sulla umano,ilfomite delle sette vi avea moltiplicati principj morale di Cicerone la parte, ossia quella parte le naturali felicità, e ciò che per rispetto del della l'adempimento bene e alla suprema universale della legge e del dovere. E proprio feconda speculazione va dal soggetto all'oggetto dall'esame e conoscitive eterni, tanto più, come chi senta del fine, si leva al concetto idealità anche in, che quanto più il nostro questo è im fatto notevole,trascende minuto delle potenze affettive alla contemplazione per la via della scienza degli intelligibili animoso procede della valle a una alleggerirsi vista interminata il respiro uscendo dal basso teorica della della filosofia di pianure e di mari. La e del dovere è dunque il fondamento legge civile di M. Tullio; e certo a questa chiarezza dei sommi parte più delle passioni,non E vera degli,perquanto nella piega a noi costituisce tempi di pensiero il sensibile,e passa principj morali da cui ella è desunta,e dove il pensiero del filosofo latino si ferma per rinvenire le armonie più remote della scienza morale colle dottrine dello stato e della vita politica, conviene attribuire quella pienezza di speculazioni largamente intrecciate all'esame del mondo e dell'animo umano,onde il libro delle Leggi riassumendo le teoriche civili,si rannoda da un lato col dialogo dei Fini e coll’Etica soggettiva,e dall'altro cogli Officj e col libro della Repubblica. Talchè, a voler direpienamente il pen siero del filosofo romano, tutta la scienza morale sì del l'individuo come dell'umana famiglia, e la filosofia civile nelle sue più remote congiunzioni colle altre dottrine, muovono, come due maestose riviere di fiumi perenni, da quel fonte immutabile, che è il concetto della eterna legge. Le dottrine della filosofia civile di Cicerone furono da molti anni soggetto di lunghe e diligenti ricerche in Germania, in Inghilterra ed in Francia, tanto che su questa più che sopra qualunque altra parte delle sue opere forniscono le biblioteche copiosa materia di lavori storici, critici e dottrinali agli studj dei commentatori e dei filosofi.La quale abbondanza di ricerche sulle dottrine posi tivedelfilosofolatinoprovennealcerto,cosìdaunatalquale novità e armonia di disegno scientifico che egli dava ai suoi studj sulla filosofia civile, applicandovi l'esempio di Roma e i larghi principj della Giurisprudenza e del d i ritto latino;come da quell'opinione invalsa universalmente tra i dotti ch'egli avesse un ingegno più fecondo nel l'applicare che nel trovare, più acconcio ad esporre i pre cetti della scienza che a fondarne i principj per via di rigorose indagini speculative. Ma niente è più contrario a questa opinione quanto un severo esame del libro De legibus. Meditando con attenzione questo dialogo,uno dei più eloquenti che mai uscissero dalla fantasia largamente inventiva del nostro filosofo, ti accorgi tosto essersi in gannati a partito coloro i quali sull'autorità di alcune poche parole di lui nel cap. VI: « quoniam in populari ratione omnis nostra versatur oratio,populariter interduin loqui necesse erit », vollero indurre doversi annoverare questo trattato fra i libri mancanti di vera speculazione scientifica, e volti ad un fine semplicemente pratico popolare.Ora per risolvere una siffatta questione, non certo di poca importanza nella critica della morale di Cicerone, e risguardante quei principj che ne collegano le varie parti in u n disegno ordinato di scienza, io distinguo nel libro De legibus due rispetti parimente importanti in cui può essere considerato:un rispetto istorico, o giu ridico, e un rispetto semplicemente speculativo. E a par lare innanzi tutto del primo, non debbo lasciare indietro come dal 490, età della prima guerra cartaginese, al 628, anno della distruzione di Numanzia, mentre gran parte all'oriente e all'occidente d'Europa, e l'Africa stessa venivano in potere dei Romani, la repubblica (come dice il Forti) rapidamente si corrompesse.S'indeboliva a poco a poco l'ordine delle famiglie, si mutava la moderazione in crudeltà e capriccio, l'ossequio e l'ubbidienza in vile condiscendenza ai vizj con animo rivolto a sciogliersi dai legami della famiglia, perdera forza la religione del giu ramento; nel VI secolo frequenti i privilegj, caduta in discredito l'autorità sacerdotale, frequenti le prorogazioni degl'imperj; indi a grado a grado cessava Roma dal l'avere una costituzione fissa e un prudente consiglio che la dirigesse, e s'avviava all'anarchia popolare. Di queste condizioni civili,che rendevano sempre più facile il vivere sciolto da ogni legge morale, dovea risentirsi la disci plina del dritto. La quale nata da una viva disposizione dell'ingegno latino a ricercare la suprema legge del vero nella moralità delle azioni, e guidata dalla sublime idea del giure che G. B. Vico riconobbe nel linguaggio dei primitivi italiani, si perfezionava tra il sesto secolo e il settimo a causa del bisogno vivamente sentito di ridurre le consuetudini a leggi scritte, per l'uso delle lettere greche, per lo studio dell'antichità necessario alla notizia delle leggi,e per l'efficacia della morale stoica.Va frat tanto la sparsa materia del diritto romano non si ordi nava in forma di scienza; non già che molte massime generali delle XII tavole e dei pretori non fossero d e sunte dall'intimo della filosofia, e che l'applicazione e lo svolgimento delle dottrine non desse impulso efficace al l'ingegno speculativo de'Giureconsulti.Vi s'opponeva un difetto,antico nella costituzione romana,percuicadendo in dissuetudine le leggi, spesso occorreva di rinnovarle, l'autorità troppo larga dei legislatori, onde, al dire di Cicerone, si studiavano piuttosto gli editti del Pretore e le opere dei Giureconsulti, che il testo delle XII tavole, e poi il moltiplicare delle massime e delle questioni per cui avveniva che la scienza, anzichè ordinarsi a sistema con universalità di disegno, si veniva soltanto applicando gradatamente ai bisogni civili. M a verso la metà del settimo secolo,quello stesso in cui Cicerone scriveva la Topica,eaRoma epertuttoildominiodella repubblica s'era da un pezzo largamente propagato lo studio della filosofia e delle lettere greche,l'ingegno romano già esperto nell'esercizio della logica, e maturo all'abito della rifles sione interiore, cominciò a dare forma più rigorosa di scienza alle discipline del giure. Uno di coloro che più vi si volse, e che, per testimonianza di Cicerone,vi recò un vero abito del raziocinio nutrito da studj profondi di filosofia, fu il giureconsulto Servio Sulpicio,di cui si parla con molte lodi nel libro De claris oratoribus ; e dopo lui il nostro filosofo, al quale chi legga il libro delle Leggi non può negare il merito insigne di avere meditato una riforma del giure, desumendone l'origine,come dice egli stesso, dall'intimo della filosofia, e tentato un codice del diritto pubblico per sopperire al bisogno,allora viva mente sentito,di ridurre a principj universali e a dise gno ordinato le sparse discipline del Diritto romano. (Libro I, e sey.) Ma questo stesso proporsi una riforma del giure e meditarne l'ordinamento scienziale, chi non vede ch'era già nella mente del nostro filosofo un naturale appa recchio all'indagine speculativa dei principj morali? L'oratore latino a cercare che cosa è legge, mosse,come i giureconsulti odierni, dalla considerazione di due rispetti    nei quali la legge può meditarsi, cioè in quanto ella esiste nel fatto come regola coattiva delle azioni, ovvero in quanto ha una ragione d'esistere,o vogliam dire una origine razionale (Forti). Ei risguardò di preferenza il secondo rispetto, e cercando nella sua definizione l'ottimo ideale, « si rifece da un gius naturale anteriore alle leggi, variabili secondo il volere dei legislatori,norma razionale al paragone della quale si potesse distinguere la legge buona dalla cattiva, che in sostanza è una violazione del giusto sostenuta dalle forze della società. Questo termine di confronto delle leggi civili lo ravvisava nella legge di natura,ossia nella somma ragione dell'economia che gli dèi, signori dell'universo, avean posta nel governo delle coseumane.Da questofontederivavalagiustiziaassoluta ed eterna, che definisce il bene ed il male indipendente mente dagli stabilimenti sociali e dalle opinioni degli uomini. Idea di assoluta giustizia,che,come Cicerone avverte egregiamente, non può star separata dalla credenza reli giosa in un supremo legislatore cui sia a cuore il bene e l'avanzamento dell'umanità. I comandi e le proibizioni di questa legge suprema sono noti agli uomini, secondo Cicerone, per natural lume di ragione, solchè essi vogliano esaminare se stessi e consultare la coscienza. Laonde è da considerare sapientissimo il detto dell'antico savio, che pone a fondamento di sapienza il conoscer sè stesso. Conoscendo sè stesso, l'uomo vede di essere naturalmente socievole, e va persuaso che la società è uno stato neces sario al genere umano.Vede eziandio che gli uomini tutti fanno una sola famiglia, che ha un padre e regolatore comune,che tutti ama ugualmente e gliobbliga a vicen devoli uffizj. » Francesco Forti, nome caro alle lettere e alla giurisprudenza toscana,così riassumeva nel I libro delle sue Istituzioni civili le dottrine del dialogo sulle Leggi; ed io lo citai augurando che per suo esempio il trattato insigne del filosofo latino porgesse materia di larghe e fruttifere meditazioni agli studiosi del Diritto. Tra le cause adunque che dettarono a Cicerone il dialogo delle Leggi, sono in primo luogo da annoverarsi l'incertezza del vero senso del giure per la moltiplicità delle massime,deglieditti, delle leggi,degl'interpretanti, onde spesso si perdeva il significato filosofico e morale nella aridità delle formule, ed era opera di scienza vera e fruttuosa il ricondurvi le umane menti;poi una ragione politica che voleva richiamate ai principj morali le libere istituzioni;ed infine un contrasto alle scuole greche, e specialmente alla Nuova Accademia,la cui dottrina po teva riuscir fatale all'Etica e alla Giurisprudenza, fon data com'era,non già sull'osservazione interiore o sopra un vero criterio scientifico, m a sui deboli artifizj della dialettica e del sofisma. Ora si consideri bene come ilnotare diligentemente questo con trasto del filosofo latino colle scuole negative degli asso luti principj morali,ci mena a poco a poco a scoprire la parte altamente speculativa delle sue indagini intorno alle leggi,la quale dobbiam confessare avere sin qui assai poco considerata i critici e i commentatori. Eppure ogni età della storia (e lo notammo più innanzi) ci porge ampie e innegabili testimonianze di questo tornare della riflessione all'esame della legge morale e della genesi dei sommi principj che ne derivano, e si manifestano all'intelletto fecondi d'innumerevoli attinenze con qua lunque parte dello scibile umano,ogni volta che le dot trine dei sofisti pullulate dalla profonda corruzione civile e dall'intepidire del senso morale, ponevano il bene ed il giusto nell'attraimento degli istinti animali, e nel l'esca dell'interesse. In quei tempi di grandi sventure private e pubbliche, massima delle quali è per certo il dilungarsi degli ordini civili dalla notizia dei sommi prin cipj, gl'intelletti più alti,nutriti nella meditazione e negli studj dell'antichità, mossero la riforma morale da quella relazione chiarissima e primitiva che intercede tra l'in telletto e l'assoluto, e si manifesta nell'energia dell'im perativo morale.Questo intendimento di opporsi allo scet ticismo coll'esame della realità oggettiva del supremo concetto di legge,è manifesto nelle teoriche del Vico,è m a nifestissimo in quelle degli Scozzesi, e dettò le pagine più eloquenti di quel famoso libro che s'intitola dalla Ragione pratica,sebbene l'affermare,come essofa,chelamia ra gione è un che d'imperativo, che la mia volontà vi si sente soggetta, e che quindi m'accorgo che quell'impero è universale e viene da Dio legislatore,creatore e prov vidente, sia pronunciato assolutamente contrario al si stema della scuola critica e alle dottrine del filosofo di Conisberga. M a poichè in questo luogo facemmo espressa menzione del libro della Ragione pratica,vogliamo invitare inostri lettori a seguirci in un paragone per certo singolare e inaspettato delle dottrine di due differentissimi ingegni. Il filosofo di Conisberga, abbeverato alle dottrine del Cartesio, e seguace, benchè inconsapevole, dello scetticismo di Hume, Kant i primi baleni di quella filosofia, onde più tardi sfolgorava la rivoluzione fran cese, ammise a fondamento del suo sistema l'assoluta impossibilità di trapassare dal soggetto all'oggetto, rap presentando il pensiero racchiuso in sè stesso e pensante le cose con proprie forme o categorie. La qual dottrina, oltre al contraddire, come fa, alla natura del pensiero e all'evidenza immediata della percezione,e porre il filo sofo nell'assoluta impossibilità di edificare la scienza nel tempo stesso ch'egli sipropone ilproblema,se lascienza è possibile, distrugge ogni certezza morale, e vieta alla mente di aggiungere mai colla riflessione scientifica l'ori gine vera della legislazione assoluta. Per Kant (osserva giustamente Mamiani) l'anima è onninamente legisla trice di sè medesima e crea l'assoluto dovere,crea,dico, non meno di un assoluto; e quella forza invincibile di approvare o di biasimare è pur fattura dell'anima, onde ella identicamente e simultaneamente è comando e obbe dienza, è autorità ed obbligazione, è diritto e dovere, è attiva e passiva, è finita e infinita (perchè ogni assoluto vero è infinito), e rimordesi talvolta amarissimamente delle azioni contrarie all'imperativo di cui ella stessa è autrice spontanea. Cotal dovere e cotale legislazione assoluta che emerge tutta ed unicamente dall'umano subbietto, appare nel Kant (se è lecito dirlo)più contradit toria assai che negli Stoici antichi e nei moderni panteisti germanici.Imperocchè appo entrambe le scuole la volontà e libertà umana si sustanzia in ultimo con la divina e assoluta. Quindi nelle loro dottrine morali ricomparisce la contradizione perpetua d'identificare azione e passione, finito e infinito e così proseguì;ma non vi si dee ravvi sare cotesta forma particolare di ripugnanza tanto più deplorevole quanto la scienza morale à un carattere sacro e interessa il genere umano e la vita civile più che altra disciplina quale che sia. » Confessioni. Tale è pertanto la differenza notevole che corre tra le contradizioni morali del Kant e quelle del nostro filo sofo. Già vedemmo parlando delle dottrine sulla natura come da parecchj luoghi dei suoi trattati apparisca assai chiaro ch'egli, seguace del semipanteismo platonico e stoico,faceva consustanziali l'intelletto umano eildivino; la qual dottrina applicata nel dialogo delle Leggi avrebbe dovuto condurlo per legittima illazione a identificare la natura infinita del precetto morale colla ragione finita dell'uomo.Ora una volta ammessa questa dottrina,come mai poteva dedurne il filosofo l'azione trascendente e as soluta dell'imperativo morale sull'anima nostra? Come concluderne che la ragione perfetta, in quanto risplende dell'assoluto concetto del bene, s'impone alla mente e prende natura di legge? E d'altra parte è chiaro a chi sia mediocremente versato nella storia della nostra scienza che l'oratore roman o, il quale rifiuta nel libro De finibus la parte soggettiva della morale del Portico,come il su perbo concetto del perfezionamento umano,l'indifferenza ai beni esteriori e l'eguaglianza delle imputazioni, qui nel dialogo delle Leggi ne accettò pienamente la parte oggettiva, vo'dire l'idea della legge eterna e i concetti dell'obbligazione e della città universale. Tale repu gnanza del semipanteismo platonico e stoico accoltoda Cicerone coll’autonomia dell'umano arbitrio, e coll'effi]  [Veramente non è ben chiaro se Cicerone si facesse mai tal domanda; ma, a dirla breve e come io la penso, il sentimento più naturale e spontaneo ch'io ritrassi dalla prima lettera del libro De legibus, fu una ferma opinione che il filosofo latino movendo dalla indagine sul concetto di legge,soccorso dalle tradizioni del diritto romano, d o vesse riuscire a rappresentarsi quell'azione trascendente della legge morale sull'animo nostro siccome derivata dall'intima natura di un assoluto,distinto dalla ragione dell'uomo e a lei superiore. Argomento valevole assai per confermarmi in tale giudizio,è l'altezza a cui poggia l'indagine speculativa di Tullio,che allontanatosi dal l'esame particolare e sottile delle scuole antecedenti e contemporanee, e dalla parte soggettiva della stessa d o t trina stoica,riordinava la scienza tutta al lume dei sommi principj, più tardi usciti a fondamento della sapienza cristiana.cacia trascendente di quella virtù onde si genera in noi l'obbligazione morale, involge un importante quesito di storia della filosofia. Nel quale si domanda, se il filosofo latino propose giammai nettamente innanzi all'esame della sua riflessione questa controversia da cui dipende il principio costitutivo dell'obbligazione e del bene m o rale; e se chiese a sè stesso come potessero mai conci liarsi l'identità di natura tra l'intelletto divino e l'intel letto dell'uomo con quel sentimento di soggezione assoluta che in noi s'accompagna all'impero della legge morale. Un'altra prova di non lieve importanza è altresì la dif ferenza notevole che corre tra i libri fisici e morali del filosofo nostro.In quelli egli dubita il più delle volte,e,meno che nei principj fondamentali,segue irresoluto leforme della Nuova Accademia;neilibrimorali partuttoun altr'uomo, e le sue conclusioni rivelano sempre una maravigliosa armonia del sentimento colla riflessione speculativa. A l tresì non v'è dubbio alcuno che i concetti correlativi di Dio e dell'anima umana e del libero arbitrio,assai inde terminati nel De natura deorum,nelle Tuscolane, nel Sogno di Scipione e negli Accademici primi,qui nel libro delle Leggi profilano più nettamente le loro fattezze,e ne discende ordinata e architettata nelle sue verità uni versali tutta quanta la scienza.Il concetto del divino sopra ogni altro giunge in questo libro ad un'altezza scono sciuta alla maggior parte dei filosofi antichi.Egli è rap presentato al lume delle tradizioni romane come inente eterna ed eccelsa che tuttoprovvede,che a tutto impera,e veste idue caratteri dell'arbitrio e dellam o ralità, che, al dir del Gioberti, ne costituiscono le origi nalifattezze. L'indagine tulliana della leggesuprema pa lesa poi,per mio avviso,un vigore non ordinario d'ingegno speculativo.Posta a capo di tutto ilragionamento lano zione di legge universale come un riscontro delle leggi particolari e una misura intelligibile a cui ricorrendo si potesse apprezzare l'essenza delle cose giuste od ingiuste, tal nozione presentava in sè due rispetti intimi ambedue eambeduenecessarj.Lapoteviconsiderarecome idealità suprema,come infinitagiustiziaonde ilgiusto sipartecipa, benchè imperfettamente, alle cose finite, e come primo assoluto ed universale, che volgendo le menti alla comune dispensazione del bene porgesse quasi l'unità morale del l'umana famiglia. Considerata nel primo rispetto, la n o zione di legge si offriva alla mente del filosofo latino come idealità suprema e assoluta,e come un intelligibile primo che rappresentando ilperfetto nell'ordine della ra gione le si imponeva come regola dell'operare.Egli dunque concepiva quella nozione come un vivo riverbero dell'as soluto, e poichè l'assoluto è divino, e la sua idea si palesa partecipata come luce dall'alto nella perfetta ragione dell'uomo, unico di tutti gli animali che abbia innata nell'animo la notizia di Dio, quell'idea gli parve una partecipazione segreta ed arcana dell'assoluto nell'umano intelletto. Udiamo le sue parole: « Est quidem vera lex recta ratio,naturæ congruens,diffusa in omnes,constans, sempiterna, quæ vocet ad officium jubendo, vetando a fraude deterreat, quæ tamen neque probos frustra jubet aut vetat nec improbos jubendo aut vetando movet.Huic legi nec abrogari fas est neque derogare ex hac aliquid  una   licet neque tota abrogari potest,nec vero aut per senatum aut per populum solvihaclegepossumus,neque estquæ rendus explanator aut interpres ejus alius,nec erit alia lex Romæ, alia Athenis, alia nunc, alia posthac, sed et omnes gentes et omni tempore una lex et sempiterna et immutabilis continebit unusque erit communis quasi magisteret imperator omnium deus:illelegishujusinventor, disceptator, lator, cui qui non parebit, ipse se fugiet ac naturam hominis aspernatus hoc ipso luet maximas p æ nas,etiam si cætera supplicia, quæ putantur, effugerit. De Repub. -- riportato da Lattanzio Instit.div. – Stupenda definizione èquestadel principio regolatore degli atti umani,e tale da mostrare una volta per sempre che qualcosa più di una semplice continuazione delle scuole greche s'acchiudeva nei prin cipj dell'Etica romana. Vi s'acchiudeva la speranza e la promessa immortale del Cristianesimo! Considerato al lume di questi principj, il dialogo delle Leggi ci si offre come una sintesi vasta di tutta la scienza. Una volta posto con tanta chiarezza ilconcetto di legge nella cima dell'umana ragione,e l'umana ragione stretta da un legame arcano d'attinenza coll'assoluto, se ne chiariva alla mente del nostro filosofo la nozione di Dio e quella dell'uomo e dell'universo, e il fondamento primo dei doveri civili. La causa di tutto ciò era per fermo nel l'intima natura del metodo di lui,ilquale movendo dalla coscienza morale e dal vivo sentimento dell'obbligazione, coglieva nel suo stesso principio la più ampia e la più feconda di tutte le armonie scientifiche; siccome quella in cui soggetto e oggetto si trovano unificati in un ter mine superiore e trascendente,onde poi si diparte,come da unico centro, l'ordine universale delle idee e quello dei fatti.La qual cosa non accade per certo nella ragione informatrice del sistema di Kant, e degli altri critici e razionalisti moderni. In tali sistemi il pensiero (per valerci delle loro stesse parole) non esce mai da se stesso,non coglie la realità viva e concreta che è pre sente all'intuito, nè anche, dico, in questa parte della filosofia de'costumi, dove la mente afferma ogni volta per ingenita necessità di natura l'indipendenza del pre cetto morale assoluto dall'atto informatore del nostro spirito. Non ha dunque la filosofia soggettiva un punto stabile e fermo in cui getti le prime fondamenta dell’edi fiziomorale,eillegameintimodeipensierichene con nette le parti, non avendo corrispondenza nella realità obbiettiva dei sommi principj,dee riuscire per necessità fenomenico, relativo e contingente. Eppure, come ben nota il Gioberti,vano è il voler riformare la dottrina del Buono senza risalire ai principj, che è quanto dire, senza considerarla come una scienza seconda,fondata sui canoni della scienza prima. (Del Buono,cap.III.) Questa nobile impresa, degna di un condiscepolo dei Giureconsulti romani, fu tentata dall'Autore del dialogo delle Leggi. L'esame della sua dottrina,solo che illettore se lo riduca per poco al pensiero, ci ha mostrato assai largamente che il metodo Socratico dell'osservazione in teriore lo condusse nei libri fisici e logici ad accettare il conoscimento come un dato legittimo della scienza,e nella disputa contro gli Stoici intorno al fine quel metodo istesso lo avvertiva doversi trovare la ragione constitutrice del bene per rispetto all'uomo nell'indagine piena dell'umano soggetto. Da questa cognizione dell'animo si levava il Romano per l'evidenza dei comandi morali alla notizia più perfetta di Dio,e lo concepiva come mente e ragione infinita in cui posa l'idea della legge eterna, di questa legge obbiettiva,immutabile, necessaria,anteriore a tutte le leggi civili, più antica d'ogni città e d'ogni gente, e coevaa quel Dio che governa laterraedilcielo.Da Dio è disceso l'uomo; egli uscito nel mondo ultimo degli ani mali, allorchè la natura fu disposta ad accoglierlo,benchè mortale nelle altre parti dell'esser suo,nell'animo è ge nerato da Dio.Egli solo quindi tra tutti gli animali ha notizia del Creatore, solo è capace di virtù, e può valersi in suo servigio dei frutti della terra, e inventò per a m maestramento della natura innumerevoli arti che imitate poi dalla ragione gli procacciarono le cose necessarie alla vita. L'uomo dunque è primitivamente simile a Dio; similitudine che può vedersi dal fine a che la natura stessa lo destinava, e dai mezzi che gli diede a conseguire quel fine; conciossiachè prima ordinò la intera costituzione del mondo in suo beneficio, e all'uomo stesso diede conosci mento veloce, e del conoscimento ministri e satelliti i sensi,e gl'impresse nell'intelletto certe oscure nozioni di cose innumerevoli che furono in qualche modo fonda mento allascienza:Diede anche all'uomo forma dimembra acconce a significarne la natura intellettuale;poichè,mentre gli altri animali fece inchini alla terra per l'uso del pasto, il solo uomo rivolse al cielo quasi alla contemplazione del l'antica sua patria, e ne atteggiò il volto per modo che vi si leggesse profondamente scolpita l'effigie dell'animo. Sarebbe lungo il seguire M. Tullio in questa larga deduzione dei veri morali e psicologici ch'egli trasse dal concetto di legge. Basti per noi l'osservare che son belle e vere dottrine, più tardi ripetute dai Padri e dai Dottori e dalle recenti scuole italiane,l'autorità assoluta dell'im perativo morale,la sua attinenza con Dio provvidente, l'idea dell'imputazione e dell'atto umano, e finalmente quella grande città in cui l'ordine mondano e sopram mondano si congiungono insieme nella universale comu nione degli spiriti eterni. (De leg., lib. I.) Esaminata la legge nel suo primo rispetto,vale a dire in quanto essa è obbiettiva,necessaria,immutabile, eterna, il filosofo latino passa a considerarla come un principio universale, che si dispiega al di fuori di sè stesso in un ordine di relazioni,ed è norma comune dell'operare agli umani intelletti. E qui egli veniva cercando la comunità del concetto di legge nella somiglianza di natura intel lettuale, onde avviene che a significare tutta quanta la umana specie vale una sola definizione,e principio del consorzio civile è la comune e vicendevole partecipazione del giure. « Non est enim (egli diceva) singulare nec solivagum genus humanum.» Quindi esce altresì nel primo della Repubblica la bella definizione della città, fonda mento alle sue dottrine politiche: « est igitur respublica]  [Il cardine della morale di Cicerone posa dunque manifestamente in questa dottrina della legge, il cui merito insigne si è di avere volto le sparse discipline del diritto romano contemporaneo ad un ordinamento più razionale, e fondata la metafisica e la filosofia civile sopra principj assoluti di scienza. Questo intendimento del nostro ora tore è tanto più manifesto,in quanto che egli,dopo spie gata per ordine la dottrina della legge suprema, assume nel primo libro la questione più tardi agitata nel De finibus, e contro le dottrine di coloro che il buono misu ravano dall'utile, si distende a provare la virtù sola d e siderabile per sè stessa, e l'efficacia del buono venire dalla natura anzichè dalle mutabili opinioni. La qual cosa, mentre è una prova di più per mostrare come l’oratore-filosofo dai punti capitalis simi della morale, scendesse con unità di concetto alle più remote applicazioni, prende in fallo quei critici che supposero di fresco avere Cicerone abbandonato improv visamente la dottrina dell'Antica Accademia sulla legge naturale per accettare il metodo peripatetico nel suo più recente trattato dei Beni. Ma innanzi tutto noi d o m a n diamo a quei critici come mai,se Tullio si ribellò più tardi alla ragione informatrice delle dottrine platoniche, qui nel libro delle Leggi espone con fronte sicura la stessa teorica trattata nei Fini? In secondo luogo, fra le due opere v'è certo diversità nella ragione del metodo esterno (procedendosi deduttivamente nel libro delle Leggi, e induttivamente nel libro dei Fini), ma la diversità non involge alcuna contradizione; poichè nel trattato dei Beni, quando esaminava quella controversia da parte dell'umano  res populi; populus autem non omnis hominum quoquo modo congregatus, sed cætus multitudinis juris consensu et utilitatis communione sociatus,» dove egli af ferma ilnesso primitivo tra il diritto naturale e ildiritto delle genti, e contro Platone che attribuiva l'origine del consorzio umano alla debolezza degl'individui,riconosce invece quell'origine nella comunità di una legge assoluta e soprammondana. cætus 1 soggetto, affermò nella vita presente non pervenire l'uomo al compiuto adempimento del fine se non svolgendo e perfezionando ogni parte integrale di sua natura,laddove qui nelle Leggi salito ad un concetto più universale, m e ditò oggettivamente l'idea del buono e dell'obbligazione, riconoscendovi un'assoluta efficacia indipendente dall'atto dello spirito umano.Così da questi due larghissimi aspetti in cui può essere meditata la materia della scienza m o rale, e dove all'intelletto del filosofo appajono congiunti l'assoluto e il relativo, il contingente e il necessario, l'anima e Dio,deriva secondo la mente di Cicerone, il vero e più ampio concetto della dottrina sul buono. La diligente esposizione impresa da noi degli scritti del filosofo latino ci ha condotti,come avranno osservato i lettori, a trattenerci alquanto intorno alla parte specu lativa delle sue dottrine morali, e segnatamente intorno ai due trattati De finibus e De legibus. La qual cosa abbiamo fatta coll'intendimento di porre innanzi agli occhi degli studiosi i principj fondamentali e il disegno scien tifico dell'Etica latina,esposta da Cicerone,sembrandoci che questo esame fosse stato assai leggermente condotto sin qui dai critici precedenti, i quali o tenerano Cicerone in luogo di un eclettico e di un moralista positivo e spe rimentale, o non facendo professione di filosofi, conside ravano nei suoi trattati meglio la parte istorica e lette raria che l'intimo nesso e il metodo speculativo delle dottrine.Eppure convien confessarlo) questa critica preoc cupata e parziale è sommamente contraria alla giusta estimazione dei libri speculativi di Tullio.Per essa avviene che i principj e la unità delle sue dottrine morali ci ri mane ignota per sempre; ci sfuggono le più alte indu zioni che il grande oratore e i Giureconsulti adoperarono intorno ai pronunciati del senso comune,e riesce un fatto senza ragione alcuna quell'ampia utilità applicativa del l'Etica romana,da tutti riconosciuta,se il filosofo morale non ne rintraccia i principj nelle speculazioni più remote intorno al vero ed al buono. Premesse queste osservazioni, veniamo ora alla parte   positiva dell’Etica tulliana, nella quale ci terremo più brevi secondo è richiesto dalla natura principalmente fi losofica di questo scritto. L'indagine che si contiene nel primo libro delle Leggi, porge naturalmente il passaggio dai supremi principj speculativi alle dottrine pratiche della morale, pel con cetto d'obbligazione e di vicendevole comunanza del giure, onde il libero arbitrio sperimentando in sè l'efficacia trascendente del precetto morale, e riconoscendovi un impero incondizionato che si dilata nell'universalità del l'umana famiglia, si sente stretto all'osservanza degli officj religiosi, individuali e civili. Officio dunque (così lo domandavano le scuole socratiche) è illibero conformarsi della virtù all'impero della legge morale. E importa assai determinare il significato scientifico della parola, perchè si capisca come la teorica dell'officio che ha tanta parte nel sistema del Portico,mentre discende immediatamente da quella del dovere (considerato nella sua genesi razio nale),ha poi certi suoi peculiari rapporti che la connet tono colla parte più positiva della scienza morale. Due specie d'officio distinguevano gli Stoici.L'officio retto o perfetto (29Tóptospa, zadrzov téheLov) che cade uni camente nel saggio,o in colui che abbia ottenuto l'ultimo grado del perfezionamento morale;e l'officio comune,o medio (2997zov uésov),che era un ordinario conformarsi della virtù agli obblighi della vita privata e civile,o,come direbbesi oggi popolarmente,un fare da persona dab bene. Ora insorse controversia tra i critici, se Cicerone nel suo trattato, da tanti anni notissimo nelle scuole, de finisse scientificamente l'officio. Il Manuzio e il Facciolati difesero Cicerone; il Lilie con altri più antichi, citati dal Kuehner, giudicò veramente omessa quella definizione; mentre il Binkes,il Kuehner e il Grysar avvisavano avere Cicerone definito soltanto l'officio medio, di cui prese a trattare espressamente nel suo libro,in quelle parole del capitoloIII,1.I:«medium officiumidesse,quodcur factum sit ratio probabilis reddi possit. » (Vedi Lilie, Comment.de Stoic. doctrin. mor.ad Cic. libr.De off.,1, Kuehner. Fran. Binkes, Responsio ad quæst. juridicam etc., Franeq., Prolegomena ad Cic .libr. De Off. scripsit, Grysar, Köln). Questa opinione dei commentatori tedeschi tanto più è conforme alla natura del libro D e officiis e al metodo espositivo che quivi si propose l'autore, in quanto che egli stesso ci dice nel capitolo III: due questioni potersi fare intorno all'officio; l'una che si riferisce al fine dei beni,l'altra che cade nei precetti ai quali in ogni parte si può conformare l'uso della vita; parole meritevoli di speciale considerazione, conciossiachè mentre spiegano quell'intimo nesso scientifico che annoda le dottrine p o sitive colla teorica del bene morale, stabiliscono poi il vero oggetto del presente trattato,il quale non è altro, come giustamente osserva un critico moderno, che la determinazione dei nostri doveri particolari. Coloro d u n que che dal libro degli Officj prendevano argomento a ravvisare nel filosofo latino un mediocre valore scientifico, perchè egli trattando dell'officio non si solleva ai supremi principj della morale, non osservarono quale attinenza corra tra i libri speculativi e pratici della sua morale, onde egli investigato prima che cosa è il bene nell'umano soggetto (De finibus), si leva alla nozione oggettiva di legge (De legibus), e scende per ultimo alle applicazioni più remote dell'Etica nella vita privata e civile. (De of ficiis, De republica, De amicitia, De senectute.) Migliore giudizio invece recarono quei critici, segna tamente francesi, i quali considerando di preferenza questo speciale rispetto tutto positivo e civile, in cui possono meditarsi gli Officj, quindi desumevano i pregj e i difetti del libro. Infatti il trattato degli Officj non è un'opera semplicemente speculativa,o un'opera di psicologia. Ivi si richiamano, è vero,le altre parti delle dottrine m o rali, vi si accenna la distinzione stoica tra l'officio per fetto e l'officio comune,e il pensiero dello scrittore si leva talvolta a indagare la qualità morale degli atti nel l'intima natura dell'uomo,ma l'intendimento primo a   La gentilezza degli Attici educata nell'ordine m a t e riale della civiltà da fina eleganza di costumi, e dallo spettacolo d'una natura ridente, li traeva ad una viva e, quasi direi,religiosa ammirazione del bello,onde il pen siero dalla convenienza e armonia delle parti reali che genera il perfetto nei corpi,passava all'invisibile bellezza degli animi. Ma in Rom a dove ogni istituzione fu vôlta sin da principio a rafforzare i legami che vincolavano il cittadino allo stato, e il rispetto delle relazioni civili superava a gran pezza gl'interessi domestici e il culto delle arti, regnava dominatrice siffatta la pubblica opi nione che in lei risedeva il solo e inappellabile arbitrio di giudicare le azioni. E per fermo i Greci considerando nella virtù la corrispondenza ideale che corre tra l'ar monia interiore dell'animo nostro e le forme più elette della natura sensibile,la nominarono bellezza, pei Romani la virtù sono quasi convenienza delle azioni colle leggi sociali. Laonde Cicerone che qui negli Officj la conside  148 cui mira quel libro, è un intendimento civile, e Tullio che lo compose dopo la morte di Cesare, quando to nava per l'ultima volta nel fôro in difesa delle libere istituzioni, volle lasciare a suo figlio in luogo di testa mento il codice più compiuto della morale politica. A questo proposito nel libro degli Officj merita spe ciale considerazione una dottrina che pel modo in cui fu trattata da Tullio palesa un rispetto istorico,e un'atti nenza immediata colle istituzioni e coi costumi di Roma. Tale è la dottrina del decoro (Tpétrov), esposta nel capitolo XXVII del libro primo. Cicerone,osserva acutamente il Ritter, traduceva nei Paradossi la sentenza degli Stoici: crcpovovaysoró 2.016; il solo buono è bello, collepa role: quod honestum sit,id solum bonum esse;onorabile è solamente ciò che è buono. Ora questo diverso concetto che i Greci e i Latini s'erano fatto della virtù, e che più volte ritorna nel De officiis, come in quel libro in cui Cicerone conformò forse maggiormente le sue dottrine morali al pensare e al sentire romano, si spiega assai facilmente ricorrendo alla Storia.   rava in un rispetto quasi esclusivamente civile, l'accom pagnava al decoro, o vogliam dire a quella luce esterna di onoratezza, onde la stessa virtù si porgeva all'ammi razione della pubblica coscienza. Considerato per questo rispetto, il libro D e officiis, mentre si attiene alle altre opere speculative, presenta nelle sue parti più sostanziale un vero ordinamento di scienza. Il filosofo latino segue liberamente Panezio, e perchè autore di un ottimo libro intorno agli Officj, adesso perduto, e perchè assai temperato nelle dottrine dello stoicismo,come portava l'età.Da Panezio,eforseda Pos sidonio, continuatore di lui, trasse in gran parte le dot trine intorno all'onesto ed all'utile, che offrono soggetto ai due primi libri, e v’aggiunse del proprio la materia del terzo, ovvero il combattimento dell’utile coll'onesto, omessa dallo scrittore greco. La parte più bella e più filosofica di tutto il trat tato, e dove splende più pura la nobiltà dell'animo di Cicerone, è quella dov'egli toccando le relazioni della politica colla morale, biasima altamente quei fatti, nei quali l'interesse dell'utile pubblico avanzò le norme della giustizia e della onestà, e propone al figlio i più sui blimi esempj dell'antica virtù ne'quali l'animo ritem prando possa uscire incontaminato dalle scelleratezze dei tempi. E i tempi dovevano esser tristi davvero, se con sideriamo parecchj esempjd'ingiustizia contemporanea che Tullio ricorda al suo Marco, e ch'egli sebbene commessi da uomini potentissimi nella repubblica e amici suoi, ge nerosamente condanna.Nè dee far maraviglia che fosse cosìa chi consideri come il disgiungersi della morale dalla scienza di stato è uno dei maggiori indizj della corru zione civile, e che tutto allora in R o m a precipitava a ro vina, religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati; e in quel rovescio d'ogni cosa e divina poneva i fondamenti sanguinosi la ti rannide degli imperatori. Nel terzo libro, discorse le attinenze della politica colla morale, passa il filosofo latino alle attinenze della umana   morale colle altre scienze sociali, la Giurisprudenza e l'Economia. In queste pagine di Tullio, a sempre più smentire l'opinione di quelli che non trovano nei giure consulti romani le tracce d'una profonda speculazione,si vede chiaramente come la giurisprudenza latina, benchè costituisse da sè stessa un vero e proprio corpo di scienza con norme immutabili e fisse, con ordine scienziale di dottrine, desumeva da'principj della filosofia i suoi fon damenti; il che mostra Cicerone citando parecchie que stioni esaminate dagli antichi giureconsulti, e definite con formule certe che più tardi assunsero la forza di legge. La qual cosa apparisce vie più manifesta quando ne' seguenti capitoli Tullio, dopo definite alcune questioni di morale, appellandosene al testimonio della coscienza e della retta ragione,quasi a riprova di quei principj ne cerca il riscontro nella più antica e venerata delle legislazioni romane, nella legge delle XII Tavole. Questo ricorrere ai più vetusti testimonj, oltrechè era proprio al metodo di Cicerone, che cercava nell'antichità più presso all'origine divina,le verità naturali più schiet te,e le prime tradizioni,ha qui un'importanza d'oppor tunità, perchè egli di fronte alla corruzione della morale civile voleva additare lo scadimento della repubblica. Lo che è chiaro in tutto il libro; chiarissimo poi dove avendo citato gli esempj di Fabbrizio e di Cammillo e dell'antico senato romano,soggiunge l'infamia di L. Silla che coll'autorità del senato raggravava i dazj antichi so pra alcuni popoli che se n'erano sciolti pagando, nè restituiva il danaro; e prorompe con mobile sdegno: p i r a tarum enim melior fides quam senatus! Il De officiis accolto nelle scuole d'Europa sino dal primo risorgimento delle lettere antiche, e stampato per la prima volta a Magonza, levò di sè tanta fama da affaticare per ogni tempo l'acume degli eru diti e dei commentatori. Un esame critico di questo trattato, che Paolo Janet chiama « il più belmonumento filosofico della letteratura latina, » fu recentemente pro posto dall'Accademia delle scienze morali e politiche di Francia,e ne usciva nel 1865 il libro del signor Arthur Desjardins col titolo: Les devoirs, essai sur la morale de Cicéron. In quest'opera ricca d'ingegno, di filosofia e di larga dottrina in ogni parte della giuris prudenza e delle lettere antiche,l'autore con utile esem pio, che vorremmo rinnovato in Italia, prende a esami nare largamente il libro De officiis, ne mostra le varie attinenze coi principj supremi della morale tulliana, e lo confronta coi migliori filosofi antichi, e coi giurecon sulti moderni. È un lavoro di critica larga e profonda, in cui la gravità del soggetto è abbellita dallo stile ele gantemente sereno. E accresce lode al critico francese la schietta imparzialità dei giudizj, onde egli intento solo a conoscere la verità, difese da ingiuste accuse la fama del grande oratore, ne osservò opportunamente le omissioni o la brevità soverchia per quel che risguarda i doveri verso il divino, la famiglia e noi stessi, e rappresentò il De officiis come un codice compiuto di Etica civile, in cui si ragiona dei doveri del cittadino verso lo Stato,e il concetto della umana famiglia e della carità universale perviene a tale altezza da annunciarci vicino il grande rinnovamento dell'evangelo. Dai principj della filosofia civile e dai precetti par ticolari intorno ai costumi si varca alla teorica dello Stato. Questafuesposta da Ciceronenel De republica,giudicato universalmente dai critici come una delle opere le più ori ginali del nostro autore.Gran parte ne andò sventu ratamente perduta,ma le reliquie del primo e del se condo libro fanno assai splendida testimonianza che l'ora tore latino vi avea diffuse largamente le memorie della antichità greca, le grazie severe dell'eloquenza,eigrandi insegnamenti della vita politica. Quando prese a trattare dello Stato,egli avea innanzi a sè due scuole egualmente illustri, egualmente seguite dagli scrittori: la scuola di Platone e la scuola d'Aristotele. Ma ei dovette certo considerare che l'ingegno dell’Ateniese, poderoso d'in venzione e di veduta speculativa, non intese forse nei termini del vero le attinenze della filosofia colla politica.   Il merito insigne di aver sostituito alle dottrine ideali l'autorità degli esempj, è pur quello della Repubblica di Cicerone. In quest'opera, spartita in sei libri, e condotta con larga unità di disegno, il grande oratore imitò Platone nella forma letteraria e nel tono dello stile, del resto si attenne al metodo aristotelico; e volendo fare opera non solo utile alle lettere, ma vantaggiosaallapatriae alle più lontanegenerazioni,incarnòisuoiprecettinelgrande esempio di Roma. L a dottrina sui reggimenti civili si r i duce alla disputa delle tre forme monarchica, aristocra tica e popolare, alle quali egli preferiva la mista, invo cando le ragioni d'Aristotele e di Polibio e tutta quanta la storia di Roma.  Da queste premesse esce a compimento delle dot trine morali la disputa sull'immortalità. E qui Cicerone lasciando al tutto le orme dei Greci, seguì l'indole pro pria e della sua nazione, e fece di quel problema una vera e compiuta dottrina. Forse l'incertezza in cui aveano la sciata la controversia sui destini dell'anima i panteisti  [La quale, mentre ha bisogno per disegnare e applicare le civili istituzioni di ricorrere talvolta ai principj uni versali della natura,non può trascurare per altro nel l'ordine dei fatti le imperfezioni dell'essere umano, e quella lunga serie d'esperienze infelici per cui soltanto nella storia dei popoli si perviene ad applicare le istitu zioni alle necessità dei tempi. A questo metodo, chiamato da'Cesare Balbo un metodo razionale, si opponeva l'altro sperimentale d'Aristotele. Il filosofo di Stagira, disposto per natura d'ingegno a un accordo più perfetto della spe culazione col senno civile,e cresciuto alla scuola di Fi lippo e d'Alessandro, intravide con occhio più fermo le armonie delle dottrine scientifiche coll'esperienza, applicó alla scienza dello Stato quell'analisi sicura e paziente che negli ordini del pensiero e della natura lo avea condotto a creare la logica e la fisica; raccolse da ogni parte gli esempj dei governi migliori, li ordinò, li paragon ), li ridusse a principi, e ne trasse la sua Politica fonda mento della scienza civile. Ma a tali  prove di ragione e difatto altreseneag giungevano per lui desunte dall'affetto individuale e civile. L'indole del suo ingegno, inclinato a quanto v'ha di più grande e di più sublime nelle opere della natura e di Dio, gli svegliava nell'animo un vivo desiderio dei sommi estinti, e massimamente di quelli la cui vita consacrata alla patria nelle scienze,nelle lettere, nelle arti, nei pubblici negozj, li raccomanda alla riconoscenza di Roma. Gran parte,e la più bella forse della sua vita,s'era pas sata nella società di quei grandi; chè molti n'avea co nosciuti da giovinetto, e seguiti nello studio delle leggi e nella pratica del fôro; di molti avea udito favellare al padre e agli zii paterni, m a di tutti gli restava impressa nell'anima una memoria viva e costante, siccome di per sone domestiche e care.La vita lungamente agitata nei pubblici affari in tempi di grandi rivolgimenti, non gli tolse quest'abito di ritornare sul passato, e perchè vi pendeva l'animo naturalmente mite, e disposto a racco gliersi in sè stesso, e perchè la sua parte di conservatore lo menava in politica a desiderare il ritorno della virtù e degli antichi costumi. Più tardi le sventure della patria lo strinsero a ritirarsi dalla vita pubblica, e allora la fantasia nutrita negli studj speculativi gli consolava spesso colle grandi memorie i dolori civili e le meditazioni della scienza. E quindi si spiega perchè quelle meditazioni,in cambio di riuscire una fredda copia delle opere greche, gli si convertivano spesso in dialoghi vivi e passionati, e l'abito di conversare coi s o m m i estinti gliene porgesse gli interlocutori, e si spiega altresì come la dottrina del l'immortalità occupi tanta parte nel Sogno dell’Affricano e dualisti italici e greci, contribuì non poco a svogliarlo d'immaginarie astrazioni, e volgerlo a una via più sicura. Fatto è che nelle Tusculane,ma più nel De republica e negli opuscoli popolari della Vecchiezza e dell'Amicizia, egli chiese di preferenza le prove dell'immortalità alla coscienza morale, alle antiche tradizioni, ai riti delle tombe, al desiderio, connaturato nell'uomo, del divino e dell'assoluto.] e nel Catone Maggiore, dov'egli imitando il Socrate di Platone, paragonava sè stesso ai sommi che l'avean preceduto, e si consolava di speranze immortali.  Un'altra occasione, opportuna a indirizzare le medita zioni del nostro filosofo sulla controversia dell'immorta lità, e a dettargli intorno al soggetto affettuosi e mesti pensieri, fu per certo la morte della sua Tullia, avvenuta il mese di Febbraio dell'anno 709. Nelle solitudini della sua villa presso Astura, là dove avea in animo d'inal zare un tempio alla figlia perduta, egli scrisse un libretto che poco appresso indirizzò ad Attico, e che intitolava Consolazione. Su questo libro,adesso perduto,gli eruditi studiarono a lungo,e dai pochi frammenti che Cicerone stesso ci conservava,e da quel che ne dissero parecchj scrit tori antichi,in special modo Lattanzio nelle Istituzioni di vine,tentarono restituire per sommi capi il disegno gene rale e lo spartimento delle materie. Schneider ne ragionava in un saggio dove suppose Cicerone avere trattato a lungo dell'immortalità degli spiriti nell'opera della Consolazione, come apparisce in gran parte dal primo libro delle Tuscolane. La quale supposizione, che riteniamo a buon dritto per certa,ci fa grandemente deplorare la perdita di questo monumento della letteratura latina,una forse delle opere più originali di Cicerone,e da mostrare come il desiderio della figlia perduta gli volgesse a più gravi e più solenni ispirazioni l'ingegno naturalmente fecondo. Può sembrare opportuno ai lettori (se pure ne avemmo in questo esame della filosofia di M. Tullio) che noi dopo aver discorso delle scuole precedenti o contem poranee all'oratore latino,del suo metodo e concetto della scienza e finalmente dei libri fisici, logici e morali, con sideriamo adesso sotto un rispetto più universale il valore speculativoel'indoledellesue dottrine.La qual cosa,ol tre all'essere richiesta dalle leggi severe delle discipline scientifiche, in cui l'uso della sintesi non deve mai scom pagnarsi da quello dell'analisi,si porge opportuna a con futare l'accusa, che da alcuno potrebbe esserci mossa,di attribuire al più grande degli oratori latini una potenza d'ingegno speculativo che mai per avventura non ebbe. La critica intorno alle opere dottrinali di Cicerone, ne gletta dagli eruditi e dagli storici più antichi, e infor mata a una severità eccessiva da quelli del secolo scorso e del presente, è tempo ormai che ritorni a più maturo esameeapiùimparzialigiudizj. Ma ciòammesso,non resta men fermo quell'altro supremo pronunziato che Tacito invocava eloquentemente in un'età scellerata come norma dell'ottima condotta civile, e che comanda allo spirito umano di seguire una via lontana del pari dalla venerazione cieca, e dal disprezzo non ragionevole del l'autorità. A questa via ci siamo attenuti nell'esame delle opere di Cicerone. E non pertanto al critico che prende in mano quei suoi scritti così varj, così fecondi, dove si mesce tanta parte della vita e delle memorie latine, soprag giungono di tratto in tratto infinite difficoltà; non ultima per certo quella, avvertita altra volta da noi, di accom pagnarlo nell'indagine di tanti sistemi discordi, di racco glierne le sparse dottrine,e quindi ricomporle nell'armonia dei principj e delle conseguenze. La imparzialità delle opinioni, e il largo apprezzamento di quel tanto di vero e di buono, che si trova sempre in ogni sistema, mentre costituisce un pregio capitale della filosofia di Cicerone, fa sì che ella non si porga sempre favorevolmente al giudizio della critica odierna,la quale troppo più spesso vien cercando nelle materie speculative lo stupore delle invenzioni, anzichè la legittima novità dell'esame e delle attinenze scientifiche. Ma per contrario nulla v'è d'in ventato, nulla di strano nella filosofia di Marco Tullio. Ella è la filosofia del senso comune e delle grandi tra dizioni, la quale, per definirla con uno dei nostri filosofi, « non presume in alcuna cosa di saperne più là della stessa natura:ma di questa,invece, si dichiara attenta disce pola, e ne accetta i pronunziati siccome oracoli;.... filosofia tanto riguardosa e modesta, quanto serena e sicura nei suoi giudicj,e della quale fu detto averla Socrate pri mamente levata dal cielo,e condotta a conversare famigliarmente in mezzo agli uomini.” (Mamiani). Tale è l'indole vera della filosofia di Marco Tullio; e contuttociò crediamo avere abbastanza mostrato in que sto nostro lavoro, come alla semplicità de'principj e dei metodi si congiunga,segnatamente nella parte morale,il procedimento rigoroso e l'unità di scienza. Coloro poi che misurano il valore degli ingegni spe culativi dall'ardimento delle innovazioni, e giudicano   Marco Tullio una povera mente perchè dice egli stesso di professare dottrine non arroganti, e non molto disco ste dalle opinioni popolari, non hanno considerato a b bastanza in quanti modi si possa esercitare la spontaneità del pensiero nelle materie scientifiche. V'hanno infatti di quelle filosofie che esaminando e sindacando combattono gli errori de'tempi loro;ve ne hanno altre che esponendo un nuovo ordine di pensieri, ricostituiscono sopra diversi fondamenti l'edifizio scientifico;e nell'un caso e nell'al tro l'intelletto del filosofo è attivo nelle materie esami nate od esposte, e in quella efficacia speculativa v'ha pure sempre del nuovo. La critica e l'esposizione delle dottrine speculative, sebbene quanto alla forma estrin seca de pensieri sia opera d'arte, quanto alla materia è un esercizio rigoroso di ragionamento e di filosofia; im perocchè al critico, se non vuol fermarsi nella superficie, m a penetrare nel fondo e nell'anima delle cose,convenga rifare,a dir così,il concetto dell'autore e trasformarsi in lui stesso,convenga svelare illegame intimo che annoda le idee principali, concepirne una moltitudine di acces sorie, da cui soltanto rampollano quelle, vedere i trapassi e le attinenze più remote tra concetto e concetto,e scom posta la totalità del sistema, ricomporla poi novamente colla viva efficacia del suo pensiero. Apparisce da queste considerazioni che la novità e il valore speculativo delle dottrine di Tullio si potrebbe soltanto dedurre dalla critica assennata, e spesso profonda, ch'e'fece delle dottrine a n tecedenti e contemporanee, raccogliendo con rara lar ghezza di principj e d'esame quanto di meglio gli por gevano le scuole greche, per suggellarlo dell'impronta latina,e svogliare iconnazionali della imitazionede'fo restieri. Questa parte espositiva e confutativa delle greche dottrine, che tanto prevale nei libri tulliani, noi la m o strammo contrapponendo ai pensieri proprj del sommo oratore l'analisi de'sistemi da lui combattuti ed esposti; e tanto più perchè sappiamo essersi affermato piùvolte da critici insigni che mancò a Cicerone una notizia pro fonda della filosofia greca, mentre è cosa omai notissima Cicerone adunque può innanzi tutto considerarsi come un istorico insigne della filosofia, degno d'essere raggua gliato con Aristotele e con Platone per l'ampio studio delle dottrine antecedenti e contemporanee. Chè se dai critici più recenti è tenuto a ragione come fonte non principale di storia, perchè spesso allega testi divisi, e perchè l'indole della sua riflessione scientifica lo menava non di rado,come Platone,a suggellare del proprio pen siero le dottrine d'altri sistemi, ogni età debbe essergli riconoscente d'aver campato tanta e sì nobile parte delle greche meditazioni dalla ingiuria de'tempi e dalla barbarie degli uomini. Ma d'altro canto, dopo una lettura ben considerata degli scritti tulliani, può egli negarsi che vi si rinvenga una parte dommatica, e un esercizio suo proprio della riflessione speculativa? A una simile domanda ci sembra avere bastantemente soddisfatto nella parte antecedente di questo discorso coll'esporre ilmetodo di Cicerone nelle principali teoriche della scienza; e qui facemmo manife sto come un tal metodo di fina osservazione consistesse per lui nel ridurre ai semplici elementi delle verità prin cipali i sistemi, e, sceverati gli errori, comporre un'altra volta quelle verità nell'ordine del sapere. Difficile i m presa,che in tempi funesti alla scienza ricercava un in gegno universale, e un potente esercizio della riflessione. La quale,adoperata da Tullio al lume dell'evidenza in teriore, lo condusse a salvare dal naufragio dello scetti cismo le più nobili parti delle dottrine speculative.In Fisica mantenne la distinzione, quantunque non piena, tra il finito e l'infinito, il contingente e il necessario, la natura e il divino, l'esistenza del divino, dell'universo e dell'uomo, la natura delle cose corporee inferiori alle spirituali e all'eterne, l'ordine universale, la eccellenza della] filosofia [nelle storie che la critica degli antichi scrittori, segnatamente per opera degli Alessandrini, fioriva ai tempi di lui, eruditissimo nella lingua de' Greci, da cui tradusse più libri di letteratura e di scienza, e che indirizzava i suoi scritti ai più culti ingegni di Roma.]  ragione, il libero arbitrio e l'immortalità. In Logica tenne salda la capacità del conoscimento a cogliere il vero, il concetto di potenza, i sommi principj della ragione, la evidenza interiore, la distinzione tra senso e intelletto e il metodo inventivo delle conoscenze. Nella Morale al lume dei sentimenti interiori e del senso comune ricom pose  il sistema perfetto di quellascienza,e salendocon metodo induttivo dalle tendenze e dai fini della natura all'oggetto universale di legge e di dovere, ne seppe d e durre tutto l'ordine dei veri relativi alla famiglia, all'in dividuo e allo stato.Veramente se ad un uomo,apparso in quella età quando tutta la scienza,divenuta un pro blema, si lacerava fra i delirj di una moltitudine di so fisti, nasca il pensiero di ricomporla a sistema, e riassu mendo l'impresa di Socrate,raccolga le verità principali in una sintesi vasta; e se vissuto in mezzo ai pregiudizj di un patriziato superbo, e in tempi d'ateismo e di co stumi nefandi, egli invochi a soccorso della riflessione speculativa l'esame delle antiche tradizioni e delle verità fontali, contenute nella coscienza del genere uma n o e nei piùnobiliaffetti, aquest'uomo,parmi, non sipossanegare il nome di filosofo grande. L'indagine dei dommi primitivi e dei sentimenti nella natura e nel linguaggio dei popoli voleva in Cicerone un ingegno forte e addestrato a meditare, e un uso continuo dell'osservazione interiore. Del che sono splendido testimonio le Orazioni, l’Epistole, il primo libro delle Tusculane, il secondo e il quinto dei Fini e il proemio delle Leggi; che esposti senza preoc cupazione rettificherebbero d'assai il giudizio sul valore speculativo dei suoi libri, e mostrerebbero com'egli esa minasse con vero criterio di scienza l'umana natura nelle varie età, nelle diseguaglianze de'sessi, degl'ingegni e de gli ordini civili, e sino dall'alto della tribuna, o seduto agli spettacoli del circo cogliesse le verità eterne della coscienza nelle manifestazioni spontanee del sentimento popolare. Parecchj critici di Cicerone, e segnatamente quelli che gli negano ogni facoltà d'ingegno speculativo, non hanno inoltre considerato qual uso ei facesse della tradizione scientifica,e come, movendo dalla coscienza, contrappo nesse all'esame imperfetto e negativo de sistemi un esame comprensivo di tutto il sapere. Dissi più volte ch'egli moveva dalla coscienza; e questo fatto dell'osservazione interiore, manifestissimo nelnostro filosofo,ogni volta che egli prende a trattare importanti materie morali, non può mai andare disgiunto nell'esame compiuto dei suoi scritti dallo studio ch'e'fece de'sistemi antecedenti e contem poranei, perchè ci porge la più intima ragione del suo metodo esterno, chiamato da molti impropriamente un eclettismo;e ci spiega come nella viva armonia dell'animo umano egli cercasse quell'unità informatrice delle sue dottrine,che il metodo sincretico d'Antioco e d'altri eru diti avrebbe indarno aspettato dall'accozzamento inge gnoso di cento scuole. Certo Cicerone non ebbe quella potenza inventrice d'ingegno speculativo, e quella rara felicità degli ardimenti metafisici, che hanno Socrate, Platone, Aristotele tra gli antichi,e tra imoderni Cartesio, Emanuele Kant e Vico. Il suo ingegno non altrettanto acuto, rapido e penetrativo, quanto uni versale,comprensivo e solenne,più che in escogitare nuove dottrine, e in architettare sistemi mirabili per ipotesi a u daci e tirati a filo rigoroso di logica, piacevasi nel sot toporre ad esame le antiche dottrine,sceverarne gli errori, ribatterne le istanze,scoprire nuove armonie della ra gionescientificacolsensocomune, e iltuttopoi ricom porre in un vasto disegno di scienza concorde colle arti, coi costumi e colla vita civile. Nel che mirabilmente lo secondavano itempi.Allora,come era avvenuto nel secolo di Socrate,e come per molte parti accade ora nel nostro, si manifestava nella condizione delle discipline morali un'imperiosa necessità di riforma. L'eccesso delle specu lazioni avea spossati gl'ingegni, e la scienza e l'arte tor navano al vero della natura,unica fonte delle opere grandi. Era dunque suprema necessità deporre la vana superbia delle innovazioni assolute, farsi discepoli della natura, tornare agli adagj della sapienza popolare, e chiedere    alla tradizione de savj, non già il supremo criterio del vero,m a il sindacato delle opinioni attinto nella coscienza più eletta del genere umano. Tale è la parte modesta, e a un tempo solenne, che Marco Tullio rappresenta nella storia della filosofia. Se ne'suoi scritti prevale il criterio della tradizione scien tifica, perchè poco o nulla rimaneva da aggiungere alle speculazioni dei filosofi greci; e se, parlando ai concitta dini innamorati della letteratura e delle dottrine stra niere, si mostra studioso al sommo dell'altrui autorità, confessa però nel 1° degli Offici, ch'e'non seguiva gli a n tichi come interprete, m a per proprio arbitrio e con li bero esame attingeva ai loro fonti. È scritto nel primo dei Fini che egli sosteneva quelle dottrine soltanto che erano approvate da lui,e vi aggiungeva un ordine pro prio di scrivere. Come poi quest'ordine di scrivere (si gnificante non altro che un ordine di pensieri) si esten desse per lui al collegamento necessario di tutta la scienza, te lo dice in quelle parole dei Tuscolani (II, 1): « Difficile est in philosophia pauca esse einota,cui non sint aut pleraque aut omnia.»  Noi dunque invitiamo gli studiosi delle lettere e della filosofia antica a prendere in più seria considerazione quella sentenza, divenuta pur troppo comune, che fa del filosofo latino non più che un seguace d'Antioco, e un modesto raccoglitore delle dottrine greche. Di quanto in tervallo egli si lasciasse discosti i migliori filosofi greci contemporanei può apparire assai manifesto a chi ricordi quanto è detto nella prima parte di questo discorso. Fra i latini poi non sapremmo chi contrapporgli,se non forse il dottissimo M. Terenzio Varrone suo familiare, rammen tato nel primo degli Accademici,e della cui filosofia per altro o poco o nulla sappiamo. Veramente, ammesso che l'oratore romano fosse un eclettico, nella schietta e ger mana significazionedellaparola,eglinon solo(siconsideri bene ) avrebbe dovuto accettare le principali dottrine della scienza tal quali gliele porgeva la Grecia, senza nulla mutare o innovare,ma l'autorità della tradizione scien 11   tifica sarebbe stata per lui unico e assoluto criterio per venire dall'opinione al sapere.Ma per contrario, esami nando nella loro pienezza le dottrine di Tullio, si vede ch'egli, anzichè inchinarsi a servile imitazione, intese l'uso dell'autorità come un legittimo ossequio della ra gione al vero riconosciuto per altrui testimonianza, e propose a sè stesso il gran problema (chiarito poi dai moderni) del passaggio dalla certezza naturale o volgare alla certezza scientifica. Pensatore e scrittore di cose fi losofiche in una età in cui la scienza si divideva tra un dommatismo eccessivo e uno scetticismo quasi assoluto, stimò che avrebbe ben meritato dell'umana ragione e della patria,seguendo una filosofia modesta in mezzo agli estremi del tutto credere e del tutto negare; e scelse a suo metodo la verosimiglianza della Nuova Accademia senza parteciparne lo scetticismo. Condotto da questo metodo in mezzo alla confusione dei sistemi e alle rovine dell'edifizio scientifico, ne sottopose ad esame le princi pali dottrine, e nelle parti incerte e dubbiose ammise più gradi di verosimiglianza; le verità d'evidenza interiore affermò risoluto. Nella fisica sperimentale non ebbe che verosimiglianze; in teologia naturale, in cosmologia,in psicologia ed in logica ondeggiò tra il verosimile e il certo; nella morale soggettiva e oggettiva, nelle teoriche del Diritto e dello stato romano si volse alla luce innegabile della coscienza e affermò con certezza assoluta. Talchè in cia scuna parte delle sue dottrine, e nella successione delle tre parti fra loro si nota quest'ordine di gradi che vanno dal verosimile al certo. Tale procedimento, che si attiene all'intimo del suo pensiero speculativo,l'osservi anche talvolta nella forma estrinseca e nell'ordine logi cale delle dottrine.Imperciocchè,mentre isuoi scrittisono per la maggior parte inquisitivi e disputativi,e la disputa ferve specialmente nelle teoriche dell'essere e del cono scere e nei principj della teorica dell'operare, quanto più procediamo nell'esame di questa, e dai giudizj dei sistemi particolari e dalle pure opinioni ci leviamo al concetto del divino, che pose nell'umana ragione,a testimonianza di sè stesso,laleggemorale,lacontroversia gradopergrado diminuisce,e questa parte,cominciata col De finibus,dia logo contenzioso, segue col De legibus e col De officiis, opere espositive, terminando colle dottrine della Repub blica, e co'dialoghi popolari dell'Amicizia e della vecchiezza. Esaminando nella successione dei libri fisici, dialettici e morali questo procedimento del pensiero di Tullio, le sue dottrine ci rappresentano quasi un tentativo di ricom porre la filosofia nell'ordine perfetto delle conoscenze. Fu provato assai largamente nel Capitolo primo della seconda parte, e in più luoghi delle dottrine morali, come il nostro filosofo concepisse chiara la relazione che inter cede tra la pienezza del soggetto scientifico, su cui si volge il pensiero, e la unità oggettiva de'principj che danno legamento e connessione rigorosa alla scienzaprima. Certo,checchè ne dicano il Brucker e il Bernhardy (il secondo de'quali afferma che gli ultimi fondamenti del sapere rimasero dubbiosi per Cicerone),apparisce evidente dai libri morali che il nostro oratore seguendo la ragione informatrice del sistema platonico e dell'Etica di Zenone, intese la sovranità dell'idea del Buono nell'ordine delle cognizioni, e cercò in quel principio la più vasta di tutte le sintesi, che gli porgesse unificata e spiegata nelle più remote sue applicazioni tutta la scienza. La qual cosa crediamo avere posta sufficientemente in chiaro, esami nando il dialogo delle Leggi.  Ma il por mente a questa unità informatrice delle dottrine tulliane, ci spiana la via per vedere come il suo metodo conciliativo delle scuole particolari si risolvesse inun criterio intrinseco di ragione. Quistail divario essenziale tra la filosofia di Cicerone e la filosofia degli eclettici. L'eclettico infatti raccogliendo le sue dottrine da sistemi contradittorj e infetti sostanzialmente d'errore, come non può sperare di levarsi mai colla riflessione a principj assoluti di scienza, così è costretto a scambiare la vera filosofia,che è semplice ed una,con un viluppo di multiformi dottrine senz'armonia e senz'accordo. La verità,cheèingenita,assoluta,immortale,nonpuò uscire in eterno dall'accozzo fortuito del falso; e la scelta a b bandonata a sè stessa e senza un criterio intrinseco ed uno, mancherà sempre di principj saldi, universali, apodittici. La qual cosa non conobbe abbastanza quella scuola fran cese,fiorita nella prima metà di questo secolo, e a cui giu stamente si attribuisce la lode di avere spento il sensismo, e restaurati gli studj istorici della filosofia nella nostra Europa, quando sentenziava che i sistemi più avversi si compiono tra loro, e che lo spirito umano procede d'er rore in errore per cammino non interrotto alle armonie della Scienza prima. Ma Cicerone intese ben altrimenti il principio costi tutivo delle sue dottrine. Per lui la tradizione scientifica trovava un riscontro nell'esame immediato dei fatti in terni, e quindi egli desunse il criterio con cui variamente conciliava i sistemi. Ora a questo criterio che è la parte propria ed originale di sua dottrina, e che rappresenta un vero esercizio dell'indagine filosofale nel sindacato delle scuole particolari,fa d'uopo aver l'occhio per ve dere come e quanto egli attingesse ai fonti delle opere greche. Sennonchè in tal questione, come osserva Kuehner, che ne disputava a lungo, e con rara diligenza, si affacciano naturalmente non lievi difficoltà. In primo luogo, perchè M. Tullio, fornito di varia e multiforme erudizione, volse in proprio uso tutte le migliori dottrine dell'antichità italica e greca; secondariamente, perchè parlando di un dato soggetto, non se ne stava contento all'autorità di un solo autore, m a interrogava la m a g gior parte di quelli che ne avevano trattato, moltissimi tra’ quali andarono per noi sventuratamente perduti; e infine perchè il nostro filosofo o tace non di rado, o accenna di passaggio i fonti a cui attinse, o soltanto rammenta gli autori quando gli accade di confutarli. Passando poi a determinare il metodo con cui Cicerone attinse ai greci filosofi, osserva giustamente il critico te desco che questo metodo si esercitava in tre maniere. Traduceva egli dal greco, trasportando liberamente in latino, tanto (come egli stesso ci avverte nell'operetta “De optimo genere oratorum”) da serbare il colorito e la forza nativa del testo. Nelle altre opere filosofiche segui principalmente un solo autore, adoperandovi sopra con libera efficacia di riflessione ilsuo giudizio,e componendo le materie con proprio ordine di pensieri;ricorse ad altri scrittori ove quello che seguiva fosse riuscito mancante, e v'aggiunse del proprio.Era altresì suo costume inter rogare varj libri che avean preso a trattare un m e d e simo soggetto, e ove fosse stato possibile il conciliarli, trar fuori dalle loro dottrine un tutto perfettamente connesso ed armonizzato. Quindi,prosegue Kuehner,è necessario al critico di Cicerone avvertire con diligenza gli scrittori da lui citati e accennati, raffrontare spesso i suoi libri coi grandi monumenti dell'antica filosofia, che ci pervennero intatti, osservare quello ch'egli trasse dai suoi maestri,e non piccola luce daranno le congetture assennate e prudenti.  Esposte queste norme più generali di critica, noi non seguiremo più oltre l'erudito tedesco nell'indagine minuta intorno alle fonti delle dottrine tulliane. Tale indagine infatti, oltrechè si allontanerebbe di troppo dal l'indole speculativa e dai confini di questo scritto,e riu scirebbe inutile al tutto per noi che non neghiamo avere il filosofo latino attinto le sue dottrine migliori dall'an tichità greca, è piena altresì d'incertezza e di congetture là dove i fonti originali andarono perduti, e dove riesce difficile lo sceverare quanto appartiene all'ingegno del nostro filosofo, e quanto debba invece attribuirsi all'au torità stessa dei Greci. Del resto, concludendo coll'au tore della dissertazione, M. Tullio ne'libri fisici, e in special modo nella disputa sull'immortalità,seguì princi palmente Platone; nei libri logici e nella questione sul criterio della verosimiglianza e sulla percezione sensitiva, attinse dal Portico e dalla Nuova Accademia; nei libri morali poi, discepolo degli Stoici e dell'Antica Accade mia e del Peripato per ciò che risguarda le dottrine speculative del bene e della legge, nelle materie politi che e civili seguì a preferenza Aristotele,Teofrasto e Polibio. L a qual cosa per altro vuole essere intesa discre tamente; poichè, a considerare bene il metodo con cui egli compose i varj sistemi, si vede che, sebbene in più luoghi attinse separatamente dagli Stoici e da Platone,tut tavia la natura dell'ingegno latino lo menava a tempe rare l'austerità degli Stoici colle massime dell'Ateniese; il che fece in più luoghi, e segnatamente nel secondo libro della Natura degli Dei, e nel primo della Divina zione. Come poi usando le opere dei greci scrittori, è attingendo ai loro fonti la materia di sue dottrine, ei conservasse non pertanto la libertà dell'ingegno, con queste parole lo attesta il Kuehner: « Negari quidem non potest Ciceronem disputationes suas philosophicas e Graecorum fontibus hausisse; sed græca non interpretis modo ad verbum in linguam latinam convertit,sed suum ipse iis adjunxit judicium, suum scribendi ordinem,viam rationemque atque orationis lumen.Reputemus nobiscum, quantum ingenii judiciique dexteritatis Cicero probaverit in hauriendis sapientiæ præceptis e græcorum philosophorum monumentis. Nam ex omnibus omnium æta tum græcorum philosophorum disciplinis, ex hac ingenti materiæ quasi silva,ea delibavit,quæ ad fingendos mores sapientiæ præceptis,et ad omnem vitam conformandam vim omnino habebant saluberrimam.” Cicerone dunque, a riassumere il tutto in poche parole,non fu nè Stoico,nè Accademico, nè Peripatetico, ma fu vero Socratico con libertà di riflessione e di esame. Come Socrate, egli non compose un sistema per fetto di cognizioni, m a tentò una riforma; non pervenne agli estremi resultamenti delle indagini iniziate da lui, ma ne accennò la via più sicura; non chiuse tutta la scienza nell'ambito angusto d'un'ipotesi, d'un'inven zione o d'un fatto; m a assorgendo colla mente alla più feconda delle armonie scientifiche, che è la ragione m o rale, vedeva in un'occhiata spiegarsi da quella sintesi l'ordinamento necessario della scienza prima. Per certo l'ingegno onnipotente dell’Ateniese, la cui efficacia dura da ventiquattro secoli nell'indirizzo delle dottrine specu lative, è unico esempio, e non mai superabile, nella storia della filosofia. Ma consideri un poco il lettore, come al filosofo romano, ingegno senza dubbio men vasto e meno inventivo, mentre si attraversavano per via le stesse dif ficoltà, e forse maggiori,non arrisero altrettanto propizie, quanto al greco, le condizioni dei tempi e dei pubblici costumi. Tullio non s'abbattè,come Socrate, ad un po polo,qual era quello d'Atene, poderoso della fantasia, supremamente inclinato da natura agli studj speculativi, e innamorato d’un amore infinito del bello e del perfetto. La gente romana, sebbene felicemente disposta a sentire ciò che è certo e applicabile fra i resultamenti dell'umano ingegno, sebbene disciplinata nelle deduzioni morali dal magistero dei Giureconsulti, ritenne per se coli quei costumi severi e quell'abito politico e militare, non facilmente conciliabile colla vita meditativa della scienza e dell'arte. Più tardi allorchè l'impero esteso a due terzi del mondo, e il vivere agiato, e la necessità di allontanare il pensiero dallo spettacolo della tirannia nascente, volgeva i migliori tra i Romani agli studj della filosofia, maestra ai vincitori d'ogni arte e di ogni disciplina civile, li trasse a sè, sviando la sponta neità degl'ingegni col facile diletto dell'imitazione. Chè, se ciò non può dirsi assolutamente delle lettere e delle scienze latine da chi consideri quel tanto d'originale che pur v'è nelle imitazioni di Lucrezio, di Catullo e di Virgilio, e che sappiamo esservistato nei libridiVarrone,ora perduti,non resta men vero che tanta era la servitùdel pensiero ai tempi di Tullio da costringerlo a scusarsi pubblicamente per avere usata la propria lingua nelle materie speculative. Opera altamente civile, altamente romana fu adun que quella che imprese il nostro filosofo, procacciando di volgere il linguaggio latino alla significazione dei veri scientifici. Nel che, tanto più egli si mostrò gran maestro, quanto minori e maggiormente imperfetti erano gli esempi di coloro che l'avean preceduto. Amafinio e Rabirio epicurei, rammentati da lui nel libro terzo delle Tuscolane e ch'egli dice non averlettoneppure,scris sero primi di cose filosofiche in modo informe ed incolto. Più tardi Tito LUCREZIO Caro esponeva splendidamente nelpoema De rerum natura la filosofia d'Epicuro; ma tutti questi scrittori, dei quali il secondo non era uscito dalle pastoje della poesia didascalica, non aveano potuto al certo esercitare un'alta efficacia sul linguaggio filo sofico di Roma,ristretti com'erano nelle cerchia d'un sistema povero e meschinamente sofistico.Noi dunque con corriamo ben volentieri nella sentenza del Ritter, assicu rando che soltanto ai tempi di Cicerone la filosofia volse in proprio uso l'idioma latino; la qual cosa,per quanto è lecito pensarne ai moderni, può unicamente affermarsi dei libri di lui dove la lingua filosofica è già formata, e dove la parola si porge per modo mirabile ad ogni m o venza e inflessione del pensiero. L'impresa che Cicerone tentava, era dunque novissima, e l'istrumento ch'egli ha fra mano, il meno acconcio a compirla. Perchè non si trattava già d'esporre le dottrine d'un solo filosofo, come avean fatto Amafinio, Rabirio e Lucrezio,ma con veniva volgersi a tutte le scuole, e addestrare il linguaggio latino nell'intero ámbito della scienza.Talvolta, è vero, gli mancò la parola più appropriata al concetto, e ristretto entro i termini d'una lingua non disciplinata ancora nelle indagini troppo sottili, procedè incerto sulla significazione di qualche frase scientifica appresa dai Greci; m a nella maggior parte dei suoi scritti egli ebbe in grado supremo la facoltà di lumeggiare e colorire l'idea, e di far sì che il pensiero rispondesse nella p a rola, come figura bella in limpido specchio. Sentenziando ch'è vana impresa e da fanciulli voler dire con favella ornata le cose sottili, plane autem it perspicue posse, docti et intelligentis viri -- De fin. -- seguì uno stile che fosse egualmente lontano dalla forma splendida degli oratori, e dalla aridità faticosa di parec chj contemporanei. Quinci egli trasse quel genere d'ora zione che negli Officj chiamò æquabile et temperatum. L'ingegno universale e comprensivo di Cicerone apparisce in ogni parte delle sue dottrine. Venuto in Roma, dove facevano capo le faccende d'Italia e del mondo, tollerante per natura delle altrui opinioni, e disposto a tolleranza maggiore dallo studio. Intorno allo stile filosofico di Cicerone scrive con molta dottrina Ferrucci, in un suo discorso “De singolari meriti di Cicerone nella lingua ed eloquenza latina, edito recentemente in Pisa coi tipi del Nistri. La severità della meditazione scientifica è in lui sempre solenne, ma variamente temperata dall'indole del soggetto. E sobrio l'uso delle metafore. Il periodo procede ora maestoso, ora interrotto, ora veloce, ora lento, a sconda della materia, e talvolta, come negli Accademici, imita il linguaggio familiare, talaltra, come nelle Tuscolane, sembra avvicinarsi piuttosto alla forma oratoria. Chi poi considerasse a parte a parte la varietà degli stili nelle opere differenti, osserverebbe potersi queste distin guere in più classi, modernamente in più manière, corrispondenti ai varj tempi in cui l'autore le scrive. Il “De republica” e il “De legibus”, appartenenti al primo tempo, in cui egli era ancora indefessamente occupato nei negozj pubblici e del foro, hanno più del carattere oratorio. “Gli Accademici”, il “De finibus”, il “De natura deorum”, scritti poco prima la morte di Cesare, palesano uno studio deliberato, continuo della severa forma speculativa; laddove nel “De officiis”, nel “Cato Major” e nel “De amicitial” t’av vedi come l'abito della meditazione e la lettura degli ottimi esemplari o avessero condotto al miglior temperamento dello stile didattico colla forma oratoria. Imitatore delle melodie d'Iocrate, e innamorato dello splendore di Platone, ch'egli chiama il divino dei filosofi, lo segue non soltanto nella forma estrinseca de' suoi trattati, e nel metodo del dialogizzare, ma improntò sul Fedro, sulla Repubblica, sul Fedone, sulle Leggi i tratti più belli delle opere sue, rimasti fino a noi come uno dei monumenti più solenni delle lettere antiche imparziale che fa delle dottrine contemporanee, con trasse per tempo quell'abito universale d'osservazione, e quel sentimento delle armonie scientifiche, così vivo in ogni tempo nelle menti romane, in lui straordinario. Cresciuto intempi funesti alla libertà, e testimone di quanti esilj e di quanto sangue contaminasse l'Italia la rabbia scellerata di Mario e di Silla, egli in mezzo allo strepito delle armi e all'imperversare delle civili discordie applica dì e notte con ardore inestimabile ad ogni generazione di studj. Più tardi per restaurare la salute, inde bolita dalla pratica del fôro, si reca in Grecia, dove udì le scuole migliori, peragra tutta l'Asia, si trattenne a Rodi, e torna in patria ammaestrato da una larga notizia d’uomini e di cose,e dalla famigliarità coi più pre stanti oratori. La sua eloquenza, nutrita negli spazj dell'Accademia, ebbe ampiezza misurata e solenne, tanto diversa dalla nervosa concisione di Demostene, e quale s'addiceva alla pienezza e solennità de'suoi pensieri. Nella ragione intima dell'arte sua cirimane occulta, qualora si consideri nel “De oratore”, nel “Bruto” e nell'”Orator” il significato vastissimo ch'egli riferisce alla parola elo quenza. Quindi il largo concetto dell'unità del sapere, espresso in varj luoghi del “De oratore”, e meglio in quella sentenza: « omnem doctrinam ingenuarum et humana rum artium uno quodam societatis vinculo contineri,» ci fa manifesto com'egli intendeva l'officio dello scrittore,e come nella sua vita di cittadino, d'oratore e di filosofo si mostrasse uno degli uomini più universali che mai siano apparsi nel mondo. Come uomo di stato, egli vagheggiò la carità universale del genere umano, e ne scrisse mirabili parole negli “Offici” e nelle “Leggi.” Giovane ancora, patrocinando la causa di una donna Aretina, giustifica le pretensioni delle città italiane alla cittadinanza romana. Nel suo consolato sven tando la congiura di Catilina, salvava da pericolo certo e imminente la libertà di Roma,e tentava comporre l'or dine senatorio e l’equestre in un saldo partito contro il prevalere della fazione plebea.Come avvocato e come oratore politico (così scrive di lui Vannucci),«creò un nuovo genere d'eloquenza composto di tutto ciò che v'era di più bello a Roma. Per giungere a questo con l'amore e con l'entusiasmo,che è padre di tutte le egregie cose, coltivò gli studj trascurati da altri, e con siderando che il poeta e l'oratore dal lato degli orna menti hanno, com'egli scrisse, molte cose comuni, con esercizj poetici ingentili e perfezionò lo stile latino. Ricerca i modelli più famosi dell'eloquenza romana,svolse i Greci,ne tradusse per suo uso le orazioni più belle.Sti mava che per esser grande oratore si vuol sapere ogni cosa,e avere tutte le dottrine come compagne e ministre. Quindi afforzò la sua ragione colle dottrine dei grandi filosofi, si arricchì della scienza del diritto, non lasciò niuno studio da banda; e così apparecchiato rappresentò nel fôro la grandezza romana ingentilita dall'arte greca, e apparve come splendido esempio dell'oratore perfetto, di cui mandò a noi il ritratto ne'suoi scritti didattici.» (Studi storici e morali sulla letteratura latina, Firenze, Le Monnier) Non è dunque maraviglia se, dis posto per abito di mente e per disciplina a sentire l’uni versalità in ogni cosa, espose più tardi ne'suoi scritti speculativi ilmeglio delle scuole greche, e tornando ai fondamenti e ai principj di tutto il sapere, vi cercò quel legame unitivo che desse vita e armonia alle sparse membra della tradizione scientifica. Se in lui dopo l'oratoreeilpoliticoconsideratel'uomo, dovrete riconoscere negli scritti speculativi profondamente scolpite le tracce del sentimento e dell'animo suo. In essi,quanto alla manifestazione degli affetti, ritrovi quella sua schiettezza d'indole generosa, quegli amori potenti di gloria, di famiglia e di patria, quell'abbandono di t e nerezza,ond'era caro finchè visse ad ogni anima gen tile, e l'incertezza dei propositi, che talvolta lo rese in feriore all'impeto degli avvenimenti, e un desiderio di lodi un po' troppo sincero lo sentì qua e là nell'irreso lutezza delle espressioni e nello stile maestoso non senza, pompa. L'esempio di Roma antica ch'egli seguì e studio con amore,quale un perfetto monumento di sapienza civile ,non gli tolse però di vederne e di biasimarne i difetti, come l'eccessivo potere del popolo che spesso trascorreva in licenza, l'abuso dell'autorità ne'patrizj, le guerre volte a istrumento di grandezza privata,la prolungazione degli imperj, idisordini quotidiani nel fôro, e quelle leggi agrarie e sui contratti, la cui promulgazione sciogliendo i diritti di proprietà e l'osservanza della fede, era un vero attentato alle basi della società civile. Dalla critica meno benigna si allegano alcuni passi dei suoi scritti politici in cui parve dimenticare i principj della giustizia e della moralità lodando il tirannicidio, tentando giustificare col titolo della civiltà il primato oppressivo dei Romani sulle altre nazioni, ammettendo come teorica di condotta civile il cangiar partito a seconda delle circostanze.Nè io lo difendo da queste accuse;ma rammento solo per debito imparziale d'istoria, che le stesse ragioni recate da lui a' suoi tempi per giustificare le conquiste romane, sono state addotte in pieno secolo XIX da una delle nazioni più civili del mondo per iscusare non meno odiose conquiste; e che,se la storia non giustificò Tullio nel diritto, l'ha in parte giustificato nel fatto, mostrando di quanto lume di civiltà la moderna Europa sia debitrice alle conquiste romane. I giudizj intorno alla sua condotta morale e politica, già di troppo benigni nelle opere del Middleton, e del Niebuhr,troppo severi in quelle di Melmoth, Drumann e Mommsen, furono non ha guari saviamente temperati in un bel saggio di Forsyth, venuto alla  luce in Londra, e di cui abbiam veduta quest'anno una nuova edizione. Tullio, così osserva sapientemente il biografo inglese, fu qualche volta debole, timido, irreso luto,m a a tali difetti rispose in altre condizioni di tempi con una nobile condotta civile. Ei si diportò da uomo e da cittadino nella congiura di Catilina, e nel finale c o m battimento contro il triunviro Antonio.Chè se non sem pre fu pari agli avvenimenti che lo incalzavano, se non sostenne coraggiosamente l'esilio, e restituito in patria, ondeggiò a lungo tra la parte di Cesare e quella di Pompeo, bisogna considerare quanto difficili tempi fossero quelli a chi, come lui, non avea mai patteggiato colla coscienza, e riconosceva nella religione del giuramento, e nella santità dei costumi civili il principio tutelare delle libere istituzioni. Questo alto sentimento del buono,po tentissimo nel nostro oratore, è la ragione che diede sublimità vera alle sue dottrine morali; e ci spiega come nei libri degli Officj, della Repubblica e delle Leggi egli desunse i principj fondamentali della filosofia civile dal concetto più puro dell'onesto e della legge; e vissuto in tempi nefandi intese a conciliare l'interesse dell'utile pubblico colla giustizia assoluta, nell'idea della famiglia, nell'idea dello stato, nel possesso, nella legislazione e nei diritti di guerra e di pace. Tale pure è l'opinione esposta dal signor Gaston Boissier ne'suoi dotti articoli sulla politica di Cicerone, stampati nella Rivista de'Duc Mondi. Corre adesso in Europa un tempo assai propizio alla critica degli scrittori latini.Invero gli studj che accompa gnarono fra noi ilprimo risorgimento delle lettere anti che, mossi da curiosità e da desiderio di un passato a cui la notte tempestosa dei tempi di mezzo sembrava aver cresciuto splendore, non mantennero sempre una giusta eguaglianza fra il libero esame e l'ossequio dovuto alle tradizioni. Ma tal difetto venne largamente emendato in età più vicina, allorchè da molti si esaminò solo per negare,e le passioni politiche e religiose fecero impaccio più volte alla schietta manifestazione del vero. Oggi la quiete dei tempi,e questo nuovo ricomporsi d'Europa a monarchie nazionali,avvicinando i popoli tra loro e ren dendo sempre più facile il sindacato delle opinioni, per suade le menti a giudizj più severi e imparziali. Ne mancano esempj di queste nuove condizioni della critica odierna, segnatamente per ciò che risguarda gli studj del l'antichità latina; non ignorano infatti i nostri lettori che,mentre in Germania il Bernhardy e il Mommsen giudicarono con molta severità Cicerone, in Francia e in Inghilterra hanno parlato con bella temperanza delle sue   dottrine morali e della sua vita politica il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e filosofica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne il Desjardins e il Forsyth. Fra noi gli studj istorici della filosofia o non furono sin qui troppo favorevolmente accolti, o rimasero oscuri nella solitudine dei gabinetti, mentre le lettere esercitavano un ufficio civile, e all'unità e all'indipen denza dava opera l'intera nazione. È tempo oggimai che torniamo a così nobili studj;e la critica istorica e filoso fica faccia prova di richiamare nella memoria ricono scente degli Italiani la storia di quel popolo da cui venne la prima luce delle nostre istituzioni. Allora soltanto le dottrine di Cicerone saranno meglio studiate e apprezzate, e la natura comprensiva dell'ingegno romano,dicuiegli fu esempio solenne, ci apparirà come una sintesi vasta e feconda in cui s'accoglieva la coscienza dei popoli antichi.Giacomo Barzellotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Barzellotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Basilide – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Member of the Porch. A teacher of Antonino

 

Grice e Basilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studied philosophy alongside the future emperor Giuliano.

 

Grice e Basso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Lucio Aufidio Basso. According to Seneca, Basso was a follower of the philosophy of The Garden, who bore witness to his school’s teachings in the way he coped with coped with prolonged ill health.

 

Grice e Basso – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tito Avianio Basso Polieno. A member of the Porch.

 

Grice e Bataces – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo italiano. A pupil of Carneade.

 

Grice e Battaglia – valori italiani – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palmi). Filosofo italiano. Grice: “You gotta like Battaglia; he plays with the Italian language in ways I cannot play in the English language; e. g. consider his philosophising ‘between being and value,’ ‘tra l’essere e il valore.’ Surely the thing is the copula: A is B, A is worth B.’  -- “A e B,” “A vale.” “A vale B.” – “We cannot say that a dollar is worth a dollar --. Stricctly, we CAN, it’s true – but the implicaturum is ‘I’m an idiot or a philosopher.” Grice: “And I can say, “Socrate e,’ i. e. Socrates is. And ‘Socrates vale,’ i.e. Socrates has value.’”  Grice: “When I did my linguistic botanising on ‘value,’ I followed Austin’s misadvice: never contrast with Anglo-Saxon, but actually ‘worth’ in Anglo-Saxon WAS a verb, and cognate with Battaglia, ‘valere.’!” In seguito al terremoto di Messina lasciò la Calabria, trasferendosi con tutta la famiglia a Roma, dove intraprese il suo percorso di studi.  Si laurea con una tesi su Marsilio da Padova. Ottenuta la libera docenza di filosofia e un contratto d'insegnamento dall'ateneo capitolino, si trasferì a Siena, dove vinse la cattedra nella medesima disciplina.  Si sposta da Siena a Bologna, dove già teneva delle lezioni. Nell'ateneo bolognese insegna, contemporaneamente, filosofia morale e filosofia del diritto nella Facoltà di Filosofia, di cui e preside. Rettore dell'ateneo di Bologna. Il Comune di Bologna gli ha dedicato una strada, e Bologna intitola a suo nome la Biblioteca del ‘Dipartimento’ di filosofia. È stato autore di numerosi saggi in diverse branche del diritto e della filosofia e, in loro connessione, sulla storia del pensiero, sia antico che modern. Tale interesse declina anche in chiave pedagogica, a testimonianza dell'intensa attenzione rivolta alla storia quale concreta fonte dell'organizzazione sociale umana e del complesso e diffidente approdo allo spiritualismo.  Con i sostenitori attualisti dell'autonomia della categoria filosofica della politica, pensa che occorresse lasciare alla storia tout court quanto non fosse pensiero sistematico, preservando così la storia delle dottrine da ogni contaminazione con le dialettica sociale e istituzionale".  Altre opere:“Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia” (Bemporad, Firenze); “Marsilio da Padova e la filosofia politica del Medioevo” (Felice Le Monnier, Firenze); “La crisi del diritto naturale: saggio su alcune tendenze contemporanee della filosofia del diritto” (La Nuova Italia, Firenze); “Diritto e filosofia della pratica: saggio su alcuni problemi dell'idealismo contemporaneo” (La Nuova Italia, Firenze); “Thomasio filosofo e giurista” (Circolo giuridico di Siena);“Scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “Orientamenti metodologici nella storia delle dottrine politiche” (Tip. Nuova, Siena); “Problemi metodologici nella storia delle dottrine politiche ed economiche” (Foro Italiano, Roma); “Corso di filosofia del diritto” (Soc. editrice "Foro italiano", Roma); “Il domma della personalità giuridica dello Stato” (Zanichelli, Bologna); “Impero Chiesa e stati particolari nel pensiero di Alighieri” (Zanichelli, Bologna); “Libertà ed uguaglianza nelle dichiarazioni francesi dei diritti: testi, lavori preparatorii, progetti parlamentari” (Zanichelli, Bologna); “Il valore nella storia” (Upeb, Bologna); “Il problema morale nell'esistenzialismo” (Zuffi, Bologna); “Saggi sull'Utopia di Tommaso Moro” (Zuffi, Bologna); “Cenni storici intorno al concetto di lavoro” (Zuffi, Bologna); “Filosofia del lavoro” (Zuffi, Bologna); “Lineamenti di storia delle dottrine politiche” (Giuffré, Milano); “Morale e storia nella prospettiva spiritualistica” (Zuffi, Bologna); “Nuovi scritti di teoria dello stato” (Giuffré, Milano); “I valori fra la metafisica e la storia” (Zanichelli, Bologna); “Linee sommarie di dottrina morale” (Patron, Bologna); “I valori della pratica e l'esperienza storica” (Patron, Bologna); “Il valore estetico” (Morcelliana, Brescia); “Cinque saggi intorno alla sociologia” (Istituto Luigi Sturzo, Roma); “ Parva Desanctisiana” (Patron, Bologna); “Economia, diritto, morale” (Coop. libraria universitaria editoriale bolognese, Bologna); “Croce e i fratelli Mario e Luigi Sturzo” (Longo, Ravenna); “Rosmini tra l'essere e i valori, Guida, Napoli); “Mondo storico ed escatologia” (Clueb, Bologna); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla carta del lavoro” (Sansoni, Firenze); “Le carte dei diritti: dalla Magna Charta alla Carta di San Francisco” (Sansoni, Firenze); “Meis, I problemi dello stato moderno” (Zanichelli, Bologna); “Sanctis, Lettere a Villari” (Einaudi, Torino); “Lettere di Meis a Spaventa” (Azzoguidi, Bologna); “Il pensiero pedagogico del Rinascimento” (Sansoni, Firenze); “Locke, Antologia degli scritti politici” (Il Mulino, Bologna). Il pensiero di Felice Battaglia, Atti del Seminario promosso dal Dipartimento di Filosofia di Bologna (29-30 ottobre 1987), Nicola Matteucci e Alberto Pasquinelli, Bologna, CLUEB, A cent'anni dalla nascita, Bologna, Baiesi,  Dal filosofo all'uomo, Atti del convegno di studi su Felice Battaglia (Palmi 12-13 maggio 1990), Giuseppe Chiofalo, Palmi, Arti Grafiche Edizioni, 1991, . M. Ferrari, La filosofia italiana, in «Storia della Filosofia»,   (La filosofia contemporanea. Seconda metà del Novecento), t. I, M. Paganini, Vallardi, Milano, Marchello, Felice Battaglia, Edizioni di Filosofia, Torino 1953. Nicola Matteucci, Felice Battaglia, filosofo della pratica, in Atti della Accademia delle Scienze dell'Istituto di Bologna, Classe di Scienze Morali, Rendiconti, (ora rifuso in Id., Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna, Polato, «BATTAGLIA, Felice» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Scerbo, Felice Battaglia: la centralità del valore giuridico, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, Anzalone, Lo abstracto y lo concreto en la Teoría del Derecho de Battaglia. Felice Battaglia y el dilema entre Croce y Gentile, Atelier, Barcelona,  A. Anzalone, Felice Battaglia. Per una teoria giuridica tra idealismo crociano e gentiliano, Euno edizioni, Leonforte,  (290 ). A. Anzalone, Las aparentes contradicciones de la filosofía jurídica y política de Felice Battaglia, in «Studi in onore di Augusto Sinagra»,  VMiscellanea, Aracne, Roma,,  A. Anzalone, El Estado, sus fines y su relación con el derecho. La perspectiva de Felice Battaglia, in “Lex Social (Revista jurídica de los Derechos Sociales)”, Anzalone, La integración europea como modelo para Latinoamérica según Felice Battaglia, in «Temas de Filosofía Jurídica y Política», Número 5, SFD, Córdoba,,  11–41. Girolamo Cotroneo, Felice Battaglia e la "filosofia dei valori", in Benedetto Croce e altri ancora, Soveria Mannelli, Rubbettino, Onorificenze Dottore honoris causanastrino per uniforme ordinariaDottore honoris causa — Universidade de São Paulo. Ufficiale dell'Ordine di Leopoldo IInastrino per uniforme ordinariaUfficiale dell'Ordine di Leopoldo II Cavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile)nastrino per uniforme ordinariaCavaliere dell'Ordine di San Gregorio Magno (classe civile) Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiananastrino per uniforme ordinariaGrande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana — Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana. Vittor Ivo Comparato, Vent'anni di storia del pensiero politico in Italia, Il pensiero politico, Università degli Studi di Bologna, fondata nel sec. XI. Annuario degli Anni Accademici  (JPG), Bologna, Tipografia Compositori, 195419.  Dettaglio decorato, Presidenza della Repubblica. 27 giugno.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  ULTURA MODERNA - Quaderni di Storia, Filosofia e Politica cura di Battaglia L'opera di Vincenzo Cuoco e la formazione dello spirito nazionale in Italia R. BEMPORAD & FIGLIO - Editori - FIRENZE Rappresentanti per il Piemonte: S. LATTES & C. Torino. R. BEMPORAD & Firenze, Stab. Pisa & Lampronti. La tradizione italica. Il Settecento e la sua importanza. L’Italia ritrova sè stessa nella sua storia. Il processo unitario. L'erudizione: Muratori. La filosofia: Vico. Antitesi al cartesianismo. Esperienza filologica. Italianismo di Vico. De antiquissima italorum sapientia. Vico impersona la nuova tradizione. A lui si ricollega  Cuoco. La fortuna di Vico nell'alta Italia e le origini del nuovo pensiero. Cuoco e i suoi studiosi. La rivoluzione napoletana. La cultura rivoluzionaria e prerivoluzionaria. Razionalismo, astrattismo. La classe colta di Napoli. Riformismo governativo. Rottura tra stato e borghesia. Carattere passivo della rivoluzione. Le origini sacre della nuova Italia. Gli storici della letteratura e della vita del popolo italiano, che vogliano trattare del Risorgimento nostro con piena e sicura conoscenza di cause e di effetti, devono necessariamente rifarsi al secolo XVIII. Nel secolo XVIII sono le scaturigini di quel vasto e nobile movimento, denso più di idee che di fatti, poi che i pochi e modesti avveni menti ricevono luce ed acquistano nobiltà solo nel riflesso delle idee, di quel vasto e nobile movimento, ripeto, che condurrà all'unificazione e all'indipendenza italiana. Mi rabile la continuità della vita di questo popolo antico d'Italia: i secoli, che ad una critica occhialuta sembrano i più torbidi, si presentano, poi, a chi sappia investigarli con amore e con coscienza, gravi di preparazione, pon derosi d'esperienza: è tutta una vita che si prepara, si svolge, sente il bisogno di concretizzarsi, finchè scoppierà in foga d'eroismo e di volontà. È una preparazione lenta diuturna faticosa, la quale fa emergere figure grandi di filosofi e di poeti, di giuristi e di uomini di governo o di chiesa. La critica ha il dovere di rivendicare questi secoli e di valutarli al paragone di concetti superiori di filosofia. È ridicolo condannare alcune età nel corso d'un popolo, alcuni secoli in blocco per altri secoli, chiamare questa età di decadenza, quella età di fioritura. I periodi storici, le ere, i secoli sono quello che sono con le loro istituzioni, col loro pensiero, con la loro arte, con i loro uomini, soprattutto coi loro uomini. È ridicolo condannare i se coli XVII e XVIII per il XIX, come si usava sino a venti anni fa, critico spietato, Minosse che giudica e manda senza appello, il nostro maggiore poeta, Giosue Carducci. I secoli XVII e XVIII hanno invece diritto alla nostra ammirazione come i secoli, in cui i destini della patria si sono venuti maturando, attraverso un rinnovato fervore di pensiero, di critica, di storiografia, preludio modesto mafaticoso di opere civili, attraverso un rifoggiarsi, insomma, della coscienza nazionale, che da universalmente umana tende a divenire più veramente, se pure più ristrettivamente, italica. È forse, se l'affer mazione non trovasse nella sua rigidità una smentita nell'oceanica figura di Vico, un chiudersi in noi stessi, un rinnegare gli ideali cosmopolitici, per ritro vare il particolare più veramente nostro, l'essenza della stirpe. La storia è l'esperienza del nuovo spirito, che gradual mente viene formandosi. Il popolo della penisola s'astrae, si ritira, si allontana dalle grandi competizioni politiche e culturali europee. Il centro del mondo si è spostato: non più Roma, ma Parigi, Lisbona, Madrid, Londra, Vienna. Mentre le altre genti si gettano tumultuose nel 7 fervore della conquista, nella lotta per il predominio, e noi siamo le vittime, la nostra razza si chiude nel guscio della propria coscienza, nel culto della propria essenza. Perchè? Per essere più italiani, per essere noi stessi, per riacquistare a noi tutto noi stessi, per sapere il nostro passato, per foggiare nello spirito l'avvenire. Così quell'Italia, che ai miopi occhialuti corifei dello storicismo positivo sembra assente tra la seconda metà del Seicento e la prima metà del Settecento, per riacqui stare vita nuova proprio con la critica razionalista pre rivoluzionaria, e poi con « gli immortali princípi » del l '89, è invece viva e desta, sempre, in ogni tempo, per ritrovarsi, essa stessa, di fronte all'irrompere delle giovani schiere galliche con un patrimonio nobilissimo di schietto pensiero italico, di sapienza civile antica, di esperienza politica nuova. Lo storico deve valutare tutto. La storia della cultura, ben altra cosa, notiamo, dalla storia dell'arte, particola ristica, d'un subiettivismo che rinnega ogni sviluppo che non sia nello spirito individuale e creatore, ha una sua mirabile continuità, una sua ininterrotta evoluzione: l'oggi sorge dal passato, nel passato si prepara il pre sente, il presente è la fucina in cui si foggia il futuro. La storia deve valutare tutto e trovare i nessi ideali tra gli avvenimenti, se vuol essere storia, cioè studio critico e superiore delle idee, che muovono gli uomini gli uo mini sono sopra tutto idee, spirito —, e non cronaca astratta di ciò che gli uomini fanno e potevano anche non fare. Lo storico deve dunque, se vuol rinvenire l'origine vera del nostro Risorgimento, salire assai più indietro che di solito non si faccia ed osservare più le idee che i fatti, poi che i fatti a volte sono puri e semplici fenomeni senza conseguenze, che si spengono come stelle cadenti nel cielo dopo un breve ciclo, mentre le idee vivono, germinano nell'oscurità, generano altre idee, seguendo la trama fatale del corso delle stirpi. Le idee rivelano quel mondo dello spirito, ove si foggiano gli eventi, rivelano il segreto della génesi de' popoli, il loro assurgere all'im 8 pero, le cause della grandezza politica. Dietro il fatto sto rico c'è l'idea, la cui vita, vita storica cioè dinamica, lo studioso deve analizzare nella sua complessa formazione e non rinnegare per i preconcetti del proprio cervello. La rinascita dell'elemento italiano, particolaristico e nazionalista, è un fatto estrinsecamente assai prossimo a noi, intimamente preparato da lunga meditazione, da lunga speculazione, da lunghe ricerche. Una storia vera della cultura, specie della cultura politica, non può non ricollegarsi al secolo XVIII, anzi al secolo XVII, per ri trovarvi le origini vere dell'Italia di oggi. Dove si foggia questa nuova coscienza, questa nuova italianità? Nell'angolo della penisola, che per il mo mento (siamo nel secolo XVIII), guardando in modo sommario la distesa temporale della storia, è il più li bero dall'influsso culturale straniero. Non Venezia, non Milano, non Torino, non Firenze.... Napoli. Venezia è decaduta non già, come la retorica vuole, per la corruzione d'una nobiltà festaiola e carnevalesca, ma per un fatto storico ed economico incontrovertibile, perchè la vita commerciale d'Europa ha disertato le antiche vie dell’oriente, per spaziare negli oceani, ove le navi venete non possono andare, troppo lontane dall'infelice scalo della città di San Marco (1 ). Torino è più francese che italiana, più sabauda che nazionale. Firenze è il centro d’uno Stato troppo piccolo, per imporre un'idea politica alle città vicine, ed è estenuata per il rigoglio anteriore. Milano sola può essere il centro delle nuove fortune nostre, e vedremo poi come essa col di sastro della Partenopea riprenda tutto il tesoro ideale del popolo italiano per rendersene degna depositaria. Ma Milano oggi è troppo aperta all'influenza straniera, risente troppo gli effetti d'una vita non propriamente italiana, è troppo cosmopolita, troppo mondana. Biso gna che il rinnovamento si inizi altrove. Milano poi com pirà l'unità spirituale dell'italianismo, sui primi anni (1 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, Torino, 1922, vol. I, p. 13 e sgg 9 dell'Ottocento, fondendo i due elementi propri della no stra natura: il suo positivismo, più o meno razionalistico secondo i tempi, con l'idealismo.concretamente storico e critico del mezzogiorno, per foggiare quel carattere mentale del rinato popolo italiano, che rifugge così dalla metafisica nubilosa di certe filosofie straniere come dal materialismo volgare, ritrovando la sua sana vita in tima nel ponderato storicismo d'una filosofia dello spirito. Napoli, posta dalla natura nel più incantevole luogo della penisola, arrisa dal cielo e dal mare, beatificata dal sole, Napoli mite e pensierosa impersona la nuova vita nazionale; essa, chiusa nella sua remotezza dalle grandi vie commerciali dell'alta Italia tra Francia ed Austria, sola può custodire il patrimonio culturale della nazione. L'Italia era senza dubbio indietro di fronte alle grandi speculazioni, di fronte alla grande cultura straniera. Car tesio, Grozio, Spinoza, Locke, Hobbes erano nomi re centi per la gloria della filosofia delle altre stirpi, nomi grandi illustri, pietre miliari nello sviluppo del pensiero moderno. Che avevano gli italiani da contrapporre? Nulla, fuor che la loro povertà nuda ed altera. Lo spirito ita liano era chiuso in sè stesso, ho detto, quasi disdegnoso della merce straniera, che gli si voleva donare. E pure questa cultura, questa filosofia straniera pas sava da noi ed acquistava diritto alla cittadinanza, spe cie a Torino e a Milano, in quelle città più aperte ai nuovi rapporti civili. Il cartesianismo ovunque si imponeva e con esso il classicismo francese lineare geometrico arido. L'Italia però non filosofava. Il Muratori nella sua solitu dine di Modena cercava, ricercava, spogliava, compilava con foga di ricostruttore, traeva dagli archivi polverosi i resti della storia nostra, e il lavoro di paleografia e di trascrizione diveniva poi lavoro di sceveramento, d’ana lisi, di critica. Il nuovo italianismo rinasce con un rin novato fervore di studi storici. « Il serio movimento scientifico » scrive Francesco De Sanctis « usciva di là dove si era arrestato, dal seno stesso dell'erudizione. Lo studio del passato era come una ginnastica intellet tuale, dove lo spirito ripigliava le sue forze. Alle raccolte 10 successero le illustrazioni. E vi si sviluppò uno spirito d'in vestigazione, di osservazione, di comparazione, dal quale usciva naturalmente il dubbio e la discussione. Lo spi rito nuovo inseguiva gli eruditi tra quegli antichi monu menti. Già non erano più semplici eruditi: erano cri tici » (1 ). A Modena, intanto, studiava il Tiraboschi, a Roma il Crescimbeni, a Napoli il Gravina; altrove Raf faele Fabretti, Francesco Bianchini, Scipione Maffei e con essi una vera pleiade di dotti « segnano già questo periodo, dove la scienza è ancora erudizione e nella eru dizione si sviluppa la critica ». A Napoli e poi in un remoto paese del Cilento si for mava intanto il Vico. E a Giambattista Vico bisogna rial lacciare tutto il complesso movimento filosofico politico meridionale, tutta la fortuna dell'italianismo, di cui lo scrittore del quale imprendiamo lo studio, Vincenzo Cuoco, è il rappresentante maggiore. La filosofia del Vico nasce da una parte in antitesi al cartesianismo aritme tico e razionalista, dall'altra sopra una perfetta consape volezza, sopra un vero fondamento di ricerca storica, nell’un caso e nell'altro come reazione al pensiero stra niero e ritorno alle fonti nostrane. Solo l'antitesi al cartesianismo, cioè alla filosofia im perante, avrebbe potuto portare il Vico ad affermare l'im possibilità d'una scienza della natura, e in questa scienza era la gran cieca fede del razionalismo, e la sicurezza d'una scienza perfetta nel mondo umano, morale e sto rico. La conversione del vero col fatto (verum ipsum factum), impossibile nel mondo naturale agli uomini, di vien possibile nel mondo morale. Per conoscere una cosa occorre farla, o rifare il processo creativo: ciò è impossi bile nell'ordine naturale a tutti, fuor che a Dio, divien possibile nell'ordine umano, spirituale e storico, fatto dall'uomo, nel quale l'uomo opera come Iddio. Le scienze morali, la politica, la poesia perdono il mero carattere di probabilità e brillano di pura luce nello spi (1 ) F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., 1917, v. II, p. 240. 11 rito. È un nuovo principio gnoseologico, il vero è riposto nel fatto: a questo principio si rifà tutto il nuovo sistema storico. Ma domandiamoci: questo nuovo principio, che è il nucleo d'ogni futura filosofia dello spirito, quest ' in versione, che è la nuova gnoseologia, era possibile come semplice reazione ad un cartesianismo, che al Vico era pervenuto, sia pure, come scrive il De Sanctis (1 ), in una forma antipatica e menomatrice dei suoi studi, ma certo non in maniera del tutto opprimente e scettica? Io credo di no o almeno credo che la rivoluzione non sa rebbe stata possibile senza considerare un nuovo ele mento, le pure ricerche storiche, che portarono in fine il Vico a conclusioni inattese. Il Vico, scritto il De ratione studiorum, il De antiquis sima italorum sapientia, s ' ingolfò negli studi eruditi di storia antica, di diritto romano, negli studi di diritto naturale, di pura linguistica, di filologia. Dice bene quindi Benedetto Croce che, se pure il grande napoletano non fu condotto alla filosofia, al nuovo orientamento della sua gnoseologia, in virtù di un processo puramente filolo gico, certo lo stimolo e la materia gli furono offerti da gli studi sopra detti, « attraverso i quali egli ebbe a fare un'esperienza solenne; e cioè che quella materia di studio (1) Ecco quel che scrive F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 246. « La materia della sua cultura è sempre quella: dritto ro mano, storia romana, antichità. La sua fisica è pitagorica, la sua metafisica è platonica, conciliata con la sua fede. Base della sua filosofia è l'Ente, l’Uno, Dio. Tutto viene da Dio, tutto torna a Dio, l'unum simplicissimum di Ficino. L'uomo e la natura sono le sue ombre, i suoi fenomeni, ecc. ecc.... ». Dentro a questa coltura e contro a queste credenze venne ad urtare Cartesio. La coltura non ha valore: del passato bisogna far tavola. Datemi materia e moto, ed io farò il mondo. Il vero te lo dà la scienza ed il senso. Cosa dive niva l'erudizione di Vico, la fisica di Vico, la metafisica di Vico? cosa divenivano le idee divine di Platone? e il simplicis simum di Ficino cosa diveniva? e il dritto romano, la storia, la tradizione, la filologia, la poesia, la rettorica non era più buona a nulla? Nella violenta contraddizione Vico sviluppo le sue forze, ecc. ». 12 non poteva essere e non era elaborata dal suo pensiero senza l'aiuto di certi princípi necessarî, che gli si ripre sentavano in ogni parte della storia da lui presa a medi tare. Un tempo gli era sembrato che le scienze morali, ragguagliate al metodo matematico, occupassero, quanto a sicurezza, l'infimo posto. Ora, nella quotidiana fami liarità con quelle scienze, gli veniva apparendo il con trario: niente di più sicuro del fondamento delle scienze morali » (1 ). Verum ipsum factum: « ove avvenga che chi fa le cose, esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l'istoria » Il nuovo pensiero italiano s'afferma schiettamente storicista: il carattere della tradizione se guente serba questo carattere: Cuoco, il discepolo di Vico in un'età caratterizzata da una profonda negazione della storia, riaffermando l'italianismo, riafferma la storia, Tutta la filosofia dell'autore della Scienza nova nasce da questa scoperta, e questa scoperta nasce da un'affan nosa ricerca storica. La resistenza a Cartesio, a Malebran che, al razionalismo francese sarebbe rimasta resistenza, cioè in parte incomprensione, se il Vico non avesse potuto superare Cartesio stesso in una nuova visione della realtà. Solo la gran vita della storia, l'eterno farsi de' po poli, gli imperi che sorgono si mutano si sviluppano muoiono, solo l'analisi delle istituzioni politiche, del di ritto, delle religioni, delle lingue, delle arti ne' loro par ticolari potevano dargli la superba certezza:... il pen siero si fa, il pensiero è in quanto diviene, in quanto ha una sua propria dinamica. Il vero è in quanto noi lo facciamo, in quanto lo rifacciamo pensandolo. Le scienze morali s'aprono a nuova vita. Solo in esse v'è perfetta scienza, vera conoscenza. « Il pensiero è moto che va da un termine all'altro, è idea che si fa, si realizza come (1 ) B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, G. Laterza, G. Vico, La scienza nuova giusta l'edizione del 1744, a cura di F. Nicolini, Bari, Laterzam GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, Edizione della Critica, 1903, p. 34 e sgg. 13 natura, e ritorna idea, si ripensa, si riconosce nel fatto. Perciò verum et factum, vero e fatto, sono convertibili; nel fatto vive il vero; il fatto è pensiero, è scienza; la storia è una scienza, e, come ci è una logica per il moto delle idee, ci è anche una logica per il moto dei fatti, una storia ideale eterna, sulla quale corrono le storie di tutte le nazioni » (1 ). Ora ritorniamo al nostro argomento. Non interessava me tanto ridire quel che sul Vico fino ad oggi si è detto e che coglie assai bene la génesi e il valore della spe culazione del grande napoletano, se non per dimostrare come la nuova filosofia d'Italia, il nuovo italianismo nasca da una vera e propria esperienza critica ed erudita. Il Vico stesso nel De antiquissima italorum sapientia es lignuae latinae originibus eruenda aveva compiuto uno sforzo mirabile di ricerca etimologica, che lo aveva por tato ad affermazioni di grande audacia e nobiltà, se pure non accettabili, quale l'esistenza di una setta filosofica italica preromana, l'esistenza d’un'antica filosofia etrusca, generatrice d’un linguaggio filosofico, che poi trascorse in altre lingue nostre, quali il latino, in cui si trovano singolari tracce altrimenti inspiegabili, filosofia autoctona nostrana, antichissima, di cui Pitagora stesso sarebbe un fievole epigono. Nella sua seconda gnoseologia il Vico rinnegherà il principio informatore dell'opera: il linguag gio cessa d'essere in rapporto alla logica, trova la sua spiegazione « nei principi della poesia, cessa d'avere la sua origine nella volontà per acquistare maggiore sponta neità e naturalezza, Ma intanto resta acquisito lo sforzo vichiano della conquista d'un vero italianismo pre latino e preellenico, sforzo in parte rinnegato dallo stesso autore, che trova al suo pensiero nuove vie, ma sforzo non perciò meno degno, dal punto di vista culturale nazionalista. È una riconquista dell'italianità nella tra (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 248. (2) Vedi B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, pag. 50 e sgg.; B. SPAVENTA, Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia, Napoli, Vitale, 1862, pag. 38 A sgg. 14 dizione, nella storia. La storia è fatta dall' uomo: la storia d'Italia dagli italiani: trovare lo sviluppo della storia italiana significa trovare lo sviluppo di quella volontà, di quello spirito, di quelle idee, che formano il popolo nostro. Dai « rottami dell'antichità » nasce la storia italiana. Nel Nord della penisola la cultura era razionaliştica e cosmopolita. I dotti parlavano francese, non potevano sottrarsi all'influsso di Cartesio o di Locke. A Napoli invece la cultura è storica e filosofica e particolaristica mente italiana, sebbene pur comprensiva ed universale. Il Vico (1 ) si sottrae al pensiero europeo, ritorna a Pita (1 ) Intendere il Vico e staccarlo in un certo senso dallo sfondo comune delsuo secolo è necessario per colui, che voglia studiare il secolo XVIII, in cui senza dubbio sono le origini della nuova Italia e del nuovo pensiero. Ciò non ha saputo fare, per esempio, Gabriele Maugain, autore di un dotto Étude sur l'évolution intel. lectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ (Paris, Hachette), in cui ritorna ed insiste l'antica tesi (carducciana tra l'altro ) d'una decadenza e di una stasi dello spirito nazionale durante un periodo più o meno lungo. Ma, se non accettiamo questa visione parziale del fenomeno, come poi spiegarci tutta la fio ritura del secolo XIX? Dobbiamo crederla davvero, mancando una tradizione italica, una fioritura estrinseca, mero riflesso della cultura rivoluzionaria francese prima e romantico -germa nica poi? O invece il periodo anzi detto è periodo di prepara zione metodica, e in esso sono i germi della nuova Italia? Questo viene al pensiero di chi legge il libro accennato, in conclusione assai dotto ed interessante. Questo venne al pen siero di Giovanni Gentile, che nella Critica recensì nel 1910 l'opera del Maugain (recensione riveduta e ristampata in Studi vichiani, Messina, Principato, 1915 ), e che, pur riconoscendo che nel complesso, se si eccettui la figura titanica del Vico, questa storia è una storia di cui non abbiamo molto a com piacerci, nota come il Maugain la renda più malinconica di quanto non sia. A prescindere dal fatto che proprio nell'età di cui si tratta (1657-1750) fiorisce Vico, e Vico per noi è il genio dell'Italia nuova, la tradizione insomma a cui il succes sivo italianismo si ricollega, occorre pensare che, « dopo la metà del secolo XVIII, dalla morte rinascerà la vita, e si preparerà l'Italia che accoglierà la Rivoluzione, e si scuoterà tutta, e ri prenderà la sua via in tutte le manifestazioni della vita spiri tuale, e si aprirà un varco nella politica de grandi Stati, e ri. sorgerà come nazione ». Ora ciò sfugge all'autore del libro. 15 gora, a Platone, ai filosofi cristiani da un lato, dall'altro, come vedemmo, procede da sè, per una via del tutto nuova. La Scienza nova è, come scolpì il De Sanctis, « la Divina Commedia della scienza, la vasta sintesi, che riassume il passato e apre l'avvenire, tutta ancora in gombra di vecchi frantumi, dominati da uno spirito nuo vo » (1 ). Essa non è intesa per il momento, non importa ! Lo stesso Vico non si rende conto dei formidabili svi luppi che si trarranno dai suoi studi. Ma il seme, get tato in glebe feconde, germoglierà. Il pensiero meridio L'Italia rinasce e si rinnova, dal cosmopolitismo antinazio nalistico nel culto d'un universale umano l'Italia diviene na zionalistica nel culto d'un tradizionalismo più nostro, pur non dimenticando d'esaurire il mondo morale nella filosofia del Vico, proprio nel periodo che al Maugain sembra morte e stasi. Ben nota il Gentile a proposito (Studi vichiani ). Non bisogna dimenticare che quella stessa che diciamo morte, è una morte relativa; ed è anch'essa vita, perchè condizione e momento di quella che dicesi vita: e senza intendere l'una, non è possibile giungere all' intendimento dell'altra. Tutto sta a non cercare la vita nella morte: e non volere una cosa nell'altra. Lastasi del periodo studiato dal Maugain non è il progresso della creazione, ma è pure progresso, se è la pre parazione del progresso ulteriore. Noi infatti non potremmo intendere l'Italia nuova, nutrita dalla cultura europea compene trata con la tradizione nostra, quale la troviamo p. e. nella poe sia del Foscolo e nell'Italia tutta del tramonto del secolo XVIII e degli albori del seguente, [ quale la troviamo, mi permetta l ' illustre Maestro la chiosa, nel nostro Vincenzo Cuoco] se la innestassimo immediatamente all'Italia tutta italiana, crea trice in filosofia come in arte, maestra ancora all'Europa tutta, e vivente di una vita spirituale sua, del 500 e del primo 600. L'Italia dal 1657 al 1750 è l'Italia che accoglie il riflusso della cultura europea, su cui ha esercitato ella prima l'azione sto rica rinnovatrice: e in questo lavoro di riassorbimento, che dev'essere ed è anche reazione (esempio solenne Vico), è la vita sua nuova rispetto al passato. Il senso di questa vita nuova, se non m'inganno, non c'è nel libro del Maugain.... ». Precisamente così: può darsi che chi rilegga i fogli dei vari Giornali de' letterati vi ritrovi morte, ma chi trascorra le su date carte del Muratori e le induzioni geniali del Vico non può che rinvenirvi la vita, e le origini grandi della nuova patria, la fonte onde trassero la linfa vitale Cuoco e Foscolo. (1 ) F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 253. 16 nale si ricollega tutto al Vico e col Vico medita i nuovi concetti e i nuovi concreti problemi della storia e della vita; col Vico si presenta, dopo la caduta d'una repub blica, ad incontrare il pensiero settentrionale per ani marlo, per storicizzarlo nella realtà dello spirito, donde nascerà la nuova cultura veramente nazionale, e non più lombarda toscana napoletana. Così solo si possono spiegare molti atteggiamenti della cultura di Monti e di Cesarotti, di Manzoni e di Foscolo. La tradizione vichiana è in fine la tradizione del più puro italianismo. Da Napoli passerà a Milano, intanto notiamo come a Napoli stessa, nel suo centro ideale, là dove il genio di Giambattista s'era formato nell'umiltà borghese della vita d'ogni giorno, fra amarezze familiari, fra disavventure accademiche, fra l'incomprensione di quella che la retorica chiama alta cultura e poi non è che la più presuntuosa saccenteria, come a Napoli stessa questa tradizione non fu sempre dominante, nè sempre uguale, battuta in breccia dal francesismo, prima carte siano, poi illuminista, volterriano, ecc. Comprensione vera e propria, infine, il Vico non ebbe neppure in vita (1 ): immaginiamo, dunque, se dopo la morte del grande au tore della Scienza nova la patria potesse intendere affatto l'oceanico spirito del suo figliolo. « Certamente a Napoli, nel secolo decimottavo, ci fu in molti una confusa coscienza della grandezza dell'opera vichiana; ma in che propriamente questa grandezza con sistesse non si poteva determinare, perchè facevano an cora difetto l'esperienza e la preparazione adeguate » (2 ). Lo stesso discepolo ideale del Vico, colui che a, detta di Vincenzo Cuoco, solo può condurci al maestro, solo può servirci di guida per raggiungere i suoi voli, non fu immune da contaminazioni estrinseche: il vichismo in Mario Pagano è mescolato al nuovo sensismo francese (3 ). (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, pp. 270 e sgg. (2 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 286. (3 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 289. Cfr. VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, Bari, Laterza Nella carriera sublime della 37 potè volgersi alla compilazione d'una legge - base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro, e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi per conto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per LOMONACO, con @enni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per MARIO PAGANO, LOGOTETA E CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, e in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzo Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato con le sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco, non potevano appro vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes E sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special l'insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 1 al 1815, Milano, Vallardi, 8. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e l'avrebbe resa anche migliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticlé ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra di essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561 ); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D'Ayala ) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo della sua critica. Ma la causa principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l'aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si i è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne'suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ' astrag gono dalla realtà e costruiscono sull'acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3 ) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s'avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v. VI, (1901 ), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basa la sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L.A.Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello (Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva, e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! », Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull'uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria scrive l'esule al fratello. —- Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega », Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 45 senso che le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « törre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2 ). Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi?.Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta.... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi » (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de' letterati e de ’ filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo » (2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I, p. 220 e sg. (2 ) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali » (1 ). Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3). Ciò è possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post-rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3 ) Framm. II, p. 233. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2 ), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l'intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3 ). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (+), è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne ' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 87. (2 ) G. Zito, Vita cd opere di Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4 ) ROMANO, op. cit., p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono e quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avesse fatta corta una scarpa » (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l'impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal Laterza di Bari, che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d’or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese, Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219. 43 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterra il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha úna vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele dello Schelling ), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente accennato all'ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sè » (1 ). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218, 33 civile. Aggiungiamo a ciò quella sua ritrosia, quella specie di natural pigrizia, di cui abbiamo detto, e comprende remo un altro elemento della solitudine di Vincenzo e della sua critica. Ma la causà principale del suo atteg giamento negativo è sopra tutto, innanzi tutto spirituale culturale. Che cosa è la rivoluzione per lui, nutrito di studi con creti d'economia e di storia? La documentazione della risposta sta in tutto il Saggio storico, ma io credo che egli, sin dagli inizi del movimento sovversivo, dovesse pensarla come si espresse in seguito, altrimenti non si spiega in qual maniera egli abbia potuto in piena repub blica scrivere i suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, in risposta al Progetto di costituzione di Mario Pa gano. Nella dedicatoria del suo Saggio, nella Lettera del l'autore a N.Q. scrive: « Come va il mondo ! Il re di Na poli dichiara la guerra ai francesi ed è vinto; i francesi conquistano il di lui regno e poi l'abbandonano; il re ritorna e dichiara delitto capitale l’aver amata la patria mentre non apparteneva più a lui. Tutto ciò è avvenuto senza che io vi avessi avuto la minima parte, senza che neanche lo avessi potuto prevedere: ma tutto ciò ha fatto sì che io sia stato esiliato, che sia venuto in Milano, dove, per certo, seguendo il corso ordinario della mia vita, non era destinato a venire, e che quivi, per non aver altro che fare, sia diventato autore. Tutto è concatenato nel mondo, diceva Panglos: possa tutto esserlo per lo meglio ! » (1 ). Egli dichiara che nella rivoluzione tutto si è svolto senza che egli vi abbia avuto nessuna parte, senza che egli vi sia intervenuto. L'affermazione è vera solo in quanto si sappia intenderla. Il Cuoco ha preso parte agli avvenimenti politici del tempo, egli primo lo sa, e i nuovi studi lo confermano, anche quando per prudenza tace con il fine di non compromettere persone, che non vuol compromettere. Nel capo I del suo Saggio, esplicando la natura del suo lavoro, studio di idee e non di fatti, con cui quasi intende prevenire il giudizio della (1 ) V. Cuoco, Saggio storico] posterità sugli avvenimenti, di cui è stato spettatore e di cui imprende la narrazione, s'esprime diversamente. « Dichiaro che non sono addetto » scrive « ad alcun par tito, a meno che la ragione e l'umanità non ne ab biano uno. Narro le vicende della mia patria; racconto avvenimenti che io stesso ho veduto e de'quali sono stato io stesso un giorno non ultima parte; scrivo pei miei con cittadini, che non debbo, che non posso, che non voglio ingannare » (1 ). Dunque di fatto l'autore stesso accetta la partecipa zione. Che vuol dire? Cuoco sin dall'inizio della rivo luzione ha la coscienza della passività di questa, in quanto è opera d'una classe colta, che ha suoi bisogni speciali, più intellettuali che materiali, e non opera del popolo, il vero agente delle grandi rivoluzioni; ha la coscienza della fatalità del movimento repubblicano, in quanto non spontaneo, scaturito invece da contraccolpi internazionali, che nessuno può evitare e dirigere; ma nello stesso tempo egli non può sottrarsi al terribile vortice che lo attrae, perchè la sua educazione e in parte la sua cultura sono quelle della classe dirigente, perchè conosce la nobiltà dei propositi di questa, perchè sa, e questo sovra ogni altra cosa è decisivo, l'ignominia che da dieci anni in qua ha guidato i Borboni e i loro fa voriti, incapacità, cupidigia, sfrenatezza. La rivoluzione per Vincenzo è davvero un fatale vortice. La parola « vortice » per caratterizzare la rivoluzione ricorre spesso ne' suoi scritti. Egli non ne condivide le idee, ne critica la genesi, ne prevede la triste fine, ciò non per tanto non può sottrarsene perchè i suoi bisogni, la sua classe, la sua posizione sociale infallibilmente lo traggono ad una par tecipazione, che noi possiamo, come la rivoluzione stessa, chiamare passiva (2 ). Nè basta ! Egli vede che la rivo luzione di Napoli è più francese che italiana; che gli uomini, che sono alla testa della cosa pubblica, sono più (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 16. (2 ) Oltre i brani citati cfr. Saggio storico, VIII, p. 47; XV, p. 84; XVI, p. 90. 35 illuministi che non i pensatori francesi, che s ’ astrag gono dalla realtà e costruiscono sull’acqua, alla ricerca d'un bene che dovrebbe provenire dalla pura ragione, senza nessi con i bisogni concreti delle masse, senza legami con l'immanente vita pubblica, che vuole essere soddisfatta con provvedimenti specifici e non con le pa role. Questo il Cuoco nota, e doveva aver già notato da un pezzo: fin dai primi processi del '94 il giovine Vin cenzo ha dovuto notare l'astrattismo repubblicano, con sacrato del resto dal sangue de' martiri, e meditarlo aspramente, molto aspramente, se poi darà nel Saggio giudizi rudi contro i fanciulli e gli studenti infrancio sati (1 ). Queste poche osservazioni bastano a spiegarci il contegno di Vincenzo Cuoco nei grandi eventi del 1799, contegno di critica, dunque, dovuto ad un diverso tem peramento culturale, ad una vera antitesi o incompati bilità d'educazione e di metodo tra il nostro e i suoi compatrioti, non già, come qualche storico vuole (2), ad un vero e proprio antifrancesismo, antifrancesismo, che, se potè essere difesa de costumi e del pensiero italiano contro la moda straniera, non fu mai astio contro la nobile nazione gallica, nella quale anzi l'autore degli articoli del Giornale italiano, di cui parleremo a lungo, ebbe grande fiducia per l'avvenire d'Italia. Questo può spiegarci la natura dei Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, che ci appaiono non l'appendice, come giusta mente nota il Romano, ma i precedenti solidi e sobri del Saggio storico (3 ). (1 ) M. Rosi, op. cit., v. I, p. 206 e sgg.; B. CROCE, La rivo luzione napoletana, pp. 194-230, ove troverai abbondanti notizie sui primi movimenti sovvertitori a Napoli, sui primi processi, sulla morte eroica di De Deo, Vitaliani e Galiani. (2 ) P. HAZARD, op. cit., 219 e sgg. (3) Prima di andare innanzi bisogna pur dire poche parole intorno ad una questione cuochiana. Si tratta d'un argomento già dibattuto e risolto, ma su cui mette conto indugiarsi, poi che la figura del nostro dal contrasto s’avvantaggia e non è menomata. U. Tria in una sua nota, Vincenzo Cuoco a propo sito di due sue lettere inedite, pubblicata in Rassegna critica della 36 Dopo che il Governo provvisorio di Napoli fu diviso in due commissioni, la legislativa e l'esecutiva, la prima letteratura italiana, v. VI, (1901), p. 193 e sgg., getta gravi ac cuse sulla figura morale del molisano. Le lettere, sulle quali il Tria basala sua requisitoria contro il nostro autore, sono state alui date dal signor L. A. Trotta di Toro (Molise). « In tutte e due le lettere », scrive il Tria « il Cuoco di scorre liberamente con il fratello [Michele Antonio] di sè stesso, dei suoi interessi, dei progetti, delle speranze sue. Evidente mente egli non si angustiava del suo avvenire, non perchè le difficoltà incontrate aMilano fossero moltissime, ma, anelando egli a raggiungere una condizione migliore e più comoda degli indugi si infastidiva,e per sè stesso e per il vantaggio dei suoi, che sempre aveva nel cuore. Nè gli studi sulla storia degli an tichi italiani, che proprio in quegli anni andava facendo, nè le vicende non liete della patria sua oppressa, nè il rumore degli inauditi successi di Napoleone lo distoglievano dal suo particu, lare, siccome avrebbe detto molto esattamente il Guicciardini ! ». Cosi il Tria: e tutto ciò, perchè il povero Cuoco, pur tra le angu stie economiche dell'esilio, rivolge il pensiero ai suoi cari ! Ma fin qui poco male, se il Tria, basandosi su alcune frasi dello scri. vente, non avesse voluto gravar la mano anche sull’uomo poli tico. Vediamo prima di tutto le frasi incriminate. In quel tempo, siamo tra il 1871 e il 1802, il governo borbonico era disposto a concedere al Cuoco il perdono, ma egli lo rifiutò. « A che ritor nerei io in patria — scrive l’esule al fratello. - Se io fussi reo, accetterei un perdono: ma un uomo che non ha avuto la viltà di far un delitto, un uomo che ha potuto esser condannato solo perchè si trovò strascinato in un vortice che egli odiava, ma a cui era im possibile resistere; un uomo in cui l ' amor della patria, della pace, della virtù non sono parole, un tale uomo non deve cer tamente esser contento di un perdono che gli lascia sempre l'apparenza di reo ». Alte sublimi parole, che non possiamo non raffrontare con quelle non meno alte e sublimi, con cui l'Ali ghieri rispondeva all'amico fiorentino, che gli annunciava l'umi liante grazia del sospirato ritorno in patria. Ebbene in esse il Tria vede un indice di disdegno verso la rivoluzione, dal Cuoco designata col nome di vortice. « Le parole sue» commenta, « hanno un certo sapore di pentimento e di ritrattazione, che non gli fanno onore: ora egli sconfessa gli atti e gli scatti del cittadino Cuoco, che pure, durante la Repubblica, s'era reso benemerito della patria; si dice un fuorviato, dimentica i compagni di lotta, di patimenti, li rinnega ». Abbiamo citato abbondevolmente dal Tria, tanto più per di mostrare come ci si discosti dal vero, quando, sedotti dalle ap parenze ci si abbandona ad esse, senza penetrare nello spirito 37 potè volgersi alla compilazione d’una legge- base per la repubblica, e architetto un progetto. Il lavoro porta nell'edizione che ho sott'occhio il seguente titolo: Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per Mario Pagano, Giuseppe Logoteta e Giuseppe Cestari (1 ), ed è diviso in un Rapporto del Comitato di Legislazione al Governo provvisorio, opera del Pagano, chè lo stile e tutto lo appalesa, e in una Dichiarazione dei diritti e doveri dell'uomo, del cittadino, del popolo e de' suoi rap presentanti, a stendere la quale fu certo maxima pars il celebre autore dei Saggi politici. Per mezzo di Vincenzo Russo il Pagano dovette farne pervenire una copia al Cuoco. Questi rispose coi Frammenti (2 ). di uno scrittore. Potremmo a questo punto intraprendere una confutazione delle operazioni del Tria, ma non lo facciamo, per chè la confutazione scaturisce da tutto il nostro lavoro,e perchè già fatta da N. RUGGIERI, op. cit., p. 34 e sgg. e da M. ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg., i quali non hanno nulla tralasciato per lu meggiare storicamente la complessa figura del molisano. Noi perconto nostro abbiamo insistito su questo punto per mettere in guardia il lettore su certi atteggiamenti del Cuoco, che, certo in antitesi con l'atteggiamento del tempo suo, occorre valutare da un punto di vista molto elevato, quasi metastorico, come quello che spesso trascende l'èra sua per incontrare nel passato e nell'avvenire la più vera essenza del popolo nostro. (1 ) Seguo per la Costituzione del Pagano l'edizione nap. del 1861, Rapporto al cittadino Carnot sulla catastrofe napoletana del 1799 per FRANCESCO LOMONACO, con cenni sulla vita del l'autore, note e aggiunte di MARIANO D'AYALA ed infine il Pro getto di costituzione della repubblica napoletana del 1799 per PAGANO, LOGOTETA e CESTARI, con note di LANZELLOTTI, Napoli, Tip. di M. Lombardi. (2 ) I Frammenti si credono quasi certamente anteriori al Saggio, scritti quindi proprio durante la rivoluzione, a meno che non si riesca a provare, il che non mi sembra facile, che siano stati scritti col Saggio o del tutto dopo. Del resto ideal mente vanno innanzi. N. RUGGIERI, op. cit., p. 17, li crede an ch'egli, scritti durante il tempo della Partenopea: a pag. 132 della sua monografia conferma il suo giudizio cronologico, in nota dà notizie sulla bibliografia del Progetto del Pagano, inedito fino al giorno, in cui il Cuoco stampa il Saggio con l'ap. pendice dei Frammenti, pubblicato la prima volta a Napoli nel 1820 da Angelo Lancellotti, seguito da 30 note, 10 sue, 20 38 La critica al progetto ci mostra intero l'animo di Vin cenzo Cuoco e la sua lucida netta precisa opposizione agli immortali ed astratti princípi. Ma prima due parole su Vincenzio Russo. Potrebbe sembrare un puro caso che le lettere siano a lui indirizzate. Si dirà: una grande ami cizia univa il Russo al Cuoco, amicizia d'antica data, in trinsichezza fraterna; si dirà: il Russo ha fatto pervenire all'amico studioso il Progetto di costituzione, ond' egli ne prenda visione per le sue ricerche, quindi è naturale che a lui sia diretta la critica ideale della legge. Sì, tutto ciò va bene, ma non bisogna dimenticare che proprio Vin cenzio Russo è il rappresentante tipico dell'astratto rivo luzionarismo, di cui il nostro fa la requisitoria, proprio il Russo il corifeo dell'estremismo che il Cuoco detesta (1 ), proprio il Russo, il socialista che crede furto la proprietà che l'amico invece pone base della nuova società e del nuovo ordinamento civile, come diremo. Teniamo pre sente ciò e le lettere assumeranno un duplice valore, di critica scientifica e giuridica, d'opposizione ad un si stema politico culturale. Sono, ripeto, l'una contro l'altra due filosofie, due sistemi, il sistema rivoluzionario, esu berante e fiducioso nel momentaneo trionfo dell'idea, il sistema liberale moderato, più realistico, che solo nel tempo lentamente spera di vedere sanzionata dalla storia la sua forza. Chi era Vincenzio Russo? (2 ). Basta leggere i suoi Pen del Cuoco, ripubblicato conle sedicenti note del Lancellotti nella cit. edizione napoletana del '61. Il ROMANO, op. cit., p. 22 e p. 62 e sgg. crede i Frammenti anteriori al Saggio. Lo stesso il CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108. (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 108 e sgg., scrive a proposito del Russo e del suo estremismo: « Certo, anche gli amici che gli volevano bene e l'avevano in grande stima per la sincerità e nobiltà dei suoi convincimenti, come il suo compagno della prima giovinezza Vincenzo Cuoco non potevano appro. vare la via senza uscita per la quale egli si era messo ». (2 ) Su V. Russo vedi B. CROCE, La rivoluzione napoletana, pp. 85-112; nonchè G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meri dionale nei secoli XVIII e XIX, Laterza ed., Bari, 1922, p. 120 e sgg., che ci offre una buona analisi del pensiero del, 39 sieri politici, sui quali lo stesso Cuoco esprime nel Saggio un giudizio (1 ) un po ' incolore, sebbene ne tra peli una critica, per intendere il suo astrattismo. Rileg giamo, a proposito, le parole di Benedetto Croce. Il suo sistema si fondava « sull'idea di una repubblica popo lare, in cui ciascuno possederebbe un pezzo di terra da coltivare direttamente e da trarne i mezzi di sussistenza. Non testamenti e non atti tra vivi, e neanche succes sioni legittime; alla morte del possessore la quota di lui sarebbe tornata alla repubblica per una nuova di stribuzione. Gli uffici esercitati dagli stessi cittadini agricoltori, epperò senza stipendio, altro che i mezzi di sussistenza a coloro cui fosse tolto il tempo di lavorare personalmente la terra; al qual uopo si sarebbero fatti leggieri prelevamenti sulle quote dei coltivatori. L'in dustria, domestica e ridotta al puro necessario; e il com mercio ridotto, del pari, a permuta di cose necessarie. Nessun lusso di nessuna sorta; l'istruzione si sarebbe ristretta principalmente alla morale repubblicana e ai princípi dell'agricoltura. Nessuna religione, tranne forse « un tal quale vincolo di fratellanza nel centro di una idea sublimamente tenebrosa »; e quindi, non classe sa cerdotale. Non grandi città: una serie di piccoli villaggi costituirebbero le nazioni. E, tra le nazioni, non più guerre, tranne quelle per liberare le nazioni oppresse o per respingere tentativi di oppressione. Le nazioni, in unione tra loro, avrebbero poi formato, come termine ultimo, la « Società universale » (2 ). Era nel Russo, come in molti rivoluzionari, special l ' insigne martire del '99, specie nelle sue derivazioni dal Leib nitz e dal Rousseau. Un sunto delle dottrine del Russo ci of. frono V. FIORINI e F. LEMMI. Il periodo napoleonico dal 1799 al 1815, Milano, Vallardi, s. d., p. 167 e sgg. (1 ) Il giudizio (Saggio, L, p. 209) è il seguente: « La sua opera de Pensieri politici è una delle più forti che si possano leggere. Egli ne preparava una seconda edizione, e t'avrebbe resa anchemigliore, rendendola più moderata ». In quel miglio ramento nella moderazione sta tutto Cuoco ! (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. 40 mente meridionali, un misto curiosissimo di anticlerica lismo e di romanità, di filosofia ellenica e di razionalismo moderno, di evangelicità e di naturalismo, che univa insieme Leibniz e Mably, Condorcet e Bruno, Campa nella e Tacito, Platone e Saint- Just, un misto di fierezza spartana e di retorica petroliera, di rigidità catoniana e di montatura civica. Ma se guardiamo il Russo e la sua opera (1 ), non vi troveremo certo il gonfio anticle ricalismo e le diatribe di Francesco Lomonaco, che potè col suo scilinguagnolo incantare il giovinetto Manzoni, ma non potè incantare la posterità; troveremo, invece, contrasti, contraddizioni, astrattismi, ma in fondo un sistema, una volontà, un regime di vita e una aspira zione, sia pure non realizzata, al concreto (2 ). Nella pre fazione ai suoi Pensieri politici scrive: « Io non ho volta la mente nè alle antiche repubbliche nè alle moderne, non alle nuove nè alle vetuste legislazioni: ho consul tato nelle cose stesse la verità ». Quindi un desiderio di analizzare l'uomo ne'suoi bisogni specifici, e sovra essi fondare la sua repubblica, mentre i bisogni stessi individualmente indeterminabili, concetti economici in sommo grado subiettivi, gli sfuggono. In fondo anche il Russo è un astratto e non si distingue dai repubblicani, se non per ingegno, non certo per diversità di metodo e di pratica politica. Basta rileggere i Pensieri e lo studio del Croce per convincersi che i suoi concetti, democra tizzazione sistematica, educazione repubblicana e sta tale, fraternità tra i popoli, sono quelli della generalità, (1) La prima edizione dei Pensieri politici è dell'anno 1798, allorquando il Russo, esule da Napoli, trovavasi a Roma, e fu stampata per sottoscrizione:Pensieri politici diVINCENZIO Russo, napolitano, Roma, presso il cittadino V. Poggioli, anno I della ri stabilita repubblica Romana. L'opera fu ristampata in Milano tra il 1800 e il 1801 (Milano, anno IX, Tip. Milanese in Strada nuova, n. 561); e poi ancora a Napoli nel 1861 (ed. a cura del D’Ayala) e nel 1894 (ed. a cura di B. Peluso con pref. di E. De Marinis ). Vedi a proposito B. CROCE, La rivoluzione napole tana, p. 98, p. 112. (2) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 92 e sg. 41 forse più accentuati da una dinamica naturale d'ora tore, da un estremismo fervente, che voleva, credo, far dimenticare in una vita intemeratamente vissuta un istante di antica debolezza (1 ). Queste esagerazioni non sono proprie del tempera mento meridionale, ed in genere italiano. Ma, come bene osserva il Romano, calcando un giudizio di G. Zito (2), « mentre all'inizio del movimento, i nostri alle teorie nuove davano di proprio la misura e la calma, in seguito invece l ' intrepidezza deduttiva propria del tempera mento francese, non trovò più freni neppur da noi, e sovente le dottrine non furono sottoposte a tentativi di analisi e di giudizio » (3). Ed è proprio così ! Anche Mario Pagano, mente geniale e solida, è travolto dalla corrente e segue l'andazzo. Il suo vichismo non è coerente a sè stesso, e risente gli influssi esterni, e, se pure gli studi suoi non sono pura speculazione metafisica, « giovevole se mai nella scuola e presso che inutile, se non pure dan nosa, nell'attrito reale del governo di uno Stato » (1 ), è certo però che il grande autore del Processo criminale si mostrò insufficiente all'ardua opera della ricostru zione. Dare la costituzione ad un popolo è l'opera più grande che un uomo possa a sè stesso assegnare, opera da far tremare le vene e i polsi non solo ai legislatori di oggi, ma a menti divine, come quelle di Platone e di Aristo tele. La costituzione non può essere una sovrastruttura, che i dirigenti impongano ad un popolo, perchè le costi tuzioni non si dànno ab externo, ma si formano nelle coscienze prima che sulla carta, e, se pure si impongono, non si reggono sulle armi e sui fucili. Il popolo è una realtà concreta viva palpitante, ne' suoi molteplici bi sogni, ne' suoi desiderî, ne' suoi costumi, ne' suoi pre (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 87. (2 ) G. ZITO, Vita ed opere di Mario Pagano, Potenza, Tip. Garramone, 1901, passim. (3 ) M. ROMANO, op. cit., p. 61. (4) ROMANO, op. cit., p. 63. Il giudizio sull'opera del Pa gano è eccessivo e non può essere senz'altro condiviso da noi. 42 e giudizi. Egli non sopporterà mai una legge, che non intende la sua intima vita e il suo benessere, che tra scenda la sua natura. « Le costituzioni sono simili alle vesti: è necessario che ogni individuo, che ogni età di ciascun individuo abbia la sua propria, la quale, se tu vorrai dare ad altri, starà male. Non vi è veste, per quanto sia mancante di proporzioni nelle sue parti, la quale non possa trovare un uomo difforme cui sieda bene; ma, se vuoi fare una sola veste per tutti gli uomini, ancorchè essa sia misurata sulla statua modellaria di Poli clete, troverai sempre che il maggior numero è più alto, più basso, più secco, più grasso, e non potrà far uso della tua veste » (1 ). Non esiste un ottimo costituzionale, esi ste un buono relativo alla vita delle singole genti. « Le costituzioni si debbono fare per gli uomini quali sono quali eternamente saranno, pieni di vizi, pieni di er rori; imperocchè tanto è credibile che essi voglian de porre que' loro costumi, che io reputo una seconda natura, per seguire le nostre istituzioni, che io credo arbitrarie e variabili, quanto sarebbe ragionevole un calzolaio che pretendesse accorciare il piede di colui cui avésse fatta corta una scarpa » (2 ). I due raffronti con la veste e la scarpa, tratti dal mondo fisico, sono d'una evidenza mirabile. Il legislatore deve intendere il popolo, e costruire sulla base dei bisogni del popolo. Il popolo non parla. Ma per lui parla tutto, costumi, usanze, religione, pregiudizi, vizi. Le costituzioni non si fanno nei gabinetti e negli studî, nelle scuole e nelle accademie, nascono da sè, sotto l ' impulso di concrete esigenze dell'anima collettiva, o più vichianamente della collettività, e il legislatore non può essere che un interprete di essa collettività, della (1 ) Seguo il già citato testo del NICOLINI, edito dal Laterza di Bari,che come tutte le altre ed. cuochiane, porta i Fram menti di lettere a V. Russo in appendice al Saggio. Per le ci tazioni basterà quindi la sigla Framm. seguita dal numero d'or dine I o II ecc., e dalla pagina dell'edizione barese. Framm. I, p. 218. (2 ) Framm. I, p. 219, 43 1 sono sua coscienza, non già il saggio che dal suo cielo di sa pienza impone norme e nomi. L'obietto delle costituzioni sono gli uomini, e gli uomini sono pieni di vizi, pieni di errori. Ora, chi si propone di legiferare deve prendere gli uomini, come sono, e non andare alla ricerca di un ottimo, che in na tura non è, contentarsi di rendere felici gli uomini, e ren dere felici gli uomini si può solo, soddisfacendo alla loro natura, che è un misto di buono e di cattivo, d'eticità e di pregiudizi, di religione e di ferocia. Siamo, come ognun vede, penetrati nel pieno della critica cuochiana, ma la mia mente, riflettendo su queste acutissime osservazioni, non può non instaurare un pa ragone tra il relativismo giuridico del nostro e lo stori cismo germanico di Gustavo Hugo e di Federico Carlo Savigny. È curioso ! Negli stessi anni, nell' infierire della rivoluzione francese, o quando ancor fresche ne le conseguenze, con basi, cultura diametralmente diverse, con intendimenti presso che uguali, scrivono in Italia il Cuoco, in Inghilterrà il Burke, le di cui Riflessioni sulla rivoluzione francese sono del 1790, in Germania l'Hugo che nello stesso anno 1790 formula in un suo libro quei prin cípi, che poi il Savigny, nel 1814, nella polemica col Thibaut, svilupperà nell'operetta: Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza. Ma tra il Savigny e l'illuminismo rivoluzionario c'è uno sviluppo continuo di pensiero germanico, tra il Cuoco e la rivoluzione non c'è transizione, poi che egli scrive i Frammenti nella rivoluzione stessa, quando già i san fedisti di Ruffo sono alle porte della città. Notiamo però come un certo parallelo c'è: il nostro si ricollega al Vico, tradizione perenne d'italianità; il Savigny parla di una coscienza giuridica popolare, che non può non tro vare la sua origine nella filosofia idealista tedesca, Schel ling e Hegel, ai quali il grande giurista si ricollegano. Guardiamo brevemente la questione. Col Cuoco siamo da un punto di vista filosofico giuridico più innanzi, ma il parallelismo non manca. Che cosa è il diritto per il Sa vigny che combatte l'unificazione legislativa e la codi 44 ficazione proposta dal Thibaut? Non certo un quid astratto, vivo nel solo pensiero del legislatore. Il diritto ha una vita sua propria nella vita d'ogni giorno, che non è che consuetudine irriflessa e pratica comune. Ricor diamo lo Schelling: il principio dello spirito collettivo, principio animatore in perpetuo divenire, si sviluppa dalla sua filosofia, dall'evoluzione stessa della natura nell'infinita sua produttività, concepita non più come mero oggetto, ma come soggetto, nucleo di sviluppo di tutto il pensiero germanico, che dal dualismo di Kant risolve il problema, attraverso Schelling, in Hegel, ul tima conseguenza della posizione kantiana. Il concetto evolutivo della natura trascorre nel diritto. Il diritto è la manifestazione d'una coscienza giuridica che è nel popolo, il quale popolo ha una sua anima (la Volkseele dello Schelling), che determina la morale, l'arte, il lin guaggio, e così pure il diritto e la costituzione politica. Quel che nello Schelling è generalmente accennato all’ori gine della costituzione e degli ordini civili, nel Savigny è applicato ad una questione concreta: se convenga im mobilizzare il diritto, elaborazione istintiva e irriflessa, viva nella consuetudine, in un sistema di codici. Donde una illazione: la costituzione, legge fondamentale, non può che essere la risultante d’un'elaborazione incosciente del popolo, che il legislatore può cogliere ed inquadrare per princípi, ma non ex novo, così come il grammatico studia la lingua già formata e non crea la lingua. Il Cuoco più concretamente non arriva alle conclusioni un po' anarchiche del Savigny, il quale in reazione ad una filosofia che pretendeva di sistematizzare e creare tutto a fil di logica, si appalesa ostile ad ogni costituzione scritta, come ad ogni codificazione; il Cuoco ammette in vece che un legislatore possa compilare un progetto di costituzione. Ma come? Il legislatore deve interpretare i bisogni del popolo, alla felicità del quale vuol provve dere. Il principio base è uno. « Le costituzioni durevoli sono quelle che il popolo si forma da sé » (1 ). Ciò non nel (1 ) Framm. I, p. 218. 45 senso che le costituzioni siano una formazione assoluta mente irriflessa e popolaresca, che il giurista osserva senza intervenire, passivo, ma nel senso che non possano prescindere, sia pure quando sono opera di studio perso nale e di ricerca dotta, dalla concreta realtà della nazione. La faccenda si chiarifica. La Volkseele dello Schelling, la coscienza giuridica popolare del Savigny diventano, sono nel Cuoco, più concreto e positivo, i bisogni del po polo, bisogni economici e materiali, religiosi e morali, qualcosa di più tangibile. « I nostri filosofi, » scrive « sono spesso illusi dall'idea di nu ottimo, che è il peggior nemico del bene. Se si volesse seguire i loro consigli, il mondo, per far sempre meglio, finirebbe col non far nulla ». « L'ottimo non è fatto per l'uomo.... » (1 ). Costoro, ai quali accenna il critico, sono i rivoluzionari astratti, che credono ad un universale, che non è, e vanno tanto alto da perdere ogni contatto col mondo. Una costituzione non può scaturire dal cervello di un uomo, come Pallade dal cervello di Giove, armata e folgorante; deve sorgere dopo mature riflessioni, sulla natura della nazione deve avere una base. « Questa base deve poggiare sul carattere della nazione, deve precedere la costituzione; e mentre con questa si determina il modo in cui una nazione debba esercitare la sua sovra nità, vi debbono esser molte cose più sacre della costi tuzione istessa, che il sovrano, qualunque sia, non deve poter alterare » (2 ). Nessuno può « tôrre al popolo tutti i suoi costumi, tutte le sue opinioni, tutti gli usi suoi, che io chiamerei base di una costituzione » (3 ). Il Cuoco, se osserviamo bene la questione, distingue due momenti: una elaborazione incosciente del popolo che crea istituti giuridici, per consuetudine, desumendoli dalla sua stessa essenza; una elaborazione cosciente e riflessa, che sistematizza e regola ciò che nel popolo era mera pratica senza norma. Questi due momenti si compene (1 ) Framm. I, p. 219. (2 ) Framm. III, p. 245. (3 ) Framm. III, p. 245. 46 trano e sono indispensabili. La consuetudine, senza la legge, può divenire anarchia, dominio della volontà parti colare. La legge, che astragga dalla volontà dei singoli, è mera parola, generalità senza significato. Siamo lon tani dallo storicismo tedesco dell'Hugo e del Savigny. La base, alla quale accenniamo, è d'una grande com plessità. Il costituzionalista, in particolare il legislatore, deve avere riguardo' non solo ai costumi, agli usi, alla religione, ai bisogni economici, ma anche ai pregiudizi, ai difetti, ai mali del popolo. La vita non è ottima, nè buona: è male e dolore. Gli uomini sono buoni e cattivi, generosi ed egoisti, eroi e birbanti. Il più grave pericolo è che il legislatore, più filosofo che uomo politico, alla ricerca dell'eterno dimentichi il transeunte, alla ricerca dell'ottimo dimentichi il buono, creda non esservi il male. Le costituzioni debbono parlare alla fantasia e ai sensi dei popoli, avere una certa solennità, quasi un ele mento sacro, perchè « dopo le sue opinioni ed i suoi costumi, il popolo nulla ha di più caro che le apparenze della regolarità e dell'ordine » (1 ). È un consiglio di este riorità. Poco importa ! Le plebi amano l'esteriorità. « Quelle leggi sono più rispettate dal popolo, che con mag giori solennità esterne colpiscono i sensi » (2). Dunque, ammesso che un legislatore possa dare una costituzione, interpretando più che sia possibile le esi genze di una nazione, come potrà e dovrà egli compor tarsi? Un popolo ha dei costumi. « Non vi è nazione quanto si voglia corrotta e misera, la quale non abbia de' costumi, che convien conservare; non vi è governo quanto si voglia dispotico, il quale non abbia molte parti convenienti ad un governo libero. Ogni popolo che oggi è schiavo fu libero una volta... Quanto più pesante sarà la schiavitù di un popolo, tanto più questi avanzi degli altri tempi gli saran cari; perchè non mai tanto, quanto tra le avversità, ci son care le memorie dei tempi felici. Quanto più il governo che voi distruggete è stato (1 ) Framm. III, p. 246. (2) Framm. III, p. 246. 47 barbaro, tanto più numerosi avanzi voi rinvenite di an tichi costumi; perchè il governo, urtando troppo violen temente contro il popolo, l'ha quasi costretto a trince rarsi tra le sue antiche istituzioni, nè ha rinvenuto nei nuovi avvenimenti ragione di seguirli e di abbandonare ed obbliare gli antichi (1 ). Nello sviluppo storico nulla si perde completamente: l'evoluzione vitale degli uomini e delle istituzioni loro è trasformazione e non distruzione, onde sotto la scorza della modernità si possono ritrovare i nuclei ancor verdi dell'antico. La tradizione non è un culto senza dèi, pro prio de letterati e de ' filosofi, è la vita della nazione, è quel che di più sacro essa ha, poi che rappresenta la sua continuità. Ciò non deve dimenticare il legislatore, come colui che è più vicino al palpito dei popoli, dovendo re golare le manifestazioni più svariate della loro attività privata e pubblica. « Questi avanzi di costumi e governo di altri tempi, che in ogni nazione s ' incontrano, sono preziosi per un legislatore saggio, e debbono formar la base dei suoi ordini nuovi. Il popolo conserva sempre molto rispetto per tutto ciò che gli viene dai suoi mag giori; rispetto che produce talora qualche male, e spesso grandissimi beni. Ma coloro, che vorrebbero distruggerlo, non si avvedono che distruggerebbero in tal modo ogni fondamento di giustizia ed ogni principio d'ordine so ciale? Noi non possiamo più far parlare gli dèi come i legislatori antichi facevano: facciamo almeno parlare gli eroi, che agli occhi dei popoli son sempre i loro antichi. Un popolo, il quale cangiasse la sua costituzione per solo amor di novità, non potrebbe far altro di meglio, che darsi una costituzione all'anno. Ma, per buona sorte, un tal popolo non esiste che nella fantasia di qualche filo sofo » (2 ). Un legislatore quindi può realmente fare del bene alla nazione, ma deve seguire la natura, cioè la na zione stessa nel suo spirito, e trarre da essa il sistema costituzionale, non il sistema costituzionale da princípi (1 ) Framm. I, p. 220 e sg. (2) Framm. I, p. 221. 48 che non sono nella natura, ma nella testa dei filosofi. « Tutto è perduto quando un legislatore misura la infi nita estensione della natura colle piccole dimensioni della sua testa, e che, non conoscendo se non le sue idee, gira per la terra come un empirico col suo segreto, col quale pretende medicar tutt'i mali (1 ). Vincenzo Cuoco ci si presenta come un tradizionalista e un moderato. Non bisogna distruggere per distruggere, perchè si può perdere il buono per un problematicissimo ottimo; non bisogna atterrare, perchè non sempre si può ricostruire; non bisogna aprire un novus ordo, perchè i novi ordines dei filosofi sono in cielo e non in terra. Bi sogna costruire su quel che già è, edificare sulle fonda menta della storia, che non soffre soluzioni di continuità, riformare e non distruggere. « Io non credo la costitu zione consistere in una dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino » (2 ). Essa è qualcosa di più profondo: è il popolo, il quale da sè stesso trae le norme regolatrici della sua esistenza, della sua attività, della felicità. « E chi non sa i suoi diritti? Ma gran parte degli uomini li cede per timore; grandissima li vende per interesse: la costituzione è il modo di far sì che l'uomo sia sempre in uno stato da non esser nè indotto a venderli, nè costretto a cederli, nè spinto ad abusarne » (3 ). Ciò è possibile solo in quanto la costituzione assicuri un medio benessere, attinga quella umana felicità, alla quale abbiamo ac cennato. Le rivoluzioni nascono da un malessere economico generalizzato. Le costituzioni post - rivoluzionarie debbono ristabilire l'equilibrio, il benessere, l'armonia, la vita pa cifica ed operosa. Per fare ciò bisogna intendere le esi genze e i bisogni della nazione, i suoi costumi, il suo carattere. Ecco perchè Cuoco ci dice che, se egli fosse invitato a dar leggi ad un popolo, vorrebbe prima stu diarlo e conoscerlo; ecco perchè Cuoco ci dice che egli (1 ) Framm. I, p. 221. (2 ) Framm. II, p. 233. (3 ) Framm. II, p. 233. 49 vuol ritornare all'antico, e all'antico ricollegare il pre sente, perchè il popolo ama le antiche istituzioni, che in passato gli han pure dato felicità; ecco perchè il Cuoco vuol riformare solo ove è male ed ove le istituzioni antiche non rispondono più ai nuovi bisogni, ed è tra dizionalista all'eccesso, laddove la mania novatrice cerca distruggere istituti e norme consacrate da secoli. Questi i convincimenti del critico. Ma che cosa in vece era avvenuto a Napoli, qual'era, com'era la costi tuzione che Mario Pagano aveva elaborato? Ogni po polo ha una individualità ineffabile. Il popolo napole tano, quindi, ha pur esso una sua natura specifica, che risulta da un complesso di cose. Parliamo perciò, dice il Cuoco all'amico Russo, « della costituzione da darsi agli oziosi lazzaroni di Napoli, ai feroci calabresi, ai leggieri leccesi, ai spurei sanniti ed a tale altra simile genìa, che forma nove milioni novecento novantanove mila nove cento novantanove decimilionesimi di quella razza umana che tu vuoi tra poco rigenerare » (1 ). Cioè discendiamo ai fatti, al concreto, vediamo se il progetto costituzionale del Pagano risponde alla natura delle cose. Il Cuoco ri sponde risolutamente: « Per questa razza di uomini par mi che il progetto donatoci da Pagano non sia il migliore. Esso è migliore al certo delle costituzioni ligure, romana, cisalpina; ma al pari di queste è troppo francese e troppo poco napolitano. L'edificio di Pagano è costrutto colle materie che la costituzione francese gli dava: l'architetto è grande, ma la materia del suo edifizio non è che creta » (2 ). Il Pagano, nonostante il suo vichismo, è caduto nell'er rore tipico di tutti i rivoluzionari alla francese, ha cre duto in un ottimo che non è; ha creduto negli immortali princípi che le masse non intendono, poi che gli uomini sentono solo i bisogni e non i princípi che parlano al l'intelletto di pochi; ha fatto quella, che il critico mo lisano chiama una costituzione da tavolino; « e quindi ne è avvenuto, che siesi perduta la vera cognizione delle (1 ) Framm. I, (2) Framm.] cose e della loro importanza » E nel dispiacere del fallimento, che al nostro appare evidente, c'è una punta d'ironia, che al lettore è facile avvertire pur nell'amiche volezza dell'espressione: « Oh ! perdona. Non mi ricor dava » dice il Cuoco al Russo « di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede possi bile in un essere finito, quale è l'uomo, una perfettibilità infinita. Scusa un ignorante avvilito tra gli antichi errori: travaglia a renderci angioli, ed allora fonderemo la re pubblica di Saint- Just. Per ora contentiamoci di darcene una provvisoria, la quale ci possa rendere meno infelici per tre o quattro altri secoli, quanti almeno, a creder mio, dovranno ancora scorrere prima di giugnere all'esecu zione del tuo disegno » (2 ). Anche l'amico fedele Vincenzo Russo, come il grande maestro Pagano, è un illuso, un astratto ! Ma osserviamo bene. Quest'astrattismo, che il Cuoco rimprovera al suo Pagano, non è solo del Pagano, è di tutto un sistema, che il nostro vivamente deplora. Primi i francesi, coloro per cui la rivoluzione nacque spontanea esplosione di lungamente compressi bisogni, per cui il moto repubblicano fu attivo e non passivo com'è a Na poli, caddero negli stessi errori. « I francesi aveano fondata la loro costituzione sopra princípi troppo astrusi, dai quali il popolo non può discendere alle cose sensibili se non per mezzo di un sillogismo; e quando siamo a sillogismo, allora non vi è più uniformità di opinioni e non si potrà sperare regolarità di operazioni » (3 ). Di ciò il molisano dà un esempio concreto. In Francia si volle stabilire come norma costituzionale il diritto all'insur rezione. Ma senza quelle circostanze, che l'accompagna vano e la dirigevano in qualche paese dell'antichità, ove simile norma era stata applicata, essa non poteva pro durre che sedizioni e turbolenze, seguite da una reazione violenta del governo attaccato, in barba ad ogni princi F (1 ) Framm. III, p. 241. Framm. I, p. 220. (3 ) Framm. III, p. 247. 51 pio legale. « Per buona sorte della Francia » commenta iro nico il nostro « questa massima fu guillottinata con Robe spierre » (1 ). Vedete, dice, « la costituzione romana era sensibile, viva, parlante. Un romano si avvedeva di ogni infrazione dei suoi diritti, come un inglese si avvede delle infrazioni della Gran carta. In vece di questa, immagina per poco che gli inglesi avessero avuto la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino: essi allora non avreb bero avuto la bussola che loro ha servito di guida in tutte le loro rivoluzioni. I romani eccedettero nella smania di voler particolarizzar tutto, per cui negli ultimi tempi formarono dei loro diritti un peso di molti cameli. Ma, mentre conosciamo i loro errori, evitiamo, anche gli ec cessi contrari, e teniamoci quanto meno possiamo lon tani dai sensi. Se la molteplicità dei dettagli forma un bosco troppo folto nel quale si smarrisce il sentiero, i princípi troppo sublimi e troppo universali rassomigliano le cime altissime, dei monti, donde più non si riconoscono gli oggetti sottoposti » (2 ). Questi sono gli errori dei francesi. L'esasperazione dei princípi dovea portare necessariamente agli errori fatali. Questa è l'idea che il Cuoco ha della costituzione francese del 1795. Una « costituzione è buona per tutti gli uo mini? Ebbene: ciò vuol dire che non è buona per nes suno.... » (3 ). Il Pagano, ritorniamo a lui, s'è ingolfato negli stessi errori. Seguiamo il nostro autore nel suo excursus e nella sua critica minuta del progetto; ma per intendere come egli colpisca nel segno, e come i Frammenti siano una meditazione veramente profonda, una critica sincera e non sistematica, rileggiamo le prime righe del Rapporto al governo provvisorio, che precede la Dichiarazione dei diritti e dei doveri dell'uomo, e che è certo opera di Mario Pagano. « Una costituzione, che assicuri la pubblica libertà, e (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, (3) Framm. I, p. 219. p. 247. 52 che slanciando lo sguardo nella incertezza de ' secoli av venire, guardi a soffocare i germi della corruzione e del dispotismo, è l'opera la più difficile, a cui possa aspirare l’arditezza dell'umano ingegno. I filosofi dell'antichità, che tanto elevarono l'umana ragione, ne presentarono i principii soltanto, e le antiche repubbliche le più celebri e sagge ne supplirono in più cose la mancanza con la · purità de' costumi, e colla energia dell'anime, che ispirò loro una sublime educazione. Gran passi avea già dati l'America in questa, diremo, nuova scienza, formando le costituzioni de' suoi liberi Stati. Novellamente la Fran cia, che ha contestato straordinario amore di libertà con prodigi di valore, ha data fuori altresì una delle migliori costituzioni che siansi prodotte finora ». Fin dalle prime battute si sente l'uomo geniale, ma insieme lo scolastico, che ha bisogno di rifarsi ai prece denti generici (1 ). Il Comitato di legislazione « ha.... adottata la costitu zione della madre repubblica francese. Egli è ben giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuto la libertà, ricevesse eziandio la legge, custode e conservatrice di quella. Ma riflettendo che la diversità del carattere mo rale, le politiche circostanze, e ben anche la fisica situa zione delle nazioni richiedono necessariamente de' cam giamenti nelle costituzioni, propone alcune modificazioni, che ha fatte in quella della repubblica madre, e vi rende conto altresì delle ragioni che a ciò l'hanno determinato ». La derivazione è confessata, e con essa l'astrattismo. Senonchè il Pagano afferma una esigenza, che in lui na poletano e vichiano, deve essere sincera, ma che resta poi in pratica insoddisfatta: tenere conto dei bisogni pe (1 ) L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815, in Nuova Antologia, a. XXVI, v. XXXVI, 16 no vembre, 1-6 dicembre 1891, p. 441. Il Palma ci offre una buona analisi della costituzione di M. Pagano in rapporto alle altre costituzioni francesi ed italiane del tempo, nonchè un'acuta critica di essa, critica che fondamentalmente coincide con quella cuochiana. Sulla costituzione del Pagano vedi pure V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., Milano, Vallardi, s. d., p. 170 e sgg. 53 ) ) culiari della nazione alla quale si provvede; e nel resto dell'opera legislativa si rivela per quello che è, cioè un mero teorico. Vediamo. « La più egregia cosa che ritrovasi nelle moderne co stituzioni, è la dichiarazione de' dritti dell'uomo. L'uguaglianza non è un diritto, ma la base di tutti i diritti, che da essa scaturiscono. « L'uguaglianza è un rapporto, e i dritti sono facoltà. Sono le facoltà di oprare, che la legge di natura, cioè l ' invariabile ragione e cono scenza de ' naturali rapporti, ovvero la positiva legge sociale, accorda a ciascuno ». Sembra di leggere un trat tato di filosofia giuridica e non un rapporto di un comi tato legislativo, che presenta un progetto di legge. « Da tal rapporto d'uguaglianza di natura, che avvi tra gli uomini, deriva l'esistenza, e l'uguaglianza de' dritti: es sendo gli uomini simili, e però uguali tra loro, hanno le medesime facoltà fisiche e morali: e l'uno ha tanta ragione di valersi delle sue naturali forze, quanto l'altro suo simile. Donde segue, che le naturali facoltà indefi nite per natura, debbano essere prefinite per ragione, dovendosi ciascuno di quelle valere per modo, che gli altri possano benanche adoprar le loro. E da ciò segue eziandio, che i dritti sono uguali; poichè negli esseri uguali, uguali debbono essere le facoltà di oprare. Ecco adunque come dalla somiglianza ed eguaglianza della na tura scaturiscano i dritti tutti dell'uomo, e l'uguaglianza di tai dritti ». Io qui non istò a riferire come Mario Pagano « dall'unico e fondamentale dritto della propria conservazione » derivi « la libertà, la facoltà di opinare, di servirsi delle sue forze fisiche, di estrinsecare i suoi pensieri, la resistenza all'oppressione », modificazioni tutte del primitivo innato diritto, che l'uomo ha di na tura, il conservarsi. Tutto il sistema si sviluppa con una logica impeccabile filosofica e giuridica, e noi non sap piamo che ammirare la grandezza di uno spirito geniale e deplorare la sua morte immatura e tragica. Le defini zioni paganiane sono stupende di sintesi. Ecco la li bertà ! « La libertà è la facoltà dell'uomo di valersi di tutte le sue forze morali e fisiche come gli piace, colla !! 54 sola limitazione di non impedire agli altri di far lo stesso ». Tutto s ' impernia su un principio - postulato e scaturisce di lì. Dal primo fonte di tutto il diritto deriva la pro prietà, poi che « la proprietà reale è una emanazione e continuazione della personale ». Gli stessi diritti ci dànno i doveri; i diritti e i doveri dei cittadini, i diritti e i doveri dei magistrati e dei pubblici funzionari, e così di seguito. Nè mancano sani princípi costituzionali, che occorre an che oggi meditare. V'è un vigile e vichiano senso della dinamicità delle costituzioni, che, sebbene carte sacre di un popolo, non per questo sono inviolabili, cioè non mo dificabili, poi che la vita stessa e le rinnovate esigenze delle nazioni dànno origini a riforme naturali nel loro stesso seno. « La società vien formata dalla unione delle volontà degli uomini, che voglion vivere insieme per la vicende vole garanzia de proprii dritti. L'unione delle forze fa la pubblica autorità, e l'unione de' consigli forma la pubblica ragione, la quale, avvalorata dalla pubblica autorità, diviene legge. Quindi l ' imprescrittibile dritto del popolo di mutar l'antica costituzione, e stabilirne una nuova, più conforme agli attuali suoi interessi, ma demo cratica sempre; quindi il dritto di ogni cittadino di es sere garantito dalla pubblica forza, e il dovere di con tribuire alla difesa della Patria; quindi finalmente i dritti e i doveri de'pubblici funzionarii, che per delega zione esercitano i poteri del popolo sovrano, e per do vere sono vittime consacrate al pubblico bene ». E dire che ancor oggi questo principio della vita giu ridica, che è dinamicità come ogni altra manifestazione dello spirito, non è inteso, e la riforma dello Statuto ita liano è temuta come un terribile evento sovvertitore, mentre le leggi fondamentali sono una vuota forma senza contenuto materiale, vuota forma premuta da esigenze nuove, e, purtroppo, dal più sfacciato illegalismo dei partiti ! Ma, se dal Rapporto passiamo al Progetto costituzio nale, quanto astrattismo ! Quanta artificiosità ne' sin goli istituti, in quell'eforato, che ricorda Sparta, ma che 55 non è che il direttorio o potere esecutivo francese; in quella distinzione tra assemblee primarie ed assemblee elettorali espresse dal seno delle prime; in quell'istituto censorio, che arieggia la censura di Roma, ma che in uno Stato moderno e vasto è inconcepibile e vano ! Se guardate il Progetto di costituzione nel suo complesso la critica del giovane Cuoco vi appare pienamente giusti ficata e altamente vera. Essa non si limita ad appunti d'ordine pratico, ma risale pure ai princípi, e traccia, direi, l'abbozzo d'una nuova scienza costituzionale, che nel nome di Vico e di Machiavelli da un lato, di Monte squieu dall'altro, vuol essere positiva senza cadere nel l'empirismo. La sovranità del popolo si manifesta in due maniere: la legislazione e l'elezione. Negli Stati antichi, nelle città primitive, a base democratica, il popolo stesso era legi slatore: negli Stati moderni, che trascendono la greca Tól.is, la romana urbs, numerosi di popolazione, vasti di territorio, il popolo sovrano può legiferare solo per mezzo della rappresentanza. La costituzione del Pagano adotta il sistema rappresentativo, ma lo travisa, per mezzo di un'assurda divisione delle assemblee popolari in primarie, alle quali spetta il compito di eleggere un certo numero di cittadini, ai quali è deferito il compito supe riore della scelta del deputato, e in elettive, alle quali è assegnata la vera sovranità, la nomina del rappre sentante in seno al Consiglio. Così il prescelto è allonta nato, divenuto rappresentante della nazione napolitana e non del dipartimento che lo nomina, dal popolo, di cui dovrebbe sentire i bisogni e rendersene esponente. Il Pagano, in sostanza, non accetta l'elezione con man dato. Il Cuoco vuole invece che il deputato riceva dalle popolazioni memoriali veri e propri, utili avvertimenti, e che, durante l'esercizio della sua carica, viva a contatto con le sue masse elettorali, e non si perda ne' meandri d'una politica, che, per volere essere nazionale e generale, finisce per essere astratta e generica. Tutte le deficienze del sistema parlamentaristico, specie nelle degenerazioni de' nostri paesi, saltano al pensiero, nelle lungimiranti 56 notazioni del nostro autore. E dire che non era necessario che guardarsi attorno per rinvenire il sistema più adatto ai fini, che la Commissione legislativa o il Pagano per lei si proponeva ! « La nazione napolitana offre un me todo più semplice. Essa ha i suoi comizi, e son quei par lamenti che hanno tutte le nostre popolazioni; avanzi di antica sovranità, che la nostra nazione ha sempre difesi contro le usurpazioni dei baroni e del fisco. È per me un diletto (e qui il Cuoco pensatore diviene un pochino lirico ) ritrovarmi in taluni di questi parlamenti, e ve dervi un popolo intero riunito discutervi i suoi interessi, difendervi i suoi diritti, sceglier le persone cui debba affi dar le sue cose: così i pacifici abitanti delle montagne dell'Elvezia esercitano la loro sovranità; così il più grande, il popolo romano, sceglieva i suoi consoli e deci deva della sorte dell'universo » (1 ). Il sistema nostro na zionale è il più spontaneo, il più naturale, consacrato dalle glorie dei nostri comuni, enti che hanno avuto un giorno in una storia grande indipendenza e forza, ed hanno subìto un'evoluzione millenaria. La costituzione francese del 1795 ha distrutto tutto ciò. « I municipi non sono eletti dal popolo, e rendono conto delle loro operazioni al governo, cioè a colui che più facilmente può e che spesso vuole esser ingannato » (2 ). Ma il Cuoco si spiega tutto. La storia insegna molte cose. L'ac centramento in Francia è naturale: questa nazione non ha avuto mai l'esperimento dei comuni, una vera e propria municipalità, poi che questo paese ha trovato l'unità assai presto. In Italia la faccenda è assai diversa. In Italia il comune è stato un istituto spontaneo, espres sione della rinascente romanità contro il feudalismo fer rato, istituto che non è morto mai, e s'è sviluppato, perpetuato, anche allorquando da ente sovrano è dive nuto ente subordinato entro gruppi politici più vasti, come il principato o signoria e lo stato monarchico. Il Cuoco non dice tutto ciò, ma si intravede chiaramente (1 ) Framm. II, p. 223. (2 ) Framm. II, p. 224. 57 che questo è il suo pensiero. « Io perdono » scrive « ai fran cesi il loro sistema di municipalità: essi non ne aveano giammai avuto, nè ne conoscevano altro migliore: forse non era nè sicuro nè lodevole passar di un salto e senza veruna preparazione al sistema nostro. Ma quella stessa natura, che non soffre salti, non permette neanche che si retroceda; e, quando i nostri legislatori voglion dare a noi lo stesso sistema della Francia, non credi tu che la nostra nazione abbia diritto a dolersi di un'istituzione che la priva dei più antichi e più interessanti suoi di ritti ! » (1 ). Il sistema costituzionale, dunque, che ha alla sua base il comune, è il più naturale per noi, poi che l’ente comu nale è l'espressione prima di quei bisogni complessi che abbiamo detto essere la base imprescindibile di ordini durevoli. In poche parole, ecco tracciate le funzioni del comune, funzioni varie e molteplici, dirette ad assicu rare la più immediata soddisfazione de' bisogni elemen tari primordiali di una gente ! « Ciascuna popolazione dunque, convocata in parlamento (questo nome mi piace più di quello di assemblea: esso è antico, è nazionale, è nobile; il popolo l'intende e l'usa: quante ragioni per conservarlo !), eleggerà i suoi municipi. Essi avranno il potere esecutivo delle popolazioni, saranno i principali agenti del governo, e dovranno render conto della loro condotta al governo ed alla popolazione. La loro carica durerà un anno. Tu vedi bene che fino a questo punto altro non farei che rinnovare al popolo le antiche sue leggi » (2 ). Tutto trova la sua consacrazione nella storia italiana. Affermare il comune è il primo passo. Ad esso occorre attribuire tanto potere da assicurargli la possibi lità di vivere e di prosperare, vale a dire occorre dargli una vera e propria autonomia amministrativa. « La mia prima legge costituzionale sarebbe, che qualunque popo lazione della repubblica riunita in solenne parlamento possa prendere sui suoi bisogni particolari quelle determi (1 ) Framm. II, p. 224. (2 ) Framm. II, p. 225. 58 nazioni che crederà le migliori; e le sue determinazioni avran vigore di legge nel suo territorio, purché non siano contrarie alle leggi generali ed agl ' interessi delle altre popolazioni » (1 ). La legge è la volontà generale. Ogni individuo ha d'al tra parte una volontà particolare, che costituisce la sua legge e la sua libertà. Il sorgere dello Stato afferma la legge generale, ma il suo ingrandirsi moltiplica le vo lontà particolari, onde sempre cresce e s'acuisce un fa tale dissidio tra le due volontà, la generale e la partico lare, tra lo Stato e l'individuo, tra l'autorità e la libertà, tra la sovranità e l'autonomia, dissidio che in certe cir costanze anomali può portare al disfacimento dello Stato, tendendo l'uomo per natura ad affermare la sua indi pendenza, lo Stato la sua universalità autarchica. La legge, quindi, nella sua stessa génesi è destinata a cozzare contro l'individualismo umano, onde quanto più generalizza e si astrae tanto più divien tirannica. C'è il pericolo insomma che si venga a creare una discrepanza tra volontà pubblica e volontà privata. Il rimedio è solo nel decentramento. « Quanto più dunque le nazioni s ' ingrandiscono, quanto più si coltivano, tanto più gli oggetti della volontà ge nerale debbono esser ristretti, e più estesi quelli della volontà individuale. Ma, affinchè tante volontà partico lari non diventino del tutto singolari, e lo Stato non cada per questa via nella dissoluzione, facciamo che gli og getti siano presi in considerazione da coloro cui maggior mente e più da vicino interessano. Vi è maggior diffe renza tra una terra ed un'altra che tra un uomo ed un altro uomo nella stessa terra. Se la base della libertà è che ad ogni uomo non sia permesso di far ciò che nuoce ad un altro, perchè mai ciò non deve esser permesso ad una popolazione? Perchè mai, se una popolazione abbia bisogno di un ponte, di una strada, di un medico, e se tutto ciò richiegga una nuova contribuzione da' suoi (1 ) Framm. II, p. 227. 59 cittadini, ci sarà bisogno che ricorra all'assemblea legi 4 slativa, come prima ricorrer dovea alla Camera? Come si può sperare che quelle popolazioni, le quali erano im pazienti del giogo camerale, soffrano oggi il giogo di altri, i quali sotto nuovi nomi riuniscono l'antica ignoranza de' luoghi e delle cose, l'antica oscitanza?... » (1 ). È as sicurata così la forza dello Stato e la libertà dell'indi viduo. L'individuo si sente più libero, se per lui opera il comune, la sua espressione diretta, poi che il comune è a lui più vicino, è la immediata manifestazione della sua sovranità di cittadino. Si dirà al Cuoco: ma anche la legge, la volontà generale è tale in quanto è la risultante d'una convergenza di consensi e di volontà particolari; che anche lo Stato opera sul fondamento del diritto, e in questo senso è Stato di diritto, e nella forma del di ritto, in quanto ogni suo atto è manifestazione giuridica, cioè libero volere della collettività; ma tutto ciò non esclude e menoma la grande verità affermata dal mo lisano. La volontà generale che s ' esprime nello Stato è lontana dai sensi del cittadino, in quanto la sua realtà concreta è una formazione etica di volontà mediata, ond' essa è lontana dalla possibilità d'esaurire tutta la complessa natura della nazione; mentre la volontà che si estrinseca negli atti del comune, alla quale il Cuoco vuol dare carattere di legge, surge spontanea dalle più intime fibre dell'anima popolare, realizza bisogni vera mente profondi, parla infine ai sensi e alla fantasia, di quegli elementi de' popoli, che vichianamente possiamo considerare eterni fanciulli ed eterni primitivi. I risultati pratici di questo sistema sono incalcolabili. « Quante buone opere pubbliche noi avremmo, se più li bero si fosse lasciato l'esercizio delle loro volontà alle popolazioni » (2 ). Vi sono paesi per i quali, esemplifica l'autore, un porto, una rada è indispensabile, e che, in pochi anni, sotto la pressione di esigenze inderogabili, avendo sufficienti libertà, lo costruirebbero: ebbene, que (1 ) Framm. II, p. 229. (2 ) Framm. II, p. 230. 60 ste stesse popolazioni oggi, posto un freno all'iniziativa individuale, attendono dal governo quel che non viene. Si potrebbe obiettare: ma queste affermazioni sono le affermazioni d'un federalista ! No.... Il Cuoco stesso ha prevenuto la domanda, ed ha distinto tra autonomia e separazione, tra Stato su base decentrata e Stato fede rativo. L'autonomia non rinnega l'unità, anzi la conso lida, mentre la federazione per popoli schiettamente par ticolaristi e campanilisti, com'è l'italiano, è un primo passo verso la disgregazione. Tra il sistema accentratore alla francese, in cui gli organi periferici ricevono tutto dalla capitale, e il sistema federativo di Stati alla sviz zera, ove ogni gruppo gode di leggi sue proprie, ha un parlamento suo proprio, c'è lo Stato unitario su largo decentramento amministrativo, e a quest'ultimo sistema il nostro molisano si volge. « So gl’inconvenienti che seco porta la federazione; ma, siccome dall'altra parte essa ci dà infiniti vantaggi, così amerei trovar il modo di evitar quelli senza perdere questi. Vorrei conservare al più che fosse possibile l'attività individuale. Allora la repub blica sarà, quale esser deve, lo sviluppo di tutta l'attività nazionale verso il massimo bene della nazione, il quale altro non è che la somma dei beni dei privati. L'atti vità nazionale si sviluppa sopra tutt'i punti della terra. Se tu restringi tutto al governo, farai sì che un occhio solo, un sol braccio, da un sol punto debba fare ciò, che vedrebbero e farebbero mille occhi e mille braccia in mille punti diversi. Quest'occhio unico non vedrà bene, lento sarà il suo braccio; dovrà fidarsi di altri occhi e di altre braccia, che spesso non sapranno, che spesso non vorranno nè vedere nè agire: tutto sarà malversazione nel governo, tutto sarà languore nella nazione. Il go verno deve tutto vedere, tutto dirigere » (1 ). Nel sistema cuochiano l'attività privata è garantita. Il necessario conflitto tra la volontà generale e la volontà particolare si risolve con lo stabilimento d’una naturale delimita (1 ) Framm. II, p. 230 e sg. 61 zione di competenza. L'individuo e gli enti a lui più vicini agiscono in pieną indipendenza: allo Stato resta la funzione, che a lui è più propria ed è manifestazione vera della sua sovranità, la guida e il controllo supremo. Vincenzo Cuoco, come ognun vede, nelle sue ricerche di natura costituzionale è fisso ad una realtà storica che non può fallire, e cerca di stabilire un edifizio incrollabile. La natura opera in questo mondo umano e crea diversità, onde tutto ci si appalesa nella sua ineffabile particola rità, nel mondo fisico e nel mondo morale. I governi operano su questo mondo degli uomini, e la loro volontà è sempre generale. Le norme giuridiche attraverso cui s'esprime questa volontà dello Stato sono quindi fatal mente generali, hanno origine da un processo d'astrazione, riferendosi non al singolo, ma ai singoli in quanto formano una classe, una media, un tipo. Ai subietti per natura diversi di bisogni, di aspirazioni, di carattere sovrasta una norma unica uguale indistinta, e però entro certi limiti tirannica. È fatale, non può essere diversamente. Ciò non toglie che questo hiatus, che può divenire con trasto, tra la libertà dei singoli e l'autarchia sovrana dello Stato, cioè tra la volontà particolare e l'autorità suprema, debba, ed è doveroso, colmarsi. Ecco: lo Stato impone dei tributi, esprime la sua volontà in forma giu ridica, che non può non essere quindi generale; ma in tanto i prodotti di una nazione, dai quali debbono i tributi raccogliersi, sono diversi: una popolazione ha solo derrate, un'altra manifatture, una terza produce olio e deve realizzare la sua ricchezza in novembre, un'altra è dedita alla pastorizia e la ha realizzata in luglio, laddove un industriale ogni giorno produce, e così via.... « Ben duro esattore sarebbe colui che obbligasse tutti a pa gar nello stesso tempo, e nello stesso modo; e questa sua durezza che altro sarebbe se non ingiustizia? Al l'incontro tu non potresti giammai immaginare una legge, la quale abbia tante eccezioni, tante modificazioni, quanti sono gli abitatori della tua repubblica: non ti resta a far altro se non che imporre la somma dei tributi e farne la ripartizione sopra ciascuna popolazione, la 62 sciando in loro balìa la scelta del modo di soddisfarla; così la volontà generale della nazione determinerà l'im posizione, la particolare determinerà il modo: questa non potrebbe far bene il primo, quella non potrebbe far bene il secondo » (1 ). Tutto ciò è la necessaria conseguenza di un sistema mentale potentemente fuso e senza una con traddizione. È naturale che l'astrattismo alla francese si faccia sostenitore d’una unitarietà soffocatrice del par ticolare umano, poi che vede i princípi, che sono schema tici ed astratti, e non le cose, che rinserrano in loro l'ineffabilità dell'opera della natura, la quale non crea una foglia simile ad un'altra foglia. È naturale all'in contro che lo storicismo vichiano di Vincenzo Cuoco vo glia discendere alla realtà, e nella realtà dedurre e sag giare i princípi, così come l'oro si saggia dall'orefice esperto sulla pietra, e su questa realtà edificare il sistema. Per finire questo argomento, sul quale mi sono assai diffuso, perchè lo ritengo interessante, noto che il Cuoco va ancora più in là, concedendo una certa autonomia ai cantoni, un quid come i nostri circondari, ai dipar timenti o provincie. « La costituzione francese confonde municipalità con cantone: cosicchè ogni cantone potrà avere più popolazioni, ma non avrà mai più di una mu nicipalità. Io distinguo due parlamenti: uno municipale per ogni popolazione di un cantone; l'altro cantonale per tutte le diverse popolazioni che compongono un can tone medesimo » (2 ). Ma anzichè fermarci e analizzare la critica che il nostro fa alla divisione cantonale, qual'è p. 231. p. 236. (1 ) Framm. II, (2 ) Framm. II, La Costituzione del Pagano organizzava il territorio in di. ciassette dipartimenti, che sono enumerati al tit. I, art. 3 del Progetto. L'articolo 5 al quale si riferisce il Cuoco dice: « Ciascun dipartimento è diviso in cantoni, e ciascun cantone in comuni: i limiti de'cantoni possono ancora esser rettificati o cambiati dal Corpo legislativo, ma in guisa che la distanza di ogni co mune dal capoluogo del cantone non sia più di sei miglia ». Il titolo VII, art. 173, dice: « In ogni dipartimento vi ha una amministrazione centrale, e in ogni cantone almeno un'am ministrazione municipale ». 63 in Francia, vediamo com'egli crede debba essere orga nizzata l'amministrazione. « Sei tu ormai » scrive al Russo « persuaso della ragionevolezza dell'articolo, che io vorrei fondamentale nella costituzione nostra? Tu mi conce derai anche questo secondo: se due o tre popolazioni diverse avranno interessi comuni, potranno provvedervi allo stesso modo; ed, ogni qual volta le loro risoluzioni saranno uniformi, avranno forza di legge obbligatoria per tutte le popolazioni interessate » (1 ). Ecco quindi una comunità d'interesși, che genera co munità d'opera. Sono i bisogni che muovono gli uomini, la loro attività legislativa, la loro vita pubblica. Occorre salire dal basso in alto, cioè dal senso all ' intelletto, dal cittadino al governo, e non viceversa. Adopero una simi litudine, che al Cuoco certo piacerebbe. L'individuo è il senso, il governo l'intelletto dell'organismo sociale. L'intelletto che agisce senza l' esperimento del senso è l'astrazione. Lasciamo, dunque, all'intelletto la direzione, ma lasciamo al senso la avvertenza dei bisogni, che solo l'esperienza immediata può dare. Una delimitazione di competenze è la salute dello Stato. La visione netta e precisa del problema costituzionale, che ebbe Vincenzo Cuoco e che trascende ogni limite di tempo, poi che certe questioni anche oggi hanno il loro peso, ci si appalesa nella posizione che assegna al can tone. Vi sono bisogni, che pur non essendo generali, non sono più particolari, ma riflettono esigenze comuni a due o tre comuni: occorre che i comuni che formano il can tone li risolvano insieme. « Imperocchè, avendo ogni po polazione alcuni interessi particolari ad alcuni altri co muni, è giusto che talvolta prenda delle risoluzioni comuni e tal altra delle particolari » (2 ). Tuttavia il Cuoco non mi sembra che voglia attribuire al diparti mento quella larga autonomia che assegna al comune. Perchè? L’autore dei Frammenti non lo dice, ma chi ha penetrato il suo pensiero intende facilmente. Il comune (1 ) Framm. II, p. 235. (2 ) Framm. II, p. 236. 64 è una formazione naturale, consacrata dal tempo, ri spondente a bisogni concreti vigili e immediatamente primi della società. Il dipartimento è una figura ammini strativa, che può avere importanza entro i limiti d'una competenza ben precisa. Se al dipartimento si dà una forza che di natura non ha, si crea un piccolo Stato nello Stato, si perde la sua qualità di nesso d'unione tra il comune e il potere centrale (1 ). Come ognun vede si agitano qui questioni ancor oggi vive nella coscienza politica della nazione nostra, que stioni, che, dopo un sessantennio di convivenza unitaria, non hanno ancora avuto una loro pratica risoluzione e un impostamento concreto. È tipico ed interessante notare come tutti i progetti di riforma costituzionale ed amministrativa siano partiti dall'Italia meridionale, la quale è forse la più danneggiata dal rigido sistema cen tralizzatore, che noi attraverso il Piemonte abbiamo ereditato dalla Francia. Nel '60, occupando Garibaldi la Sicilia, alcuni patrioti, Crispi, Mordini, agitarono il pro blema, fra l'incomprensione delle masse e peggio del governo, che li tacciarono di separatismo (2 ). Il Cavour stesso, mente lucida e serena, non intese il problema, e non condivideva i vari progetti di governi regionali, che si presentavano da altri a lui vicini; ed era natura lissimo: egli conosceva più l'Inghilterra e la Francia che non l'Italia meridionale e centrale. Ma la natura si vendica degli uomini, e le crisi politiche hanno origine dalla questione sovra detta. Vincenzo Cuoco l'ha intuito (1) Questa è la ragione per cui l'autore (Framm. II, p. 236) scrive: « Ma le unionicantonali non debbono occuparsi di altro che delle elezioni che la legge loro commette: inutile, inco modo, pericoloso sarebbe incaricarle di oggetti che richiedes sero una riunione troppo frequente. I cantoni, seguendo questi principi, potrebbero essere un poco più grandi di quelli di Francia ». (2 ) M. Rosi, L'Italia Odierna, v. I, t. II, p. 988 e sgg.; M. Rosi, Il risorgimento italiano e l'azione di un patriotta co spiratore e soldato, Roma- Torino, Casa ed. nazionale, 1906, p. 228 e sgg. 65 troppo bene, per non comprenderne il valore. Ma, pur troppo, tra l'Italia settentrionale e l'Italia meridio nale c'è ancora un hiatus troppo vasto, perchè le stesse idee possano germinare nel cervello positivo de gli uomini del nord e nel cervello storicista degli uo mini del mezzogiorno. Notiamo: l'esperienza politica delle due parti d'Italia è troppo diversa, perchè la com prensione sia facile. Il comune nell'Italia settentrionale fu piuttosto sinonimo di particolarismo e di fazione, mentre nell'Italia meridionale seppe chiudersi in limiti più naturali d'amministrazione. E ciò era necessario per un'altra considerazione. Laddove nell'Italia alta si eb bero infiniti domíni, monarchie e repubbliche, varie suc cessive preponderanze straniere, l'Italia centrale e meri dionale, superato il dominio bizantino e il longobardico, che non s'estese del resto oltre Benevento che per un tempo brevissimo — s'assettò sotto i papi e sotto i Nor manni, e chi ricevette il dominio in eredità lo ricevette nella sua complessità, senza infrangerlo. Quindi, mentre nell'Italia del sud non si teme l'autonomia, perchè questa non può infrangere vincoli millenarî, nel nord si teme l'autonomia, perchè si teme la sua degenerazione, il fe deralismo, e con il federalismo, quella che si vuol chia mare la questione meridionale, che ai miopi della poli tica appare questione separatista, mentre è puramente amministrativa. Errore, che non esito a chiamare defi cienza d'educazione politica e di comprensione storica ! L'Italia ha raggiunto l'unità non per un caso furtuito, per l'opera di tre o quattro genî più o meno ispirati, ma per un processo graduale spontaneo secolare di compene trazione di pensiero e di interessi. La storia segue una trama eterna, e questa trama non s'infrange. Scombusso latela, violatela, provatevi a romperla, essa si rifà con i tro di voi, e si ricostituisce. L'Italia è fatta e non può disfarsi, poi che la sua unità è opera delle cose e non dei singoli individui. Nel suo seno vi sono i vincoli d'una unità ancor maggiore e non i germi della dissoluzione. E, se pure vi sono germi dissolvitori, saranno altri, ma non il comunalismo, nome, che se vuol significare fazione e campanile, è superato da un pezzo. Crisi vi furono, vi sono e vi saranno, ma furono sono e saranno crisi ammi nistrative politiche economiche, ma non mai nazionali. La storia, e non il genio di alcuni ispirati, ha fatto l'Ita lia, la storia la guida nel suo travaglio e la guida sicura, anche fra le crisi, di cui ho detto la natura, senza il bi sogno di uomini, fatali patres patriae, che ogni cinque minuti si arrogano il diritto di rafforzarla, d’epurarla, e, modestamente, di salvarla ! La critica, come ognun vede, alla costituzione del Pa. gano è addirittura radicale: troppo francese e troppo poco napoletana; per essere ottima men che buona, mediocre; come quella francese del '95 per sancire gli immortali princípi non discende alla vita positiva. I particolari dimostrano a sufficienza l'astrattismo della concezione. Il paese elegge 170 rappresentanti, i quali il Pagano di vide in due gruppi: 50 membri formano il Senato, 120 il Consiglio. Il Senato più austero e savio approva o re spinge ciò che il Consiglio ha proposto. Il critico però sempre fisso ad una realtà che non sfugge, l'elemento economico nella vita dei popoli, si domanda: a qual divisione d'interessi corrisponda questa divisione di Ca mere: « In Inghilterra ha una ragione, perchè gli uo mini non sono eguali; ha una ragione anche in Ame rica, poichè, sebbene gli americani avessero dichiarati tutti gli uomini eguali per diritto, pure – ed in ciò han pensato come gli antichi (1 ) non si sono lasciati illudere dalle loro dichiarazioni, ed han. veduto che ri mane tra gli uomini una perpetua disuguaglianza di fatto, la quale, se non deve influir nell'esecuzione della legge, influisce però irreparabilmente nella formazione della medesima. Gli americani han ricercata nelle ric chezze quella differenza che gl'inglesi ricercan nel grado. (1 ) E noi possiamoaggiungere come.... Cuoco stesso. Il Cuoco non è davvero per il suffragio universale, nè per una limita. zione plutocratica, come gli americani, o per una limitazione di classe come gli inglesi, ma per una limitazione di educa. zione politica, e lo proveremo appresso. 67 La costituzione francese ha adottato inutilmente lo sta bilimento americano » (1 ). In sostanza, non essendovi nes suna diversità di bisogni tra le due Camere, che rappre sentano la stessa borghesia che le esprime, essendo uguale nell'una e nell'altra la possibilità della corruzione, la distinzione non ha una ragione pratica. È un altro esempio della concretezza del pensiero politico del no stro scrittore. La nazione napoletana, mentre per il potere legisla tivo, offre, come abbiam detto una sua tradizione pae sana, alla quale il giurista può rifarsi, non offre pari menti una forma indigena di potere esecutivo potere è pure il più indocile e il più difficile ad organiz zare. Difficoltà questa più grave oggi, in cui le costitu zioni si creano a tavolino nel pieno oblìo degli uomini. « Forse non siamo stati mai tanto lontani dalla vera scienza della legislazione quanto lo siamo adesso, che crediamo di averne conosciuti i princípi più sublimi » (2 ). Non esiste una costituzione giusta, una costituzione ottima, esistono costituzioni che più o meno rispondono ai bisogni di un popolo. Un popolo rozzo avrà una costi tuzione rudimentale, la quale gli sarà più utile della costituzione del Pagano. Un popolo culto avrà una costi tuzione sublime, e sol questa potrà essergli utile. Perchè parlare quindi in via assoluta? È questo un vero e pro prio bisogno di ciò che tocca i sensi, il trionfo dello sto ricismo. La costituzione è di per sè una mera forma, che è vuota, se tu non le dài un contenuto di sensibilità umana, un contenuto essenzialmente storico, cioè dina mico. Portate il diritto a contatto con la vita, e la vita vi darà la direttiva, il metodo, i princípi (3 ). Voi andate (1 ) Framm. II, p. 237. (2 ) Framm. III, p. 241. (3) Nel Platone in Italia (a cura di F. Nicolini, Laterza, ed., 1916, v. I, p. 45) il Cuoco scrive: «.... In Taranto si disputa tutt' i giorni sulla miglior forma di governo; e taluno difende gli ordini popolari, altri si lagna che quelli, che si hanno, non sieno abbastanza oligarchici.... Tornate ai vostri affari -- ho detto io a molti di questi tali; 68 ricercando una norma, che delimiti il potere esecutivo dal potere legislativo, che ponga un freno all'arbitrio e tenga il governo entro la legge: è come cercare l'astratto ! Sono elementi questi di una costituzione che solo una pratica civile può darvi. Stabilite un principio desumen dolo dalla costituzione inglese, non è detto che possiate farlo valere da noi. L'Inghilterra ha fissato per prima questa divisione dei poteri, ed è stata in ciò scrupolosa; così la Francia, la Svizzera. « Ma questa divisione di forze dipende dalle circostanze politiche di una nazione; e bene spesso lo stato delle cose ed il corso degli avveni menti vincono la prudenza dell'uomo: cosicchè, volendo troppo dividere la forza armata, si corre rischio d’in debolirla soverchio, e sacrificare così alla libertà della co stituzione l'indipendenza della nazione » (1 ). È facile ve dere ciò in concreto. Ogni nazione ha bisogno della forza per la sua difesa, e questo bisogno è vario, secondo molte circostanze etnologiche, storiche, geografiche, ecc. In Inghilterra, per esempio, la Carta costituzionale è animata da un sentimento d’estrema diffidenza verso l'elemento militare, nel timore che questo si faccia stru mento del governo per opprimere le libertà, onde il so vrano stesso non può disporre della forza armata, ed è necessario un atto parlamentare ogni anno per mante nere un esercito. Questi princípi hanno origine nelle lotte tra monarchia e popolo, e trovarono la loro risolu zione pratica nella Dichiarazione dei diritti (anno 1689 ), nel definitivo abbattimento degli Stuart e nell'ascesa al fate in modo di star meglio nelle vostre famiglie, e starete anche meglio nelle città. Se voi vi volete occupar sempre degli affari pubblici, senza curar i vostri interessi privati, rassomi. glierete quei viaggiatori, i quali, per la curiosità di osservar gli edifizi pubblici nella città in cui arrivano, trascurano di tro varsi un albergo, e poi si dolgono che in quella città si alberga male. Se volete esser cittadini felici, diventate prima uomini virtuosi. « I vostri maggiori eran liberi perchè forti e virtuosi. » (1 ) Framm. III, p. 243. 69 trono degli Orange. Ma il problema così com'è stato risoluto in Inghilterra, non può essere risoluto altrove: il bisogno che Albione ha d'un esercito è minimo, poi che la natura stessa, il mare difende le sue coste dalle aggressioni straniere. Il potere esecutivo può perciò benissimo essere menomato nelle sue manifestazioni mi litaresche, mentre non potrebbe essere menomato, senza che la nazione venga indebolita, qualora dovesse ab bandonare la sua autorità sull'armata, sulla flotta, unico e grande presidio dell'isola. È possibile tutto ciò in Francia? Evidentemente no. A Napoli? Neppure. Da noi diminuire il potere esecutivo, togliendogli l'alta di rezione dell'esercito, significherebbe porre il paese in braccio allo straniero. D'altra parte quello stesso po tere esecutivo, che non ha energia sufficiente per difen dere le frontiere, ne avrà sempre tanta da opprimere un collegio elettorale, per fargli subire la sua volontà estrinseca. Gli antichi, nota il Cuoco, « invece d'indebolire i po teri,... li rendevano più energici, e così, essendo tutti egualmente energici, venivano a bilanciarsi a vicenda » (1 ). Oggi i legislatori invece mirano più alle apparenze, per seguono una delimitazione di forze e di competenze, che non ha ragione di essere, ed ignorano il vero equilibrio delle cose. La ripartizione delle forze consiste in un'ar monia di opinioni, è la risultante d’un lungo processo storico di educazione politica. « I costumi de' maggiori, il. rispetto per la religione, i pregiudizi istessi dei popoli servon talora a frenare i capricci dei più terribili despoti, anche quando al potere esecutivo sia riunito il legisla tivo.... » (2 ). È la natura che mette un limite all'arbi trio nella stessa educazione, nello stesso senso civile del popolo. Una nazione ha, in sostanza, il regime che si merita. A volte gli stessi tiranni sono fatali. Quando per soverchio amore di ordine, di regolarità una repub blica, poniamo, vuol togliere alle popolazioni usi, co (1 ) Framm. III, p. 244. (2 ) Framm. III, p. 244. 70 stumi, religione, per uniformarle ad una prassi desunta da princípi, il déspota può darsi che sia accolto come un liberatore. Il concretismo storico del Cuoco qui raggiunge le sue vette più alte. L'autore stesso dei Frammenti, dopo pochi anni, dovette a lungo meditare su queste stesse analisi, veggendo come i fatti avessero confermato le sue induzioni con l'avvento di Napoleone al duplice trono di Francia e d'Italia, tra il plauso delle popola zioni stanche di regolarismo repubblicano. « È pericoloso estendere soverchio l'impero delle stesse leggi, perchè allora esse rimangono senza difesa. Le leggi da per loro stesse son mute: la difesa la dovrebbe fare il popolo; ma il popolo non intende le leggi, e solo di fende le sue opinioni ed i costumi suoi. Questo è il peri colo che io temo, quando veggo costituzioni troppo filo sofiche, e perciò senza base, perchè troppo lontane dai sensi e dai costumi del popolo » (1 ). Il popolo ha sue esigenze d'ordine e di regolarità, in dipendentemente dall'ordine e dalla regolarità che gli si vuole imporre estrinsecamente, e da queste esigenze na scono spontanei contrappesi costituzionali, limiti al l'esercizio de' poteri. Vuoi che egli resti attaccato alla legge, e se ne faccia quasi il tutore? Devi sfruttare la sua natura, pure i pregiudizi. Vuole solennità? Dà alle leggi solennità quasi jeratica. La costituzione gli sem brerà cosa sacra, la rispetterà e la farà rispettare. L'uomo, però, è sopra tutto interessi, plasmato com'è da bisogni materiali. Su una base economica e materiale riposa in parte la sua natura. Dividete i poteri esterior mente, non avrete fatto nulla: il più forte invaderà il campo del più debole, ne nasceranno crisi, conflitti, pre dominii. Per frenare la forza non vi può essere che un solo mezzo: dividere gli interessi. Da una disarmonia d'interessi nasce l'armonia degli ordini civili, poi che ciascuno difenderà il proprio interesse e sarà impedito a (1 ) Framm. III, p. 246. 71 sua volta di violare l'interesse altrui. « Fate che il potere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutt'i poteri si ottenghino e si conservino nello stesso modo; talune magistrature perpe tue, talune elezioni a sorte, talune promozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo so stegno, perchè così tutti i possidenti, e coloro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi » (1 ). Questa la vera sapienza costitu zionale: il resto è pregiudizio ed empirismo. Si è pensato a diminuire la forza del governo, aumentando il numero delle persone a cui è affidato. Il numero impedisce, sì, l'usurpazione, ma porta seco la debolezza. I romani avevano il Senato, ma operavano per mezzo de' due consoli, o meglio per mezzo del dittatore. « L'unità im pedisce la debolezza, che porta seco la dissoluzione e la morte politica della nazione ». Quest'affermazione unitaria del Cuoco avrà, come dimostremo, grande im portanza per la successiva evoluzione del suo pensiero, e sarà la base della legittimazione politica dell'impero napoleonico. Un altro punto interessantissimo è questo. Le costitu zioni sono istituti sociali, umani, e però vivi di vita pro pria. Il giudizio sul loro valore è lento, graduale, si può avere solo dopo lungo tempo, sulla base degli effetti pro dotti e non in base a princípi di ragione. Occorre cono scere i popoli, e vedere se esse costituzioni rispondono alla loro vita, alla loro natura: solo il tempo può darci un giudizio definitivo. Quindi nessuno può dirci se la monar chia o la repubblica sia buona o cattiva. « Un re eredita rio», dice Mably, parlando della costituzione della Svezia, « quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione (1 ) Framm. III, p. 247. (2) Framm. III, p. 249. 72 di esserlo; ed io credo la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » (1 ). In piena rivoluzione il Cuoco afferma che non è detto che la repub blica estremista e radicale sia la panacea di tutti i mali, e che vi possano essere sistemi più rispondenti alla realtà nazionale, che garantiscono meglio l'unità del reggimento politico e la libertà stessa, senza cadere nella debolezza, che di solito interviene allorquando il potere supremo per essere nelle mani d'un direttorio di più persone nelle mani di nessuno. Già spuntano nell'autore dei Frammenti idee, che germineranno e che renderanno sempre più coerenti i suoi princípi, espressioni profonde di convincimenti sinceri e di meditazioni severe, non opportunismi servili, come ha voluto dimostrare qual che critico che del pensiero del grande molisano ha ca pito ben poco. Il popolo è quello che è, con le sue virtù e con i suoi vizi. Il legislatore non deve che osservare, e dar leggi conformi alle condizioni reali dei subietti, sfruttando vizi e virtù, tutto disimpegnando, tutto cercando d'ar monizzare positivamente. Nel Progetto del Pagano c'è un primo istituto, la censura, che rivive ed arieggia la censura latina; c' è un secondo ufficio, l'eforato, che ri corda un nome spartano anche nella sostanza, avendo il fine di tenere i poteri pubblici nel proprio cerchio, non partecipando ad alcuno di essi. Il Cuoco loda quest'ultima magistratura, ma non nasconde la grave verità: non vi può essere forza estrinseca, fuor dalle cose stesse, che mantenga l'equilibrio ! In quanto alla censura siamo sem pre allo stesso punto: molta nobiltà di sentimenti, poca concretezza. Come provare che un cittadino viva ari stocraticamente, agisca con alterigia, « sia prodigo, avaro, intemperante, imprudente...? ». Se la nazione è corrotta, se gli strati sociali sono corrosi, la censura non potrà fare nulla di nulla. « Libertà ! virtù ! ecco quale deve esser la meta di ogni legislatore; ecco ciò che forma tutta (1 ) Framm. III, p. 250. 73 la felicità dei popoli. Ma, come per giugnere alla libertà, così la natura ha segnata, per giugnere alla virtù, una via inalterabile: quella che noi vogliam seguire non è la via della natura » (1 ). La virtù, anch'essa, non è un assoluto, quindi non esiste un termine a cui ricondurre le norme della vita. Lo stesso entusiasmo per la virtù può produrre in un paese disgregamenti, e per essere troppo spartani o romani si può cessare d'essere napoletani o milanesi. La notazione è sottile e vera, in un tempo in cui ogni buon repubblicano era un Bruto, uno Scevola o che so io in quarantottesimo, pronto a recitare la sua parte tragica d'eroe e di tirannicida. « La virtù è una di quelle idee, » scrive il Cuoco, « non mai ben definite, che si presentano al nostro intelletto sotto vari aspetti; è un nome capace di infiniti significati. Vi è la virtù dell'uomo, quella delle nazioni, quella del cittadino: si può considerar la virtù per i suoi princípi, si può considerare per i suoi effetti » (2 ). Può darsi che esi sta un'assoluta virtù, ma questo concetto non può che riflettere la filosofia morale. Il legislatore deve mirare a ben altro fine che ad una virtù superumana sublime, deve mirare a stabilizzare un costume « che non renda infelice il cittadino », deve cioè trovare quell'armonica delimitazione tra libertà e libertà, tra volontà partico lare e volontà particolare, che sola può rendere pacifica l'umana convivenza. « Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddi sfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze » (3 ). Il nostro autore è un politico. A lui non in teressa l'universale etico, che riconosce e legittima nella sua sfera ideale ed eterna; a lui interessa la morale po sitiva, che altro non è che la conformità del costume del (1 ) Framm. VI, p. 261. La critica cuochiana coincide affatto con quella che un valente costituzionalista moderno ha fatto dei due istituti del Pagano, l'eforato e la censura: vedi L. PALMA, op. cit., p. 442 e sgg. (2 ) Framm. VI, p. 261. (3 ) Framm. VI, p. 262. 74 singolo cittadino col costume della nazione (1 ). Il diritto ci appare, quindi, come un minimo etico, che assicura una certa non esagerata regolarità ed uniformità di vivere civile. D'altra parte il Cuoco riconosce che, se il diritto deve limitarsi ad osservare dati di fatto e a porre norme alla convivenza, stabilendo una pura e semplice hominis (1) Il concetto che una costituzione politica può assicurare la felicità umana solo in quanto ha un fondamento sulla virtù politica; e, questa alla sua volta rafferma, appare assai fre quente nel Platone in Italia. Arehita (v: I, p. 87) dice: « Ciò, che veramente è necessario in una città; è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessari egualmente la scienza e la subordinazione... -- Non perdete la stima del popolo, diceva Pittagora, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica se. verissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sem. brano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si · tratta d'istruirlo, tutt' i diritti sono suoi: tutt' i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe.... Tutte quelle dottrine destinate a pro durre riforme popolari hanno bisogno di collegi, d'iniziazione, di segreto. Tutt' i popoli hanno avuto di simili collegi. Sono i primi passi che ogni popolo fa verso migliori ordini civili. I vo. stri misteri di Eleusi e quelli di Samotracia hanno la stessa origine: ma nè sul principio sonosi occupati de' nostri oggetti, perchè nati in età più barbara; nè oggi possono esser più utili, perchè resi troppo comuni. Come pretendete che gl'iniziati emen dino il costume di Atene, se voi ateniesi siete tutti iniziati?... ). « Non son questi, o Archita ), disse allora Platone, « i soli mali che jo temo per tali collegi. Essi talora possono separarsi dal resto degli uomini, e perdersi o dietro astruse inutili contemplazioni, o dietro l'ozio e gli agi che il rispetto del popolo loro dona. Questo male io temo ogni volta che si separano le instituzioni morali dalle civili. Del resto la morale di Pittagora è nell'in trinseca natura dell'uomo. Essa rinascerà, non ne dubito, sotto altri nomi ed in altre terre. Rinascerà, quando la corruzione dei costumi e degli ordini civili e la miseria generale avrà ridotti gli animi all'estremo de' mali. L'estrema corruzione nei costumi de' popoli produrrà l ' estrema austerità ne' precetti de' pochi saggi che allora vi saranno; l'estremo de' mali produrrà l'estre. mo del coraggio, della temperanza, della virtù, e risorgeranno sotto altri nomi la sapienza ed i collegi di Pittagora. Possan non separarsi mai dalle leggi e dalla società ! Possano non riunirsi mai con - vincoli troppo tenaci !... ». 75 ad hominem proportio, la politica deve andare più in là, assicurare una felicità presente, dalla quale sola può scaturire la virtù, ed inoltre aiutare lo sviluppo della felicità, creare la felicità futura e di conseguenza la virtù futura. La sferà del politico, pur non attingendo il sü blime vertice dell'indagine etica che non può vigere che nel mondo teoretico, la sfera del politico, sfera del tutto pratica, anzi economica, trascende, com'ognun vede, la pura determinazione giuridica: La vita umana è una ë complessa nello stesso tempo, perchè uno e complesso è lo spirito: La felicità politica, e quindi la virtù pub blica, ci appaiono come una formazione vastissima, ri: sultando da elementi molteplici, d'indole spirituale, reli giosa, materiale. Un elemento però è sovra gli altri im portante, l'economico, pur che lo si sappia intendere in sepso lato. « Il fine della virtù è la felicità » (1 ). Per un politico l'affermazione non suona male, specie dopo the egli stesso ha ammesso la possibilità d'un'altra ricerca superiore, i cui termini sono di natura teoretica, che po trà influire sulla ricerca positiva, essendovi innegabili vincoli di reciprocanza, ma che non si connatura con questå. « La felicità è la soddisfazione dei bisogni ossia l'equilibrio tra i desideri e le forze ». Sottentra l'elemento economico. « Ma, siccome queste due quantità sono sem pre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio oscemando i desideri o accrescendo le forze » (2 ). Il selvaggio cura poco il suo simile: la sua economia è, entro certi limiti, economia individuale iso lata, L'uomo civile non può prescindere dal resto del mondo: la sua economia è solo per astrazione individuale, concretamente è economia collettiva sociale. I bisogni di quest'uomo sono bisogni dinamici e progressivi. Il con cetto della società ha implicito il concetto della progres sività, poi che è impossibile pensare una società umana statica, senza condannarla ad una prossima morte. I bi sogni umani sono in continuo sviluppo: il lusso, quel che (1 ) Framm. VI, p. 262. (2 ) Framm. VI, p. 262, 76 chiamiamo lusso, è la manifestazione di bisogni nuovi, null’affatto superflui, poi che sono la cagione d'ogni umano progresso. Sorgono nuovi bisogni, ma con essi nasce spesso un disquilibrio, l'infelicità, poi che non sempre le forze bastano a produrre i beni necessari per soddisfare i nuovi bisogni. Che vale predicare gli antichi precetti di moderatezza, fulminare le nuove esigenze so ciali, la ricchezza? La storia corre incessantemente il suo corso ideale. Nuove età: nuovi bisogni: disquilibrio di forze produttive: poi, di nuovo, equilibrio per una reintegrata armonia tra forze economiche e bisogni: infine ancora un secondo disquilibrio per esigenze sottentrate nell'ambiente, e così in eterno. La dinamica economica è un avvicendarsi continuo d'equilibri successivi, d'equi libri turbati che si compongono in un nuovo punto. L'intuizione cuochiana è lucida ed anticipa di molto alcune vedute economiche moderne. Il fine della politica è assicurare quest'equilibrio tra forze e bisogni, tra forze e desideri, come dice il Cuoco. « Se tu ci insegnerai», scrive « la maniera di soddisfare i nostri bisogni, se farai crescer le nostre forze, c' ispirerai l'amore del lavoro, schiuderai i tesori che un suolo fertile chiude nel suo seno, ci esenterai dai vettigali che oggi paghiamo per le inutili bagattelle dello straniero, ci renderai grandi e felici: e, senza esser nè spartani nè romani, potremo pure esser virtuosi al pari di loro, perchè al pari di loro avremo le forze eguali ai desidèri nostri » (1 ). Le ricerche del Cuoco sono le ricerche dell'uomo politico. Il molisano è troppo superiore per credere che la sua analisi esaurisca ogni altro problema: egli stesso dice al Russo: « Ti dirò un'altra volta le mie idee sullo studio della morale, sulle cagioni per le quali è stato tanto trascurato presso di noi, sulle cagioni delle contraddizioni che ancora vi sono tra precetti e precetti, tra i libri e gli uomini; e forse allora converrai meco che di questa scienza, che tanto interessa l'umanità, non ancora si conoscono quei prin (1 ) Framm. VI, p. 262 77 cípi che potrebbero renderla utile e vera » (1 ). A me sembra di vedere una netta distinzione tra filosofia e politica, tra etica e pedagogia generale: quel che in una sfera ha un suo profondo valore è insufficiente nell'altra. « L'amor del lavoro mi pare che debba essere l'unico fondamento di quella virtù, che sola può avere il secol nostro. La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono;,e ne verrà à capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene » (2). Il governo deve dare un vero e proprio impulso alla produzione: le forze giovani anzi che dirigersi agli impieghi pubblici debbono svilup parsi altrove, alle industrie, ai commerci, e sovra tutto alla campagna. « Il lavoro ci darà le arti che ci mancano, ci renderà indipendenti da quelle nazioni dalle quali oggi dipendiamo; e così, accrescendo l'uso delle cose nostre, ne accrescerà anche la stima, e colla stima delle cose nostre si risveglierà l'amor della nostra patria » (3 ). È una vera pedagogia politica in cui i princípi vivono al contatto con la realtà, in un sano relativismo, che, non scendendo alla bassezza dell’empirismo, respinge da se ogni astruseria. Oggi specialmente, in cui la filosofia po litica è di moda e si riconduce pure la pratica più volgare agli eterni princípi; questo nobile realismo ideale, sia permessa la parola, dovrebbe insegnarci più d'una cosa. La rivoluzione pretende di rinnegare la storia, s'af ferma come antistorica; ma di fronte ad essa, per un processo, che non è solo di reazione, ma di sviluppo - da Vico a Cuoco è lo stesso genio italico lo storicismo rinasce, critica della stessa rivoluzione e entro certi limiti sua rivalutazione. Il Cuoco non rinnega la rivoluzione, anzi mostra di conoscerne i benefíci, che poi enumererà con lucida visione nel Saggio e soprattutto ne' suoi articoli (1 ) Framm. VI, p. 261. (2 ) Framm. VI, p. 263. (3 ) Framm. VI, p. 263. 78 milanesi. Ma l'astrattismo in materia legislativa è dele terio, ed occorre superarlo, riconducendo il diritto alla vita. Sentimento profondo, che il nostro non tradirà mai, e sarà sempre alla cima del suo pensiero nel lungo corso, che noi ci sforzeremo di seguire. La critica del progetto di Pagano ci appare, quindi, come la manifesta zione d'un sistema, che nel molisano è organico ed in tero, non l'opposizione piccina d'un antirepubblicano. Nè Vincenzo Cuoco si smentì mai. Le notazioni che egli volge alla costituzione partenopea, rivolgerà più tardi nel Saggio alla costituzione francese, che a lui sembra troppo poco adeguata ai bisogni del popolo. « Chi para gona la Dichiarazione de ' diritti dell ' uomo fatta in America a quella fatta in Francia, troverà che la prima parla ai sensi, la seconda vuol parlare alla ragione: la francese è la formula algebraica dell'americana » (1 ). Ma quanto queste idee fossero in lui radicate e profonde, possiamo ancora meglio dimostrare. Nel Giornale italiano, ricevuto l'annunzio che la patria di Alcinoo e di Ulisse ha riacqui stato l'indipendenza, costituendo la così detta Repub blica settinsulare, scrive alcune sue opinioni che è op portuno rivedere. « È difficilissimo giudicar di una costi tuzione. La migliore non è sempre quella che per astratti argomenti si dimostra ottima, ma bensì quella che è più uniforme al costume de' popoli: a quel costume che esi ste sempre prima della costituzione; e, se è simile, la rende vicina e durevole; se diverso, la indebolisce e la distrugge.... ». Qual'è dunque il principio che solo può sanzionare la bontà d'una costituzione? Noi lo sappiamo: il tempo, il quale ci confermerà se essa risponde a bisogni concreti; la storia, la quale ci dirà se essa si riconnette allo sviluppo della nazione, sviluppo o corso, al quale occorre necessariamente rifarsi, come ad incrollabile base, poi che il processo della vita non soffre soluzioni di con (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. 79 tinuità. « La storia de' tempi passati », ci ammonisce il Cuoco, è la norma di quelli che ancora debbono ve nire » (1 ). (1 ) L'articolo è intitolato La costituzione della repubblica set tinsulare; Giornale italiano, 1804, 15 febbraio, n. 20, pp. 78-79. Nelle pagine seguenti del mio lavoro avrò frequente bisogno di rifarmi al Giorn. ital., in cui c'è il meglio dell'ingegno po litico del Cuoco, e citerò largamente disul testo. Siccome, peraltro, molti dei più significativi articoli del foglio milanese sono stati ristampati in appendice alle opere critiche del Ro MANO e del Cogo, se è del caso, darò tra parentesi, dopo le indicazioni dirette del Giorn. ital., le indicazioni delle ristampe. Altri cinque articoli cuochiani sono stati ripubblicati da G. Gen tile insieme col Rapporto al re Murat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubbl. Istruzione nel Regno di Napoli col titolo di Scritti pedagogici inediti o rari (Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909). Allorquando poi il mio lavoro era già compiuto sono usciti alla luce due altri volumi contenenti quanto di V. Cuoco rimaneva disperso: Scritti vari a cura di N. CORTESE E di F. NICOLINI, Bari, Laterza ed., 1924. Forse sarebbe stata op portuna una ristampa di tutti gli scritti del Giorn. ital., ma gli egregi editori non hanno creduto di farla, limitandosi a ripro durre per intero ben ventisette articoli, e sono i maggiori, e a dare, a mo' di appendice, un catalogo ragionato degli altri ri. masti fuori. S'intende che io ho rivisto le mie citazioni sull'edi. zione laterziana, che, dal punto di vista della correttezza, offre i maggiori affidamenti.  Il « Saggio storico sulla rivoluzione napoletana ». Il Saggio storico mostra in atto il sistema negativo ab bozzato nei Frammenti. – Lo storico e l'artista. – La. Rivoluzione francese è attiva, quella napoletana pas siva. L'astrattismo. - La corte e il governo. – I re pubblicani e il popolo. - L'arte del Saggio. I Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo ideal mente vanno innanzi al Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, sebbene tipograficamente in tutte le edizioni cuochiane seguano, quasi a mo' d'appendice, questo. Essi sono una vera e propria formulazione di princípi filosofici giuridici economici, che Vincenzo Cuoco desume da un'esperienza storica e politica insieme, antica e mo derna nello stesso tempo. Larghi sono i raffronti tra le costituzioni classiche e le odierne, tra costituzione odierna e costituzione odierna, e la critica si svolge tra compara zioni ed appunti acutissimi. È l'opera di una eccellente testa politica, che ha legittime pretese di teorizzatore e di sistematico. V'è un ordine logico ferreo, una disciplina storica, una consequenzialità impressionante. Avremmo desiderato che questo sistema in abbozzo il Cuoco stesso avesse sviluppato, ma noi posteri, ammirando la sua eletta figura, non possiamo domandargli più di quanto ci ha dato, se non nel dolore di vedere quanta parte del suo genio sia andata dispersa nell'esilio, nella po vertà e infine nelle malattie. È il libro d’un pensatore 81 che ad una astratta ideologia oppone il suo paesano realismo storico. Vincenzo Cuoco assiste allo svolgersi degli avvenimenti, giudice imparziale, ma non per que sto inattivo e mutolo, e vede la storia rinnegare i suoi ideali, l'errore trionfare e fatalmente sommergere l'edi fizio repubblicano. La vita segue una via che è fatale che segua. L'errore trae l'errore, l'estremismo l'estremi smo. L'astruseria rivoluzionaria forza le cose, e la storia sembra calpestare lo storicismo, i princípi, che la specu lazione ha desunto e desume dall'osservazione del suo eterno corso. La storia sembra seguire uno spiegamento, che non è quello che il passato legittima. Vedremo, invece, come, superato il vortice, sia la storia stessa che illumina le verità cuochiane: sarà il periodo del Giornale italiano, il periodo napoleonico dell'impero. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si cangiano, tutt'i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboliscono e si estin guono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà. Nec totam liber tatem, nec totam servitutem pati possumus, disse Tacito del popolo romano: a me pare, che si possa dire di tutti i popoli della terra. Or che altro aveva fatto Robespierre spingendo all'estremo il senso della libertà, se non che accelerarne il cambiamento? » (1 ). « Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il po polo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel mezzo » (2 ). Tale è la vita: dalla sua stessa negazione scaturisce un'afferma zione. La rivoluzione rinnega la storia, e la storia prende la sua rivincita sulla rivoluzione. La rivoluzione afferma il diritto alla sommossa: Robespierre, figlio della rivolu zione, lo nega ghigliottinando; il popolo stanco lo afferma sul capo di Robespierre. La cos za storica stess sem bra distrutta da tutta una tragica serie di fatti, ispi rati alla più astrusa ideologia: la realtà annichilisce i repubblicani e li conduce alla perdizione; l'equilibrio si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p.- 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico] ristabilisce, si riconferma ciò ch'era stato negato. Onde ben scrive, a mio avviso, il De Ruggiero, affermando che l'esperienza rivoluzionaria dà un nuovo significato alla negazione, in quanto questa è la crisi feconda di un rin novamento della vita storica. La crisi, in sostanza, non può non apparire che come una critica degli avveni menti passati e delle istituzioni da essi nate, che non giudica arbitrariamente, sovrapponendo una verità a priori, ma svolge dagli errori stessi un latente spirito di verità (1 ). Questa, infine, la ragione dell'ottimismo rela tivo del Cuoco. L'esperienza politica del Machiavelli do veva necessariamente finire, data la sua natura, le sue premesse, i suoi fini, nel pessimismo o nell'amarezza. L'esperienza del nostro, certo più tragica, più dolorosa, più densa di dolore, che non quella del segretario fioren tino, sfocia, ed è naturale, in un equilibrio, che è quanto dire in un bene relativo, in Napoleone. Tra l'astrattismo e Napoleone c'è la rivoluzione, la prassi sanguinosa, il rinnegamento del passato, la critica assoluta delle isti tuzioni millenarie, l'apriorismo giuridico, la democratiz zazione, universale, l'esaltazione dei princípi. La storia procede con continuità mirabile, ma nella sua stessa continuità c'è un processo di tesi antitesi ed un supera mento implicito, c'è infine la vera dinamica dello spi rito, dell'idea, che muove gli uomini e le nazioni. La rivoluzione e Bonaparte sono due aspetti della stessa realtà: « il passato, negato violentemente, si riaffaccia alla vita nell'atto stesso della negazione » (2 ). La critica dell’astrattismo razionalistico, che ne' Frammenti abbia mo osservato e colta nella teoria, nel Saggio è mostrata e, direi, vista in atto, nello stesso spiegarsi della storia. È la storia stessa, che, nell'indicare la fatalità del pro cesso storico determinato dai princípi e dalla prassi re pubblicana, giudica d’un metodo e d’una mentalità. La storia sembra dire: queste norme hanno portato a tale orribile scioglimento, giudica tu, lettore, della loro bontà ! (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 167. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 168. 83 In ciò è riposto quel carattere di sana sapienza, quel l'obiettività del Saggio, per cui Luigi Settembrini ben potea paragonarlo ad una tragedia greca (1). Ed il raf fronto non è davvero stiracchiato. La Provvidenza vi chiana vi tiene il posto dell'antico Fato nell'urto degli eventi, e gli uomini stessi, che hanno determinato la ! catastrofe con i loro errori, con le loro incongruenze, sog giacciono ad un destino, che sembra irrevocabile. Sono essi, gli uomini, che determinano lo scioglimento, o sono poveri burattini nelle mani d'un ignoto motore? Ma la storia è reciprocanza e v'è perfetta conversione tra causa ed effetto: gli uomini, che fanno la storia, soggiacciono ad essa. Il Cuoco parla spesso di un vortice (2 ), in cui egli stesso fu tratto, e da cui potè districarsi a mala pena, dopo aver perduto i beni e la patria, vortice che egli non ammirava, se pure non odiava, come vuole il Tria, ma che distrusse sul palco ferale tante nobili esistenze, parla insomma di un vortice, che non è altro che la rivoluzione. Che cosa è mai? È superiore alla volontà degli uomini?: No, esso è fatto dagli uomini nel loro delirio, nel loro ! errore, e gli uomini possono averne sicura conoscenza, poi che essi ne sono i fattori, ma averne conoscenza, si gnifica in un certo senso superamento e distacco da esso. Nei Frammenti era la teoria, la metodologia. Il Saggio storico è la vita in atto, la tragedia greca in isviluppo, le passioni colte nel loro urto. Questa è la ragione per cui esso è un'opera d'arte, una grande opera d'arte. Lo spi rito dello scrittore rifà il processo della storia, segue il corso delle idee, e lo fa con tale intensa visione da ri crearcelo in un miracolo di luci, di chiaroscuri, di sfu I mature. V'è l'anima insomma, laddove prima era il pensiero; la fantasia, laddove prima era l'intelletto, la fantasia che s'esprime per immagini e tutto risolve nella immagine. L'opera d'arte è attinta in un processo d'obiet (1 ) L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Morano ed., 1882, v. III, p. 282. (2 ) V. Cuoco," Saggio storico, Lettera dell'autore a N. Q., p. 11: I, p. 16; VIII, p. 47; XV, p. 84, 84 tivazione, che non esito a dire perfetto, onde non v'è affatto, o assai raramente, quel contrasto ibrido tra l'ar tista che intuisce e lo storico che analizza quale può rin venirsi in molte opere di simile genere, poi che tutto è compenetrato e fuso, attraverso una lunga maturazione, che dovette certo essere prima consapevolezza di pen siero, meditazione di cause e di effetti, e poi immedia tezza nervosa e rapida d'espressione (1 ). Invano tu cercherai nel Saggio un elemento estrinseco all'artista e allo storico. Lo storico si fonde con l'artista, ma lo stesso storico è perfetto. L'uomo pratico non con turba l'artista, che supera nella visione l'enunciato fine utilitario della sua narrazione; il partigiano non con turba lo storico. Leggete invece il Rapporto al cittadino Carnot del vesuviano Francesco Lomonaco. Quante escla mazioni, quanti interrogativi, quante tirate oratorie, quanti pistolotti repubblicani, quanto anticlericalume, quanta montatura ! V? è l'uomo delle nobili passioni, ma v'è pure l'uomo pratico, che per raggiungere un suo fine, non esita di caricar di tinte fosche la storia, non esita un momento per indossare la toga dell'avvocato. Infatti chi può negare la presenza d'una passionalità che di strugge la storia, d'una coscienza turbata ed oscura, che è la negazione d'ogni vera espressione artistica? (2 ). Nel Cuoco nulla di tutto ciò. (1 ) La questione della cronologia del Saggio a me sembra oramai risoluta. Fausto Nicolini, in una sua nota all’ed. barese del Saggio, p. 357 e sgg., la riassume e ne trae le migliori conseguenze. Perciò non ho che da rinviare il lettore a quanto il Nicolini ha egregiamente scritto. Del Saggio poi possediamo numerose edizioni, di cui alcune buone, molte mediocri scorrette ristampe, nonchè traduzioni straniere: vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 173; e la nota del Nicolini all’ed. laterziana. (2 ) Ogni possibile raffronto tra il Cuoco e il Lomonaco è assolutamente impari. Già lo osservò il Gentile ne' suoi Studi vichiani, p. 361, nota, là dove critica un giudizio di G. Na. tali, che nella sua monografia La vita e il pensiero di Francesco Lomonaco, Napoli, Sangiovanni, non esita a chiamare il suo scrittore predecessore in molte idee di Vincenzo. Scrive il Gen tile: « Tra le superficialità del Lomonaco e le vedute profonde 85 Chi si accinge a studiare il pensiero cuochiano, i mo menti ideali dello spirito del grande molisano, non può non rifarsi ad un avvenimento, che per lui, come per noi, è la fonte, donde scaturirono tutti i successivi avveni menti, la rivoluzione francese, di cui la rivoluzione parte nopea non è che un tardo episodio. Il Cuoco, che studia più le idee che i fatti, le idee che sono degli uomini, le idee che muovono gli uomini, lega la storia napoletana alla francese, e di questa ci dà un quadro ricco e vasto. « Le grandi rivoluzioni politiche occupano nella storia dell'uomo: quel luogo istesso che tengono i fenomeni straordinari nella storia della natura » (1 ). Le rivolu zioni-sono come le malattie nel corpo umano, i periodi sismici nel mondo geologico. Le generazioni si succedono incolori uguali, finchè « un avvenimento straordinario sembra dar loro una nuova vita ». Le rivoluzioni sono un'misto di bene e di male, gravi di effetti buoni o cat tivi, come le crisi di crescenza nel corpo d’un fanciullo. « In mezzo a quel disordine generale, che sembra voler distruggere una nazione, si scoprono il suo carattere, i suoi costumi e le leggi di quell'ordine, del quale prima si vedevano solamente gli effetti » (2 ). Le rivoluzioni sono esperienze politiche, dalle quali non si può prescindere, perchè sono nell'ordine stesso della natura. Esse rinnegano a parole il passato, di fatto poi lo riconfermano, e nella negazione della storia il filosofo ritrova lo sviluppo fatale della storia. Guardiamo la rivoluzione di Francia, a la più gran rivoluzione dicui ci parli la storia » (3 ). Essa scoppia improvvisamente, rinnegatrice di tutto un passato: una analisi immediata ci dirà che lo stesso passato l'ha pre parata, e allo stesso passato essa si ricongiunge, onde è stato possibile a molti il prevederla. Gli uomini sono cie del Cuoco c'è tale abisso, che non è lecito raccostare i due nomi, se non per illustrare l'ambiente in cui si muoveva lo spi rito del Cuoco, o per far meglio vedere la sua superiorità ». (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, I. p. 15. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, I, p. 15. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 17, 86 chi, ma la storia, fatta dagli uomini, non è cieca, ed ha una sua logica, nella cui grandezza noi siamo come dispersi. Gli uomini sono ciechi e sono inclini a scambiare il processo della loro mente con il processo della storia, e, peggio, a credere i suoi sviluppi mero sviluppo d'un pen siero loro individuale. Il filosofismo francese ha preceduto la rivoluzione: ciò non significa che esso abbia generato la rivoluzione. La storia non s'esaurisce nella filosofia, come non s'esaurisce nell'economia: la storia è d'una complessità mirabile. « I francesi illusero loro stessi sulla natura della loro rivoluzione, e credettero effetto della filosofia quello che era effetto delle circostanze politiche nelle quali trovavasi la loro nazione » (1 ). Ma la filosofia non compie simili miracoli, non sovverte un mondo, tutt'al più aiuta gli uomini ad insistere ne' loro errori di metodo. Così accadde in Francia. Il Cuoco con ciò non nega l'alta importanza umana della filosofia, vuol semplicemente delimitare la sfera di ogni attività e ad ognuna assegnare il posto che le com pete; anzi egli stesso ritiene che in ogni operazione umana debba richiedersi la forza e l'idea, e nelle rivoluzioni, come è necessario il popolo, sono necessari i filosofi, i conduttori, « i quali presentino al popolo quelle idee, che egli talora travede quasi per istinto, che molte volte segue con entusiasmo, ma che di rado sa da sè stesso formarsi » (2 ). Il compito dei filosofi è chiarificato: essi debbono trarre i princípi della storia e della politica, non dal loro cervello ed assumerli come postulati inderoga bili, ma dalla vita del popolo, dalla natura eterna del l'uomo, che non è solo intelletto, ma vichiamente anche senso e fantasia. Credere un avvenimento gigantesco, come la rivoluzione francese, frutto soltanto del pensiero filosofico è uno sminuirlo in una visione ristretta e par ticolaristica. La vita non è solo attività teoretica, è me diatamente anche attività pratica, politica ed economica. Pur tenendo di vista il sorgere e l'imporsi delle idee, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 82. 87 occorre investigare i bisogni e lo stato dei popoli per ve dere quanto essi siano stati i propulsori d’un moto, che è determinato, ma non cieco, anche nelle sue più crudeli manifestazioni. La rivoluzione francese non si può in tendere, se non s'intende tutta la storia che la precede. La Francia monarchica, la gloriosa potente monarchia accentratrice era un paese di abusi: « la rivoluzione non aspettava che una causa occasionale per iscoppiare » (1). Il Cuoco analizza tutto ciò, e l'analisi breve serrata ner vosa, che egli fa, è, senza dubbio la cosa migliore, che si possa scrivere sul turbolento periodo: gli stessi storici francesi non ebbero mai nessuna di quelle lucide intui zioni che fanno grande il molisano. « Tra tanti » si doman da « che hanno scritta la storia della rivoluzione francese, è credibile che niuno ci abbia esposte le cagioni di tale avvenimento, ricercandole, non già ne'fatti degli uomini, i quali possono.modificare solo le apparenze, ma nel corso eterno delle cose istesse, in quel corso che solo ne determina la natura? » (2 ). Nessuno, rispondiamo, perchè è fatale negli uomini vedere solo alcuni individui di genio e trascurare le masse e le cose; credere un moto preparato dai secoli un fenomeno sporadico senza stretti legami con l'antico; una rivoluzione, opera d'un intero popolo, com presso a lungo dall'ineguaglianza, la manifestazione di pochi genî o d'un partito. Il Cuoco, ho detto, ci dà una disamina dei precedenti della grande rivoluzione, che sfida i tempi nella sua tacitiana concisione. Val la pena di riferirla: non si può estrarre il succo da ciò, che di per sè è tanto concentrato, che togliere una parola val quanto distruggere una meditazione. « La leggenda delle mosse popolari, degli eccidi, delle ruine, delle varie opinioni, de' vari partiti, forma la storia di tutte le rivoluzioni, e non già di quella di Fran cia, perchè nulla ci dice di quello per cui la rivoluzione di Francia differisce da tutte le altre. Nessuno ci ha de scritto, una monarchia assoluta, creata da Richelieu e (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 37. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38, 88 riforzata da Luigi XIV in un momento; una monarchia surta, al pari di tutte le altre d'Europa, dall'anarchia feudale, senza però averla distrutta, talchè, mentre tutti gli altri sovrani si erano elevati proteggendo i popoli contro i baroni, quello di Francia avea nel tempo stesso nemici ed i feudatari, ivi più potenti che altrove, ed il popolo ancora oppresso; le tante diverse costituzioni che ogni provincia avea; la guerra sorda ma continua tra i diversi ceti del regno; una nobiltà singolare, la quale, senza esser meno oppressiva di quella delle altre nazioni, era più numerosa, ed a cui apparteneva chiunque vo leva, talchè ogni uomo, appena che fosse ricco, diven tava nobile, ed il popolo perdea così financo la ricchezza; un clero, che si credeva essere indipendente dal papa e che non credeva dipendere dal re, onde era in continua lotta e col re e col papa; i gradi militari di privativa de' nobili; i civili venali ed ereditari, in modo che al l'uomo non nobile e non ricco nulla rimaneva a sperare; le dispute che tutti questi contrasti facevano nascere; la smania di scrivere, che indi nasceva e che era divenuta in Francia un mezzo di sussistenza per coloro i quali non ne avevano altro, e che erano moltissimi; la discus sione delle opinioni a cui le dispute davan luogo ed il pericolo che dalle stesse opinioni nasceva, perchè su di esse eran fondati gl'interessi reali de' ceti; quindi la massima persecuzione e la massima intolleranza per parte del clero e della corte, nell'atto che si predicava la mas sima tolleranza dai filosofi; quindi la massima contrad dizione tra il governo e le leggi, tra le leggi e le idee, tra le idee e li costumi, tra una parte della nazione ed un'altra; contraddizione che dovea produrre l'urto vicen devole di tutte le parti, uno stato di violenza nella na zione intera, ed in seguito o il languore della distruzione o lo scoppio d'una rivoluzione. Questa sarebbe stata la storia degna di Polibio » (1 ). La Francia ha mille cause per muoversi. La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 38. 89 s'esprime dal seno d'un popolo in travaglio secolare, sca turisce da desideri compressi, da bisogni materiali, da un malessere durevole. Che ci hanno a che fare i filosofi? I filosofi servono, se mai, a conturbare quel che è chiaro, a far credere opera loro quel che è già nella storia, a far scambiare come esigenza intellettuale quel che è esigenza economica nel suo più vasto significato. Enormi sono gli abusi, terribili i contrasti; più astratti, quasi per necessità, i princípi riformistici, come quelli che voglion compren dere un numero più grande di fatti umani. Ecco l'errore ! I francesi deducono i loro princípi dalla metafisica, e cadono nell'errore « di confonder le proprie idee colle leggi della natura » (1). È una ' falsa visione del reale questa in cui possono cadere tutti gli uomini che seguono idee soverchiamente astratte. Commentando le incon gruenze dei repubblicani della Partenopea il Cuoco escla ma: « Io credeva di far delle riflessioni sulla rivoluzione di Napoli, e scriveva intanto la storia della rivoluzione di tutt ' i popoli della terra, especialmente della rivolu zione francese. Le false idee che i nostri aveano conce pite di questa non han poco contribuito ai nostri mali » (2 ). Siamo sempre ad un punto: gli uomini credono troppo ne' loro princípi e non s'accorgono che i principi sono spesso astrazioni, credono in essi e ' non osservano che intanto la storia si muove oltre i princípi. La rivolu zione è opéra dei filosofi? Altro che filosofi ! « Il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni >> è il popolo (3 ). Guardate questo popolo: si muove mai esso dietro i filosofemi? No. « Il popolo non intenderà, non seguirà mai' i filosofi » (). Perché? La ragione è una sola, vichiana. Il popolo è senso e fantasia: i filosofi in telletto. Date al popolo princípi: non li intenderà. Com primete il popolo, esacerbatelo: il suo senso s'esaspererà, la sua fantasia s'accenderà violenta, vremo una crisi vasta ' e potente, la rivoluzione. (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 39. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 96. (3) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 5, (4) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30, 90 La rivoluzione nasce da bisogni positivi, cioè dal senso e dalla fantasia popolaresca. Ciò non toglie che il suo pervertirsi, il suo incrudelire provenga invece dalla falsa filosofia. L'origine è naturale, lo sviluppo abnorme: lo spunto è popolare ed economico, le conseguenze degene razioni di princípi, intellettualistiche. Sono le astruserie dell'ultima ora che portano seco loro gli inconvenienti propri delle grandi rivoluzioni, i capricci de' potenti, le fazioni, le turbolenze, il sangue. « Chi guarda il corso della rivoluzione francese ne sarà convinto » (1 ). I saggi sono inutili a produrre una rivoluzione (2 ), ma i pseudo saggi possono condurre un moto già evoluto sur una falsa via. Ecco perchè la rivoluzione francese ha un vizio d'origine, che dovrà riuscire fatale alle rivoluzioni, che qua e là scoppiarono, riflessi incolori e pur gravi della grande rivoluzione: essa parla troppo alla ragione, poco al senso e alla fantasia, e i popoli, si sa, sono tutto senso, tutta fantasia. Quanto più i pensatori navigano in sfere superne, tanto meno i popoli li intendono, anzi, a volte, sono i popoli che accendono le controrivoluzioni, se i princípi di ragione urtano le avite tradizioni, i sacri costumi, i millenari bisogni. La critica è profonda, e, come ognuno intende, coin volge tutta la rivoluzione francese, ma è una critica, che nel Saggio storico appare per incidenza, e che tocca allo studioso di rilevare. La storia è tutta una catena, in cui un avvenimento non si può astrarre dagli altri. La vita delle nazioni oggi è così complessa, che, trattando della stessa Napoli e della sua politica, non si può prescindere dalla politica generale dell'Inghilterra, della Francia, della Spagna. Nel passato una rivoluzione potea apparire un evento isolato, poteva chiudersi quasi in una barriera sanitaria; oggi, in tempi nuovi, deve fatalmente trovare addentellati un po' ovunque. La rivoluzione francese suscita un incendio repubblicano in Italia, a Milano, a Roma, a Napoli. Ma in questa stessa considerazione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 40. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione alla sec. ed., p. 6, 91 sta il primo e capitale appunto alla rivoluzione parte nopea, di cui il Cuoco esclusivamente si occupa. Lo storico critica lo svolgimento della grande rivoluzione francese, ma non nega l'origine pienamente legittima di essa, la riconosce nata da un secolare stato anomalo di cose, per cui il popolo, attivo e industrioso, ma ciò non pertanto trascurato ed isolato politicamente, reagisce e d'un balzo acquista di diritto ciò che di fatto aveva già acquistato. Nulla di tutto ciò a Napoli. Quivi la rivolu zione è un mero riflesso di quella gallica, è nella sua na scita e nel suo affermarsi passiva. L'aggettivo passivo ha fatto epoca, e val quanto dire impopolare. Le idee passano di paese in paese, perchè trovano ovunque in gegni culti atti a riceverle e a meditarle; i bisogni sono invece ovunque diversi, da nazione a nazione, da po polo a popolo, anzi da regione a regione, da provincia a provincia. Quel che a Parigi è spiegabile, a Napoli ' non lo è: quel che a Napoli è naturale, in Calabria cessa di esserlo, diviene artefatto. Mentre tutto il pensiero europeo, dalla Germania all'Italia, dall'Inghilterra alla Russia, dalla Spagna alla Svizzera, è infranciosato, ra zionalista, illuminista, i bisogni dei popoli sono sostan zialmente e profondamente diversi in ogni angolo del vecchio continente europeo. Come poter condurre realtà di lor natura ineffabili e particolari ad. aderire a prin cipi uniformi, se non sforzando lo stesso ordine delle cose? Così.a Napoli. Invece di fare una rivoluzione na poletana, si fece una rivoluzione francese in piccolo. « Le idee della rivoluzione di Napoli » scrive il Cuoco « avrebbero potuto esser popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Tratte da una co stituzione straniera, erano lontanissime dalla nostra; fondate sopra massime troppo astratte, erano lontanis sime da’sensi, e, quel ch'è più, si aggiungevano ad esse, come leggi, tutti gli usi, tutt'i capricci e talora tutt'i difetti di un altro popolo, lontanissimi dai nostri difetti, da' nostri capricci, dagli usi nostri » (1 ). La rivoluzione (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 83, 92 francese, in sostanza, e qui è il nucleo di tutte le consi derazioni successive, è attiva, cioè risultante di molte plici elementi economici e politici; la rivoluzione napo letana passiva, cioè frutto di opinioni labili. Ma guardate gli uomini ! I monarchi europei credono la rivoluzione francese questione d'opinioni e la perseguitano, mentre, se era in realtà questione d'opinione, sarebbe caduta di per sè stessa; il re di Napoli crede cosa grave e profonda, invece, ciò che nel suo nascimento era ' un ' po ' moda e opinione, la tormenta ed incrudelisce, finendo per creare col suo contegno un generico malcontento. Lo stesso atteggiamento politico estremo in due circostanze diverse finisce per produrre i più gravi effetti. Le conseguenze di non mirare entro la natura delle cose ! È un astratti smo, che Vincenzo Cuoco non vede solo nella rivoluzione, ma ne' governi, nei patrioti e nei codini, nella filosofia e nella scienza militare. La reazione, al primo manifestarsi della rivoluzione francese, è tutta ispirata a questa visuale errata. Le potenze europee si coalizzano contro la Francia: effetto: la Francia, di fronte al pericolo straniero, è un sol uomo, si arma, si oppone, vince. « Una guerra esterna, mossa con.... ingiustizia ed imprudenza, assodò una rivoluzione, che, senza di essa, sarebbe degenerata in guerra civile » (1 ). È l'astrattismo, il solito astrattismo del tempo, che crede forzare l'ordine delle cose. La Francia deve ras sodare la sua insurrezione; ha contro di sè tutta l'Europa: la guerra le diviene indispensabile per vivere. È l'oppo sizione stessa che costringe il paese alla lotta. Quindi si sviluppa un sistema di democratizzazione universale, di cui i politici interessati si servono, a cui i filosofi applau dono in buona fede; « sistema che alla forza delle armi riunisce quella dell' opinione, che suol produrre, e ta lora ha prodotti, quegl'imperi che tanto somigliano ad una monarchia universale » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 18. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, II, p. 20. 93 A Napoli lo stesso errore dei governanti è aggravato da circostanze peculiari. Il principio della rivoluzione francese trova una nazione florida ed esuberante di pen siero e di studi economici, giuridici, filosofici, un paese che trae dalla Francia molte cose, ma tutte le concre tizza in una tradizione paesana, che si ricollega al Vico. La rivoluzione, se pure in questo ambiente è possibile una rivoluzione, è affare d'opinione. Ma a Napoli mancano i repubblicani. Pochi giovinetti, presa la testa - dalle novità straniere, si proclamano sovversivi, vestono alla francese, parlano francese, seguono insomma la moda. Convien disprezzarli. No, il governo muta rotta, incru delisce. È proprio quella politica, che più conveniva evi tare, volendo rimanere saldi nella grave crisi, che agi tava tutto il mondo civile (1 ). « I nostri affetti, preso che abbiano un corso, più non si arrestano. L'odio segue il disprezzo, e dietro l'odio vengono il sospetto ed il timore » (2 ). Gli uomini s'oppongono violentemente, gli a ffetti s ' inacerbano: laddove con un metodo diverso la situazione potea dominarsi, è lo scompiglio. « I mali d'opinione si guariscono col disprezzo e coll'obblio: il popolo non intenderà, non seguirà mai i filosofi » (3 ). A Napoli il popolo non partecipa a nessun movimento: la rivoluzione, quindi, è lecito presumere, non c'è, non ci 16 li la ti (1 ) È lo stesso concetto che V. Cuoco esprime nel Platone in Italia, v. I, p. 43: « Nel portico di Falanto si ragunan tutti i giorni, molti, la cura principale de quali è di ragionar della guerra e della pace di tutti popoli della terra... Forse un giorno taluno imporrà fine al loro cicaleccio. Archita non lo cura, ad onta che il più delle volte si parli di lui, e non sempre con giustizia. E qual giustizia sperare da coloro che siedono tutt' i giorni in un portico per ragionar di regni? 0. presto o tardi si credono di esser re. Ma Archita, a taluno che gli ha con sigliato di vietar taliadunanze, ha risposto: —Tu vuoi dunque che il popolo creda alle parole di costoro? Nessun uomo mostra la sua stoltezza, nè il popolo se ne accorge mai al primo mo mento. Se vuoi smascherar lo stolto, lascia che parli lungamente. Gli chiudi tu la bocca al primo istante? Corri il rischio di farlo riputar savio (2) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 29. (3) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. 94 sarà. Ma, ecco, la polizia perseguita quei giovinetti, che hanno per moda il fare le corse a cavallo per Chiaia e Bagnuoli, imitando gli antichi greci, che leggono ne' pe riodici le cose della rivoluzione francese e ne parlano ai loro barbieri e alle innamorate, ecco, le opinioni diven tano sentimenti, il sentimento genera l'entusiasmo, l'en tusiasmo si comunica: « vi inimicate chi soffre la perse cuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l'uomo indifferente che la condanna; e finalmente l'opi nione perseguitata diventa generale e trionfa » (1 ). Una politica sbagliata insomma ingenera errori nuovi. Si perde il senso della moderazione e si cade nell'estre mismo. Si vuol sangue, si condanna (2 ). Pochi a Napoli intendono la rivoluzione francese, pochissimi l'approvano, nessuno la desidera: eppure si crea un ambiente insurre zionale, laddove non era. « Il mezzo per opporsi al con tagio delle idee lo dirò io? non è che un solo: lasciarle conoscere e discutere quanto più sia possibile. La di scussione farà nascere le idee contrarie » (3 ). Il governo di Napoli invece è pavido, e il timore rende deboli e inetti, ci offre sprovvisti all'assalto inimico. « Vince una rivoluzione colui che meno la teme » (+ ). Questa incomprensione della realtà sociale, che il Cuoco trova nella prassi politica preventiva della corte di Na poli, deriva dallo stesso astrattismo che domina i go verni europei coalizzati, è lo stesso astrattismo che guida i giacobini di Francia e i patrioti di Napoli. Non per nulla tutti gli attori del fòsco dramma, gli uni e gli altri hanno bevuto alle acque della filosofia illuminista, che per la ragione rinnega il senso, e ripone tutta la sua fiducia nell'umano intelletto e nella sua ideologia. Eccone le conseguenze. Vedremo in seguito il comportamento dei (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 30. (2 ) Il tratto saliente di questa pre -reazione è la condanna a morte di tre giovani, De Deo, Vitaliani e Galvani: la morte del De Deo fu sublime. Vedi quel che ne scrive B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 204 e sgg: (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 41. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. 95 repubblicani, ora dobbiamo osservare più particolar mente la politica governativa e la sua insufficienza. La rivoluzione a Napoli, abbiamo detto, nasce come opinione, quindi passiva; la corte finisce per renderla necessaria, sforzando il cammino storico della nazione, suscitando vasti malcontenti in tutte le classi del po polo, ne' signori e nella borghesia, perseguitando dotti filosofi ed economisti, un giorno già vanto e decoro della corte stessa, nel popolo, intaccando gravemente i suoi interessi. Vediamo quest'ultimo punto, il quale ci mo strerà pure l'importanza che Vincenzo Cuoco dà all'ele mento economico nella storia e nella politica. La storia per lui non è pura idea, come per gl’intellettualisti, che finiscono per negarla, nè pura economia, come per i ma terialisti storici: la storia è più complessa assai. « La storia si può suddividere in tante parti quanti sono gli aspetti sotto de' quali gli avvenimenti umani si vo gliono considerare » (1 ). Ogni scienza particolare ha una sua storia, ma quel che noi consideriamo come la storia per eccellenza non s'esaurisce in alcuna ricerca partico lare. Lo spirito è complesso pur nella sua unità, così com plessa è la vita dei popoli, che è attività pratica e teore tica, prassi ed economia, intelletto e fantasia. Onde lo storico deve tener conto di tutto, e di tutto deve rendersi conto. Ma non anticipiamo ! Il Cuoco dà molta importanza all'elemento economico, ma non esaurisce in esso il pro cesso storico, lo sviluppo d'una nazione. Qual è la posi zione geografica, e di riflesso economica, del regno di Napoli? Ove portano questo Stato i bisogni generali? Qual'è quindi la direttiva più naturale della sua politica? Quando Napoleone discende in Italia, la penisola è divisa in piccoli Stati, i quali uniti avrebbero potuto opporre resistenza, disuniti era fatale che cadessero. Que sta contingenza mostra quanto lo stato politico degli italiani sia infelice, senza amor di patria e senza virtù militare. Di fronte al genio d’un gran capitano tutte (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 31. 96 le barriere caddero come scenari vecchi: gli austriaci furono messi in fuga, Venezia disparve colla sua imbe cille oligarchia, la distruzione del governo teocratico del Pontefice non costò che il volerla. Napoli sola per un complesso di cose poteva resistere. A Napoli c'era un governo monarchico forte, che garantiva una maggiore compattezza, una certa disciplina, un esercito, un po polo che bene o male seguiva il suo sovrano, c'era un popolo, e dietro di esso una classe colta che voleva stu diare e vivere. Tutto rendeva possibile l'esistenza felice della monarchia, pur nel vortice che dilagava in Eu ropa. Non fu così: la politica borbonica da qualche anno seguiva, e ora sotto la pressione napoleonica con tinuò a seguire, l'andazzo antifrancese de' governi coa lizzati, ed urto in una condizione di cose secolare e pro fondamente sentita dalle popolazioni meridionali. Il regno di Napoli era per sua natura una potenza me diterranea. Tutti i suoi interessi lo portavano ad una politica mediterranea, ad una politica, vale a dire, il cui centro di sviluppo fosse il bacino del Mediterraneo, ad un commercio con l ' Oriente, con Tunisi, con la Francia, con la Spagna. Queste le esigenze del paese: la volontà della regina dominatrice co' suoi favoriti della corte e del governo dispose diversamente. Lo Stato diventò ligio all'Austria, potenza lontana, dalla quale il paese nulla aveva da sperare e tutto da perdere, che finì anzi per coinvolgerlo in continue guerre. Le cause di questo errore si riconducono ad uno di quei concetti, che nel Cuoco sono alla base di tutto il suo pensiero: il disdegno di tutto ciò che è straniero. L'ita lianismo del Cuoco, che si vuol porre di solito come mero antifrancesismo, è, entro certi limiti, un po' xenofobismo. Egli vuol inoculare agli italiani un sicuro orgoglio nazio nale, un vero bisogno d'essere esclusivamente italiani. La rivoluzione napoletana, come in genere tutte le rivoluzioni italiane del tempo, sono la negazione dell'italianismo, negazione, che, notiamo, è cominciata da lungo tempo e si perpetua tra gli errori de' governi e dei repubblicani. È un indirizzo mentale, che il Cuoco combatte ovunque 97 lo trova. Egli non è antirivoluzionario, perchè critica i patrioti: egli non è antiborbonico, sol perchè critica il go verno. La sua critica ha origini più grandi: bisogna riguar darla quale espressione d'una mentalità politico- giuridica più italiana, più grande che non tutti i sistemi che la ri voluzione ha maturati, d'una mentalità politica, che si rivolge combattiva ovunque vede la sua negazione. L'azione rivoluzionaria è una prassi d'astrattismo fran cese: è naturale che Vincenzo Cuoco non ne condivida le direttive.. La politica di Maria Carolina di Napoli e del suo favorito Acton è poco napoletana, molto austriaca: è naturale che Cuoco alla luce delle sue idee ne riveli le incongruenze e le manchevolezze. La pietra di paragone: l'Italia, Napoli, il popolo e i suoi bisogni. Tutte le poli tiche, che astraggono da questo elemento insuperabile, sono rovinose. Maria Carolina, salendo al trono meridionale, dovea dimenticare di essere una tedesca, pensare di divenire napoletana, se voleva divenire davvero regina di Napoli e cessare di essere una principessa germanica. Volle in vece essere novatrice, cioè sforzare la tradizione, gli usi, i costumi del nuovo ambiente, sviluppando una frivola smania per ogni cosa estera, sia materiale, sia intellet tuale. Dalla moda per il vestire si passò a quella per il costume e per i modi, si parlò francese od inglese, e si ritenne poco obbrobrioso non sapere l'italiano; l'imita zione del vestimento e delle lingue portò di conseguenza l'imitazione delle opinioni. « La mania » ammonisce il « per le nazioni estere prima avvilisce, indi ammi serisce, finalmente ruina una nazione, spegnendo in lei ogni amore per le cose sue » (1 ). La stessa ineguaglianza in tutti i rami dell'ammi nistrazione. Ovunque si navigava nell'astrazione. Chi potrebbe mai pensare la felicità e la potenza, a cui un governo savio ed attivo, cioè nazionale, avrebbe potuto portare il paese, sviluppando l'energia pubblica, ed esen Cuoco (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, V, p. 29. 7 -- tando il paese perciò dalla dipendenza manifatturiera estera, proteggendo le arti, sviluppando il commercio ! Invece no: non v'è provvedimento borbonico che non si possa rimproverare. « L'epoca in cui giunse Acton era l'epoca degli utili progetti: qual progettista egli si spac ciò e qual progettista fu accolto; ma i suoi progetti, ineseguibili o non eseguiti o eseguiti male, divennero cagioni di nuove ruine, perchè cagioni di nuove inutili spese » (1 ). Il Cuoco non fa distinzioni: il male è nella ra dice, nella mentalità del tempo. Si spera in un ottimo assoluto, che è il peggior nemico del bene, e si finisce per far male: si è miracolisti e si riduce a terra ogni utile antica istituzione. Gli ordini antichi bene o male assicuravano la vita civile: perchè distruggerli ab imo, anzi che rif marli? Chi era Acton, chi era questo favorito, che voleva ! « Acton non conosceva nè la nazione nè le cose. Voleva la marina, ed intanto non avevamo porti, senza de' quali non vi è marina: non seppe nemmeno riattare quei di Baia e di Brindisi, che la natura istessa avea formati, che un tempo erano stati celebri e che poteano divenirlo di nuovo con piccolissima spesa, se, invece di seguire il piano delle creature di Acton, si fosse seguito il piano dei romani, che era quello della natura » (2 ). Un esempio della vacuità del favorito di Maria Carolina. Napoli, dato che è un paese mediterraneo, aveva bisogni marinari. I bar bareschi erano i suoi nemici diretti, i nemici dei suoi commerci, che con le loro scorrerie finivano per rovinare. Occorreva proteggere le navi mercantili, occorreva una flotta di piccole navi veloci e leggiere da opporre alle navi da corsa. Acton volle provvedervi. Manco a farlo appo sta, la flotta che fece costrurre, era composta di legni pesanti, da combattimento e non da guerriglia. Io non posso indugiarmi su questo argomento, poi che il mio assunto non è quello di dare la contenenza del (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 45. (2) V. Cuoco, Saggio storico, VIII, p. 46. 99 Saggio storico, ma di tracciare un profilo ideale del pen siero di Vincenzo Cuoco nelle sue svariate manifesta zioni, seguendo fin dove è possibile la cronologia delle opere del molisano, tradendola ove essa complica lo sviluppo sistematico dello spirito. Non mi indugierò quindi ad enumerare gli errori, l'atteggiamento del go verno verso Napoleone, l'aggressione durante la sua as senza, la marcia di Mack, capo dell'esercito borbonico, su Roma. Mack.... Se volete un ultimo esempio di astrattismo, basta pensare al generale austriaco, al quale il governo di Napoli'affidò le sue fortune. Cuoco non è un uomo di guerra, ma ha il buon senso di cogliere il punto debole di duci della natura di Mack, inclini a scambiare le loro idee con l'universo. La scienza militare è una scienza positiva, scienza d'osservazioni particolari, che ripugnano, alle schematizzazioni. Mack invece era la dottrina in per sona, ma faceva i piani a tavolino, risalendo col pen siero ai princípi della sua scienza, senza collaudarli con la realtà, che gli si parava dinanzi. « Vuoi conoscere » do manda il Cuoco « a segni infallibili uno di questi capitani? Soffre pochissimo la contradizione ed i consigli altrui: il criterio della verità è per lui, non già la concordanza tra le sue idee e le cose, ma bensì tra le sue idee mede sime. Prima dell'azione sono audacissimi, timidissimi dopo l'azione: audacissimi, perchè non pensano che le cose pos san esser diverse dalle idee loro; timidissimi, perchè, non avendo prevista questa diversità, non vi si trovan pre parati. Affettano ne' loro discorsi estrema esattezza; ma questa è inesattissima, perchè trascurano tutte le diffe renze che esistono nella natura » (1 ). Simili uomini, come Acton e Mack, sono deleterii in ogni tempo, furono rui nosi ai Borboni, in contingenze delicatissime. Date queste premesse, la sconfitta, la fuga del re, l'in ganno della partenza, l'ingresso de' francesi nella capi tale, il governo repubblicano, la proclamazione della Par (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XII, p. 72. 100 tenopea ci appaiono necessari sviluppi di tutti gli elementi, che abbiamo precedentemente analizzato. Ma la storia del Cuoco procede con la stessa spietata critica, per cui l ' in dagine penetra acuta negli avvenimenti e nelle determi nazioni umane, come il bisturì nel corpo d'un paziente, e ne rivela i mali, ne appalesa gli errori. Ancora le stesse deficienze, ancora la stessa visuale falsa. Repubblica e popolo sono due cose distinte. Vediamo i due gruppi. Chi sono i repubblicani di Napoli? Sono repubblicani tutti coloro che hanno beni e costume. L'aristocrazia, la borghesia, la classe accademica, gli studenti, il clero an che alto, l'ufficialità dànno il contingente maggiore dei patrioti: filosofi, finanzieri, giureconsulti, vescovi, teologi, giornalisti, poeti. Nel moto del '99 non è davvero il pen siero che manca. Ma basta l'idea a muovere i popoli, a sovvertire un ordine secolare, a riformare ab imo gli istituti d'una nazione? Tra le file dei repubblicani c'è, abbiam detto, quanto di meglio ha prodotto il mezzo giorno d'Italia in tutti i rami dello scibile umano, ma non si può negare, che anche a Napoli si sia prodotto quel fenomeno tipico di tutti i sovvertimenti, l'arrivismo, la speculazione. Molti hanno la repubblica sulle labbra, pochi nel cuore; molti l'esaltano, pochi la raffermano. Alcuni hanno voluto accusare il Cuoco di parzialità, anzi di malvolere verso le nobili figure de ' martiri del '99 (1). Ma il Cuoco è storico e non travisa ! Che meraviglia che accanto a Pagano ci sia il faccendiere, accanto a Russo li procacciante, accanto a Conforti il paglietta in cerca di clienti, accanto a Grimaldi il soldato che vuol far car riera ! È la storia d'ogni giorno, più o meno triste, ma sempre uguale. Il Cuoco del resto sa sollevare la testa e notare le grandi figure ed eternarle. Questi repubblicani il molisano distingue in due gruppi: coloro che vogliono più un cangiamento che un buon cangiamento, per pescare nel torbido, coloro che in buona (1 ) Cfr. U. TRIA, op. cit., p. 158 e sgg. in Rassegna critica della letteratura italiana, vol. VI, (1901); L. CONFORTI, op. cit., p. 21 e sgg. 101 fede vogliono imitare tutto dalla Francia; i furbi, in somma, e i fantastici (1 ). Ma la virtù a Napoli è grande. Mentre in tutte le altre rivoluzioni è l'elemento cattivo, che fa sorgere principi pessimi, qui vi sono i princípi non buoni, che fanno cadere uomini buoni ed eletti. La memoria dello storico s'in china dinanzi ai martiri del '99. I patrioti sono uomini colti, superiori, il fior fiore della nazione: forse questa stessa loro origine è la causa prima che li allontana, sele zionandoli, dalle masse, e quindi dalla realtà d'ogni sana politica. Gli uomini sono buoni; i princípi che essi pro fessano, gli ordini cattivi. La loro virtù è una virtù stoica, il loro spirito romano, la loro morale superiore, troppo superiore a quella comune delle plebi: quest ' è stata una delle cagioni della ruina (2 ). Uomini i patrioti insufficienti tutti, nel giudizio sereno dello storico, a creare e a diri gere uno Stato, grandi solo nella morte: la loro fine con sacra alla posterità la loro sublime grandezza. Il Cuoco è davvero nella sua analisi uno scettico, e sa esaltare l’eroi smo, come abbattere la falsa politica. Lo stesso uomo, che enumera errori errori errori, è poi colui che con pa role degne di Tacito, esaltatore delle ultime aristocra tiche virtù, descrive la difesa strenua degli ultimi nuclei rivoluzionari dinanzi all'irrompere delle torme sanfedi ste, la distruzione del forte di Vigliena, oppure la ca duta di Altamura. L'assedio di Altamura, per esempio, è scolpito con una concisione ed una rapidità mirabili: l'eroica disperata lotta rivive paurosa nella nostra fantasia. Il salto del forte di Vigliena, la battaglia navale di Procida delle flot tiglie barcarecce di Caracciolo contro le munite navi di Nelson mostrano un Cuoco, non solo freddo analista, cri tico spietato d'errati metodi legislativi e costituzionali, ma un Cuoco, direi, lirico e commosso, preso dal fascino delle figure eroiche, che la storia suscita fra errori e de lusioni, onde ei può nel crollo della sua, dico sua, repub (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XV, p. 84, nota. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVI, p. 157. 102 blica esclamare esaltato: « Si sono tanto ammirati i tre cento delle Termopili, perchè seppero morire; i nostri fecero anche dippiù: seppero capitolare coll'inimico e salvarsi; seppero almeno una volta far riconoscere la repubblica napoletana » (1 ). Ma lo spirito politico di Vincenzo Cuoco non può non far risalire alla sventatezza, all'impreparazione dei pa trioti la causa dello sfacelo; non può, esaltando virtù e meriti, dimenticare l'insufficienza e la vacuità del me todo legislativo, che doveva dar le norme direttive al nuovo ordine. Si è detto (2 ) che la storia del Cuoco non è scritta con un fine ben netto. No, il fine c'è: la condanna spietata d'una mitologia costituzionale e filosofica, af finchè l'Italia ritorni alla sua tradizione e non ricada sugli antichi errori. I saggi sono inutili a produrre le ri voluzioni; i filosofi navigheranno sempre in beate astra zioni, ma invano credono di poter muovere con i loro pensamenti i popoli, poi che questi non si muovono che sotto l'urgenza di concreti bisogni. A Napoli, come al trove, c'era un popolo: bisognava tenerne conto, inter pretarne i desideri. I patrioti non ne fecero caso. Tutta la rovina della repubblica s'impernia su questa incompren sione sociale. Il popolo, sappiamo, è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni (3 ). Credere un moto rivoluzionario determinato dalla filosofia è una semplice illusione, che solo i francesi potevano concepire. La rivo luzione deve parlare ai sensi e alla fantasia, non solo all'intelletto, cioè alle plebi, e non solo ai pensatori. A Napoli c'era un popolo, che in qualche modo aveva di che lagnarsi della più recente opera de' Borboni: biso gnava farlo agire, soddisfare i suoi desideri, cointeressarlo alla nuova ricostruzione, legarlo allo Stato: allora solo, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLVIII, p. 188. (2 ) U. TRIA, op. cit., p. 196, in Rassegna critica della lette ratura italiana, v. VI, (1901 ). (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 5. 103 fatto ciò, la repubblica poteva dirsi basata su un piedi stallo incrollabile. In una rivoluzione è necessario il numero e l'idea. Le idee repubblicane si sarebbero potute rendere popolari, ove si avesse voluto trarle dal fondo istesso della nazione. Quando la rivoluzione scoppia, il popolo ondeggia tra le due fazioni, i patrioti che vede padroni della capitale, il re che vede fuggire ignominiosamente. È il momento ! Il popolo dubita della saggezza del sovrano, della sua magnanimità, lo coglie in peccato di vigliaccheria, dubita, e chi dubita condanna a metà. Si può rendere il popolo partecipe all'azione, invece si fa di tutto per allontanarlo. « La nostra rivoluzione » scrive Cuoco « essendo una rivo luzione passiva, l'unico mezzo di condurla a buon fine era quello di guadagnare l'opinione del popolo » (1 ). Ma repubblicani e popolo sembrano nonchè due classi, due popoli diversi per idee costumi lingua. I primi sono fran cesizzanti; il secondo per natura tradizionalista, attac cato alle sue istituzioni, ai suoi principi, alla sua reli gione, ai suoi pregiudizi. Tra gli uni e gli altri c ' è un divario di due secoli di cultura e di storia. I dirigenti invece prescindono da ogni elemento nativo, quell'ele mento che si deve coltivare, essendo tutto nel popolo. Co loro, che sono ancora napoletani, nota con amarezza lo storico, e che compongono il maggior numero, sono in colti. Ritorniamo al solito concetto: la moda straniera è la causa di tutta la rovina (2 ). « Le disgrazie de' popoli sono spesso le più evidenti dimostrazioni delle più utili verità. Non si può mai gio vare alla patria se non si ama, e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione. Non può mai esser libero quel popolo in cui la parte, che per la superiorità della sua ragione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’autorità sia cogli esempi, ha venduta la sua opi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90. (2) Il giudizio cuochiano coincide col giudizio degli storici più recenti: vedi V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 104. 104 nione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha per duto allora la metà della sua indipendenza » (1 ). Mancava alla rivoluzione l'orgoglio nazionale, che solo può salvare i popoli nelle loro crisi. Si voleva imitare la Francia e si dimenticava Napoli, si obliava che la gente meridionale avea una sua specifica natura diversa dalla natura delle genti galliche. In Italia c'era un comunali smo, che in Francia non era mai stato; a Napoli c'erano cento volghi diversi l'uno dall'altro, in Francia un popolo compatto ed omogeneo. I repubblicani dovevano tener conto di ciò, e trovare un interesse comune, che riunisse dirigenti e diretti, governanti e governati. « Quando la nazione si fosse una volta riunita, invano tutte le potenze della terra si sarebbero collegate contro di noi » (2 ). Il popolo non è mai né borbonico nè sovversivo, nè nero nè rosso: « i popoli si riducono » osserva con acutezza il nostro autore « a seguir quelli che loro offrono maggiori beni sul momento » (3 ). Il popolo di Napoli così avrebbe seguito i rivoluzionari, se questi gli avessero dato spe ranze di miglioramenti, avessero intesi i suoi desideri, avessero rispettato gli istituti a cui era legato, avessero riverito la religione dei suoi avi. « Che cosa è mai una rivoluzione in un popolo? Tu vedrai mille teste, delle quali ciascuna ha pensieri, interessi, disegni diversi dalle altre. Se a costoro si nta un capo che li voglia riu nire, la riunione non seguirà giammai. Ma, se avviene che tutti abbiano un interesse comune, allora seguirà la ri voluzione ed andrà avanti solo per quell'oggetto che è comune a tutti » (1 ). Ma per fare ciò bisogna andare cauti: non bisogna di struggere. Bene o male gli istituti esistenti assicurano la convivenza, occorre riformarli, migliorarli, non ab batterli al suolo: « il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere » (5 ). (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. (2 ) U. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 92. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, VII, p. 42. (4 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 94. (5 ) Framm., p. 219. 105 Il popolo di Napoli, nota il Cuoco, ha una sua religione. Osserviamo la natura di questa religione, e vedremo che essa non ripugna ai principi della democrazia. « La reli gione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo; riformate nel clero le soverchie ricchezze di po chi e la quasi indecente miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal go verno e li rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio d'ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e liberale » (1 ). In ciò il cristianesimo è assai diverso dal paganesimo, che, basandosi su un'idea di forza, non può produrre che schiavi indocili e padroni tirannici. La no stra religione si appoggia su princípi di libertà, su prin cípi di fratellanza, su princípi di giustizia, e sembra quindi la più adatta per legare il popolo allo Stato. La reli gione, nota il Cuoco ripetendo un pensiero del Conforti (2 ), è un elemento insopprimibile nella vita dello spirito umano, dal quale quindi non si può prescindere. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso. Ma, quando voi gliela date, allora formate una religione analoga al governo, ed ambedue concorreranno al bene della nazione: se il popolo se la forma da sè, allora la religione sarà indifferente al governo e talora nemica » (3 ). Questi i concetti di Vincenzo Cuoco (4 ). Lo Stato deve avere una sua religione, ed imporla: Stato e Chiesa nazionale debbono concorrere al benessere gene rale. Princípi che meritano un superiore approfondi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 129 e sg. (2 ) Sulla posizione religiosa del Conforti in confronto al Cuoco vedi B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cat tolici, Napoli, Pierro ed., 1898, p. 414 e sgg. (3) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. (4) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 137. I due insigni storici concordano pienamente col Cuoco nel ritenere che gli errori dei repubblicani in fatto di religione hanno non poco influito ad allontanare il popolo dalla rivoluzione. 106 mento, che noi faremo in seguito: resta acquisito in tanto l'alto e moderno ideale, che il molisano aveva della religione (1 ). La rivoluzione napoletana fu la negazione di questi princípi. Sorse democratica, s'affermò anticlericale e vi lipese l'alto valore etico della dottrina cristiana e catto lica, per sostituirla con una generica morale laica. Si ab bandonò all'incomprensione dei subalterni un problema grave, anzi gravissimo, come il problema religioso. « Il po polo si stancò tra le tante opinioni contrarie degli agenti del governo, e provò tanto maggiore odio contro i repub blicani, quanto che vedeva le loro'operazioni essere effetti della sola loro volontà individuale » (2 ). Il governo in sostanza era agnostico, non conduceva ex professo una politica antireligiosa ed anticlericale, ma lasciava fare, e gli emissari in provincia si sfogavano contro i beni ec clesiastici o peggio contro il culto professato. Il popolo, colpito in uno dei suoi più profondi affetti, s'affermò san fedista contro lo Stato. È questo un episodio, ma certo il più saliente, dell'incomprensione tra quelli, che Cuoco, nonchè due classi, due popoli volle chiamare, i repubbli canti dirigenti e le popolazioni subordinate. Alla religione alcuni volevano opporre una generica morale civile e laica. Si negava il cattolicesimo, si affer mava di contro la libertà. Ma che cosa è la libertà, se non un mero astratto? Chi chiedeva la libertà? Non certo quelle popolazioni rurali, che il governo così bel lamente fraintendeva, « La libertà delle opinioni, l'abo lizione de ' culti, l'esenzione dai pregiudizi, era chiesta (1 ) Nel Platone in Italia (v. I, p. 84) ritornano spesso con: cetti consimili, indice della mirabile armonia dell'ingegno di V. Cuoco: « Nelle città colte le leggi civili debbono esser tutte diverse dai precetti di religione e di costumi: chiare, precise, inesorabili. Ma sapete voi perchè? Perchè, quando si deb bono riformare, il che avviene spessissimo, il popolo tien altri precetti da seguire. Se il popolo allora si trovasse senza co stumi e senza religione, si distruggerebbe per anarchia, prima di darvi il tempo necessario a riordinare le leggi », (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 131. -107 da pochissimi, perchè a pochissimi interessava » (1 ). L'er rore, ripeto, è nelle basamenta, in un oblìo completo del popolo, nell'astrarsi ne'sublimi princípi per dimenticare la vita e le sue molteplici manifestazioni. Eppure, ep pure, nota con rimpianto il Cuoco, si poteva riuscire, si potevano sfruttare le forze ignote, ma inesauribili del po polo, e creare così una insuperabile barriera al legittimi smo borbonico. « Il popolo è un fanciullo » (2 ): se ne intendi la complessa psicologia, lo porterai dove vuoi: basta che tu intuisca la sua natura. « Il popolo è ordina riamente più saggio e più giusto di quello che si crede » (3 ). Il talento del legislatore consiste nel sapere sfruttare que sto innato senso di saggezza e di giustizia nelle più adatte contingenze, così da « menare il popolo in modo che fac cia da sè quello che vorresti far tu » (4). Ovunque c'è un male da riparare, un abuso da riformare, presentandosi come salvatore il riformatore, che non distrugge per me todo, ma procede per osservazione diretta, troverà sem pre il popolo che saprà seguirlo e rincorarlo. Il Cuoco osserva acutamente che a volte il malcontento nasceva dal volersi fare talune operazioni senz'appa renza, senza quelle solennità tipiche, che la plebe ama, perchè sono nella tradizione. Si trattava di forma e non di sostanza. Ebbene, i repubblicani preferivano urtare contro questi apparati, anzi che secondarli, perdere l'ar rosto per non volere il fumo. La filosofia politica di Vincenzo Cuoco a proposito della rivoluzione si concreta in una sola constatazione. « Ecco tutto il segreto delle rivoluzioni: conoscere ciò che tutto il popolo vuole, e farlo; egli allora vi seguirà: distinguere ciò che vuole il popolo da ciò che vorreste voi, ed arre starvi tosto che il popolo più non vuole; egli allora vi abbandonerebbe » (5 ). Una prassi rivoluzionaria, che si (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 104. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 106. (3 ) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 108. (4) V. Cuoco, Saggio storico, XIX, p. 107. (5) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 95. 108 allontani da questo elementare principio produce effetti incalcolabilmente gravi e perniciosi. « La manìa di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione » (1 ). Le rivoluzioni nascono dai bisogni, ma dietro i bisogni sono gli uomini, e gli uomini sono idee, idee vive palpitanti, non astratte e categoriche, sono senso, sono fantasia, sono religione, sono molte cose in uno. Ogni nazione ha un patrimonio di idee, il risultato d'una esperienza secolare, d'una vita non interrotta mai: essa è attaccata a questi princípi, vivi nella sua coscienza, presenti alla sua atti vità. La rivoluzione scompiglia questo stato mentale, ma è un errore credere che si possa distruggere tutto, far sottentrare alle idee antiche idee del tutto nuove, ai princípi antichi princípi opposti. La rivoluzione può so pire molte cose, ma esse, idee e princípi, si rifanno sulla rivoluzione; come la pressione s'indebolisce, affiorano novellamente ne contrasti. Il popolo è scosso, tentato ne' suoi convincimenti: se voi esagerate, ritorna sui suoi passi. Anche nelle idee v'è uno spiegamento, una natu rale continuità: non rompete il processo: è da savi: « il popolo passa per gradi dalle antiche idee alle nuove, e sempre le nuove sono appoggiate alle antiche » (2 ). Ogni nazione ha un suo spirito, una sua mente, dice Cuoco. Questo spirito soggiace ad un processo, non al trimenti che lo spirito individuale. L'estremismo poli tico, in qualsiasi suo aspetto, di destra o sanfedista o legittimista, di sinistra o repubblicano o giacobino, riceve la sua condanna nelle osservazioni del molisano. Le idee nel loro spiegamento non possono essere sforzate, perchè, come ho detto, trovano nello stesso momento della loro negazione un' implicita affermazione. L'estremismo, in sostanza, è un vero e proprio sforzo estrinseco, che si esercita sullo spirito e sul popolo. Le idee giunte allo estremo, debbono retrocedere. Si riforma più di quel che è nelle esigenze de' popoli; il popolo crede le riforme su perflue, cerca di sottrarvisici; bisogna che il governo, se (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 97. 109 vuol mantenere il suo punto di vista, le faccia osservare con la forza: ecco come un malinteso riformismo legi slativo conduce all'estremismo, al terrore statale, alla fine della repubblica a Napoli, a Robespierre in Francia. « L'uomo è di tale natura, che tutte le sue idee si can giano, tutt' i suoi affetti, giunti all'estremo, s'indeboli scono e si estinguono: a forza di voler troppo esser libero, l'uomo si stanca dello stesso sentimento di libertà » (1 ). I popoli hanno un corso naturale tra l'estrema servitù e la licenza, estrema libertà, corso eterno che tutte le genti percorrono ! I princípi non debbono correre innanzi alla storia, sforzandola a seguirli, poi che essa si vendica de ' princípi ed afferma la sua autonomia. La vendetta è nel sangue, nella reazione legittimista a Napoli, nella ghigliottina che abbatte Robespierre a Parigi. Da un estremo si ricorre all'altro, e così via, finchè non si ritrova l'equilibrio: il liberalismo moderato. Il Cuoco è l'esponente più vivido del liberalismo italiano. La sua figura si illu mina alla luce di questa idea liberale, grande sopra tutte le idee, la quale ha saputo dare agli italiani l'Italia. Da tutto il Saggio storico l'insopprimibilità del liberalismo, non come teoria, ma come prassi costituzionale e politica, appare evidente. Non mi accusi il lettore di sforzare la fisionomia intellettuale del Cuoco, no, poichè io mi rife risco a ciò che leggo, e mi faccio cauto interprete di ciò che trovo, e documento. « Questo è il corso ordinario di tutte le rivoluzioni. Per lungo tempo il popolo si agita senza saper ove fermarsi: corre sempre agli estremi e non sa che la felicità è nel mezzo » (2 ). Del resto queste opi nioni, che ora vediamo in atto nella storia, che il”Cuoco fa degli avvenimenti napoletani, di cui fu attore, spetta tore e giudice, rivedremo sotto un nuovo aspetto, allor quando egli stesso ci dirà come e sino a quanto la storia, che si sviluppò dopo il crollo della Partenopea, abbia dato a lui ragione, vale a dire allor quando considere remo Cuoco di fronte alla figura di Napoleone, Cuoco di (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 99. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 102. 110 1 2.02 fronte al problema teorico e pratico, filosofico e costitu zionale dello Stato, Cuoco di fronte all'ideale dell'unità della patria. Notiamo: quest'atteggiamento di modera tismo cuochiano non è estrinseco, non è solo il principio base della critica rivoluzionaria, è anche l'elemento unificatore di tutta la filosofia politica del molisano, l'ele mento che le dà coerenza, e che egli trova impersonato in Napoleone, il restauratore dell'ordine, il corifeo delle idee medie. L'estremismo è esaltazione di princípi: allo Stato si sostituisce la setta: all'ordine costituzionale l'associa zione fuori e a volte contro lo Stato: al diritto codificato le norme del partito. Moderatismo significa: libertà nella legge, i partiti nello Stato e non fuori dallo Stato, diret tiva unitaria della vita civile, garanzia nel diritto. Come il Cuoco vedrà incarnata e realizzata questa sua conce zione, è cosa da studiarsi in seguito (1 ). La rivoluzione del '99, che per il Cuoco è veramente l'esperienza del sistema abbozzato ne' Frammenti, nella stessa degenerazione de' princípi, riconferma il nostro nelle sue aspirazioni. Egli, che dalla storia trae ogni in segnamento – la storia è la fonte d'ogni pedagogia poli litica scrive: « La storia di una rivoluzione non è tanto storià dei fatti quanto delle idee » (2 ). Conoscere il corso delle idee nella storia significa impadronirsi d'una tale sapienza, che ci permette di evitare ogni errore poli tico. Gli errori di Napoli? Denudiamo la realtà dai fron zoli della retorica, dice Cuoco, esponiamoli nella loro cru dezza, perchè gli uomini, gl'italiani si ravvedano. A Napoli abbiamo avuto perfino un esperimento di terrorismo. È mirabile la definizione psicologica del feno meno. « Il terrorismo è il sistema di quegli uomini che vogliono dispensarsi dall'esser diligenti e severi; che, non sapendo prevenire i delitti, amano punirli; che, non sa pendo render gli uomini migliori, si tolgono l'imbarazzo (1 ) Questa fondamentale coerenza del pensiero di V. Cuoco è stata più che a sufficienza dimostrata da M. ROMANO, op. cit., p. 90 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 169. 111 che dànno i cattivi, distruggendo indistintamente cat tivi e buoni. Il terrorismo lusinga l'orgoglio, perchè è più vicino all'impero; lusinga la pigrizia naturale degli uomini, perchè è molto facile » (1 ). Il Cuoco non lo dice, ma lo pensa: i governi deboli sono i più inclini all'abuso costituzionale, al terrorismo di Stato. Tutte le considerazioni, che lo storico trae dai fatti, convergono verso uno scioglimento, che ci appare fatal mente consequenziario. L'estremismo terroristico, l'ultima ratio de' governi prossimi a cadere, si mostrò più d'ogni altro sistema inutile. Il tribunale rivoluzionario, che si macchid del sangue dei Baccher (2 ), non salvò la repub blica pericolante. Stringiamo le fila della trama, che siamo venuti dise gnando, portiamoci col pensiero di nuovo alla critica del l'opera governativa, alla génesi della repubblica, all'azione legislativa e costituzionale dei rivoluzionari, all'estremi smo di molti patrioti, e ci apparirà vero quanto il nostro autore scrive sull'ineluttabilità dello scioglimento. La sto ria del Cuoco corre, si può dire precipita, ad un fine. Non c'è avvenimento, pagina che non ci ammonisca: ecco un male, ecco un malinteso ! Perciò quando noi ci avvici niamo agli ultimi ruinosi eventi, non possiamo che dire: era fatale !, sia pure con rimpianto, con dolore. Ho detto in principio che nel Saggio storico si nota una mirabile obiettività, quell'obiettività del creatore, che sola può dare il capolavoro; ho detto che la personalità dello scrittore non s'intrude mai praticamente nello svi luppo narrativo e nel progresso degli avvenimenti: la storia si svolge da sè, corre sul suo binario logico, senza estrinseci sforzi. Ciò non toglie che il Cuoco a volte rompa con sublime sapienza l'esposizione per ammonire, per parlare ai suoi posteri, per consigliare: è lo storico che è consapevole della sua missione, dell'altezza del suo inse gnamento. Questa pedagogia non è, però, fuori dall'arte, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXVIII, p. 160. (2 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 115 e sgg. 112 personalità pratica esterna all'arte, ma si risolve, attra verso una viva commozione dello spirito, in una forma fantasiosa, in una espressione immaginifica, insomma, nell'arte stessa. « La sua personalità » scrive assai bene Guido De Ruggiero (1 ) « non s'intrude arbitrariamente nel corso degli avvenimenti; essa non è che raramente la sua empirica e circoscritta soggettività, è più spesso invece la drammatica personificazione del giudizio storico, è quella soggettività superiore dove l'oggettività degli av venimenti e la soggettività dello storico sono fusi in un sol getto ». È insomma il processo creativo della vera storia, che conduce alla vera arte, risolvendo l'empirica personalità, in quell'alta subiettività, che forma l'essenza della storia e dell'arte. La forma precettistica qui non è un elemento estrinseco alla storia, è la gran voce della storia. La critica spietata degli avvenimenti politici lo porta ad accalorarsi per la sua stessa valutazione filoso fica, lo porta a constatazioni, ad esclamazioni, in cui tu senti a volte un rimpianto, perchè uomini di ingegno s'ingolfano in lotte, che il nostro stima senza uscita, a volte una gioia profonda, in cui tu senti il pensatore che discopre un principio sano di vita. Così, dopo una disa mina minuta di idee e di fatti, il Cuoco può ésclamare, e nell'esclamazione io sento un dolore profondo romper la glacialità dell'analista: « Tutti i fatti ci conducono sem pre all'idea, la quale dir si può fondamentale di questo Saggio: cioè che la prima norma fu sbagliata, ed i mi gliori architetti non potevano innalzar edificio che fosse durevole » (2 ). Le premesse dello scioglimento sono d'ordine spirituale, sono metodologiche, politiche. I susseguenti errori, mili tari, giuridici, religiosi, le disfatte, le congiure realiste appaiono inevitabili. Le truppe repubblicane agiscono in territori infidi, fra popolazioni ostili; i capi sono ine sperti, troppo giovani; i francesi portano aiuti sempre più (1 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 189. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIX, p. 163. 113 scarsi; al contrario i borbonici sono ben diretti, ben vet tovagliati, sempre più numerosi; le plebi sempre più fa vorevoli ad essi: sono particolari, ma che non possono distogliere il pensiero dal principio sopra espresso, sola ed unica causa della sciagura. Il disastro appare la logica cruda conseguenza di premesse false. Tutto il Saggio ci porta in un mondo di rivoluzione, ove la critica è cruda e precisa, ma ove la simpatia umana non manca. Vincenzo Cuoco possiamo credere che rappresenti nel pensiero italiano quella medesima posizione ideale che Edmund Burke rappresenta in quello inglese. Un raf fronto minuto, particolareggiato tra i due scrittori non è stato fatto. Esso riuscirebbe assai interessante, e po trebbe dimostrare come in ogni lato della vecchia Eu ropa l'opposizione alla rivoluzione si faccia in nome d'un ritorno alla tradizione nazionale. Il liberale moderato Cuoco è il rappresentante tipico dell'italianismo risor gente: il Burke whig, cioè in sostanza liberale, non crede ancora esaurita la missione delle antiche classi storiche, almeno nella vecchia Inghilterra. È facile vedere alcuni punti di contatto tra i due scrittori d'opposizione. Fre quentemente il Cuoco deplora l'esagerazione dei princípi di libertà e d'eguaglianza. Gli uomini, se, di diritto, dinanzi alla legge, sono uguali, serbano una originaria disugua glianza nel fatto: vi sono i buoni e i cattivi, gli operosi e i parassiti, i borghesi industriosi e i lazzaroni oziosi, gli aristocratici colti e gli aristocratici gaudenti: il governo dello Stato deve essere riserbato ai migliori, cioè ai bor ghesi, e lo vedremo documentato in seguito, poi che questi soli sono maturi. « Quando le pretensioni di eguaglianza si spingono oltre il confine del diritto, la causa della libertà diventa la causa degli scellerati. La legge, diceva Cicerone, non distingue più i patrizi dai plebei: perchè dunque vi sono ancora dissensioni tra i plebei ed i pa trizi? Perchè vi sono ancora e vi saranno sempre, i pochi e i moiti: pochi ricchi e molti.poveri, pochi indu striosi e moltissimi scioperati, pochissimi savi e moltissimi stolti » (.1 ). Se diamo una scorsa ai Discorsi parlamentari o alle Riflessioni sulla rivoluzione francese del Burke scaturi scono osservazioni assai consimili, nel senso, che pur am mettendo liberalmente una rotazione di classi, il politico inglese crede ad un ordine sociale, in cui l'aristocrazia d'Inghilterra ha ancora una sua propria missione. Certo vi sono differenze tra i due scrittori, ma le analogie sono sempre interessanti. S'intende, l'aristocrazia politica del Burke, il lievito, possiam dire, della grande vita costituzio nale d'Inghilterra è qualche cosa di diverso dalla nobiltà italiana, con la quale parola il molisano indica « un ceto che più non deve esistere, ma che ha esistito finora » (2 ). Ma le nazioni hanno svolgimenti diversi e bisogni spesso opposti: quel, che nell’un paese si chiama con lo stesso nome che nell'altro, a volte è una cosa sostanzialmente diversa, secondo varî elementi. Ma non posso lasciare questo argomento senza notare come lo stesso Burke nelle sue Riflessioni sulla rivoluzione francese si rifaccia ad una valutazione, nella sua natura, simile a quella del Cuoco. Il liberale Burke nella rivoluzione d'Oltre manica vede la negazione del suo moderatismo, una ri voluzione, che prescinde dalle realtà peculiari d’un po polo, quale l'inglese, la cui vita è un esempio dimirabile continuità politica, una rivoluzione che pretende di struggere il passato, anche laddove il passato è il presup posto d’un non disprezzabile presente; uno Stato, che rigetta alcune classi per altre, invece di sintetizzarle in una volontà superiore ed unica; uno Stato, che rigetta elementi sociali di primissimo ordine, senza pensare che si possano utilizzare per la vita civile, perché hanno ancora energia e sopra tutto hanno quell'esperienza pub blica, che ad altri manca. All'inglese, per cui la vita civile dei popoli è un prodotto graduale d'una evoluzione storica incancellabile, per cui la costituzione de' padri è una conquista continua, nell'aderenza più completa coi (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVIII, p. 100. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XX, p. 109. 115 n mille bisogni d'un popolo secolare, la nuova pretesa di derivare un ordinamento democratico, valido per tutte le genti del globo, desumendolo dalla pura ragione, appare veramente ridicola. Mi sembra che il parallelo tra il Cuoco e il Burke non potrebbe essere più calzante, sia pure tra numerose differenze. Il Burke è un oratore, un parlamen tare, pratico e sensibile politico, che non risale mai a con siderazioni superiori, pur quando la sua critica potrebbe coinvolgere non solo la mentalità rivoluzionaria francese, ma una mentalità, che è di tutti i tempi e di tutti i paesi. Il Cuoco invece, testa politica ma di volo più robusto, dai particolari ascende ai princípi, dai fatti ritorna alle idee, che hanno un corso eterno ed uno sviluppo continuo, per foggiare un suo sistema, che, collaudato da una espe- ' rienza moderna ed antica, ha in sè qualcosa di ferreo. Sì, il Cuoco si può raffrontare al Burke, ma il Saggio storico 1 « è un'opera capitale di pensiero storico, la quale, come osserva B. Croce (1 ), tiene in certo modo in Italia, e forse con maggiore altezza filosofica le celebri Riflessioni sulla rivoluzione francese », non fosse altro per la vastità del campo d'osservazione, per il senso vigile, che vi do mina, della storia, come eterno farsi, come eterno divenire dello spirito umano. Della maggiore levatura del moli sano sull'inglese noi abbiamo una prova sicura e positiva nell'atteggiamento definito di fronte alla rivoluzione: il Burke da una critica superiore passa presto all'op posizione sistematica, vedendo pura ribellione, mero ri voluzionarismo, semplice neomania, anche ove vè sano liberalismo, desiderio d'un nuovo pacifico equilibrio, rifor mismo contenuto entro limiti di saggezza, sicchè i benefici effetti del movimento gli sfuggono: il Cuoco, invece, rico nosce le origini delle rivoluzioni come legittime, e le spiega completamente; nega, sì, l'applicazione universale dei princípi da essa desunti, ma, nello stesso tempo, sa va lutare l'importanza della nuova situazione creatasi, dalla (1) B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza ed., 1921, v. I, p. 9 e sgg. 1 116 quale nessun paese, nè l'Italia, nè l'Inghilterra, può prescindere (1 ). Siamo giunti alla fine del nostro discorso sul Saggio storico. Come quest'opera sia nata, dal punto di vista materiale, ove sia stata scritta, come sia stata concretata, a noi importa assai poco. L'esame che ne abbiamo fatto non può non essere sommario, incuneato com'è in un più vasto problema: il pensiero politico di Vincenzo Cuoco, che non si esaurisce, come comunemente si crede, nel Saggio, ma trova il suo naturale sviluppo e comple mento negli articoli del Giornale italiano, che il molisano venne scrivendo negli anni 1804-1806, dopo il grande successo che ebbe il Saggio nell'ambiente milanese (2 ). Il Saggio storico, per chi ricerchi la sua genesi spirituale, si svolge spontaneamente dai Frammenti di lettere a V. Russo, de cui principi è la riprova vissuta, l'espe rienza. Se la rivoluzione di Napoli ha avuto una utilità, è questa: il foggiarsi d'una coscienza italiana, che all'estre mismo e all'astrattismo oppone una veduta moderna e positiva della vita pubblica. Nel Saggio, abbiamo detto, dette (1 ) Conobbe il Cuoco quando scrisse il Saggio storico sulla ri voluzione napoletana le Reflections on the French Revolution di Edmund Burke? Con ogni probabilità, sì. Le sopra Reflections furono pubblicate per la prima volta neil' ottobre del 1790, vale a dire dieci e più anni prima dell'opera del no stro. Nel Saggio stesso vi è una nota in cui il nome del Burke spicca evidente e col nome un suo giudizio (II, p. 18 ). Il Cuoco conosce assai bene i princípi costituzionali inglesi e ne fa sfoggio nelle sue opere. Il popolo inglese lo interessa assai, e le scritture d'autori inglesi ha spesso fra le mani e le recensisce nel Giornale italiano (cfr. 1804, n. 17, 8 febbraio, p. 68; -1804, n. 28, 5 marzo, pp. 111-12; 1804, n. 54, 5 maggio, pp. 215-216; 1804, n. 58, 12 maggio, p. 228; ecc. ). Che l'opera del Burke, V. Cuoco conoscesse assai profondamente, lo dimostra una re censione (cfr. Giorn. ital., 22 settembre 1804, n. 114, p. 446), ove egli discorre abbondantemente e fa un largo elogio di una traduzione italiana d'una opera estetica del celebre autore in glese, Essay on the Sublime and Beautiful, Tutto ciò mostra una conoscenza delle cose d'oltre Manica assai profonda, prima e dopo la pubblicazione del Saggio. (2 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 34: G. Cogo, op. cit., p. 10. 117 non è tutto il Cuoco, non è tutto il suo pensiero politico, ma è certo quanto di meglio abbia prodotto il suo genio, dal punto -di vista artistico. Il Gentile, giudice di alto valore, crede il Rapporto al re Murat per l'ordinamento della pubblica istruzione, di cui avremo a parlare in seguito, quando tratteremo d'altri atteggiamenti spirituali del Cuoco, crede dunque il Rapporto, insieme con il Saggio storico, « ciò che di più notevole produsse il pensiero napoletano in quegli anni agitati tra il '99 e il '20 » (1 ). Ma ciò riguarda più il valore politico dell'opera, di cui diciamo, piuttosto che il valore artistico. Dal punto di vista puramente storico, dal 1801 in poi gli scrittori hanno cercato in varî modi di far luce sugli avvenimenti napoletani, ma le conclu sioni, alle quali si è pervenuto, sono sostanzialmente quelle del nostro autore (2 ). Sembra impossibile che un individuo, che, come il Cuoco, scrive pochi mesi dopo la sciagura, di cui è stato egli non piccola parte, possa superare i fatti stessi e la sua per sonale passionalità, in una lucida espressione artistica, che di converso è anche una mirabile storia umana. Lo storico si leva sugli avvenimenti, e il suo sguardo pene tra a fondo nello spirito degli uomini e nel corso delle cose, allargando la sua visuale dai fenomeni particolari ai princípi che sono eterni, dal problema peculiarmente napoletano a questioni che sono europee, a considera zioni più largamente umane. L'artista poi trova l'espressione più adeguata e palpi-. tante in una forma, che non si sa se più ammirare per la sua immediata precisione o per la sua sinteticità taci (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 279. (2 ) Un'offensiva anticuochiana tenta L. CONFORTI, op. cit., P: 21 e sgg., ma da un punto di vista assolutamente errato é falso. Dopo quanto abbiamo scritto per il Tria una confuta zione delle affermazioni del Conforti ci appare inutile, anche perchè non potremmo che ripetere ciò che già fu detto dal RUGGIERI, op. cit., p. 104 e sgg., e dal ROMANO, op. cit., p. 99. 118 tiana, a scatti, nervosa, e pur viva e palpitante (1 ). In un mondo di riflessi e di chiaroscuri, di luci e di ombre, le figure dei tragici eroi del '99 appariscono scolpite per l'eternità, appaiono martellate nel marmo da una mano michelangiolesca. Io non conosco pagina di storico mo derno, che mi animi la trista figura del Vanni, bieco stru (1 ) Anche qui non mancarono i critici. Il GIORDANI, per esempio, in un abbozzo di opera, che aveva intenzione di scri vere col titolo di Studi degli Italiani nel secolo XVIII, discor. rendo di quelli che « sono venuti in tanta stoltizia che hanno fermato non esservi arte alcuna di scrivere », osserva che in vece: « l'esperienza e la ragione e l'autorità de' primicomprova che vi è: ed è fra tutte difficilissima: e ben lo notò Cicerone che pur futra’ principali. Ma dovette credersi più savio ed esperto di Cicerone quel Vincenzo Cuoco che scrisse non darsi arte di scrivere, e quello che in poche parole affermò, ben con troppe carte, quanto a sè, confermò ». (Scritti editi e postumi, pubblicati da A. Gusalli, Milano, Borroni e Scotti, 1856, v. I, p. 187 e sgg). Giudizio addirittura stroncatorio ! Del resto l'ar tifizioso Giordani per la sua cultura accademica, per la sua mentalità scolastica era il meno adatto ad intendere la spon taneità geniale dello scultore del Saggio. Ben altro giudizio di quello del Giordani dovea dare di V. Cuoco il Manzoni, per esempio ! Forse per reazione al Giordani il SETTEMBRINI (op. cit., v. III, p. 280) nella sua felice esaltazione del Saggio, come opera di pensiero, in cui il Cuoco, pur narrando i fatti da pa triota, « li considera da filosofo, e la sua filosofia non è tutta francese, ma è anche senno italiano, è la sapienza storica di Giambattista Vico e di Mario Pagano », venendo quindi a dire della lingua della grande opera, « nella quale si sente il mesco lamento di due popoli », il francese e l'italiano, prorompe: « Che importa a me di lingua non pura e di francesismi, se io non me ne accorgo perchè le cose che dice mi occupano tutta l'anima, e in quella lingua torbida io vedo e sento tutto quel torbido rimescolamento diuomini e di cose? È la lingua stessa del Filangieri, del Beccaria, del Verri, con qualche cosa di più che viene da un profondo sentimento di dolore. Dopo il 1815 i grammatici s' intabaccarono con la Polizia e con l' Indice, e dissero che gli scrittori del tempo della Rivoluzione furono scorretti di lingua, anzi barbari, anzi senza italianità, e da non leggersi, e da dimenticarsi: e così Vincenzo Cuoco fra gli altri fu proscritto da tutte le potestà. Noi dobbiamo conoscere quest'uomo che fu il solo scrittore di pregio che i napoletani ebbero durante la rivoluzione, il solo che in sè stesso raccoglie il senno e la fortuna di un regno ». 119 mento borbonico di reazione, con tratti così rudi ed espres sivi, come quelli dello scrittore civitese. « Lo sguardo di Vanni era sempre riconcentrato in sè stesso; il colore del volto pallido- cinereo, come suole essere il colore degli uomini atroci; il suo passo irregolare e quasi a salti, il passo insomma della tigre: tutte le sue azioni tendevano a sbalordire ed atterrire gli altri; tutt' i suoi affetti at terrivano e sbalordivano lui stesso. Non ha potuto abitar più di un anno in una stessa casa, ed in ogni casa abitava al modo che narrasi de ' signorotti di Fera e di Agrigento. Ecco l'uomo che dovea salvare il Regno ! » (1 ). V’è in questa prosa lucida e insieme aderente alla realtà dello spirito, tutta l'eloquenza di Livio, tutta la concentrata possanza di Tacito, v'è la acutezza di Ma chiavelli, l'oscura densità di Vico. Una parola scolpisce un individuo, una immagine ci rende un uomo. « Schipani rassomiglia Cleone di Atene e Santerre di Parigi. Ripieno del più caldo zelo per la rivoluzione, attissimo a far sulle scene il protagonista d'una tragedia di Bruto, fu eletto comandante di una spedizione desti nata passar nelle Calabrie, cioè nella due provincie le più difficili a ridursi ed a governarsi, per l'asprezza dei siti e per il carattere degli abitanti. Non avea seco che ottocento uomini, ma essi erano tutti valorosi e di poco inferiori di numero alla forza nemica » (2 ). Ecco come un raffronto, anzi due raffronti ci dànno il tipo dell'eroe gia cobino, pieno di pseudo-romanità teatrale, e perciò lon tano dal secolo, in cui vive ed opera. Dovrei continuare.... Caracciolo e la battaglia navale di Procida, la difesa del forte di Vigliena sono nella narrazione del Cuoco poche righe, ma s'imprimono indelebilmente nella memoria di chi legge e suscitano una larga fantasia. Le pagine che lo scrittore dedica alla reazione sanfe dista e alla caduta della repubblica fanno fremere. Chi non ricorda il combattimento intorno ad Altamura? (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, VI, p. 35. (2) V. Cuoco, Saggio storico, XXXIII, p. 150, 120 « Il disegno di Ruffo era di penetrar nella Puglia. Al tamura formava un ostacolo a questo disegno. Ruffo l'assedia; Altamura si difende. Per ritrovare esempi di difesa più ostinata, bisogna ricorrere ai tempi della storia antica. Ma Altamura non avea munizioni bastanti a di fendersi; impiegarono i suoi abitanti i ferri delle loro case, le pietre, finanche la moneta convertirono in uso di mi traglia; ma finalmente dovettero cedere. Ruffo prese Altamura di assalto, giacchè gli abitanti ricusarono sem pre di capitolare; e, dove prima nelle altre sue vittorie avea usato apparente moderazione, in Altamura, sicuro già da tutte le parti, stanco di guadagnar gli animi che potea ormai vincere, volle dare un esempio di terrore. Il sacco di Altamura era stato promesso ai suoi soldati: la città fu abbandonata al loro furore; non fu perdonato nè al sesso nè all'età. Accresceva il furore dei soldati la nobile ostinazione degli abitanti, i quali, in faccia ad un nemico vincitore, col coltello alla gola, gridavano tutta via: Viva la repubblica ! Altamura non fu che un mucchio di ceneri e di cadaveri intrisi di sangue » (1 ). Ma ove il Cuoco raggiunge le vette dell'eloquenza, e la sua espressione è cristallina, d'una cristallinità meravi gliosa, è nelle pagine da lui dedicate alla ricordanza dei grandi caduti, ai mani grandi di Cirillo, di Grimaldi, di Caracciolo, di; Carafa, di Conforti, della Fonseca. Alle volte è un episodio che lo scrittore riferisce, un aneddoto, una parola pronunziata: basta, una figura s'illumina. Io non so, ma, forse, non c'è biografia dell'autore dei Saggi politici che valga le poche righe, che Vincenzo, discepolo riverente, dedica al maestro immortale. « Pa gano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio. Il suo Processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLV, p. 183. 121 che vi possano servir di guida per raggiugnere i voli di Vico » (1 ). V'è una grandezza degna di Machiavelli. Insomma il Saggio storico non è solo un monumento di sapienza politica e di grande istoria, ma è ancora un capolavoro d'arte, forse la più grande opera di prosa italiana, che dal Machiavelli al Manzoni si sia scritta. I protagonisti del dramma, e il poeta li coglie in atto, in tutta la loro spiritualità, illuminati da una luce di pen siero, possono sembrare ad alcuno marionette agitate da un triste fato. Non è così ! Gli uomini determinano gli eventi, sono gli operatori della vita civile, dell'orribile rivoluzione; sono essi stessi, poi, che cadono sotto il peso dei loro errori. La loro autonomia così è salva. La storia del Cuoco è storia di idee, da cui uomini potrebbero ban dirsi ed essere sostituiti con lettere dell'alfabeto, X, Y, 2.... Sì, è vero, poichè l'autore mira alle cose, agli interessi, ai bisogni; ma non dimentichiamo che i bisogni, gli inte ressi, le cose, sono in quanto vi sono gli uomini: il Cuoco politico, che scaccia la personalità dalla storia, è vinto dal Cuoco artista, che a tratti nervosi ed icastici scolpisce una figura, anima una creatura umana. Lo storico ab- · braccia un vasto quadro, e ricerca il corso eterno di quelle idee, sulle quali corrono gli eventi delle nazioni, e per lui gli uomini sono elementi particolari e transeunti, meteore, che oggi sono e domani non saranno: l'artista, integrando lo storico, anima gli uomini, e di essi e del loro spirito vede piena la vita, di cui essi stessi sono i fattori. Tra storico ed artista, insomma, c'è una supe riore armonia. « Il realismo della rappresentazione, la nettezza del [ contorno » scrive Giovanni Gentile « il rilievo delle figure, la luce di tutto il quadro » fanno del Saggio « una delle maggiori opere storiche di tutte le letterature. Gli uo mini ci vivono ntro con la vita individuale della loro psicologia, intuita in atto, e con la vita storica, e più vera, degli interessi che rappresentarono, delle idee onde (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, L, p. 208. 122 furon investiti, della logica che li governd. Pochi i nomi, e le figure appena abbozzate a tratti rapidi, scultorii, quasi danteschi: l'interesse dello scrittore è per l'in sieme, per le cose, come ei diceva, e per le idee, da cui gl'individui son dominati, e che giovano più all' istru zione di chi legge. Pure, dove sorgono quelle mozze figure, è tanto il sentimento che lo scrittore vi spira dentro, e così fosca la luce in cui le avvolge, che l'opera politica, più che storica, s'anima del patos d'una tragedia » (1 ). Questo giudizio riecheggia con maggior precisione il giu dizio, che sul capolavoro cuochiano ebbe ad esprimere Luigi Settembrini (2 ). Il De Sanctis conobbe il Cuoco; se pur non integralmente, conobbe certo il Saggio storico e il Platone in Italia, ma in lui non vide il maggior pro satore dell'èra napoleonica; non vide che un mero disce polo di Giambattista Vico. Del resto ai critici come ai poeti non possiam chiedere più di quel che ci hanno dato, quando quel che ci hanno dato, ed è il caso di Francesco De Sanctis, è perfetto. (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 351 e sg. (2 ) Luigi SETTEMBRINI. Napoleone e la sua politica generale. L'antifrancesismo di Cuoco: reazione italiana. - Il prin cipio monarchico s'incarna in Napoleone. - I benefici della rivoluzione. - La borghesia. - La proprietà base del nuovo ordine civile. - Quarto stato: proletariato. - Milizia. - Liberismo e protezionismo economico. – Lo Stato napoleonico. - L'unità d'Italia in rapporto alla politica generale europea. - Anglofobia di Cuoco. Stato e religione. - Giurisdizionalismo. Una illazione, forse fuori di posto, che si suole trarre dall'atteggiamento di Vincenzo Cuoco di fronte alla rivo luzione di Francia e al giacobinismo napoletano, è quella di un vero e proprio suo antifrancesismo. Paul Hazard nel suo bel libro La révolution française et les lettres ita liennes, parlando del molisano, al quale egli dedica un buon capitolo, che io credo una delle cose migliori che sul nostro sia stata scritta, ponendo in rilievo la sua op posizione all'astrattismo giacobino, accenna non solo ad una reazione culturale dell'italianismo, e fin qui tutto è legittimo, ma crede di poter rinvenire una vera e pro pria opposizione di natura politica (1 ). È un punto non solo storicamente importante, ma anche degno di di (1 ) P: HAZARD, op. cit., pp. 218 e sg. 124 scussione per intendere un nostro giudizio sul Cuoco, che abbiamo detto essere assai coerente nel suo sviluppo spirituale, affermazione e giudizio, che ora — è venuto il tempo dobbiamo dimostrare, per respingere, di ri flesso, la taccia, che all'autore del Saggio è gettata di opportunismo e di particolarismo. Solo risolvendo questo problema, potremo intendere la situazione del Cuoco a Napoli, la sua visione generale della politica repubblicana e poi di quella napoleonica, la sua concezione dello Stato, la sua risoluzione d'un antico problema, i rapporti tra Stato e Chiesa, tutte questioni che formano la materia del presente capitolo. La critica, che il Cuoco fa della rivoluzione francese - astrattismo, esaltazione di princípi, democratizzazione universale – non è solo critica metodologica e filosofica, ma anche critica politica. Che cosa egli vede nei francesi? Nei francesi vede un popolo, il quale tende a sostituire il proprio spirito, la propria natura, la propria tradizione allo spirito, alla natura, alla tradizione nostra. L'opera cuochiana, vista nel suo complesso, è dunque una reazione al francesismo dilagante in nome della cultura e delle glorie italiane, in nome della nostra storia: ben ha fatto l' Hazard, allorchè, sia pure con qualche esagerazione propria della dimostrazione assunta, ha impersonata que sta cultura, questa gloria, questa storia proprio in Vin cenzo Cuoco. Tutto l'atteggiamento mentale di Vincenzo è diffidenza contro i francesi e contro coloro che credettero di po tere imporre senza difficoltà gl' immortali princípi con le baionette. Il Saggio storico, che il critico francese de finisce l'esame di coscienza del popolo italiano, è infine la denunzia documentata di un sistema che non va; è la critica senza tregua di un ibridismo politico che la realtà smentisce. La documentazione non potrebbe es sere più sicura e più ricca. E il modo questo di porta la libertà, l'uguaglianza, la fraternità? di farsi amare dalle popolazioni illuse? Il popolo italiano, sembra dire il Cuoco, che aspetta l'indipendenza, e fors'anche l'unità, dall'opera altrui, s'adagia in una troppo beata attesa di 125 ciò che non sarà mai. La libertà, l'unificazione, l'indi pendenza occorre sapersele conquistare attraverso un'o pera lunga indefessa grave. Bisogna rendersi degni di miglior fortuna, e però bisogna rendersi prima spiritual mente migliori: divenire prima cittadini in ispirito della gran patria Italia per poi esserlo di fatto. Attendere la libertà come un dono dagli altri? Ohimè ! La libertà, prima di essere libertà civile, è libertà di pensiero, auto nomia di cultura. Possiamo mai essere liberi noi, che prima di essere italiani, vogliamo essere francesi, noi che nelle cose più banali e più grandi, nella foggia del vestire e nell'ordinamento costituzionale, ci allontaniamo sempre più dalla nostra natura per acquistarne un'altra estrin seca? Le nazioni hanno un corso che è unitario e lineare, perchè determinato da un primitivo impulso, che costi tuisce il fondo materiale e morale della loro vita. « Una nazione che si sviluppa da sè acquista una civiltà eguale in tutte le sue parti, e la coltura diventa un bene generale della nazione » (1 ). Ecco quindi come l'elemento cultu rale si lega intimamente alle fortune politiche di un paese. Una nazione, che imita un'altra, perde ogni com pattezza, ogni omogeneità, ogni ideale coerenza, e non può che restare inferiore al modello, che ha dinanzi, senza considerare che la perdita dell'unità spirituale porta seco fatalmente la perdita dell'unità politica, se questa già c'è, ' o ritarda la sua formazione, se questa manca. « Non può mai esser libero » ammonisce il Cuoco « quel popolo in cui la parte che per la superiorità della sua ra gione è destinata dalla natura a governarlo, sia coll’auto rità sia cogli esempi, ha venduta la sua opinione ad una nazione straniera: tutta la nazione ha perduta allora la metà della sua indipendenza » (2 ). A ciò bisogna aggiungere considerazioni d'altra natura. Il Cuoco nel suo stesso fondo culturale è antirepubblicano, antirepubblicano per princípi, che trascendono la sua stessa esperienza politica, la sua prassi civile. Ci obiet (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 90, nota. (2 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVI, p. 91. 126 teranno: ma la sua partecipazione al moto del '99, par tecipazione (1 ) che oggi al lume della critica storica appare più importante che per l'innanzi non fosse sem brato, come si spiega? È dovere del buon cittadino ser vire la patria, qualunque sia la forma di governo, qua lunque sia il suo reggimento politico. Senza dimenticare che tra i Borbonici malversatori e le nobili figure re pubblicane di Cirillo, di Pagano e di Ciaia Cuoco sapeva fare le opportune distinzioni. Io credo che l'opposizione antirepubblicana e antigia cobina del Cuoco derivi da veri e propri princípi filoso fici, oltre che da pura ostilità pratica, che potrebbe anche essere un fenomeno transeunte. Nei Frammenti di lettere, cioè nel pieno della rivoluzione scriveva che « un re ere ditario..., quando non ad altro, serve a togliere agli altri l'ambizione di esserlo »; e che egli credea « la monarchia temperata meno di quel che si pensa nemica degli ordini liberi » (2 ). A me pare che il Cuoco inclini ad una forma di monarchia costituzionale vera e propria. La vita dei popoli corre uno sviluppo prestabilito. Dall'assoluta ti rannia all'assoluta libertà è un passo, da un eccesso al l'altro eccesso: il punto d'equilibrio, che salva l'unità e la coerenza interiore delle stirpi, è la monarchia costitu zionale. La libertà è un astratto. Bisogna che il popolo se ne renda degno, ed abbia nello stesso tempo un inte resse nella libertà, in quanto questa effettivamente mi gliori la convivenza civile. Bisogna in sostanza che il popolo sia maturo per le conquiste rivoluzionarie, e com prenda: se non è così, gli stessi più alti benefíci si con vertono in pericoli. È matura, si domanda il Cuoco, l'Eu ropa per l'assoluta libertà, per la repubblica? È matura Napoli per accogliere ordini rivoluzionari? La risposta (1 ) Alludo alla preparazione del moto insurrezionale in Avi. gliano, all'opera repubblicana che il nostro preparò in Basili cata. Questa attività cuochiana era rimasta nell'ombra fino a ieri: il primo che l'ha studiata e documentata è stato M. Ro MANO, op. cit., p. 19 e sgg. (2 ) Framm. III, p. 250. 127 non lascia dubbio. I popoli hanno ancora bisogno d'una guida, hanno bisogno d'una forza, che li tenga costretti nei limiti d'una volontà generale, pur contemperando questa con una maggior autonomia delle volontà parti colari o individuali. Questi sono gli ordini costituzionali. Gli ordini giacobini sono costituzionali a parole, in realtà sono anarchici, libertari. La saggezza dei popoli è ancora da ritrovarsi: i popoli sono ancora più fantasia e mito, senso e leggenda anzi che pensiero ed intelletto: i gover nanti mostrano di non avere intesa questa complessa e primordiale natura loro. I popoli hanno bisogno d'un in telletto, che li guidi ed eserciti ciò che essi, tutto senso e poesia nel significato vichiano, non possono esercitare, la volontà dell'intelletto. « Un sovrano saggio sul trono » scrive il molisano, « è meno raro d'un popolo saggio ne' comizi » (1). Notiamo che il Cuoco scriveva queste righe, quando l'astro di Napoleone non brillava ancora di pura luce, di tutta la luce grande che doveva poi spiegare, quando egli scrivendo non poteva menomamente pen sare che dalle repubbliche di Francia e d'Italia doveva svolgersi il consolato, l'impero. Il Cuoco ci appare dunque coerente. I suoi sentimenti, ripetiamo una sua frase ti pica, sono eterni. In Napoleone egli vedrà realizzato po sitivamente tutto il suo grande ideale. Nessuno potrà accusarlo di particolarismo, d'amore per il suo parti culare. Ora nella repubblica francese Vincenzo Cuoco vede pre cisamente la negazione di tutto il suo sistema politico, l'astrattismo formulante vuoti schemi per chiudervi l ' ineffabilità delle determinazioni naturali; la democra (1) Framm. III, p. 242. Quanto quei sentimenti siano ra dicati nel Cuoco puoi vedere leggendo i suoi articoli su pro blemi politici: in particolare cfr. Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; p. 260, p. 264; 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 26-28. Nel Platone in Italia, v. I, p. 142 e sgg., riconferma il suo pensiero, « riafferma », come scrive il ROMANO, op. cit., p. 85, « la sua fiducia in ungoverno misto, temperato, tra la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia ». 128 zia universale, che cerca di sovrapporsi a popoli, diversi di coltura e di interessi, per costringerli ad accettare un governo monotono uguale; la volontà generale, che cozza con le volontà singole; un pazzo alternarsi d'anar chismo e di tirannia. Che cosa è mai questa benedetta libertà, che i francesi portano? È la più sfacciata tirannia. Essere libero signi fica adattarsi al metodo, all'andazzo giacobino; se no, guai a chi si oppone: le baionette strappano il consenso liberamente mancato. La libertà imposta non è più li bertà, cioè libero volere, libera determinazione. La libertà data dalle repubbliche, nota Vincenzo, è sempre più dura che non la libertà data dai re. Sembra un paradosso, ma è così. Le repubbliche sono infatuate dai loro prin cípi, e credono che tutti siano desiderosi di comparteci parne, e quando li vedono ripudiati, li impongono, poi che non vedono bene e felicità fuori di essi. L'antifrancesismo, dunque, di Vincenzo Cuoco real mente ha radici profonde in questioni di metodo e di po litica. Il Cuoco non è un repubblicano. Egli vagheggia forme costituzionali, che sintetizzino l'indirizzo potente mente unitario dello Stato con le volontà autonome delle popolazioni. Queste considerazioni di natura generale possono spie garci vari punti della biografia di Cuoco, che altrimenti sarebbero destinati a rimanere senza delucidazioni; pos sono darci la ragione della scarsa sua partecipazione alla rivoluzione partenopea, la ragione forse della sua sal vezza dopo la prigionia borbonica, la ragione del suo iso lamento a Milano prima che un nuovo ordine un po' più schiettamente italiano e meno repubblicano non venga a costituirsi; questioni, assai gravi, come ognun vede, ma che acquistano maggior luce, se le si riconducono ai princípi, che sopra abbiamo accennato. Il pensatore, che, criticando il progetto di costituzione del Pagano, scriveva a Vincenzio Russo amaramente ed ironicamente nello stesso tempo: « Oh ! perdona. Non mi ricordavo di scrivere a colui, che, sull'orme della buona memoria di Condorcet, crede possibile in un es 129 sere finito una perfettibilità infinita »; il pensatore, che così ironicamente pungeva l'amico, è lo stesso uomo, che oggi a Milano esule ricorda a un suo intimo il suo co stante odio contro i Galli (1 ). « Non ti pare che io era profeta » scrive « quando in faccia a Scipione Lamarra (generale e carceriere dei repubblicani del 1799 ) mi dissi cisalpino? E profeta anche più grande, quando diceva tanto male dei francesi? Eccomi dunque cisalpino, per chè in Milano, ed odiator de'Galli, quale lo era nel '93, nel '94, nel '95, nel '96, nel '97, nel '98 e finalmente in Capua nel '99. I miei sentimenti sono eterni. » Il Cuoco ci appare come il più genuino rappresentante di un pensiero politico in tutte le sue manifestazioni in an titesi col pensiero e con la prassi politica francese. Il suo spirito storico e pratico lo rimena al Vico, l'investi gatore profondo delle leggi, che governano il corso delle nazioni, al Machiavelli, che dai fatti trae le norme della vita pubblica, al Montesquieu, il più acuto studioso della natura delle leggi e della loro conformazione ai bisogni fisici e spirituali de' popoli. Nel Saggio, ricordiamo, dopo avere analizzato quanto la rivoluzione era lontana dalla vita italiana e napoletana, quanto i bisogni nostri eran, diversi da quelli francesi, quanto i nuovi princípi erano astrusi, scrive delle righe assai importanti per una com prensione del suo pensiero. « La scuola delle scienze mo rali e politiche italiane seguiva altri princípi. Chiunque avea ripiena la sua mente delle idee di Macchiavelli, di Gravina, di Vico, non poteva nè prestar fede alle pro messe nè applaudire alle operazioni de ' rivoluzionari di | Francia, tostochè abbandonarono le idee della monar chia costituzionale » (2 ). Ecco, l'opposizione politica di viene una vera e propria reazione culturale in nome del l'italianismo. Non mi sembra più il caso ora di dubitare circa la po (1 ) La lettera che segue, pubblicata per primo da M. Ro MANO, op. cit., p. 269, in parte fu poi ripubblicata da G. GEN TILE, Studi vichiani, p. 350. (2 ). V. Cuoco, Saggio storico] sizione del Cuoco di fronte alla rivoluzione. Il Cuoco non è repubblicano, è monarchico costituzionale. Il Cuoco è antifrancese perchè è troppo profondamente italiano. La posizione non potrebbe essere più chiara. Questa rinnovata posizione di critica non conduce però Vincenzo ad un isolamento politico totale. Egli s'oppone ad uno stato di cose profondamente radicato nella vita contemporanea, ma crede suo dovere agire, operare in un mondo di illusi e di dormienti, mostrare agli italiani quanto essi siano in errore, ripudiando la loro essenza per una natura estrinseca. Come nel '99 egli, vagheggia tore d'una repubblica costituzionale indipendente, da fondarsi subito dopo la partenza dei Borboni, prima del l'ingresso dei francesi, d'una repubblica nazionale, non soggetta ad alcun influsso estraneo, che sapesse intendere la natura del popolo, e su questo solo trovasse la base d'ogni suo operare, rendendolo partecipe ed interessato, non seppe, non potè abbandonare i suoi generosi compa gni per problemi e dissensi di carattere teorico, e si senti travolto in quel vortice che pur non amava; così oggi, a Milano, ricostituitasi bene o male una parvenza di libertà italica, egli è al suo posto di combattimento, assertore infaticabile delle più pure idealità nazionali. La vita ha una sua particolare dialettica. Questo spie gamento non è lineare uguale, ma inframmezzato da cu riosi contrasti: una affermazione è implicita nell'atto stesso della negazione. La rivoluzione francese, che nega la storia, è nella storia, e afferma la storia. Tutto il movi mento post -rivoluzionario, in antitesi alla rivoluzione, nasce da uno stesso getto, con la rivoluzione. L'illumini smo afferma l'assoluto della ragione e da questa desume formule e princípi ad informarne la vita. Il nuovo pen siero trova il fondamento di tutto nello spirito, che è in sè e fuori di se, istoria e natura, sviluppo continuo, pro duttività infinita, principio attivo. Il Fichte in Germania in parte è ancora nella rivoluzione; lo Schelling e l'Hegel, e con essi tutto il movimento storicista nella politica e nel diritto, sono già fuori dalla rivoluzione. La filosofia della rivoluzione non aveva prodotto un vero sistema costitu 131 zionale, aveva ondeggiato tra troppo opposti princípi, per finire ad uno Stato, il cui contenuto etico era e non era. La nuova filosofia riconsacra nella natura lo spirito, e lo spirito sublima nello Stato, sua perfetta creazione. La fatale necessaria evoluzione dello spirito porta allo Stato, e in esso celebra, diciamo pur così, tutto sè stesso. Chi dice Stato dice realtà ed ideale, autorità e libertà, forza e consenso. È la reazione dello Schelling e dell’Hegel alla rivoluzione. È la stessa reazione, ma anticipata, di altri filosofi della restaurazione. In Italia questa reazione, che però è una rivalutazione dello Stato monarchico nel suo contenuto etico, è fatta da Vincenzo Cuoco. Col Cuoco, giornalista nella repubblica cisalpina e poi nel regno italico, la rivoluzione muore, depone il berretto frigio, lascia il posto allo Stato, come manifestazione ultima d'un processo etico, in cui la libertà è nel con senso, l'unitarietà nella forza. Pochi hanno notato l'importanza del molisano, come rivendicatore del principio monarchico. Si è detto che egli è il primo, che si faccia araldo del problema unitario in quanto problema spirituale e pedagogico; ma si è dimenticato che nel suo pensiero il fine della rinascita morale è una unità, che non può ottenersi che nella mo narchia. Affermazione questa, notiamo, che non implica alcun assoluto politico, ma che è la risultante di mere contingenze storiche, di una vera impreparazione popo lare a più ampie libertà, da studiarsi, dunque, nell'am biente, in cui e per cui il Cuoco l'esprime. Il processo pedagogico, che deve condurre all'unità, è un processo nulla affatto rivoluzionario, anzi evolutivo. Mentre in Germania questa rivalutazione è posteriore: alla rivoluzione, mentre in Germania il Fichte, il futuro autore dei Discorsi alla nazione tedesca, scrive il suo Con tributo alla rettificazione dei giudizi del pubblico sulla ri voluzione francese, che non può non essere, nel grave incendio sovvertitore, una partecipazione a quei princípi che agiscono in tutto il movimento, ed insieme una loro legittimazione; in Italia lo spirito nazionale nasce nella stessa rivoluzione, come reazione d'una sostanza speci 132 ficamente italiana ad una forma vuota ed estrinseca che le si vuol sovrimporre. Napoleone per Cuoco è la creatura di genio, che impersona in sè tutto il nuovo ordine di cose, che sorge dalla rivoluzione e alla rivoluzione s'op pone, ordine di cose che il pensatore ha previsto sin dai primi bagliori dell ' incendio giacobino. Le prime pagine del Saggio storico, la Lettera dell'autore all'amico N. 0., la Prefazione alla seconda edizione sono la conferma di tutto ciò, che siamo venuti faticosamente esplicando fin qui. In questi scritti la figura del gran capitano è esal tata: ma, se leggiamo profondo, più che l'uomo fatale sono esaltati il nuovo ordine di cose e i nuovi princípi ci vili, che affiorano nella politica generale di Francia. Il Cuoco, dopo alcuni anni dalla rivoluzione di Napoli, di cui era stato spettatore, si rivolge indietro, rivede con la fantasia accesa tutti gli avvenimenti, che nel breve corso d’un anno, il 1799, la storia ha suscitato nella sua patria: il regno del Borboni ruinato mentre minaccia la conquista d'Italia, un monarca debole abbandonare i suoi Stati, la libertà sorgere e stabilirsi quando meno la si attende, i fati combattere la buona causa, e poi gli er rori e il crollo; rivede tutto con la fantasia e, facendo ciò prova il piacere di chi, essendo stato giudice impar ziale, ha profetato un avvenire, nascente sulle contrad dizioni del presente. L'uomo dei Frammenti è infine il profeta di Napoleone. « Desidero » scrive Vincenzo nella Prefazione alla seconda edizione del Saggio storico « che chiunque legge questo libro paragoni gli avvenimenti dei quali nel medesimo si parla a quelli che sono succeduti alla sua pubblicazione. Troverà che spesso il giudizio da me pronunziato sopra quelli è stata una predizione di questi, e che l'esperienza posteriore ha confermate le antecedenti mie osservazioni » (1 ). La storia ha uno'svi luppo che non falla: lo storico, il quale intende le idee che sono eterne, e non gli uomini che brillano un istante, può a ragione divenir profeta. V'è nelle righe sopra citate (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 8. 133 la soddisfazione dell'uomo, che vede la conferma d'una realtà, che non gli sfugge. « Io ho il vanto » aggiunge « di aver desiderate non poche di quelle grandi cose che egli [Napoleone] posteriormente ha fatte; ed, in tempi nei quali tutt' i princípi erano esagerati, ho il vanto di aver raccomandata, per quanto era in me, quella moderazione che è compagna inseparabile della sapienza e della giu stizia, e che si può dire la massima direttrice di tutte le operazioni che ha fatte l'uomo grandissimo. Egli ha verificato l'adagio greco per cui si dice che gl ' iddii han data una forza infinita alle mezze proporzionali, cioè alle idee di moderazione, di ordine, di giustizia. Le stesse lettere, che io avea scritto al mio amico Russo sul pro-. getto di costituzione composto dall'illustre e sventurato Pagano, sebbene oggi superflue, pure le ho conservate e come monumento di storia e come una dimostrazione che tutti quelli ordini che allora credevansi costituzionali non eran che anarchici » (1 ). V'è qui tutta la spiegazione della nuova situazione, che s'è imposta e di cui il Cuoco si sente partecipe. La rivoluzione era un vortice, che se egli non odiava, certo non amava, al quale s ' era abban donato un po' passivamente, più per criticare che per esaltare, più per negare che per affermare: libertà, fra ternità, vane parole; virtù e gloria: parole astratte, lon tane dall'intendimento del popolo. Il regno d'Italia, l'impero di Francia, ora, sono invece realtà concrete, ove la prassi politica è ispirata al concreto, al benes sere delle genti, è ispirata ad un principio monarchico unitario, che trova una precisa e sicura delimitazione tra volontà generale e volontà particolari, tra governo ed individuo, in una nuova visione costituzionale, per cui lo Stato è concepito come sublimazione dello spi rito, come forza e consenso, e quindi come autorità e libertà. Il Cuoco dinanzi a Napoleone si trova nell'atteg giamento di chi osserva una realtà, a lungo deside rata, finalmente concretata nella politica generale euro (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, Prefazione, p. 9. 134 pea, e non nell'atteggiamento dell'adulatore che leva lodi per averne compensi. Si è voluto dipingere il nostro come un volgare, se pur d'ingegno, procacciante, ma coloro, che hanno sostenuto questa tesi non hanno esaminato certo per intero gli scritti del molisano, o hanno perduto per il particolare quell'esatta e continua visione d'in sieme, che ci spiega solo la natura d'una mentalità poli tica. Il Cuoco è l'uomo dai sentimenti eterni, l'eterno an tigiacobino, e in Bonaparte vede l'uomo geniale, sintesi delle nuove idee, che si sono venute formando, di libe ralismo, di moderazione, d'equilibrio. Come sorgono quegli uomini, che per il volgo sono usurpatori, che per lo storico non sono che l'espressione d'una fatalità storica, determinata da bisogni insiti nelle nature umane? « La mania di voler tutto riformare porta seco la controrivoluzione: il popolo allora non si rivolta contro la legge, perchè non attacca la volontà generale, ma la volontà individuale. Sapete allora perchè si segue un usurpatore? Perchè rallenta il vigore delle leggi; perchè non si occupa che di pochi oggetti, che li sottopone alla volontà sua, la quale prende il luogo ed il nome di volontà generale, e lascia tutti gli altri alla volontà in dividuale del popolo. Idque apud imperitos humanitas vocabitur, cum pars servitutis esset. Strano carattere di tutti i popoli della terra ! Il desiderio di dar loro sover chia libertà, risveglia in essi l'amore della libertà contro gli stessi loro liberatori » (1). L'usurpatore ha una ragione di essere nella stessa esagerazione della rivoluzione, rallenta il vigore delle leggi antiche, lascia pochi oggetti a sè, il resto alla volontà singola. Mentre le repubbliche nel l'esaltazione dei princípi cadono dalla tirannia all'anar chia, dall'eccesso d’una volontà generale, che vuol sof focare ogni autonomia o volontà subiettiva, all'eccesso di volontà individuali che non s'accordano in una vo lontà generale, e viceversa, il monarca trova più facil mente l'equilibrio, che nelle ere primitive è nella forza, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XVII, p. 96. 135 nelle ere evolute nel consenso. Il giacobinismo, esaltando sè stesso, parimenti ha sviluppato una nuova opinione pubblica. Napoleone è il rappresentante di questa nuova opinione pubblica. Non è detto che il potere, che si viene accentrando in un singolo, quando si sia trovata la delimitazione sovraccennata tra individualità e legge, sia per sè stesso cattivo: quand'esso, anzi, è saldo sicuro, può anche essere umano e temperato. È carattere pro prio dei principi deboli essere sospettosi e feroci, mentre i sovrani, potenti su basi di consenso e di forza, non possono che essere equanimi, larghi, liberali. Tutta la logica storica cuochiana porta alla monarchia: la monarchia, date le condizioni dei tempi e degli uomini, è la migliore forma di governo. Napoleone, ho detto, sorge dalla rivoluzione, e ad essa si oppone. Il Cuoco stesso ha la lucida intuizione che al sistema giacobino si è sostituito un sistema nuovo su nuove basi. Ciò non pertanto egli, ingegno superiore sto rico, portato a valutare le conseguenze ultime della ri voluzione, di fronte al nuovo reggimento instaurato, sa trovare i benefíci che da questa sono scaturiti insoppri mibilmente per l'uman genere. L'articolo Varietà (1 ) che il molisano pubblicò nel suo Giornale italiano, i primi giorni del 1805, è un vero e proprio esame di coscienza, dinanzi alla nuova situazione politica, che trova le sue origini, pur negandole, nella rivoluzione. Col nuovo anno che si apre Vincenzo Cuoco s'arresta e guarda indietro: molti mali da un lato, molti beni dall'altro: nonostante i grandi errori, le grandi deficienze, si può notare un progressivo cammino sulla via della saggezza. « Gran parte dell'Europa fa grandi progressi verso un ordine migliore. « In Francia nell'anno scorso le opinioni sono diventate più concordi, gli ordini più regolari. Le idee di rivolu- · (1 ) Giorn. ital., 1805, 2, 7, 17 gennaio; n. 1, 3, 7; pp. 3-4, pp. 11-12, pp. 27-28: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 134-144 col titolo La rivoluzione francese e l'Europa). 136 zione, divenute una volta estreme, han fatto avverare il detto di Mirabeau che l ' esaltazione de' princípi altro non è che la distruzione de' princípi. Ma, incominciando tali idee a retrocedere dal 1795, non potevano arrestarsi se non giunte ad una forma di ordine regolare. Imper ciocchè ciascun costume richiede una forma di governo, e ciascun governo ha in sé talune parti essenziali, senza le quali, invece di costituzioni, si hanno que' mostri po litici, i quali soglion aver la vita di un almanacco. Possono sembrar sublimi agli occhi de’ mezzo- sapienti, ma sem brerebbero comici agli occhi de' sapienti veri, se l'espe rimento de medesimi non costasse tanto all'umanità. Ri conosciuta una volta necessaria la concentrazione del potere, è indispensabile renderlo ereditario; altrimenti sarebbe lo stesso che aprir la via a perpetue guerre ci vili. Esempio ne sia la Polonia. Nè vale il dare al primo magistrato il diritto di nominar il suo successore, poichè l'esempio di Roma antica e della Russia ben dimostrano che questo ordine di successione non basta a render lo Stato sicuro dai tristi effetti dell'ambizione de' privati. Reso una volta il potere ereditario, è necessario rivestirlo di tutte le apparenze esteriori della dignità, perchè queste accrescon la forza della opinione, e la forza delle opinioni serve a risparmiar quella delle armi, della quale non si può mai far abuso senza pericolo. Un governo, il quale non ha per sè la forza dell'opinione, si chiami pure con quel nome che si voglia, sarà sempre un governo militare, il pessimo di tutti. Un governo, il quale, avendo già tutto il potere, procura di fortificarsi coll'opinione, se questa opinione non è di sua natura teocratica, tende a cangiarsi da governo militare in governo civile. « Tale è l'ordine delle cose, immutabile, eterno. L'ar restarsi dopo una rivoluzione in mezzo a questa progres sione è lo stesso che dar fine ad una rivoluzione per in cominciarne un'altra ». Come ognun vede, il pensiero di Vincenzo Cuoco, nella sua limpidezza, non lascia dubbio alcuno. Il nuovo or dine costituito, cioè Napoleone, ha la sua origine nella rivoluzione, ma la sua ragion d'essere nella negazione 137 della rivoluzione, la sua base concreta ne' bisogni dei popoli di trovare il loro punto d'equilibrio tra gli estre mismi di destra e di sinistra in quel consenso, che nel mondo moderno solo può fortificare i governi. In Napo leone il Cuoco vede il restauratore dell'ordine civile, ma non vuol vedere, nello stesso tempo, il militare, il con quistatore. Il governo militare, che si erige sulle baio nette, gli ripugna: non per nulla egli ha parteggiato nel '99 per la repubblica, ha salutato con letizia la partenza dei borbonici dalla sua Napoli. Il governo, che tiene in pugno la cosa pubblica e la direzione dello Stato, deve avere seco la forza del consenso, e da questa derivare la forza delle armi. Altrimenti si cade in quel governo mi litare, che, come dice il nostro autore, è il peggiore dei governi, come quello, che, essendo odiato, sovrapponen dosi alle volontà dei cittadini, rinnega le esigenze, i bi sogni, gli interessi delle popolazioni. Lo Stato del Cuoco non è nè lo Stato paterno, di polizia del Wolff, nè lo Stato rivoluzionario, che pone un limite insuperabile alla sua autorità in una visione anarchica dei diritti subiettivi. Nello Stato del Cuoco confluiscono vari e complessi ele menti, dal Rousseau al Vico, dal Montesquieu ad Aristo tele. Se vogliamo caratterizzarlo, diremo che è Stato di diritto, che importa e riposa su un contratto sociale, non storico ma immanente alla vita stessa dello Stato, sin tesi di attività e di diritti singolari, Stato infine che non pud agire che sub specie juris, nella forma del diritto, in quanto il diritto stesso, nella sua natura generale, è alla fine riaffermazione e consacrazione delle libere vo lontà particolari, che lo costituiscono. Il molisano è ugual mente lontano dalle esagerazioni rivoluzionarie, che egli stesso definì anarchiche e non costituzionali, come dalle affermazioni di coloro, che in Napoleone avrebbero vo luto il signore dei gratia, superiore ad ogni volontà na zionale. Egli, ingegno storico, sente che tra Napoleone e il regime assoluto c'è una rivoluzione, e la rivoluzione non si può nè politicamente ne teoreticamente superare a ritroso, onde s'arresta nel giusto mezzo, e ci dà un con cetto dello Stato, che si ricollega sotto alcuni aspetti al 138 Rousseau e al Vico, che ha, pure, qualche rassomiglianza con la teorica kantiana, sebbene il nostro del Kant cono scesse assai poco, e più per seconda mano che per let tura diretta (1 ). Il Cuoco afferma in sostanza la monar chia liberale moderata, che assomma in sè l'autorità e la forza con il consenso e l'autonomia (2). Le opinioni degli uomini, aggiunge continuando il Cuoco, sono discordi: è fatale che siano discordi, poi che v'è stato di mezzo una rivoluzione, e gli uni parteggiano ancora per essa, gli altri ancora la maledicono. Perchè l'equilibrio si ristabilisca, è necessario che sorga un or dine nuovo tra le varie opinioni, diverso dall'ordine an tico distrutto, diverso dal nuovo che si desiderava. Sono concetti di moderazione, che appaiono anche nel Platone. Michele Romano ha fatto un'analisi minuta di questo ro manzo sotto l'aspetto politico, e noi, che seguiamo un'al tra strada, vi rinveniamo facilmente la conferma delle nostre affermazioni, ed una prova diretta della coerenza cuochiana. « Viene anche per le nazioni il tempo ineluttabile dei mali; il tempo in cui tutta la forza è nelle mani di coloro che non hanno virtù, e qualche virtù rimane solo a co loro che non hanno forza; onde avviene che tra le scel lerate pretese de' primi, tra le inutili tenacità de'secondi, tra quei che tutto voglion distruggere e quei che tutto voglion conservare, sorge una lotta asprissima, funesta, in cui i primi a cadere son sempre coloro i quali osan parlar le parole di moderazione che dopo venti anni di strage e di orrore diventa l'inutile pentimento di molti e l'unico desiderio di tutti ». La moderazione, commenta però il Romano, non è virtù negativa in politica, perchè « noi cresciamo andando avanti; ci conserviamo rima nendoci al nostro posto; ma non possiamo riformarci tornando indietro, perchè indietro non si ritorna mai » (3 ). Ai partigiani dell'ordine antico si può rispondere che (1 ) G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, p. 377. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 81 e sgg. (3) M. ROMANO, op. cit., p. 84. 139 non è stato Bonaparte a distruggerlo: sono stati essi stessi con la loro viltà, con la loro caparbietà. « Ai parteggiani della libertà si può rispondere che la Rivoluzione non è stata interamente inutile. Si è ot tenuta una forma di governo costituzionale, e, quando anche si volesse credere che questa non sia ancora per fetta, si è sempre ottenuto molto avendone una. Le ot time costituzioni sono figlie del tempo e non di sistemi. Quali sono le parti loro più belle? le più rispettate. E quali le più rispettate? le più antiche. Quindi due ve rità: 1° Per ottenere una buona costituzione, è necessario aver, quasi direi, un antico addentellato al quale attac carla. 2 ° Per giudicare di una costituzione è necessario il tempo, perchè le nuove, non potendo ancora goder il rispetto del popolo, ancorchè sien ottime, si credon cat tive. Col tempo, i vari corpi, che formano il governo, di ventano più rispettati dal popolo, e perciò più potenti anche in faccia al governo; e la libertà pubblica diventa maggiore. Intanto è sempre un gran bene per una nazione che il suo capo s'intitoli tale per le costituzioni della Re pubblica; che si parli di libertà civile, di libertà di per sone, di libertà di stampa; che vi sien delle magistrature incaricate di vegliare alla loro custodia; che vi siano delle assemblee nelle quali si riuniscano i migliori di cia scun dipartimento e di ciascun cantone per proporre ciò che credon più utile allo Stato. Tutte queste istitu zioni han prodotti finora molti beni e ne produrranno ancora. In ogni caso, la religione è stata per sempre riu nita allo Stato col vincolo della tolleranza; la feudalità è stata abolita per sempre, e, quando anche risorgesse un patriziato, potrebbe esser quello de'greci e de ' romani, eccitator di grandi azioni e non già oppressore de'grandi ingegni; è stata aperta libera e larga la via della gloria ad ogni specie di merito; non vi saranno più le dispute e le persecuzioni de'gesuiti e de'giansenisti; non vi sarà più la funesta distruzione de'tre stati, de' quali uno era con dannato a pagare e soffrir tutto e a non aver mai nulla; le imposizioni saranno ripartite egualmente fra tutti; le proprietà saranno tutte della stessa natura, e le persone 140 della stessa classe. Questi vantaggi si sono ottenuti, nè si perderanno più, e questi vantaggi non sono mica pic cioli ». Tutta la filosofia cuochiana è rinserrata qui. È natu rale che, quando un ordine nuovo di cose si afferma dopo turbamenti generali, questo si presenti come una pana cea di tutti i mali, e temperi l'antico con il nuovo in una fiducia mirabile di sè stesso: spazza via l'antico, e in tanto crea una nuova aristocrazia, se non di sangue, d'armi; distrugge la teocrazia, e intanto vuol l'accordo con la religione; sgomina l'anarchia, e dà una nuova costituzione, che, sia pur limitatamente, ha la sua impor tanza; si basa sull’autorità, ma non prescinde dal con senso. Il nuovo reggimento è in fine un reggimento eclet tico, ma è quel che ci vuole dopo una rivoluzione, è quel che ci vuole in un'epoca, che ha bisogno di freno per non dilagare nella licenza, di libertà per non rammaricarsi del passato soppresso. Lo spirito del bonapartismo è in questo eclettismo moderato, che è classico e moderno nello stesso tempo in arte, che è illuminista nello stesso tempo che afferma la tradizione in filosofia, che è autoritario e non disprezza il costituzionalismo in politica. Ma a noi poco importa la prassi politica del primo console e del l'imperatore, a noi interessa il pensiero di Vincenzo Cuoco in quanto sistematizza tutto un insieme di idee, proprie dell'èra sua, sia sotto un aspetto critico, sia sotto un aspetto di simpatizzante affermazione. Il senso squisitamente politico del Cuoco ci si appalesa sotto un altro punto di vista. Il Saggio storico, abbiamo osservato, mostrava la rivoluzione in atto, e di essa era la critica spietata e fiera. Ma la rivoluzione ha prodotto, ha spiegato tutti i suoi effetti, ha sommerso un mondo, ne ha instaurato uno novello. La realtà storica è quello che è, s ' impone senza rimedio. È possibile rinnegare i benefici evidenti della rivoluzione? Il Cuoco risponde di no. La rivoluzione ha prodotto benefíci senza pari in Italia e in Francia, e in certi limiti anche altrove, ha ab battuto la feudalità, ha riattivata la vita de' popoli in un ritmo più robusto. Il Cuoco ancor oggi crede che la 141 rivoluzione si sarebbe potuto evitare, con una savia mo derazione sia de' governi sia de' popoli, ma la storia è stata quel che è stata, e non si ritorna indietro per le recriminazioni. Oggi è inutile ogni constatazione artifi cioso, occorre pensare a trarre i maggior frutti possibili dalla concreta realtà. « Le crisi sono nate dall'ostinazione per cui i governi non hanno voluto mai soddisfare [ i reclami dei popoli]. Con una savia moderazione, invece di rivoluzioni distrut tive, si sarebbero ottenute utili riforme ». Il ritornare oggi con ostinazione agli antichi princípi sarebbe lo stesso che preparare nuovi torbidi rivoluzionari. Sono ' con cetti questi assai radicati nel Cuoco: ritornano frequente mente ne' suoi articoli nelle forme più varie. Altrove scrive: « Cangiamo di nuovo lo stato delle idee, facciamo prevalere l'opinione di qualunque partito; e vedremo tutta l'Europa turbarsi di nuovo. E, sia qualunque l'opi nione che noi vorremo far prevalere, l'effetto sarà sem pre lo stesso » (1 ). La storia non si supera a ritroso. Ri tornando allo scritto, di cui noi segnamo il filo ideale, vi troviamo una sicura legittimazione delle nuove forze (1) Giorn. ital., 1804; 11, 23, 30 luglio, 1, 11 agosto; n. 87, 88, 91, 92, 96; pp. 350-351, pp. 356, pp. 367-68, pp. 371-372, pp. 393-394: Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 28-43 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Otto cento ). Riporto in nota uno squarcio dell'articolo, in seguito al brano citato. « Facciam ritornare in campo i princípi che han dominato dal 1793 fino al 1798. Che avremo? Nell'interno, incertezza nel potere, che lo rende più impotente nel bene, più sospettoso e più crudele nel male; divisione tra i vari rami del potere medesimo, onde l'anarchia e la guerra civile; l ' in certezza dei principi, onde ne diventa l'uso difficile ai buoni e facile l'abuso agli intriganti ed ai prepotenti. Nell'esterno, da una parte l'ambizione, che prende le apparenze di democratiz zazione universale e diventa tanto più terribile quanto che alla forza delle armi riunisce quella delle opinioni; dall'altra, il timore e sospetto; dall'una e dall'altra, minacce, tradimenti, inganni di popoli e di re, guerre interminabili e feroci ». Il quadro è fosco: è impossibile ritornare ai princípi puri della rivoluzione, come è impossibile una restaurazione del regime prerivoluzionario: il separamento è inderogabile. 142 ((umane espresse dal capovolgimento rivoluzionario della borghesia. È una osservazione costante, che da tre secoli in qua (anzi si potrebbe dire dall'epoca delle crociate ), tutti gli Stati dell'Europa sono cresciuti di forza per l'accresci mento del numero, dell'industria, dell'attività di quella parte della popolazione che chiamavasi in Francia, e si potrebbe chiamar presso ogni nazione, terzo stato. Quelli tra' popoli dell'Europa furono i primi a risorgere dalla barbarie, dall'ignoranza, dalla debolezza, che primi sol levarono questo terzo stato. Tali furono l'Italia, l ' In ghilterra, la Spagna. Quei popoli ne' loro progressi s’ar restarono, che, per la forma del loro governo, tennero questo terzo stato più oppresso: l'oligarchica Venezia, la Polonia. Quei popoli soffrirono rivoluzioni e sedizioni asprissime, ne' quali il terzo stato non fu distrutto ne ottenne giustizia.... E non vi è termine di mezzo. Lo stato di oppressione è uno stato di guerra. Uno de' due: o convien che la classe predominante distrugga la ser viente, o convien che divida con lei tutti i vantaggi della vita civile. Nel primo caso, eviterà le sedizioni in terne, perchè agli estremamente miseri che soffrono pa zientemente, la miseria toglie loro, come diceva Omero, la metà dell'anima; ma, invece delle sedizioni interne, avrà debolezza esterna grandissima, e sarà lo Stato esposto al furore del primo che vorrà occuparlo. Tale è stata la sorte della Polonia; e perchè non direm noi che è stata la sorte di tutti gli Stati ove ancora è feudalità? Nel secondo caso, non solamente si accrescerà la forza esterna, ma si renderà più durevole la tranquillità in terna, perchè la parte più numerosa del popolo non avrà alcun motivo di doglianza;, ed, essendo la nazione piena d'amor di patria e di orgoglio nazionale, mancheranno anche quei fomenti di sedizioni, i quali vengono dalla stolta ammirazione degli stranieri ». Il terzo stato, la borghesia, è il lievito del nuovo ordine, è la parte più sana della nazione, che rivendicati i suoi diritti, è quella che, ugualmente lontana dalla potenza corruttrice e dall' indigenza mortificante, realizza nella 143 modernità quella classe dei migliori, che Aristotele ha indicata come la più adatta a reggere la cosa pubblica. E precisamente nel senso aristotelico il molisano intende la borghesia, non dunque come una casta chiusa e dit tatoria, ma come una classe, in cui liberamente conflui scono le forze vitali del popolo tutto, una classe insomma aperta a tutti coloro, che per virtù d'ingegno e di atti vità s'elevino dall'indigenza. « Le idee, i costumi, gli ordini pubblici di tutta l'Eu ropa » scrive il nostro in un altro suo articolo (1 ) che adduco a conferma di quanto vengo dicendo « tendono al ristabilimento di una nobiltà più antica, meno di struttiva e più illustre: a quella nobiltà della quale si gloriavano i Fabi, gli Scipioni, i Camilli, de ' nomie degli esempi de'quali noi italiani dovremmo esser più superbi che di quelli degli Agilulfi e de ' Gundebaldi. La proprietà diventerà la base di tutte le costituzioni: quella proprietà che sola può tener uno Stato lontano dalla letargica in dolenza dell'oligarchia e delle funeste commozioni del l'oclocrazia, perchè nè lo priva dell'opera di molti, i quali possono colla loro industria acquistare un podere, ma non potrebbero mai disfare l'ordine de’ secoli passati e darsi un antenato che non hanno; nè, dall'altra parte, affida la cosa pubblica alla fede, sempre dubbia, di co loro i quali non hanno verun interesse a sostenerla. Non altra base che la proprietà avea la costituzione di Roma, e noi abbiamo anche ciò che non poteano avere i ro mani, cioè riputiamo proprietà anche l'industria ed il sapere. È la natura delle cose che ha comandata questa differenza: i romani non aveano altra industria che l'agricoltura e per molti secoli non conobbero studi più gravi di quelli necessari a vincere i loro vicini. T (1 ) Giorn. ital., 1804, 14, 16, 18, 30 gennaio, 8 febbraio; n. 6, 7, 8, 13, 17; pp. 22-23, p. 27, pp. 30-31, p. 51-52, pp. 66-67: Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 13-28 sotto il titolo Il sistema politico europeo al principio dell'Ottocento in uno con l'altro articolo cuochiano da noi già accennato, Politica. 144 « Io non nego che le varie circostanze, nelle quali potrà trovarsi una nazione, possan render necessarie molte modificazioni; ma la massima fondamentale rimane sem pre la stessa. Il migliore de' governi, diceva Aristotele, è quello in cui governano i migliori; e, siccome essi non si potrebbero mai ricercare ad uno ad uno, così il migliore dei governi è quello in cui preponderano tutte quelle classi, nelle quali per l'ordinario si ritrovano gli uomini migliori ». L'aristocrazia nuova, di cui l'autore nostro discute a lungo, è, come ognuno bene intende, la borghesia. Questa classe, che è la più numerosa, in quanto classe aperta a tutti, in quanto esprime la forza di coloro, che si sono potuti sollevare dalle masse, dal proletariato, dal l'artigianato, per darsi all'industria ed agli studi, ha di nanzi a sè un vasto cammino da compiere, è destinata, ove non lo sia già, ad essere la classe dirigente. Ritornando allo scritto sulla rivoluzione francese e i suoi effetti, dal quale abbiamo preso le mosse, vi ri troveremo sempre le stesse idee. « Il gran generale osserva il Cuoco « il profondo ministro sono uomini rari. Chi s ' impone la legge di ricercarli tra dieci, li troverà più difficilmente di colui il quale li ricerca tra mille, tra tutto il popolo.... »). Ma non bisogna abusare; la rivoluzione francese aprì la via alla canaglia. Ritorna il Cuoco antigiacobino, l'odia tore de ' princípi esaltati, della democratizzazione uni versale. « Si obliò la profonda osservazione di Aristotele, il quale avea detto che l ' ottimo de ' governi era quello in cui predominavan gli ottimi, ma che questi ottimi non si dovean nè si potevan ricercare individualmente, bensì doveansi ricercare per classe; che vi era in ogni Stato una classe di ottimi, e che questa era composta di co loro i quali non fossero nè corrotti per eccessiva ric chezza né avviliti per soverchia povertà. Quindi la pro prietà, nella nuova forma di governo, è divenuta con ragione base delle costituzioni. Alla proprietà è ben af fidata la custodia delle leggi: i proprietari, dice lo stesso 145 Aristotele, sono i più atti a tal fine; e come no, se le leggi son tutte fatte per difendere i proprietari? Ove però non si tratta di custodire ma di agire, ove non basta la volontà, ma vi bisogna la mente, è necessario sostituire alla semplice proprietà l’educazione; che val quanto dire mettere il merito personale nella stessa linea della pro prietà. Quella parte di popolo, dice lo stesso Aristotele, la quale non ha nè proprietà né educazione; sarà su bordinata se sarà contenta: è un gravissimo errore darle tutto e non darle nulla ». A me sembra che il problema politico non potrebbe essere impostato dal Cuoco in migliore maniera possibile. Che cosa sono le costituzioni, gli istituti, gli ordinamenti, così come li studia la storia del diritto e il diritto stesso, se non vuoti astratti? Quel che a noi importa non è la forma in sè, che ci appare morta senza un contenuto umano, ma il contenuto stesso. Le costituzioni in realtà sono, e con esse tutta la struttura giuridica d’un popolo, in quanto in esso popolo c'è una classe dominante, ri stretta o vasta importa poco, certo qualitativamente mi-. gliore, che le determina, e non per via di pura ragione, ma d'analisi concreta sulla realtà viva e pulsante delle masse, una classe dirigente, che si fa interprete sicura della società che l'esprime. La storia del diritto, io credo, anzi che studiare morte sovrastrutture, dovrebbe stu diare come classi dirigenti, per natura condizioni coltura [ estensione diverse secondo le varie epoche, possano de terminare tutto un complesso sistema giuridico e costi tuzionale. In tal caso la storia del diritto, studio di strutture vuote di realtà concrete, si risolverebbe nella politica, studio d’un vero contenuto umano, pulsante d'attualità. Ma questo è un problema teoretico, che nel caso nostro importa relativamente, e la di cui formulazio ne, a me sembra, sorge spontanea dal pensiero cuochiano. Come ognun vede, la vita moderna nella sua vasta for mazione non poteva essere tratteggiata in maniera più vivace, più rispondente al vero, a ciò che poi sarà la realtà dello Stato moderno, di quanto è nell'analisi del grande molisano. Una classe di migliori, che per la sua stessa composi zione e formazione è atta a modificarsi e ad evolversi con la storia, tiene il reggimento dello Stato. Lo Stato libe rale non è, come lo Stato assoluto e patrimoniale, sta tico, anzi è il più atto ad ulteriori sviluppi. La base imprescindibile di esso è la proprietà. La proprietà è la sua difesa, il suo presidio naturale. Chi ha una sua pro prietà, mobile ed immobile, industriale o fondiaria, in tellettuale o commerciale, tende per natura a conservarla e a migliorarla. Fate sì che uno Stato si appoggi alla classe dei proprietari, questo Stato è al sicuro da ogni attacco contro la sua compagine, poi che troverà sempre la sua difesa in coloro, che, difendendo lo Stato, difendono i loro beni, i propri interessi. Ove lo Stato transige sul l'inviolabilità della proprietà, tradendo le sue basi e le sue origini, viene a mancare la classe de ' possidenti alla tutela della cosa pubblica, e, se non interviene una pronta reazione a ristabilire l'equilibrio, è il crollo, lo sfacelo. Abbiamo così uno Stato liberale, che, pur tendendo alla sua conservazione in ogni manifestazione giuridica, si afferma come dinamico e progressista, trovando però nella sua stessa composizione un limite ad un progresso, che potrebbe divenire, se spinto troppo oltre, anarchico e rivoluzionario. Questo concetto dello Stato borghese, che solo nella proprietà può trovare una base salda, perchè non data dall'estrinseca volontà legislativa, ma dagli umani in teressi per natura conservativi, questo concetto politico della vita moderna non è nuovo, nè sporadico in Vin cenzo Cuoco. Ne’ Frammenti è l'esempio di questa gran coerenza del molisano, il di cui sistema politico non ha mai un'origine estranea alla realtà umana, anzi tutto è organato ed ispirato a princípi superiori di logica ed insieme ad una sicura visione storica. Dopo aver soste nuto che la costituzione non può crearsi a tavolino, pre scindendo dalla vita, dopo aver affermato che le costitu zioni debbono essere vive sensibili parlanti, e noi abbiamo a lungo detto di ciò, il Cuoco viene ad analizzare il proble ma: come si possa organizzare una divisione de' poteri. 147 « Dopo che avrete » scrive « divisi i poteri, assodata la base della costituzione e fortificata la legge col l'opinione e colle solennità esterne, per frenare la forza vi resta ancora a dividere gli interessi. Fate che il po tere di uno non si possa estendere senza offendere il potere di un altro; non fate che tutti poteri si otten ghino e si conservino nello stesso modo; talune magi strature perpetue, talune elezioni a sorte, talune pro mozioni fatte dalla legge, cosicchè un uomo, che siasi ben condotto in una carica, sia sicuro di ottenerne una migliore senza aver bisogno del favor di nessuno; tutte queste varietà, lungi dal distruggere la libertà, ne sono anzi il più fermo sostegno, perchè così tutti i possidenti, e co loro che sperano, temono un rovescio di costituzione, che sarebbe contrario ai loro interessi. Per questa ragione negli ultimi anni della repubblica romana il senato ed i pa trizi furono sempre per la costituzione » (1 ). Se voi vi addentrate nel pensiero dello scrittore, ve drete però che egli, pur disposto a dare alla proprietà la massima importanza tanto da fondare su di essa il sistema politico moderno, non giunge mai a darle una origine metafisica, e quindi a concepirla come un quid di eterno e di immutabile. Ed è naturale: l'origine della proprietà non è in princípi generali filosofici, ma in quel che nell ' uomo è senso, cioè bisogni mutevoli e transe unti. La stessa natura dell'uomo, che vichianamente dà origine alle costituzioni, dà origine alla proprietà, base degli odierni ordini civili. La natura, a cui accenno, non è la natura intellettuale, ma quella natura primordiale e plebea, tutta senso e fantasia, bisogni ed esteriorità. Quindi teoricamente non è impossibile un sistema costi tuzionale, che prescinda dalla proprietà: resta a vedere come questo sistema risolva il problema economico e pratico della vita, che sempre bisogna aver di mira: lo che, evidentemente, non è facile ! Il titolo della pro prietà !? È un po' arduo trovarlo nella metafisica.... (1 ) Framm. III., p. 247, 148 « Voler ricercare un titolo di proprietà nella natura è lo stesso che voler distruggere la proprietà: la natura non riconosce altro che il possesso, il quale non diventa pro prietà se non per consenso degli uomini. Questo consenso è sempre il risultato delle circostanze e dei bisogni nei quali il popolo si trova. Tutto ciò che la salute pubblica impe riosamente non richiede, non può senza tirannia esser sottomesso a riforma, perchè gli uomini, dopo i loro bi sogni, nulla hanno e nulla debbono aver di più sacro che i costumi dei loro maggiori » (1 ). È chiaro ! La pro prietà ha un'origine schiettamente economica, e questa origine posa su un consenso generale, ma storico, cioè null’affatto immutabile ed eterno. Una giustificazione dell'istituto secondo i principi del diritto di natura ap pare a Cuoco poco soddisfacente. Solo i bisogni e gli interessi lo consacrano e lo legittimano: la ragione e la volontà giuridica spiegano, ma non esauriscono il pro blema (2 ) Dato il concetto che Vincenzo Cuoco ha della borghesia, che per lui non è una classe chiusa, capitalistica, oppres siva nel monopolio della vita pubblica, è naturale che egli non parli mai o assai di rado del cosiddetto proleta riato o quarto stato, il quale per altro non ha, ne ' tempi di cui ci occupiamo, una sua fisionomia sociale ed eco nomica. Se il Cuoco vede un quarto stato, lo vede, se mai, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 123 e sg. (2 ) In tutta questa esaltazione della proprietà C., mi sembra, reagisce in parte alla rivoluzione, che nelle sue esagerazioni ha cercato di scrollarla. Lo stesso Russo, l'amico del nostro, non è tenero per i proprietari, e basa il suo sistema su un ele mento comunistico. Io non faccio che rimandare il lettore, che si interessa del problema, allo studio su V. Russo del CROCE (La rivoluzione napoletana, p. 90 e sgg. ). Lo stesso Edmund Burke in Inghilterra reagà agli attacchidialcuni giacobini con tro la proprietà, e ne affermò il gran compito sociale: è questo uno de tratti comuni tra l’A. delle Reflections on the French Revolution e l'A. del Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli. Il problema, di cui sopra ci siamo occupati, fu studiato da M. ROMANO, op. cit., p. 152, il quale peraltro non si diffuse molto. 149 nell'artigianato, il quale è il germe di ciò che noi chia miamo proletariato, ma da questo differisce sotto molte plici aspetti. L'artigiano è libero lavoratore, il prole tario è il salariato della grande industria. La grande industria è il prodotto di condizioni, che in Italia, al tempo in cui il nostro medita, non si sono ancora svolte nella loro interezza. Le questioni attinenti al quarto stato sfuggono perciò al Cuoco, ma non in tal misura che egli non vi accenni brevemente in qualche articolo del Gior nale italiano (1 ). Sarebbe pur questo un tema interes santissimo; senonchè, diffondendoci, noi usciremmo dal nostro assunto: tracciare una linea generale e sommaria del pensiero politico di Vincenzo Cuoco. Se con il pensiero noi andiamo agli scrittori politici, che il secolo XIX offre al nostro studio, invano trove remo un quadro così vivo della società post -rivoluzio naria, ed un intuito così immediato dei problemi, che ne agitano la compagine. Basterà che noi riferiamo ciò che il molisano dice intorno ai benefici effetti della rivo luzione, e che sono i capisaldi di tutta la vita successiva, per intendere quanto lungimirante fosse il suo senso po litico e quanto fine la sua visione economica. Un effetto importante del sovvertimento è un progres sivo migliorarsi della morale pubblica. Quanto grande posto il Cuoco faccia alla morale e alla religione nella vita civile de ' popoli è un problema, sul quale dovremo indugiarci dopo. Una seconda conseguenza è « la perfezione della mi lizia, poichè essa non è perfetta se non dove il nome di soldato si alterna con quello di cittadino; e questo non può avvenire se non dove non siano nè esenzioni nè pri vilegi ». Tutto il pensiero della rivoluzione si rivela nella sua intima radice antimilitarista. Perchè? Lo Stato as (1) Giorn. ital., 1804, 6 febbraio, n. 16, p. 64, Economia po litica: a proposito di una cassa filantropica a beneficio degli artigiani; Giorn. ital., 1804, 7 maggio, n. 55, pp. 210-220: Pub blica beneficenza, a proposito della mendicità e dei problemi connessi. 150 solutista era da esso considerato come estrinseco alla volontà dei subietti singoli, come tirannico e nemico: l'esercito nelle sue mani una forza passiva ed antide mocratica. Lo Stato repubblicano, il vero Stato rivo luzionario, alla sua volta, riposa invece su un consenso così largo, da ammettere, ed è un estremo, il diritto alla sommossa, e il consenso così concepito non ha biso gno della forza a suo sussidio (1 ). Il Cuoco naturalmente non può condividere questi princípi. Il suo Stato è stato di diritto, ma per natura tende alla conservazione, e re spinge ogni attacco alla sua compagine anche violente mente. Il contratto sociale, che è alla base della sua co stituzione, non è un contratto storico, ma è immanente alla struttura dello Stato, cioè bisogna riguardarlo come una esigenza ideale ed un presupposto della vita civile stessa. Il Cuoco deriva il principio dal Rousseau, ma lo anima alla luce di superiori meditazioni vichiane. Lo Stato sintetizza le volontà individuali o le libertà indi viduali (libero volere è libertà ), ma, appunto perchè in ogni momento della sua esistenza è tale, si afferma come autoritario, contro chi rompe o cerca di rompere l'armonia delle volontà concomitanti al fine sovrano. Il contratto sociale eterno, che è alla base della vita stessa, in quanto è convergenza di volontà e di diritti particolari, dà allo Stato il diritto generico della difesa e della conservazione. In ciò la filosofia giuridica del Cuoco si differenzia dalla filosofia della rivoluzione e, pur mantenendo alcuni punti di contatto con quella del Rousseau, si avvicina alla filo sofia di alcuni pensatori germanici. Nell'uomo si realiz zano due qualità di sovrano e di suddito, in quanto lo Stato è sintesi di volontà singole e insieme volontà ge nerale, che non ammette peraltro sottrazioni, anzi ri chiede la più assoluta sottomissione. In ogni atto giuri (1 ) Notiamo che persino la costituzione inglese ha tolto al re e al potere esecutivo ogni possibilità di disporre della forza armata. Il principio è stato superato durante la guerra, date le condizioni eccezionali, ma resta sempre base degli ordini ci vili dell'isola. 151 dico dello Stato è implicita la volontà generale, la quale volontà generale non permette che alcuno possa evitare la sua autorità. Ecco il principio della forza, che integra il consenso; ecco lo stato di diritto, che nelle sue mani festazioni sovrane diviene militare. Gli stessi cittadini, che sono sudditi di una volontà generale e sovrani, poi chè sono gli elementi costitutivi di essa, sono anche soldati, cioè forza diretta a tutelare il rispetto alla legge, la cui genesi, ripeto, è nel popolo, pur trovando la sua manifestazione più piena e sintetica nel monarca, sim bolo della continuità nella vita giuridica e storica della nazione. Mentre tutta la filosofia della rivoluzione inglese, la filosofia dell'illuminismo e del giacobinismo sono anti militaristiche - e le costituzioni, da esse scaturite, sot traggono al potere esecutivo ogni forza armata —; il pensiero politico del Cuoco, più addentro nelle concrete esigenze della vita, è in senso altamente nobile milita ristico. La milizia, sotto i Romani dovere e diritto, anzi più diritto che dovere, del cittadino, diviene nel mondo feudale mestiere e prestazione con alla base un ob bligo contrattuale, ritorna nel mondo moderno diritto del cittadino, che dà allo Stato la forza morale del con senso, e la forza materiale delle armi, senza le quali il consenso è mera parola e lo Stato s'espone indifeso agli attacchi di pochi faziosi. Di ciò noi troviamo la con ferma in tutti gli scritti cuochiani, dal Saggio storico al Platone in Italia. Dice assai bene il Romano: « L'anti militarismo, così notevole nella letteratura meditativa del secolo XVIII, permane nel Cuoco solo in quanto si ri ferisce alla bruta forza messa a sostegno della tirannide. Con questa sarà militare il governo ma non il popolo; e d'altra parte un popolo senza virtù militari passerà per vicende politiche più frequenti e più crudeli » (1 ). Con un governo costituzionale, lo Stato sarà forte, ma il po polo, essendo esso stesso che dà l'elemento materiale per (1 ) M. ROMANO, op. cit., p. 88. 152 l'esercizio della sovranità, avrà tanto coraggio da non sopportare alcuna inconsigliata modificazione dei suoi di ritti. Quest'alto sentimento dell'importanza civile della milizia meglio vedremo, allorquando il Cuoco, apostolo dell'unità italiana e della resurrezione morale del popolo nostro, rincorerà i suoi concittadini a ritornare agli an tichi sani esercizi bellici. E passiamo ad altro. « Il terzo vantaggio » continua il nostro autore « e mas simo, sarà quello di abolire l'antico pregiudizio che con dannava all'ignominia l'utile industria, e specialmente l'agricoltura. Divenuta una volta la proprietà la massima tra le distinzioni civili, questo farà sì che il primo sen timento sociale sarà il desiderio di accrescerla, e quindi un'attività maggiore nell'industria. Un mezzo secolo fa, l'abate Coyer destò gran rumore in Europa pel suo opu scolo Sulla nobiltà commerciante. Egli però non faceva che predicar l'imitazione dell'Inghilterra, ma non tentò mai d'esaminar la cagione per la quale in Inghilterra era comune ciò che si reputava paradosso in Francia. L'industria inglese era figlia delle rivoluzioni che quella nazione avea sofferte più frequenti e più feroci delle altre. È un'osservazione costante che, quando le rivoluzioni finiscono in bene, l'agricoltura fa nuovi e rapidissimi progressi. Questo fenomeno, osservato negli altri secoli, si è ripetuto anche nel nostro entro la Francia. L'in dustria, e specialmente agricola, fa grandi progressi, ed i progressi dell'industria non possono esser mai divisi da quelli della pubblica morale. Esser buon cittadino non è altro che esser cittadino utile, e cittadino utile, diceva Catone, vuol dire buon agricoltore >> Il nuovo Stato, appunto perchè Stato di consenso, lascia la massima libertà individuale; afferma la volontà generale in tutto ciò che pertiene all'esercizio della so vranità, ma lascia intatta la volontà particolare in ogni sua estrinsecazione, ove essa, s ' intende, si muova in una sfera determinata. Ogni attività, che non coinvolga l'essenza sovrana dello Stato, è lasciata alla volontà dei singoli subietti: il commercio, l'industria, la navi gazione, l'agricoltura, l'istruzione, con riserve debite, 153 sono lasciate alla libera autonomia dei cittadini. Appa riscono qui i princípi del liberismo economico, che ap pare già ne' primordi dell'economia politica, nei Fisio crati, nella scuola liberale inglese e francese, e giù di là ne' nostri maggiori scrittori, per essere l'anima d'ogni ulteriore sviluppo della scienza. Secondo me, entro certi limiti, non si può dubitare di un liberismo vero e pro prio nel Cuoco. Lo Stato assoluto, basato sul principio patrimoniale regio, non potea di fatto non essere Stato monopolistico, come quello che mirava ad un utile particolare e non collettivo, di classe e non generale. L'equilibrio econo mico è la risultante di libere forze individuali, è ciò che nasce dall'esplicazione di queste attività. Ciò che è, è quanto di meglio si possa concepire. Questi princípi liberali, che noi troviamo sviluppati in Adamo Smith, in Ricardo, in Giovan Battista Say, ecc. non sono in antitesi notiamo ai principi della filosofia cuochiana, per meata di vichismo. Le nazioni, dice il Cuoco col Vico, le società umane, i popoli sono governati da leggi naturali eterne, che hanno un proprio sviluppo, un proprio spie gamento, dietro un impulso originario ab antiquo. Gli uomini non possono mutare queste leggi, perchè ciò che è dato dalla natura stessa meglio soddisfa le esigenze umane, quindi rappresenta ciò che, date le condizioni sociali e civili, di migliore si possa imaginare. È l'ordine delle cose che determina l'ordine costituzionale, e non la nuda filosofia: è l'ordine delle cose che determina l'or dine economico, e non l'astratta economia. Di ciò ab biamo una prova diretta nel Cuoco. Esiste, secondo il nostro, una vera scienza economica, ma, appunto perchè questa scienza ha una base non dommatica ed apriori stica, ma di fatto e storica, i princípi che la governano sono pochi, di loro natura « tanto semplici e pochi» che « scompagnati dall'esperienza » divengono « incerti e fa cili ad esser corrotti » (1 ). I princípi dell'economia sono (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 89. 154 pochi, perché sono i princípi stessi della natura. La na tura determina l'ordine e lo sviluppo delle cose umane, in tutte le loro conseguenze. Lasciamo operare la natura, e questa condurrà a sviluppi, che sono quanto di meglio si possa immaginare ed operare per predeterminazione umana, ammesso cioè che gli uomini, lasciato da parte ogni intendimento utilitario individuale, mirino apriori sticamente ad un fine utilitario generale. La disarmonia di contrastanti interessi porta all'armonia dell'utilità col lettiva, ad un utile generale, lo stesso che si avrebbe, qua lora gli uomini abbandonassero, ed è mera astrazione, l'egoismo economico nativo, che li porta alla ricerca della soddisfazione maggiore de' propri bisogni anche a sca pito altrui. Lo Stato cuochiano quindi è Stato liberista: il prin cipio però notiamo è tutt'altro che chiaro, e lo stesso no stro autore lo intorbida e spesso lo rinnega. Il legislatore interviene a limitare l'attività economica individuale, solo in quanto quell'attività lasciata a sè stessa, in de terminate circostanze sociali anomali, possa risolversi in un danno collettivo, o in quanto quest'attività indivi duale, nel rimuovere gli ostacoli che le si oppongano, agisca fuori dal lecito giuridico. Il Cuoco è troppo for temente concreto per potere formulare princípi astratti e crederli validi per un'universalità di fatti. I princípi economici, ha detto sono pochi, perchè poche sono le leggi eterne della natura; i casi concreti invece sono molti moltissimi: quindi il principio economico trova nella realtà mille limitazioni, e solo un'analisi caso per caso può ri solvere un problema positivo che ci si presenti. Liberismo o protezionismo? Questione fino ad un certo punto astratta. La vita nelle sue manifestazioni reali può ren dere necessario il protezionismo, e lo può presentare, vi sono pur de' casi, come un male minore di quello, che si avrebbe lasciando sfogare le libere forze economiche. « Niente si cura produrre chi non è sicuro di vendere. Or, perchè gli abitanti di uno Stato possan vendere molto e con vantaggio, è necessaria una certa potenza politica nello Stato. È necessaria, perchè possa ottenere 155 dalle altre nazioni que patti equi, i quali non si otten gono se non quando taluno creda che noi possiamo ot tenerli anche contro sua voglia. I popoli, dice Melun, e noi diremo i governi, non si regalano nulla. Se non siete forte, sarete sopraffatto. Non solamente non otter rete condizioni giuste, ma sarete costretto a soffrirne delle ingiustissime » (1 ). Come mai il Cuoco, di cui abbiamo veduto il pensiero nella sua sostanza liberista, sembra tradire così i suoi princípi? In realtà, la concretezza del suo pensiero non può permettergli apriorismi nè costituzionali, nè econo miei, ond’ei bene intende quanto necessario sia il prote zionismo in certe contingenze politiche. Non dimenti chiamo, poi, che non si può parlare di liberismo asso luto in un'età, in cui ferve continua la lotta tra la Francia e le coalizioni europee, fra la Francia e l'Inghilterra do minatrice de’mari, in un'età in cui ogni mezzo politico diviene spietato per vincere economicamente, e le armi del contrasto non sono più la libera concorrenza tra im prese nel campo internazionale, ma il sequestro marit timo, il boicottaggio, il blocco. La realtà dell'èra napo leonica, tragica nel conflitto tra il genio e le forze avverse, impone all' impero il protezionismo. Il Cuoco lo crede ne cessario per evitare danni maggiori, senza però condurre questa tattica positiva a princípi generali e valevoli in eterno (2 ). Ma dove il pensiero cuochiano attinge una verità eco nomica di prim'ordine è in un principio, al quale il no stro accenna ne' Frammenti di lettere a Vincenzio Russo, (1 ) Giorn. ital., a. 1806; 5, 6, 7, 8 gennaio; n. 5, 6, 7, 8; pp. 19-20, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32; Politica: (ristampato in M. ROMANO, op. cit., in Appendice; ed ora negli Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l'Italia ). (2 ) Mi sembra che anche il ROMANO, op. cit., p. 155, creda così. Dopo aver riportato in nota il brano da me sovra ci. tato aggiunge: « Anche qui è palese che il protezionismo del Cuoco non moveva da teoriche astratte, sibbene dall'esame delle condizioni storiche del suo tempo. E che avesse ragione allora.... non è chi non veda », 156 principio, al quale egli stesso non dà alcuna elaborazione, ma in cui è il germe di dottrine, che nella stessa nostra Italia hanno avuto così bello sviluppo. « Una nazione si dirà virtuosa, quando il suo costume sia tale che non renda infelice il cittadino; e se tutte le nazioni potessero essere sagge a segno che, invece di farsi la guerra e di distruggersi a vicenda, si aiutassero, si giovassero, questa sarebbe la virtù del genere umano. Il fine della virtù è la felicità, e la felicità è la soddisfazione dei bisogni, ossia l'equilibrio tra i desidèri e le forze. Ma, siccome queste due quantità sono sempre variabili, così si può andare alla felicità, cioè si può ottener l'equilibrio o scemando i desideri o accrescendo le forze. Un uomo, il quale abbia ciò che desidera, non sarà mai ingiusto; perchè naturale e quasichè fisico è in noi quel senti mento di pietà, che ci fa risentire i mali altrui al pari dei nostri, e questo solo sentimento basta a frenare la nostra ingiustizia, sempre che la crediamo inutile. L'uomo selvaggio non cura il suo simile, perchè non gli serve: egli solo basta a soddisfare i suoi bisogni, che son pochi. Debbono crescere i suoi bisogni, perchè si avvegga che un altro uomo gli possa esser utile, ed allora diventa umano. Per un momento nel corso politico delle nazioni le forze dell'uomo saranno superiori ai bisogni suoi; allora que st'uomo sarà anche generoso. Ma questo periodo non dura che poco: i bisogni tornan di nuovo a superar forze; l'uomo crede un altro uomo non solo utile, ma anche necessario: ed allora non si contenta più di averlo per amico, ma vuole averlo anche per schiavo » (1 ). Per il Cuoco la felicità è ciò che con linguaggio più pro prio possiamo dire soddisfazione de' bisogni, possibilità di sfruttare le qualità fisico - chimiche de ' beni, dati de terminati bisogni individuali. L'uomo è felice, cioè sod disfa interamente i suoi bisogni, realizza uno stato di ap (1 ) Framm. VI, p. 262. Errerebbe colui che nel brano citato volesse vedere un abbozzo di morale utilitaria: il problema mo rale ben altrimenti è impostato da V. Cuoco. 157 pagamento, trova un punto d'equilibrio, quando non v'è contrasto tra desideri e forze. La visione però è moderna in ciò che segue. I bisogni, aggiunge lo scrittore, non sono da comprimersi, tut t'altro, anzi è d'uopo dargli il modo d’esplicarsi. « Invano tu colla tua eloquenza fulminerai il nostro lusso, i no stri capricci, l'amor che abbiamo per le ricchezze: noi ti ammireremo, e ti lasceremo solo ». L'economia privata e pubblica dà l'esempio continuo di nuovi bisogni che sorgono, che non trovano soddisfazione che parzialmente, e poi per le mutate condizioni delle produzioni vengono soddisfatti sempre meglio. Il progresso civile è una ca tena ininterrotta di bisogni nuovi e di soddisfazioni ade guate che si sviluppano. Che vale gridare catoniana mente contro le troppo molteplici esigenze della vita moderna? Quel che è non si discute. Passarvi sopra sa rebbe un condannarsi ad una eterna infelicità. L'equi librio tra i desideri e le forze non può mantenersi che per breve tempo, perchè tosto che si realizza, intervengono nuovi bisogni impreveduti per romperlo. Nella realtà, anzi, è impossibile concepire un vero e proprio equili brio: quel che più ci dà l'idea di questo mondo eco nomico è una serie di equilibri tra desidèri nuovi e forze preesistenti, tra bisogni nuovi, che dan luogo a nuove domande di beni atti a soddisfarli e lo stato della produ zione, che s'adatta all'oscillazioni delle domande. Qual'è il comportamento naturale dello Stato in tali contin genze? « La cura del governo deve esser quella di distrug gere le professioni che nulla producono, e quelle ancora le quali consumano più di ciò che producono; e verrà a capo, se stabilirà tale ordine, che per mezzo di esse non si possa mai sperare tanto di ricchezza quanto colle arti utili se ne ottiene ». Il Cuoco continua in una esaltazione del lavoro agricolo ed industriale, e in una deplorazione degli impieghi, che chiama pericolosi per chè fomentano le ambizioni. Con ciò noi usciamo dalla pura indagine economica. L'autore lascia intravedere la possibilità d'un intervento statale in un campo che noi ne 158 vorremmo libero. Ma nel molisano, purtroppo, i concetti economici non sono chiari: il Cuoco indulge troppo spesso a forme d'economia statale, che portano ad un interven tismo e ad un protezionismo fuor di luogo, che, se sono a volte spiegabili come espressioni di circostanze ano male, non hanno mai ragioni scientifiche tali da imporli per una pratica economica generale (1 ). (1 ) Bisogna pur riconoscere che elementi estrinseci interven gono a turbare la mera analisi economica, onde il Cuoco so stiene forme d'economia statale e d'intervento per altre ragioni, nobili e spiegabilissime. Dopo gli studi del RUGGIERI (op. cit., p. 39) e del Cogo sopra tutto (op. cit., pp. 13-23, pp. 59-66) non v'è alcun dubbio che l'opera statistica Operazioni sul di partimento dell'Agogna anzichè al cittadino Lizzoli Luigi come appare estrinsecamente dal frontespizio dell'opera (Dalla tip. Nobile e Tosi, 8. d. ), debba attribuirsi al Cuoco, che la scrisse per incarico dell'amico tutta di suo pugno, sia pure consigliato dal Lizzoli. Orbene in detta opera (cap. XII, Istruzione pubblica, p. 107) il Cuoco tratta dell'importanza delle scuole di disegno e de' vantaggi che da questa specie d'educazione si ritraggono. « Saremo sempre » scrive poi « i servi degli esteri fin che crede remo che essi sieno i nostri maestri: chi ha perduto la stima di sè stesso, ha già perduto tre quarti della sua indipendenza. Or questa stima di noi stessi non si perde tanto ammirando i genî che ha prodotto, e le grandi azioni che ha fatte una na zione estera, quanto ammirando di soverchio alcune cose che sono per loro natura indifferenti, e che forse anche sarebbero migliori tra noi, se come nostre non fossero disprezzate. Pochi sono sempre presso qualunque nazione coloro che intendono e pregiano le prime, e questi pochi per lo più hanno uno sviluppo tale di ragione che impedisce l'abuso dell'ammirazione. Ma mol. tissimi sono quelli che ammirano le chincaglierie, i ventagli, le fibbie, i mobili, le stoffe, e che aspettano da Lione, o da Londra il figurino della moda. Tra cento uomini convien trovare cin. quanta donne, e quarantotto altri esseri inferiori alle donne, i quali ragionano così: in Inghilterra le fibbie, i mobili, le scarpe sono migliori delle nostre: dunque gl' Inglesi sono migliori di noi. Allora tutto è perduto. Le nazioni estere attaccano sempre la parte più numerosa e più debole di un'altra nazione, e l'at taccano per le vie del comodo e del bello; e quindiè che un go verno savio deve procurar sempre di dare alla nazione propria gran facilità di mezzi, onde poter vincere in questa concorrenza, e questa cura deve formar la parte principale della pubblica istru zione ». 159 Abbiamo studiato come il Cuoco concepisca lo Stato, Stato di diritto basato sul consenso e realizzante la sua sovranità nella maggior pienezza, Stato militare e forte; abbiamo anche studiato come questo suo Stato sia in fine lo Stato che egli vede sorgere per opera di Bonaparte. Il Cuoco a me appare come il teorizzatore di quel tipo di Stato, che alla storia è passato col nome di napoleonico. Abbiamo già dato in parte la giustificazione di ciò che i legittimisti ben poteano chiamare usurpazione, ma che per il nostro è lo sviluppo logico delle cose, è la fine di tutto un processo storico: occorre però ritornare sul l'argomento per una più vasta documentazione. La storia non s'interrompe. Il primo console diviene presto imperatore di Francia e poi re d'Italia (1 ). Tutto il movimento spirituale che porta dalla repubblica ita liana al regno italico, trova la sua spiegazione negli scritti cuochiani. Sul Giornale italiano il molisano manda fuori le sue Considerazioni sopra il senato - consulto (2 ), scritto denso di pensiero politico, ove la monarchia napoleonica trova un'adeguata giustificazione nella natura stessa delle cose, nel corso della storia, che tra due estremismi, la tirannia e l'anarchia, trova il suo equilibrio nella costi tuzionalità. I contemporanei non possono intendere Napoleone: la sua figura complessa sfugge ad essi, perchè la conside rano isolatamente, avulsa dal moto storico, in cui opera e dal quale è determinata, moto storico, che solo la po sterità potrà intendere. Avevamo una repubblica. Come va che dal direttorio, dal consolato decennale, dal conso lato a vita, dalla presidenza si passa all'impero e al regno? « Noi diciamo, pieni di stupore: – Come mai ha potuto avvenir questo? — E coloro che ci han preceduto, molto tempo prima che avvenisse, lo avean predetto (1 ) M. Rosi, op. cit., p. 230 e sgg. (2 ) Giorn. ital., 1804, 30 maggio, 2 giugno; n. 65, 66; pp. 260, 264: Considerazioni sovra il senato - consulto (ristampato dal Ro MANO, op. cit., in Appendice; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 103-108, col titolo Napoleone imperatore). 160 inevitabile ». L'impero è sorto, perchè tutte le idee por tavano all'impero. L'analisi di tutti i precedenti storici, senza i quali ogni evento ci appare estrinseco, è fatta dal nostro con una lucidità mirabile. La rivoluzione francese, prima di scatenarsi sulle piazze e sui patiboli col terrore, aveva tentato un esperimento costituzionale. Una monarchia moderata sarebbe stata quanto di meglio potea avere in quel momento la Francia. « La rivoluzione scoppiò, perchè era inevitabile. Tutte le idee degli uomini non ebbero allora altro scopo che quello di formare una monarchia costituzionale; ma si errò nel circoscrivere il limite del potere esecutivo, e se ne creò uno troppo debole e troppo poco rispettato ». Si inde bolì costituzionalmente il potere centrale, togliendo così ogni difesa agli stessi ordini civili, aprendo la via alla licenza trionfante. Gli errori in questo campo furono in numerevoli. Il potere legislativo esercitò un predominio eccessivo, inframettenze internazionali, in campi che pra ticamente, se pur non logicamente, spettano all'autorità amministrativa. La forza ' armata fu divisa, parte al re, parte al popolo: la monarchia fu esautorata, ma il paese resto senza presidio alcuno. Il potere esecutivo perse ogni autorità sul legislativo, e si giunse all'assurdo di togliergli parte sia diretta sia indiretta, sia d'iniziativa sia di veto, nella decretazione e nella sanzione delle leggi. Si separò ancora interamente il potere esecutivo dal giu diziario, e al re fu vietato l'ultimo residuo d'autorità: il diritto di grazia e d'amnistia, che pur tanto serve a sanare situazioni in via strettamente giudiziaria irre solubili. « Che ne avvenne? La monarchia costituzionale, simile ad un colosso di arena, si sgretolò e cadde ». S'immaginò poi la costituzione del 1793. Un altro ec cesso. Per non cedere la Francia il potere esecutivo ad un organo specifico, esso fu assunto dalla stessa conven zione nazionale. « L'epoca, in cui noi ebbimo distrutto ogni potere esecutivo, si può chiamar l'epoca in cui al governo si sostituì la guillottina ». « Eravamo giunti all'estremo. Era necessità retroce dere. Si comprese l’errore della riunione de' poteri e, 161 colla costituzione del 1795, furon di nuovo separati. Si comprese che la forza fisica di uno Stato dovea esser una sola, e che questa dovea dipendere dal governo. Le at tribuzioni della guardia nazionale furono limitate; il co mando della forza armata, il pieno comando, fu dato al Direttorio, a cui furon dati attributi più ampi che al re ». Come ognun vede il processo della storia è sempre lo stesso: un estremo porta all'altro estremo, ma nel l'urto e nell'antitesi si sviluppa spontaneo un supera mento, che rappresenta il nuovo e logico equilibrio. La costituzione del '95 avea molti difetti che dovevano in breve distruggerla: la lentezza e la mancanza del se greto in azioni, che esigono rapidità ed unità di comando; l'incertezza del sistema nel troppo rapido cambiamento del Direttorio; l'ambizione de' membri che componevano il Direttorio stesso. Gli effetti del sistema: vittorie inu tili, vertiginose disfatte, discredito all'interno e all'estero. La storia continua il suo processo, alla ricerca d'un punto d'equilibrio stabile. La costituzione del 18 bru male fu un rimedio solo in parte. Comincia l'ascesa di Napoleone, ascesa che ora ci appare naturale, inquadrata come è nella continuità d'un processo che si svolge con una particolare logica. Invece che a cinque membri, il potere esecutivo fu affidato ad uno solo, togliendo ogni lentezza alla vita statale; il potere fu prolungato per dieci anni, evitando la troppo frequente rotazione di governi; s'evitò ogni ingerenza legislativa nella sfera na turale d'azione del potere amministrativo restituito così alla sua sovranità. Una volta preso questo cammino, le idee andarono fino alla fine: per rendere l'ambizione privata meno nociva, si ebbe il consolato a vita e si diede al console il diritto di nominare il successore. L'ascesa di Napoleone appare così pienamente spiegata nella storia. V'è perfetta reciprocanza: gli uomini deter minano la storia ed operano per la storia; sono liberi perchè sono i fattori della storia, sono schiavi perchè soggiacciono alla loro opera. « Ciò che è avvenuto posteriormente non è che il com pimento di tali istituzioni. L'eredità rende il potere più 11 - F. BATTAGLIA, 162 sicuro, ed in conseguenza ne rende l'esercizio più dolce; la responsabilità de' ministri corregge ogni abuso che dal l'eredità potrebbe avvenire. Coll'eredità e colla responsa bilità si riuniscono due cose che paiono di loro natura inconciliabili: la libertà e l'impero ». Quand' io ho analizzata la critica rivoluzionaria nel pensiero cuochiano, ho avvertito come da questa critica nasca tutto un sistema politico, di cui la storia è la con sacrazione e la legittimazione. Eccoci giunti al punto, in cui ciò che il Cuoco ha preveduto trova la sua realtà e la sua riprova materiale. La storia ha un processo dialet tico eterno, le cui grandi linee approssimativamente si possono cogliere, pur quando l' ineffabilità de' partico lari ci sfugge. Il Cuoco ha osservato le idee, che sono eterne e non fallano; ha trascurato gli uomini, che brillano un istante ed ingannano, se li si astrae dal corso ideale delle cose: le sue deduzioni fondate sulla natura umana non sono fallite, ed hanno avuto la più piena sicura conferma. Com'ognun vede, siamo giunti a Napoleone attraverso uno spiegarsi logico delle cose. Bonaparte è la risultante di tutta una convergenza d'elementi, che allo storico e al politico acuto non isfuggono, e de ' quali noi abbiamo descritto la natura. Bonaparte è il creatore di quel tipo di Stato, che, pur lasciando il più vasto campo alle atti vità individuali, esercita unitariamente il suo compito sovrano, e, pur riposando consensualmente su un con tratto sociale, in ogni istante vero nella convergenza delle volontà subiettive, sa trovare la sua difesa in una forza attiva che non falla. Un'esperienza rovinosa di frammen tarismo e di debolezza porta all'impero (1 ). Si è avuta troppo lunga pratica d'anarchismo costituzionale, d'insuf ficienza esecutiva, perchè si possa continuare sulla stessa strada. I popoli non possono prosperare, quando gli or dini civili non rispondono alla vita stessa. La vita è vo lontà unitaria; lo Stato è sovranità, cioè estrinsecazione di quella volontà suprema, che è alla base d'ogni atti (1 ) V. FIORINI (F. LEMMI, op. cit., p. 619. 163 vità umana coordinata in società. Ogni menomazione del principio porta all'anarchia. Le costituzioni debbono ri spondere a quelle esigenze eterne ed immutabili, senza le quali gli organismi sociali deperiscono e muoiono. Curioso e tipico è osservare come ugualmente nella storia il Cuoco trovi la legittimazione di altre figure in signi di capitani e di uomini eletti, il duca Valentino, Cromwell. Mi si permetta la parentesi, anche perchè si tratta di considerazioni che illuminano direttamente il nostro argomento. In uno scritto (1 ) il molisano immagina che un suo amico possegga un manoscritto antico, descrivente un viaggio per l'Italia nel secolo di Leone X, secolo aureo e grande nella sua pura italianità: dall'opera egli desume un collo quio tra l'anonimo autore e il Machiavelli. Non istard qui a riferire il dialogo, che si svolge animato e profondo di politica, tra i due, nel quale Vincenzo tenta una giusti ficazione di quell'atteggiamento del grande fiorentino, che i secoli hanno battezzato con l'epiteto di machiavel lismo. L'Anonimo' nota al Machiavelli che il mondo lo accusa d'avere insegnato massime di tirannia ai Medici e di avere presi per suoi modelli uomini scellerati, Ca struccio e il Valentino. Alla prima obiezione il Machia velli risponde che egli tanto poco è stato fautore dei signori della sua città, che questi al contrario lo han per seguitato come troppo caldo fautore della libertà della patria; alla seconda obiezione oppone un ragionamento assai acuto, sul quale merita fermarvisici un po '. « Ascolta. Per Castruccio ti dirò che, scrivendo la sua Vita, non ebbi altro pensiero che quello di ridestar gli animi degl'italiani, inviliti tra l’ozio e la cura de' cani, della caccia, delle donne e dei buffoni, all'amor delle cose militari, mostrando loro coll' esempio di un uomo illu stre che per questa sola via si può ascendere alla gloria e all'impero.... ». (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 42-52 sotto il titolo Due frammenti d'una storia della poli tica italiana ). 164 « Ma pel duca Valentino?... » « Perchè quelli che egli oppresse e distrusse eran più scellerati di lui.... Tra tanti scellerati io preferiva quello che almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano. L'Italia non avea altro più da sperare: niuna virtù ne' popoli, niun ordine di milizia. Quei tanti tirannotti, che la laceravano, si facevan ogni giorno la guerra; ma questa guerra non decideva mai nulla. Nel massimo de' mali, era un sol lievo diminuirne il numero. Valentino sarebbe rimasto solo. Più grande, sarebbe stato più umano ed avrebbe accomodati i suoi pensieri all'ampiezza del nuovo impero. Senza rivali, sarebbe stato anche senza sospetti e senza crudeltà. L'Italia avrebbe cominciato a goder la pace, e dopo due età avrebbe incominciato ad avere anche la virtù.... ». Il pensiero del Cuoco è chiaro. La giustificazione del Duca è nei suoi stessi fini. Il secolo di Leone voleva questi mezzi, e da essi non si poteva prescindere: un uomo, che aveva per iscopo di realizzare la sua personalità, non po teva non agire in quella maniera. Oggi la storia è cam biata. Napoleone non è il Valentino; Napoleone è un ambizioso, il nostro autore non lo disconosce, ma un ambizioso, che unisce la gloria alla virtù. Coloro che lo han preceduto sono inetti metafisici, incapaci di portare la nazione ad un fine grande. Qual è la ragione etica e storica, che possa impedire al genio di farsi strada e di trovare nella sua stessa personalità la sanzione del l'impero? Nessuna. Tutte le cose invece additano Na. poleone come il restauratore degli ordini civili sconvolti, come colui, che può dare allo Stato un potente indirizzo unitario (1 ) (1) È curioso ed interessante come l'anglofobo Cuoco spieghi e legittimi il Cromwell. In un articolo del Giorn. ital., 1804, 5 marzo, n. 28, pp. 111-12: Considerazioni sul libro in. glese « Uccidere non è assassinare » e sul diritto delle genti (ri stampato in Scritti vari, v. I, pp. 81-85 col titolo L'assassinio politico e le violazioni del diritto delle genti) scrive, a proposito 165 Napoleone ha inoltre un titolo maggiore al trono, un titolo più nobile, il quale sta maggiormente al cuore di Cuoco: egli ha dato all'Italia quell'unità, e in parte quel l'indipendenza, che è stata il sogno di tanti pensatori e di tanti martiri della Partenopea. Vedremo, in seguito, quando verremo a parlare della pedagogia e dell'ita lianismo del nostro, come il problema unitario italiano sia anzi tutto un problema spirituale, cioè educativo, e poi un problema politico. Limitiamoci ora a vedere la cosa piuttosto dal di fuori, per poi penetrarla meglio nel suo intimo. Bene o male s'è costituito nell'Italia settentrionale uno Stato unitario. Quel che al Cuoco interessa è che, nella nostra patria, si cominci a vivere italianamente, a pen sare nazionalisticamente. Altri dirà: il nuovo organismo è accodato al carro di Napoleone ! Che importa ciò, se quest'uomo grande ha di mira il bene comune dell'Italia, sua patria d'origine, e della Francia, sua patria di ele zione. Il nuovo regno non ha con l'Impero' se non quel vincolo di solidarietà reciproca, che lega il benefi cato al benefattore: Napoleone è il pegno tra i due po poli, comune sovrano di due nazioni sorelle. Come mai il Cuoco così irrimediabilmente antifrancese ora è così strettamente francofilo, incline ad intendere i benefici dell'alleanza e dell'amicizia franco- italiana, fino a ringraziare Iddio, che ha voluto porre Italia e Francia sotto il comune scettro d’un uomo solo? La risposta è implicita in tutto il pensiero politico del no stró scrittore. di un'operetta del colonnello SEXBY, Killing is no murder e dell'attentato contro Napoleone del febbraio 1804 queste con siderazioni sulla posizione storica del lord protettore Cromwell: Dopo le crudeli stolidezze degli evangelici, de'puritani, de' livellisti e di tutto quell'infinito numero di sette religiose e politiche, che si agitavano allora in Inghilterra come igra nelli di sabbia quando spira il vento di mezzogiorno ne' deserti dell'Arabia,... era inevitabile che sorgesse finalmente un uomo atto a ricomporre in un qualche modo le cose. Ciò che è ine. vitabile è sempre il minor male », 166 La Francia, che il Cuoco non ama, è la Francia repub blicana, sinonimo d'astrattismo e di debolezza, che am mannisce ai popoli parole vacue di libertà di fratellanza d'uguaglianza, e intanto depreda musei archivi bibliote che, saccheggia case private, taglieggia le stesse città che dice d'aver liberato. La Francia rivoluzionaria, che egli descrive con così foschi colori, non può dare a noi l'indi pendenza e l'unità. La Francia, che invece esalta, è la Francia che ha superato la rivoluzione, ha ricostituito gli ordini pubblici sconvolti, ha trovato in Bonaparte, la sintesi superba della sua rinascita. L’unità che il molisano osserva realizzata nel nuovo Stato è, però, un'unità più politica che spirituale, più estrinseca che intima. Bisogna dunque operare ancora per rendere le fondamenta del nuovo regno salde ed eterne, bisogna formare quel che manca: la coscienza dell'italianità, la volontà unitaria, un nazionalismo. A ciò mirano gli sforzi del Cuoco, pedagogo dell'Italia, « il pedagogista del primo risveglio della coscienza nazio nale » (1 ). Abbiamo il Regno italico libero indipendente, punto di partenza per estendere a tutta la penisola i benefici d’un nuovo ordinamento. È il gran sogno di Vincenzo Cuoco, che s'esalta, egli, temperamento posi tivo, ovunque veda un barlume d'unità italiana, lo stesso sogno che lo farà fervido murattista ne' suoi ultimi anni, sembrandogli d'intravvedere in Gioacchino il desìo am bizioso d’un più vasto dominio. Certo l'autore del Saggio storico avrebbe voluto che il nuovo organismo nazionale sorgesse più naturalmente, per virtù d'italiani, per il formarsi e il maturarsi d'uno spirito civile nostrano, per un processo politico naturale, senza quell'intervento napoleonico, che pur serba sempre il suo peccato d'origine: la sua esteriorità. Ma, tutto è fatale necessario nella storia. « Quella ragione, per la quale gl'italiani, reggendosi a repubblica, non potrebbero for mar mai uno Stato potente, quella ragione istessa fa sì (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 335. 167 che uno Stato potente, tra le tante divisioni di luoghi e di animi, non possa sorgere in Italia se non per mezzo dell’unione; e questa unione, non essendo più figlia della virtù e degli ordini antichi, non può ottenersi se non per la forza. E come mai non sarà straniera la forza, quando ogni forza patria è già da tanto tempo distrutta? » (1 ). La repubblica non fa per noi, come non fa per i francesi: essa è disgregazione e ruina, mentre occorre unitarietà e forza per superare i mali e i dottrinarismi del secolo. La Francia repubblicana, dannosa a sè stessa, non potea essere benefica per poi: i suoi rapporti con l'Italia eran rapporti di sudditanza e non di parità. « I legami che ci uniscono alla Francia » scrive il Cuoco, « sono legami di necessità e di vantaggio vicendevoli. Era naturale che la Francia vincitrice volesse usare della sua vittoria; ma, finchè la Francia ebbe apparenza di governo repubblicano, la sorte d'Italia non fu per certo molto felice, perchè pessima è sempre la condizione de' paesi conquistati o dominati dalle repubbliche. Par che la somma delle libertà tutta si concentri entro le mura, e fuori non rimane che l'oppressione. Forse è inevitabile nell'ordine della natura che l'estremo de 'mali non si possa evitare senza rinunciare a quell'estremo de' beni, a quell'ottimo che si chiama con ragione il peggior ne mico del bene, e mettersi in quella mediocrità che forma la base de governi temperati. La Francia, quando ella stessa non avea governo, prometteva agli altri popoli un governo simile al suo: con promesse, per tutt' i popoli, fallaci, perchè non poteano eseguirsi; per l'Italia, an corchè potessero eseguirsi, dannose. Imperciocchè, am messo per vero che i costumi degli europei viventi fos sero capaci di pure forme repubblicane, rimane però sempre problematico se con forme puramente repubbli cane l’Italia, il di cui male più grave stava nella divi (1 ) Giorn. ital., 1805, 1, 3, 6 aprile; n. 39, 40, 41; p. 158 pp. 161-162, pp. 165-166: Sul regno d'Italia (ripubblicato in, parte da G. Cogo, op. cit., pp. 134-136; ed ora in Scritti vari, V. I, pp. 149-158). 168 sione, avrebbe potuto mai riunirsi; e se, non riunendosi, poteva acquistar forza e vera indipendenza; e se, senza indipendenza e senza forza, preda del primo che volesse invaderla, avrebbe mai potuto perfezionar gli ordini suoi? ». Ritorniamo alla critica rivoluzionaria di cui abbiamo parlato. Il popolo italiano, pur diviso e suddiviso, ha una sua fisionomia speciale, bisogni propri, antichi ordini na zionali, che non possono mutarsi ed adattarsi ai sistemi nuovi d'oltralpe. Napoleone agisce diversamente: crea in Italia un Regno nuovo e lo pone direttamente sotto il suo scettro, ma nello stesso tempo gli dà, almeno in parte, una certa autonomia governativa, che intenda i bisogni e gli interessi locali, gli dà un esercito proprio, che sol levi lo spirito popolare depresso e lo riabiliti dopo un fiacco passato; gli dà istituzioni, leggi proprie. V'è una politica imperiale, politica estera, amministrazione ge nerale, la stessa in Italia e in Francia, dipendente dalla volontà del monarca. V'è poi una politica locale, diretta alla soddisfazione di esigenze specifiche, che varia da luogo a luogo, lasciata alla volontà delle popolazioni, che intanto s’abituano alle gestioni pubbliche, alle fun zioni civili, dalle quali sino ad oggi erano state tenute lontane. « Il cangiamento di governo che è avvenuto in Francia, per quanto sia stato necessario ai francesi, si può dire però che sia stato egualmente utile agl'italiani. Di tutti i legami che univan questa a quella non rimane che l'al leanza; alleanza, che, se alla Francia è utile, all'Italia è indispensabile. Il Regno dell'Italia è divenuto proprietà dello stesso sovrano, e questo sovrano è il più grande uomo del secolo: egli saprà, egli potrà e, ciò che più im porta, egli vorrà farlo prosperare. Questo uomo avea già due titoli i più giusti alla sovranità: quello di creatore e di restauratore dello Stato. Le circostanze politiche del l'Europa gliene dànno un terzo, più giusto di tutti: la necessità di difendere ancora per altro tempo lo Stato che egli ha creato, la necessità che ancora ha questa nazione dei benefíci suoi », 169 H In Italia non si è formato ancora uno spirito pubblico nazionale, una comunione d'idealità, un italianismo in somma. L'unità, che Napoleone ha dato a noi, è un'unità che non può trovare altra ragione che nel suo genio. L'in dipendenza per volontà intrinseca del popolo è un as surdo: in Italia non c'è ancora un popolo consapevole della sua natura e della sua forza. L'unica possibile ri soluzione del problema italiano è quella che la storia ha sancito. Il fatto nuovo avrà per effetto di mostrare agli italiani, come la convivenza comune ed unitaria sia possibile, anzi vantaggiosa; come essi uniti siano più forti che non separati; come essi abbiano da sperar tutto da un avvenire libero, e tutto da perdere ricadendo negli antichi errori. I germi di quest'esperienza non andranno perduti, morto Napoleone, poi che la storia non ritorna sui suoi passi, e procede infallibilmente. Qui il Cuoco è davvero il profeta dell'avvenire. Siamo in un campo puramente politico. Ho detto che ci riserviamo di studiare in seguito la maniera con la quale il Cuoco crede possibile una unità italiana più in tima, di natura spirituale, attraverso un'alta pedagogia, che cementi per l'eternità, ciò che il genio d’un uomo ha potuto realizzare in maniera affatto pratica, e, nella sua stessa génesi, estrinseca. Prima però di venire a questo problema, che formerà un capitolo del presente lavoro, bisogna gettare uno sguardo rapido sulla politica gene rale europea, in cui il nostro scrittore ebbe intuizioni ge niali e alcune poche insufficienze tipiche. Per chi ritorna col pensiero alla tormentata storia del secolo XIX, l'unità d'Italia appare come una necessaria conseguenza di forze politiche in pieno sviluppo, come l'inderogabile fine d'un non mai interrotto processo. La questione italiana, considerata da un punto di vista po litico, appare, senza dubbio, come una grande questione europea. L'Italia è il centro del Mediterraneo, il centro pulsante della vita civile di tante stirpi, il transito tra l'Oriente mistico e voluttuoso e l'Occidente pratico e po sitivo; il paese destinato a moderare, se libero ed uno, tutte le competizioni di predominio commerciale, ad ali 170 mentarle, se disgiunto e schiavo, in quanto nessuna grande potenza permetterà mai ad un'altra un dominio incontrastato sulla penisola, che domina tutti gli sbocchi marinari e commerciali europei. L'unità italiana è il fulcro del problema dell'equilibrio europeo. Le guerre cesseranno, in gran parte, quando le nazioni si convince ranno di questa grande verità: l'unità d'Italia è la condi zione indispensabile d'un assetto europeo duraturo. È il concetto centrale del Saggio, il concetto animatore della politica cuochiana. Vincenzo Cuoco si è tuffato nel vor tice che non amava, la rivoluzione, solo perchè aveva una lontana vaga speranza d'indipendenza e di unità italiana. « La rivoluzione di Napoli, rimpiange l’esule della Ci salpina, potea solo assicurar l ' indipendenza d'Italia, e l'indipendenza d'Italia potea solo assicurar la Francia. L'equilibrio tanto vantato di Europa non può esser af fidato se non all'indipendenza italiana; a quell'indipen denza, che tutte le potenze, quando seguissero più il loro vero interesse che il loro capriccio, dovrebbero tutte procurare. Chiunque sa riflettere converrà meco che, nella gran lotta politica che oggi agita l'Europa, quello dei due partiti rimarrà vincitore che più sinceramente favo rirà l'indipendenza italiana » (1 ). La visuale politica di Vincenzo è senza dubbio vasta e profonda. La lotta tra le grandi nazioni s'impernia sul Mediterraneo: la questione unitaria cessa di essere, come per molti patrioti del tempo, strettamente nazionale, e s'inquadra in problemi più complessi, europei. Gli uomini politici del Risorgimento, purtroppo, non intesero questa grande verità, e la storia, si può dire, operò per virtù naturale delle cose, fra l'incomprensione anche di menti riccamente dotate. Per lo stesso Cavour la lotta è una questione continentale di importanza limitata. Solo un po'tardi, ma a tempo, lo statista piemontese, nell'im presa garibaldina del '60, s'accorge dall'atteggiamento in (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178. 171 glese quanto importante sia il problema meridionale nel gioco delle forze mediterranee. Tutta la maggiore o minore bontà della politica delle varie nazioni europee, vien giudicata dal Cuoco alla stre gua di questo fine superiore, secondochè abbiano esse più o meno favorito l'equilibrio internazionale nell'unità d'Italia. Abbiamo uno scritto cuochiano, già innanzi ci tato, assai interessante per la comprensione integrale del suo italianissimo pensiero politico, scritto del quale io darò un largo riassunto, poi che mi sembra che non sia stato considerato dagli studiosi a sufficenza (1 ). L'arti colo, Osservazioni dello stato politico dell'Europa, è una sintesi mirabile delle intime ragioni della storia europea negli ultimi secoli, delle lotte per il predominio, dell'as setto italiano. Lo studio è determinato dalla lotta, che si riacutizza, tra l'Inghilterra e Napoleone, ma il Cuoco supera le contingenze politiche e risale a notazioni di ca rattere assai ampio. Nella vita moderna due sono le pietre miliari dello sviluppo storico, il trattato di Westfalia e il trattato di Amiens, i quali segnano come due epoche ben distinte della vita europea, dopo Carlo V. « Quello che si chiama in Europa tempo di pace non è che il tempo della minor guerra possibile. L'equilibrio politico dell'Europa è la causa principale di tutte le guerre e di tutte le paci: gli uomini e le nazioni travagliano con una mano a distrug gerlo e coll' altra a ristabilirlo. Vi sono sempre due na zioni preponderanti, le quali, a calcolo sicuro, si fanno. la guerra un giorno sì ed un altro no; e la guerra dura finchè ad una non riesca di acquistar sull'altra una su periorità tale che sensibilmente faccia preponderare uno dei bacini della bilancia e faccia nascere il bisogno di un equilibrio novello. » Le potenze, che fino a Westfalia detennero il dominio in Europa, furono la Francia e la Spagna. Alla pace di (1 ) Giorn. ital., Osservazioni sullo stato politico dell'Europa (vedi in precedenza, p. 143 ). 172 Westfalia si scoprì la ragione della debolezza spagnuola, a Nimega questa si riconfermò: l'Inghilterra surse a prendere il posto della Spagna nella rivalità con la Francia. Queste le linee sommarie della storia. Vediamo, e qui sta il punto che a noi interessa, quale sia la posizione della Spagna nella vita continentale e quale l'intima ra gione della sua fiacchezza. La Spagna e la Francia erano due nazioni di forze quasi uguali, l'una più grande, l'altra meglio preparata: la Spagna poteva ' trionfare, ma non riuscì. Perché ! La Spagna diventò potente, perché la fortuna delle successioni riunì sotto uno stesso scettro metà dell'Europa, perchè Colombo le donò l'America, perchè potè guadagnare in un primo tempo gli animi degli italiani divisi, discordi, e contro altri irritati. Ma, una volta acquistato un dominio enorme, attese più ad estenderlo ancora, anzi che a rinforzarlo, ad arricchirsi materialmente anzi che moralmente: l'espulsione degli ebrei, le persecuzioni religiose, le dispute teologiche, i governatori rapaci furono le piaghe della sua compagine. La mancata risoluzione del problema italiano, e qui vo glio insistere, fu secondo il Cuoco la causa prima della mancata affermazione della Spagna. « Se la Spagna, potendo riunir l'Italia o formarvi un grande Stato, l'avesse fatto, avrebbe, ottenuto un eterno poten tissimo alleato. Ma il fato avea riserbato ad altri tempi l'uomo grande cui era commesso questo disegno. La volle ritenere distruggendola. Montesquieu dice che la ritenne arricchendola: da troppo impure fonti avea bevuto Mon tesquieu la storia nostra ! Dopo averli impoveriti e spo polati, questi paesi divennero per la Spagna cagioni di spese e non di forza. Difatti la Francia attaccò sempre la Spagna, non già nel centro della monarchia, ma nella Borgogna, nelle Fiandre, nell'Italia, nelle provincie lon tane, le quali non si potevan difendere per loro stesse, ed i successori de' bravi Gonsalvi, De’ Leva e D'Avalos si perdettero inutilmente sulla Mosa e sul Po. La Spagna s ' indebolì per conservar ciò che conservar non poteva ». L'errore politico, causa della rapida decadenza spa 173 gnuola, è il non aver voluto costituire uno Stato d'Italia, libero ma alleato, onde colpire la Francia avversaria da ogni lato; l'errore politico della Spagna sta dunque nell’aver trattato l'Italia alla stregua delle colonie ame ricane, anzi peggio, perchè in Italia la dominatrice di silluse un popolo grande colto e capace, mentre fuori sfruttò solo genti barbare o semibarbare, tribù selvagge. La politica francese nella lotta per il predominio, secondo il Cuoco, fu l'opposto di quella spagnuola. La Francia divenne potente, mostrando di proteggere gli italiani, proteggendo veramente l'Olanda, aiutando i principi dell'Impero: così detta le condizioni a Munster; sostiene il Portogallo, si allea con l'Inghilterra: indebo lisce in Europa e nelle colonie, la rivale. I francesi sono forti, desiderosi di dominio, ma non si lasciano accecare dalle ambizioni. Luigi XIV, il superbissimo monarca, non giunge mai ad aspirare al dominio del mondo; ed è dif ficile trovare nelle storie un principe più di lui moderato nelle vittorie. « La Francia ebbe per sistema quasi eterno di susci tare sempre un'altra potenza contro la sua rivale. Ho detto che fece risorgere il Portogallo e l'Olanda; fece uso anche del gran Gustavo, e chiamò le forze svedesi sulle sponde del Reno. Dopo le vittorie di Eugenio e la pace di Utrecht, la monarchia austriaca di Germania era divenuta infinitamente più potente di prima. La Svezia non bastava più a contenerla. La Prussia, con popolazione più numerosa, con sito più opportuno, era più atta al bisogno; e la Francia fece sorger la Prussia. «Tale è stata la condotta colla quale la Francia è giunta a tanta grandezza. È la condotta della saviezza, della giustizia e della generosità ». Cuoco non accenna qui all'Italia. La Francia ovunque suscita Stati liberi contro le sue rivali, la Spagna e l'Au stria, ma non crea un Regno d'Italia: ecco la causa del suo non completo trionfo. « Vediamo che han fatto gl'inglesi ». Battuta la Spagna, la cui insufficienza si fa palese a Westfalia e poi a Nimega, l'Inghilterra prende il posto della Spagna. L'Inghilterra 174 è il fomite per tanti anni sino ad oggi, pensa il Cuoco, di tutte le guerre in Europa: per la sua stessa natura non può mantenersi forte che con la guerra. « Il vero baluardo dell'Inghilterra è l'immensa quantità de'capitali che ha accumulati: con questi conserva la sua superiorità ma rittima, perchè con questi mantiene quelle flotte che gli altri non possono costruire. Ma, siccome questi capi tali li può accumular qualunque altra nazione, tostochè abbia industria, commercio e pace; così gl'inglesi deb bono sostenere la loro superiorità con una continua guerra ». Dalle guerre di successione ad oggi, alle guerre contro Napoleone è la stessa ragione che muove gli iso lani a battersi. Ma questo metodo è assurdo e pazzesco: « l'Inghilterra tende più rapidamente della Spagna alla sua dissoluzione ». Il Cuoco, senza dubbio, s'inganna, ma s'inganna su dei particolari. La visione d'insieme a me sembra luminosa, se pure in tutti i suoi punti non accet tabile. Gl'inglesi prolungano le guerre, oltre il necessario, avidi desiderano troppo. Nella guerra di successione di Spagna perdettero per un orgoglio male inteso ciò che Luigi XIV voleva cedere prima delle vittorie del Villars. In essi nullà della magnanimità de' romani. Essi sono forviati dalla saviezza dalla lusinga di più felici successi. Alla guerra sono spinti dalla loro natura marinara stessa, nella guerra permangono per migliorare il loro stato. Così ieri, così oggi: così nelle guerre dinastiche di suc cessione, così nelle guerre nazionali di oggi. E dire che l'Inghilterra con questa sua iniqua poli tica estera va perdendo i frutti d ' un'antica continua savia politica interna di tolleranza e di libertà ! Coloro, che ne' secoli favoriscono quella che il Cuoco chiama « naturale irresistibile inclinazione a migliorare politica mente » lo stato de' popoli, « o presto o tardi vincono gli uomini ed i tempi ». « L'Inghilterra è giunta ad un grado di prosperità immenso; fin dall'epoca di Luigi IX, l'in terna sua amministrazione era superiore a quella degli altri popoli: ce lo attesta un uomo, che io chiamo al tempo istesso il Villani ed il Macchiavelli della Francia, il signor di Joinville. Perchè? Perchè l'Inghilterra fu la prima 175 à riconoscere la proprietà e la libertà civile. Perchè i papi furono fino al secolo XI gli arbitri di tutta l'Europa? Per chè, in tanta barbarie e ferocia, erano i soli che predi cavano la pace; perchè abolirono la schiavitù; perchè, dice Leibnizio, erano i più savi e i più giusti uomini dei loro tempi, e senza i papi l'Europa sarebbe caduta in mali peggiori. Dopo il XII secolo cangiarono massime, e la loropotenza incominciò a diminuire. Perchè la Fran cia e la Svezia vinsero nella guerra dei trent'anni? Perchè sostennero il partito della tolleranza, dell'umanità, delle idee liberali de'popoli tutti. Nell'ordine eterno delle cose, la legge è sancita anche per i potenti; anche i popoli hanno la loro morale: chi la trascura, chi la calpesta, o presto o tardi ruina. I francesi promettevano agl'italiani grandi ed utili cangiamenti; non quelli che la stoltezza de’tempi fa ceva millantare in un'epoca che si chiamava di riforma ed era di distruzione,ma quelli che ogni uomo savio sperava da quel disordine dover sorgere un giorno. Imperocchè gli utili cangiamenti- sogliono incominciare per lo più da vivissime commozioni; ed errano egualmente coloro che, amando troppo queste, voglion perpetuarle, e coloro che, temendole soverchio, disperano di un fine migliore. Il destino dell'Italia era quello che, dopo tre secoli di languore e d'inerzia, dovesse finalmente risorgere a nuova vita. Inglesi, qual male vi avean fatto i discendenti di Galileo, di Raffaello, di Virgilio, di Cicerone? Ed il vo stro Wickam ha ricoperte le loro terre di tanti orrori ! Ed invece di concorrere al loro risorgimento, non avete neanche voluto riconoscere la repubblica italiana ! » (1). Il Cuoco s'esprime chiaramente. La sua anglofobia non ha origine, come sembrerebbe a prima vista, in un en tusiasmo cieco per la politica di Napoleone contro l'acer rima isola ribelle, ma si giustifica alla luce di supreme esigenze pratiche. La pietra di paragone in tutta questa (1 ). A. BUTTI, L'anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909 ), p. 434 e sgg. 176 analisi critica è la necessità dell'unità d'Italia, che tutti intendono come fatale, ma che non tutti amano. Alcuno potrebbe dire che questa visione pecca di so verchia parzialità bonapartistica, perchè il nostro scrit tore non rivolge alcun incitamento, alcun rimprovero all'imperatore, per spronarlo a condurre a buon fine l'opera intrapresa, di cui il regno d'Italia non è che un buon cominciamento, che attende ulteriori sviluppi. Non è così. Vincenzo stesso intende quanto poco ab biano fatto i francesi, e la sua parola non è servile. « Se io dovessi parlare al governo francese » scrive nel Saggio « per l'Italia, gli direi liberamente che o convien liberarla tutta ò non toccarla. Formandone un solo go verno, la Francia acquisterebbe una potentissima alleata; democratizzandone una sola parte, siccome questa pic cola parte nè potrebbe sperar pace dalle altre potenze nè potrebbe difendersi da sè sola, così o dovrebbe pe rire abbandonata dalla Francia o dovrebbe costare alla Francia una continua inutile guerra.... L'Italia è più utile alla Francia amica che serva, e quindi è meglio renderla libera che provincia » (1 ). Nella Lettera a N.Q., dinanzi al Saggio storico leggiamo gravi parole. « Se io potessi parlare a colui a cui (il ] nuovo ordine si deve, gli direi che l'obblìo ed il disprezzo appunto [delle idee di moderazione] fece sì che la nuova sorte, che la sua mano e la sua mente avean data all'Italia, quasi dive nisse per costei, nella di lui lontananza, sorte di desola zione, di ruina e di morte, se egli stesso non ritornava a salvarla. Un uomo gli direi, che ha liberata due volte l'Italia, che ha fatto conoscere all'Egitto il nome francese e che, ritornando, quasi sulle ale de’vènti, simile alla folgore, ha dissipati, dispersi, atterrati coloro che eransi uniti a perdere quello Stato che egli avea creato ed illustrato colle sue vittorie, molto ha fatto per la sua gloria; ma molto altro ancora può e deve fare (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XLIII, p. 178, nota. Cfr. an che tutto ciò che il Cuoco scrive a Napoleone nella Lettera del. l'autore all'amico N. Q. che va dinanzi al Saggio storico,' a mo' di prefazione, di cui solo poche righe ho riferito nel testo 177 per il bene dell'umanità. Dopo aver infrante le catene all' Italia, ti rimane ancora a renderle la libertà cara e sicura, onde nè per negligenza perda nè per forza le sia rapito il tuo dono ». Queste righe il Cuoco scrive in piena Cisalpina, non molti anni prima dell'articolo del quale ci siamo occupati. Queste righe furono stampate, pub blicate, lette. La voce di Ugo Foscolo nella famosa de dicatoria a Bonaparte liberatore non è più liberale della voce del Cuoco, anzi, direi, che quest'ultimo nel suo genio politico metta il dito sulle piaghe, ond'è afflitta l'Italia, con energia ed acume maggiore che non faccia il poeta de Sepolcri. E dire che v'è sempre colui che vede l'adulazione, laddove questa non c'è, e c'è solo un alto elogio per un uomo grande, il più puro interessamento per le sorti della patria nostra ! Se ora ci accingiamo a dare un giudizio sintetico sulla visione politica che il Cuoco ebbe dell'Europa e dell'Italia, possiamo dire con sicurezza che la storia ha dato in gran parte ragione al grande molisano, in minima parte gli ha dato torto. La questione italiana, a chi la studia oggi, mentre l'unità non solo politica, ma eziandio, come il Cuoco l'ha desiderata, spirituale, è un fatto compiuto, appare sopra tutto una questione di politica generale europea e me diterranea e non limitatamente nazionale. Gli uomini del Risorgimento, attori coscienti e incoscienti della sto ria, mossi da idee e da forze, di cui essi erano gli espo nenti e non i creatori, videro poco: noi storici e critici possiamo affermare certi fatti con maggiore sicurezza, e figurarci l' unità nazionale come un fenomeno prepa rato da secoli nella coscienza del popolo, legato da se coli intimamente ad una realtà spirituale e ad una storia, che si celebrava con mirabile continuità ovunque. La rivoluzione francese desta dall'imo dello spirito italiano, sia pure come reazione allo stesso giacobinismo, un mo vimento di rivalutazione civile, di cui il nostro è il mag giore rappresentante, ma non crea menomamente un fe nomeno, le di cui origini sono assai più remote. Invero il Risorgimento s’è manifestato come un movimento altamente spirituale da un lato, come un problema d'equilibrio europeo dall'altro. Mazzini e Gioberti sono stati il lievito della rinascita, ma essi non s'intendono se non si comprende il pensiero del loro precursore Cuoco. L'equilibrio politico è stato la causa prima, per cui il terzo Napoleone discese nel '59 in Italia contro l'Austria; l'equilibrio mediterraneo è stato la causa, per cui l'Inghilterra permise l'opera di Garibaldi nel '60, opera che l'imperatore de francesi prima osteggiò, e poi, inconscio e gabbato dal Nigra e dal Cavour, finì per per mettere. Il Cuoco intravide il problema, e, se errò ne' partico lari, nessuno può condannarlo. L'Inghilterra per il molisano è la nemica naturale del l'unità italiana. È ciò vero? La storia ha dimostrato di no. La stessa politica, che egli attribuisce alla Francia di liberare i popoli per farne alleati ed opporli ai suoi rivali, è stata la politica dell'Inghilterra, quando nel '60, di fronte al Piemonte vincitore della guerra contro l'Austria, preferì un Regno d'Italia, signore del mezzo giorno della penisola, grande e forte, ad un Regno di Sardegna, grande sì da dominare tutto il settentrione, ma non tale da sottrarsi al vassallaggio della Francia. L'Inghilterra dopo il '59, durante l'impresa garibaldina, favorì l'Italia per le stesse considerazioni, di cui abbiamo parlato: suscitiamo un forte organismo statale contro la Francia, aiutiamolo ad esimersi dal legame con Napo leone III, esso ci sarà riconoscente, e non ci nuocerà La storia procede così: uno Stato crea un altro Stato, questo dapprima debole è legato all'astro del suo geni tore, poi s ' ingrandisce aiutato sia dalla sorte e dalla sua intima virtù, sia da altri che abbia interesse a svilup parlo, poi, un bel giorno, divenuto potente, saluta i suoi padroni, inizia il suo corso fatale, la sua naturale evolu zione. Egoismo, mancanza di riconoscenza, diranno i mo ralisti, che nella vita vogliono attuate le idee del loro cervello ! È della storia, rispondiamo. L'.Italia sorge na zione dal conflitto austro - inglese, trova ausilio nella Francia, nell' Inghilterra in seguito contro la sua stessa 179 antica protettrice, oggi è autonoma e forte: sarebbe ri dicolo che oggi seguisse la politica de' suoi vecchi mag giori amici, essa che ha in sè forze latenti è, in isviluppo, più esuberanti e vitali che non l'Inghilterra e la Fran cia. La storia consacra interessi, bisogni, volontà e non precetti) filosofici aprioristici.... Che il Cuoco nella storia vegga uno spiegamento di bi sogni naturali ed omogenei, ci si appalesa facilmente, se riguardiamo la condanna, che egli fa di organismi storicamente gloriosi, un giorno potenti, oggi deboli, fiacchi, superati. La caduta dell'antica repubblica di San Marco nel Saggio storico è espressa nella sua gelida obiettività, un sospiro, senza un rimpianto. L'Italia di fronte a Bonaparte, che nel 1796 discende per la pri mavolta da noi, si trova « divisa in tanti piccoli Stati », che", uniti potrebbero però opporre qualche resistenza. Il papa propone un'alleanza difensiva. I Savii di Ve nezia rispondono che da secoli nel loro paese non si parla di alleanze, che è inutile quindi far proposte. Venezia con ciò sottoscrive la sua condanna di morte. « Per qual forza » si domanda il Cuoco « di destino avrebbe potuto sussistere un governo, il quale da due secoli avea distrutta ogni virtù ed ogni valor militare, che avea ristretto tutto lo Stato nella sola capitale, e poscia avea concentrata la capitale in poche famiglie, le quali, sentendosi deboli a tanto impero, non altra massima aveano che la gelosia, non altra sicurezza che la debolezza de ' sudditi e, più che ogni nemico esterno, temer doveano la virtù dei propri sudditi? ». « Non so che avverrà » conclude « del l'Italia; ma il compimento della profezia del segretario fiorentino, la distruzione di quella vecchia imbecille oli garchia veneta, sarà sempre per l'Italia un gran bene » (1 ). Quanto diverso il politico Vincenzo Cuoco, che nella sua fredda obiettività interpreta la storia presente, dal poeta Jacopo Ortis, che getta uno sguardo sulle età di gloria che furono, piene di luce e di epopea, e sulle ruine della senza (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 22. 180 patria, non trova di meglio, disperato dell'avvenire, che darsi la morte ! Sotto i colpi di Napoleone un altro antichissimo Stato cede: il potere temporale de' papi. Il trattato di Tolen tino ha una importanza senza pari per la storia. Mentre ne' tempi trascorsi, i papi vinti, sgominati, afflitti si rifiu tarono sempre di porre a base delle trattative la benchè minima particella del territorio della Chiesa, a Tolentino per la prima volta per la storia si fa uno strappo, si passa sopra ai diritti inalienabili e imprescrittibili della Sede Romana. L'organismo antico invero è tarlato: un pro cesso storico di disgregazione s'inizia, di cui il Cuoco non può vedere le conseguenze, ma che noi oggi possiamo ben studiare. « La distruzione di un vecchio governo teocra tico » non costa a Bonaparte « che il volerla » (1). La politica di Napoleone dal '97 in poi ne' riguardi della Chiesa, il modo con cui egli impianta il nuovo ed antichissimo problema delle relazioni, merita un acuto studio, che non possiamo fare. Limitiamoci a vedere come Vincenzo apprezzi e giustifichi la visuale ecclesiastica dell'imperatore. Non dimentichiamo che il Cuoco è nato in quel Regno di Napoli, che nello stesso secolo XVIII ebbe a sostenere fiere lotte contro la Curia, in cui il giu risdizionalismo ebbe una vera e propria teorica non solo in iscrittori insigni come Giannone, D’Andrea, Capasso, Aulisio, Conforti, ma anche in ecclesiastici eletti come il famoso arcivescovo Giuseppe Capeceletrato (2): l'atteg. giamento cuochiano solo tenendo presente tutti questi precedenti può apparirci chiaro. Prima però di venire a discutere questo aspetto del pensiero del nostro, dobbiamo intendere quale posto egli assegni alla religione nella vita dello spirito e nella vita dello Stato. Lo Stato deve avere una base spirituale, la quale non può essere data che dall'istruzione umana da un lato, dalla religione dall'altro. Lo Stato per il Cuoco è stato (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, III, p. 23. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 391. 181 etico, sintesi di volontà libere, e come tale non ha alcun limite alle sue funzioni, se non nelle volontà particolari stesse che determinano la volontà generale; esso non può essere agnostico, in quanto l'attività religiosa è uno degli elementi che costituiscono la sua stessa natura, che stanno alla base della sua vita. La funzione educativa è di tale importanza che lo Stato del Cuoco, concepito come so stanza etica, non può disinteressarsene. La religione, anche se lo Stato non volesse occuparsene per principio, rientrerebbe nel quadro civile e pubblico, cioè sottoposto alla sovranità, nel fatto stesso che essa non può nè vuole prescindere d'operare nel campo educativo. Anche lo Stato agnostico di fatto deve riconoscere la religione, quando insieme con essa opera nel terreno vivo della pe dagogia, nella sfera perciò delle coscienze singole. Che cosa è per il Cuoco la religione? In una sua nota scritta su un foglietto, lasciato inedito e pubblicato per la prima volta da G. Cogo nel suo tante volte da me ci tato volume, egli si pone il formidabile quesito, se sia possibile una delimitazione tra la morale e la religione (1 ). Vediamo. « In questi ultimi tempi » egli scrive « si è domandato se si dovesse o no separare la religione dalla morale, e si è risposto da tutti che si dovea; si è domandato se si po tesse, e mille han risposto che si poteva; si è tentato di separarla, e quasi nessuno vi è riuscito. Io non credo che abbiano sciolto il problema coloro i quali hanno tratti i princípi della nostra morale e de' doveri nostri da una profonda analisi del cuore umano, o dall'ordine generale dell'universo, o dalla dignità dell'uomo; sublimi idee, ma inutili pe'l popolo il quale intende queste cose meno del l'esistenza di una divinità !... Persuadiamoci: per esser ateo ci vuole uno sforzo, e tutto nella natura ci parla di Dio. Coloro che, restringendo l'idea della divinità a quella che noi abbiamo, invece di dire: questo popolo ha un'idea della divinità diversa della nostra, o per imbe (1 ) G. Cogo, op. cit., p. 80. Vedi anche V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 653. 182 cillità o per malizia han voluto dire che non aveva ve runa idea della divinità, han pronunziato l'assurdo di credere che una nazione selvaggia potesse avere più forza d ' intelligenza della nazione culta; perchè di fatti che altra è presso tutt' i popoli la prima idea della di vinità se non quella di una forza di cui non possiamo nè evitare ne comprendere gli effetti? » In sostanza il Cuoco non condanna coloro che credono la religione sopprimibile, o almeno la credono distin guibile dalla morale, ma si limita positivamente ad una affermazione: il popolo ha una religione, di essa non può fare a meno. Ben nota Giovanni Gentile (1 ) come il Cuoco, ingegno eminentemente politico, capace di ele varsi sicuro alle vette più eccelse della filosofia, ami,'una volta attinto il sommo, ridiscendere al concreto della storia, lasciando a mezzo ogni pensiero speculativo. Ogni problema, sia pure di natura teoretico, al molisano si presenta nelle sue relazioni con la vita d'ogni giorno, con la vita pratica dell'individuo e dello Stato. Noi nel caso nostro andavamo alla ricerca d'un presupposto di natura ideologica, e ci imbattiamo in un problema co stituzionale; ci attendevamo una dimostrazione di prin cípi, e il Cuoco ci dà senz'altro il principio, come mero dato di fatto. « L'idea di una divinità si può chiamare una proprietà intrinseca dello spirito umano. Se la verità di cui noi siam capaci è la coerenza di una nostra idea con tutte le altre, l'idea di una divinità sarà eternamente vera, e coloro che vogliono distruggerla non possono opporle che parole le quali s'intendono meno ». La religione ci appare come un quid d'insopprimibile, di non superabile, in quanto è un elemento eterno della stessa nostra natura umana. « La prima idea che gli uomini hanno avuto della di vinità è stata quella della forza; la seconda quella della giustizia, la terza quella della bontà. Ecco il corso natu 11 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 376. 183 rale delle idee degli uomini. Se noi non daremo loro una divinità, essi se ne formeranno mille, le quali spesso non comanderanno quello che il bene dell'umanità esige, per chè l'idea di un nume è potente sullo spirito umano ed è capace di far obliare i doveri dell'umanità per quelli della religione ». Ritorniamo ad un concetto assai caro al Cuoco, di cui il Saggio ci offre la conferma. « Non è ancora dimostrato che un popolo possa rimaner senza religione: se voi non gliela date, se ne formerà una da sè stesso » (1 ). E perchè un popolo non può restar senza religione? Perchè la re ligione è la morale fantastica del popolo, e il popolo ha bisogno di qualche cosa che lo guidi e lo governi. Io credo che sia questo il pensiero del Cuoco. L'uomo colto può superare la religione nella filosofia, il semiconcetto nel concetto, trovando la norma della sua condotta nell'as soluto etico (2 ); il popolo, invece, ha ancora bisogno d'una morale d'autorità, e quindi parzialmente estrin seca, le cui basi non possono non essere religiose. Nelle origini la religione è tutto: diritto, cosmologia, morale: nella religione tutte le forme della vita trovano un prin cipio autoritario e un fondamento. La distinzione fra l'una attività e l'altra è assai tarda. Il popolo però oggi ci offre l'immagine, almeno in parte, dell'umanità primi tiva. La religione per lui è tutto, perchè, essendo, come dice il Cuoco, forza giustizia bontà, è la base insopprimi bile, nel suo pensiero, d'ogni educazione, d'ogni morale, d'ogni diritto umano. Togliete questa base, egli non vi ubbidirà, perchè non trova più alcuna cosa che legittimi l'ubbidienza all'autorità. Il legislatore deve porsi da un punto di vista pratico, (1 ) V. Cuoco, Saggio storico, XXV, p. 130. Vedi a propo sito B. LABANCA, op. cit., p. 411. (2 ) Questo superamento, come vedremo in seguito, è più formale che sostanziale. Il Cuoco non crede possibile una mo rale fuor dalla religione. L'uomo colto concettualizza ciò che pel volgo è senso e fantasia, ma dinanzi al mistero si arresta pur esso. La filosofia sistematizza quel che nel popolo è senza ordine, ma non rinnega la religione, 184 e rendersi interprete della natura dei subietti, che vuol disciplinare: se egli vuol regolare tutta l'educazione, in staurare una morale uniforme e sicura, dare un diritto ri spondente a bisogni concreti, egli non può prescindere da quest'elemento dello spirito, la religione; anzi su questo elemento- base, nativo ed originario nella natura umana, edificherà il suo edificio civile. Ecco come un problema di natura filosofica si è con vertito in un problema politico, anzi nel problema poli tico per eccellenza, come quello che involge tutta la vita giuridica della nazione. Da quanto abbiamo detto derivano due corollari im portanti. Lo Stato, che combatte la religione entro le sue stesse terre, quando la religione è la religione di tutti, è uno Stato che ha sbagliato grossolanamente tattica: egli concepisce la religione come mero fenomeno tran seunte, come pregiudizio, ignora che essa è nello spirito dell'uomo un momento insopprimibile. Lo Stato agno stico, lo Stato neutrale in materia di fede, è ugualmente uno Stato senza base, come quello al quale il problema fondamentale d'ogni vita civile viene a sfuggire, cioè il compito educativo, pedagogico. Lo Stato non può dar mai al popolo un'educazione interamente laica. Il popolo è quello che è. La religione è radice di ogni suo convinci mento, opera della natura e non de' preti. L'educazione popolare non può essere che educazione, non dico reli giosa, ma su base religiosa. Date al popolo i concetti di libertà, virtù, bontà, egli non vi comprende, perchè egli, eterno barbaro, eterno fanciullo, non intende il linguag gio della ragione. Date al popolo miti, leggende, precetti in forma sensibile semifantastica, egli non solo vi intende, ma vi segue, perchè egli ha potente la facoltà fantastica dello spirito, e tutto intuisce prima di pensare, e tutto vede e crede prima di rendersi conto di ciò che vede e crede. Un'educazione popolare non può non informarsi a questi principi. Chi ne prescinde, e va predicando l'istruzione areligiosa e civile, naviga nell'astrazione. Ma del problema scolastico, come problema pedagogico e statale dovremo occuparei in seguito; qui notiamo la 185 prassi politica dello Stato di fronte ad una realtà eterna, la religione. Lo Stato, se vuole avere un fondamento incrollabile nel popolo, deve parlare al popolo, e, se al popolo vuol parlare, deve parlargli nelle forme a lui familiari, cioè il linguaggio fantastico della favola, il linguaggio semi concettuale della religione, in quanto solo questo intende e non altro. Lo Stato deve in sostanza utilizzare ai suoi fini la religione, come ogni altra realtà umana. Nulla di odioso. Lo Stato fa il suo proprio bene, che collima con gli interessi della popolazione che si vede meglio com presa, con le aspirazioni universali della religione. Co loro, che credono di potere far la guerra alla religione, ed incitano lo Stato ad una lotta impari, poi che esso non può contare che su pochi, mentre la religione ha dietro di sè masse compatte di credenti, non sono che de' vol gari astrattisti. Qui noi possiamo ben vedere quanto il Cuoco si stacchi dal pensiero tipico della rivoluzione e segua una strada tutta sua. Il giacobinismo è anticlericale; il Cuoco non è nè clericale nè anticlericale, guarda la vita nel suo con creto, e si accorge che lo spirito umano ha esigenze re ligiose. Il Lomonaco urla, s'inquieta, scara venta invettive contro la Sede Romana, contro i leviti, contro i falsi sa cerdoti; il Cuoco analizza, studia, infine edifica: due tem peramenti, due mentalità diverse, due metodi antitetici: l'uno caduco, l'altro eterno. La nota, sulla quale io vengo facendo le mie conside razioni e che a me appare d’una importanza grande, con tinua ancora: « Io dirò a questo proposito un mio pensiero. Coloro i quali per far la guerra ai preti han voluto segregarli dalla società non hanno inteso il modo di combatterli. Era im possibile che in questa guerra non vincesse quella causa che piaceva ai (sic ) Dei. Se fosse dipeso da me, mi sarei con dotto diversamente: avrei riunito la religione allo Stato » (1 ). (1 ) Seguono importanti considerazioni che io non posso ri portare: cfr. Cogo, op. cit., p. 80 e sg. 186 mo La politica che il Cuoco consiglia è confessionista. Que sto significa edificare su fondamenta incrollabili, edificare sulla stessa natura degli uomini. Nel Platone in Italia, Archita esprime concetti assai simili e stabilisce che il diritto, pur mantenendosi ben distinto dalla religione, di questa si serva per raggiungere i suoi fini (1 ). Il Cuoco non investiga in fine l'essenza vera della reli gione, anzi, come può notare chi legga il bellissimo scritto di Giovanni Gentile sul nostro, egli in ogni suo tenta tivo filosofico s'arresta timoroso dinanzi alla formida bile incognita della divinità, e china il capo riverente. V’è in Cuoco un nucleo di trascendenza, che nella nuova teologia vichiana è del tutto superata (2 ). « Il savió» scrive nel Platone « si ritira in sè stesso, riconosce che la nostra mente è una particella della divinità, che noi non riamo. Vede in questa massima il fondamento della mo rale umana, e tenta di stabilirla e diffonderla, non con misteri ristretti agli abitanti d'una sola città....; non con istorie, che ciascuno può credere e non credere; ma con ragioni tratte dall'intrinseca natura delle menti di tutti gli uomini, e dalle quali nessun uomo possa opporre altro che l'ostinazione. Ecco il primo dovere del savio. Il se condo è quello di compatire il volgo, che cerca ad ogni momento delle cose sensibili, ed i filosofi, che, per stabi lir la virtù, si adattano talora al desiderio del volgo » (3 ). Siamo sempre ad un punto. Una base religiosa della mo rale non può mettersi in dubbio. Mentre l'uomo colto, pur arrestandosi dinanzi al mistero della trascendenza, ha nella ragione, se non una impossibile spiegazione, una maggior coscienza della rivelazione; il volgo ha bisogno di vedere e di sentire anche le cose più immateriali nel travaglio inesauribile della fantasia. Solo la religione può rendere vicina agli uomini la sublime norma della morale: la religione, fondamento della morale, essa stessa pensa a renderla viva nella coscienza. (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 84 e sg. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 385. (3 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 133. 187 Non posso negare che in tutto ciò vi sia una vera e propria incertezza. La verità è che il Cuoco non è filosofo, e de' grandi problemi filosofici non può darci un'esplica zione adeguata. La questione per lui è tutta politica e pratica, e, se s'ingolfa in discussioni teoretiche, lo fa per ridiscendere più agguerrito sul terreno pratico. Alcuno potrebbe obiettare che da questa contamina zione di morale civile e di religione, di politica e di reli gione, vengano a scapitarne sia lo Stato sia la religione, in quanto lo Stato penetra, si dice, in una sfera non sua, la religione viene ad essere subordinata ad un fine mon dano. Non è così, ripeto. Il Cuoco stesso ci avverte che v'è netta delimitazione di fini, tra Stato e religione, in quanto il primo persegue un fine politico e gli trova la base sua naturale nello spirito e nella natura umana, mentre la seconda dal fine poli tico si astrae o dovrebbe astrarsi limitandosi ad un'opera meramente interiore. Sul terreno politico non v'è possibilità di conflitti, ammesso che la religione si volga all'eterno ed obblii il mondano. Sul terreno spirituale v'è identità d'oggetto, il miglioramento interiore del po polo, cooperazione e non antitesi. In ogni caso v'è vi cendevole vantaggio: lo Stato deve favorire, pur essendo tollerante, la religione, perchè persegua i suoi fini super terreni; la religione deve aiutare lo Stato, perchè questo possa in terra fruire materialmente d'ogni miglioramento morale degli uomini: l'uomo veramente in ispirito reli gioso non può non essere un buon padre di famiglia, un buon cittadino. Da quanto abbiam detto è evidente come il Cuoco non cada affatto nell'errore di molti, proclamando uno Stato, per il quale non v'è che una sola religione, ed è intolle rante verso le altre. Lo Stato del Cuoco persegue un fine politico ed utilizza ogni forza fisica e morale che trova, utilizza quindi anche, col vincolo d’un vantaggio reci proco, le forze smisurate della religione dominante la cattolica nel caso nostro e a questa dà benefici, come li darebbe ad un qualunque altro ente pubblico che per segua un fine collettivo e civile, senza che ciò significhi > 188 intolleranza verso gli altri culti, che possono pur essi fruire di benefíci, ove il loro fine collimi col fine statale. Lo Stato agisce nel suo interesse pratico, ond'è chiaro quanto sia necessario un controllo continuo da parte sua sulle istituzioni ecclesiastiche, controllo che non può essere altrimenti ispirato che a superiori esigenze di di fesa pubblica e di polizia. (1 ) Sino ad ora abbiamo parlato della religione come fa coltà dello spirito, come insopprimibile realtà umana, e il caso di conflitti tra Stato e religione non poteva a noi presentarsi se non come un caso abnorme. Ma il problema politico particolare e il caso d'un conflitto nella sfera pratica può presentarsi, quando noi non consideriamo la religione, ma la Chiesa, l'istituto universale, che può porsi e si pone di fronte allo Stato con uguali caratteri d'eticità e di assolutezza, e con pretese che a volta usur pano le facoltà proprie dello Stato nel campo giurisdi zionale. Date le premesse che abbiamo poste, il Cuoco non può negare il giurisdizionalismo dello Stato e la subordina zione entro i suoi confini d'ogni istituzione ecclesiastica alla legge. L'educazione religiosa non sfugge al controllo dello Stato: l'attività ecclesiastica culturale non può sot trarsi alla norma comune. Il Cuoco differisce solo dai giurisdizionalisti antichi, in quanto ha un senso vigilissimo dell'importanza della religione, « un'intuizione sicura dello spirito nella sua vita politica » (2 ). Con questa sua concezione dello Stato come sostanzia lità etica, è naturale che il nostro non solo « della reli gione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile » faccia « uno strumento del fine politico », ma non possa ne (1 ) Dopo quanto abbiam detto, ci appare affatto falsa l'af fermazione di B. LABANCA, op. cit., p. 409, che il Cuoco non abbia mai approfondita la questione religiosa. (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 189 ammettere che la Chiesa di Roma, istituto fuori dello Stato, possa entrare a competere con lo Stato in que stioni che involgono la sua sovranità. Libertà di culto e d'istruzione, ma controllo dello Stato, subordinazione allo Stato ! Lo Stato agisce nella forma del diritto, e il diritto pone un obbligo ed una tutela: la religione ha, di conseguenza, l'obbligo di agire ne' limiti delle norme giuridiche, e la libertà di operare come crede in essi, li bertà che si traduce in una tutela civile contro i violatori di essà. Ognuno sa come t si siano svolte le relazioni tra lo Stato e la Chiesa sotto Napoleone, sa come Pio VII si mo strasse conciliante col déspota di Francia, come si giun gesse al Concordato tra Francia e Santa Sede (1801 ), come il papa presenziasse all'incoronazione di Parigi, come presto la politica giurisdizionalista degenerasse in tirannia, per finire attraverso varie occupazioni (Ancona, 1805; Civitavecchia, 1807; tutte le Marche, 1808), con l'arresto brutale del Pontefice in Roma (1809), con la di chiarazione della fine del potere temporale (maggio 1809). Noi non abbiamo documenti tali dá permetterci di seguire il Cuoco nel suo pensiero dinanzi a tali e sì gravi eventi: dovendo stare allo spirito dell'opera sua fin qui studiata, potremmo, credo, con quasi certezza dire, che egli non partecipasse alle violenze ultime di Napoleone contro Pio VII. Tuttavia per intendere come il Cuoco ponesse il pro blema de' rapporti tra Stato e Chiesa, possiamo esami nare un suo articolo, Considerazioni sul concordato del febbraio del 1804 (1 ). La pace religiosa è uno degli elementi indispensabili della vita civile. Una nazione, che serri in sè discordie chiesastiche si trova in condizioni peggiori d’una nazione, che alimenti in sè le fazioni, poichè, mentre queste sono (1 ) Giorn. ital., 1804, 1, 4, 6 febbraio; n. 14, 15, 16; p. 56, pp. 59-60, pp. 62-63: Considerazioni sul Concordato (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 62-70 col titolo Stato e Chiesa ). 190 alimentate da meri bisogni materiali, le prime traggono origine da esigenze spirituali, ben più profonde e durevoli. I turbamenti di molti Stati derivano appunto dal credere che fenomeni di natura religiosa si possano vincere con i metodi comuni, con i quali si distruggono le sedizioni. La Francia in principio ha seguito queste massime, e ne ha fatto una tristissima esperienza: la religione stessa è decaduta, ha perduto buona parte dell’utilità sua; lo Stato ha subìto più d'una menomazione nella sua auto rità. «.... Chiunque ha un cuore deve applaudire (siamo, quando il Cuoco scrive, nel 1804, e il conflitto tra Napo leone e Pio non s’è ancora delineato ) all'umanità colla quale un governo savio ed un pontefice degno per le sue virtù del posto eminente che occupa, ponendo fine ai dubbi, ai timori, alle querele, ne hanno data quella pace che è preferibile a mille trionfi. La prudenza ha trovata la via nelle angustie tortuose che vi erano tra il sacerdozio e l'impero ». Fin qui, come ognun vede, ci troviamo di fronte a frasi d’occasione, a concetti ben noti del Cuoco, altre volte espressi e ribaditi nello stesso Saggio storico. Gli Stati sono tanto più forti, quanto più gli elementi della vita materiale e spirituale convergono ad un fine unico. Lo Stato, ove diritto e religione non cozzano in sieme, ma da punti opposti realizzano una stessa verità, è lo Stato più forte che si possa immaginare. Guardiamo la storia: le nazioni floride sono quelle, ove l’armonia tra diritto e religione, autorità e libertà, s'è meglio pre sentata. Nel 1804, commentando la storia che Melchiorre Delfico avea scritto della repubblica di San Marino, dopo aver ricordato che negli Stati non è tanto l'ampiezza del territorio, il numero degli uomini, la forza degli eserciti, che conta, quanto la virtù de ' cittadini e la giustizia degli ordini, scrive riferendosi al fatto che il fondatore del pic colo Stato fu un religioso: « Sulla porta della maggior chiesa leggesi questa iscrizione: Divo. Marino. Patrono. Et. Libertatis. Auctore. Iscrizione che rammenta il de creto col quale gli Ateniesi dichiararono Giove arconte perpetuo della loro repubblica; iscrizione forse unica tra popoli moderni, i quali per lo più hanno la religione di 191 visa dallo Stato, e degna che si mediti dai ministri del l'una e dell'altro » (1 ). Il sogno del Cuoco mi sembra molto simile al sogno di Dante e di Marsilio da Padova: una Chiesa, ricondotta alla natìa purezza, riaffermante novellamente col divino Maestro che il suo regno non è di questa terra: impero e papato, Napoleone e Pio, con diversi mezzi, con scopi diversi, l'uno terreno, l'altro celeste, operano concordi in terra per assicurare il benessere dei popoli. Il Con cordato, al quale specificamente si riferisce il Cuoco, è il documento del nuovo patto. Breve patto invero ! Ma il Cuoco nel 1804 è fiducioso di un avvenire religioso di pace, che non sarà, crede sinceramente che le antiche lotte giurisdizionali siano definitivamente della storia e non più della vita: l'analisi, perciò, che vien facendo, è meramente storica, è uno sguardo su un passato, che, pia illusione, non ritornerà più ! Nei primi secoli, riassumo il pensiero del nostro, si disputò pochissimo di giurisdizione. Il divin Maestro aveva detto che il suo regno non è di questa terra, onde non si potette confondere ciò ch'era di Dio con quel che spettava a Cesare. Le dispute furono sul dogma. Costan tino mirò solo a mantenere l'ordine nelle dispute, ma i suoi successori Ariani, Nestoriani, Eutichiani si mischia rono ad esse, e l'impero ne fu turbato: lo stesso Giusti niano cadde nell'errore. In Italia solo Teodorico mo strò bene ciò che un principe savio deve alla religione. Egli la rispettò e la fece rispettare. Rigido conservatore dell'autorità regia, fu giusto giudice nella controversia tra il pontefice Simmaco e il suo competitore Lorenzo. « Teodorico volea esser il sovrano egualmente e de’laici e de ' preti ». Ma anche i suoi successori non ebbero la di lui virtù. Surse così in Europa un nuovo ordine di cose. « Delle vicende della giurisdizione ecclesiastica nell’Oc cidente hanno scritto moltissimi, tra i quali un gran nu mero forse non è stato esente da ogni spirito di partito. (1 ) Giorn. ital., 1804 25 giugno, n. 76, p. 308: Memorie stori che della repubblica di San Marino, ecc. 192 ) ). Noi crediamo che l'indicar le ragioni, per le quali si con fusero i limiti delle due giurisdizioni, sia il più giusto elogio che far si possa e del nostro governo e della Santa Sede (! ), che con tanta prudenza li hanno ristabiliti. Tutto ciò —— scriveva San Bernardo ad Eugenio papa, suo discepolo — tutto ciò che tu hai ricevuto non da Cri sto, ma da Costantino, io ti consiglio a ritenerlo a seconda de ' tempi, ma non mai a pretenderlo come un diritto Il consiglio, che il molisano ripete al Pontefice, è un consiglio altamente politico. Il Cuoco dice: io riconosco che, in determinate contingenze storiche, il papa, posto tra barbari armati, crudeli, pronti alla violenza, abbia dovuto far ricorso alle armi per difendersi, abbia quindi desiderato il potere temporale; oggi le condizioni sono mutate, l'autorità regia non vuol menomare il prestigio della Chiesa, anzi vuole accrescerlo, difenderlo, arric nirlo; a che dunque serve il potere temporale? Il po tere temporale ci appare come il resto inutile d'età sor passate, poi che, la base del rispetto e dell'autorità non è più nella forza e nelle armi, ma nella giustizia e nella virtù. Il patrimonio di San Pietro è intangibile ! Ma perchè? Serve alla difesa della Chiesa.... Serviva: ora non più ! Le parole che il Cuoco ripete sono le parole della sa viezza, le parole che la storia, che non torna indietro, consacra nella realtà della vita. L'abdicazione ai diritti antichi significa potenziazione della Chiesa nelle coscienze degli uomini, ritorno alla purezza antica degli Apostoli. La Chiesa Romana ha in sostanza un duplice elemento: un elemento dommatico, che nessuno pensa a menomare, specie l'autorità pubblica, che non intende penetrare in una sfera che non è sua; un elemento politico, determi nato dai tempi, soggetto a flussi e a riflussi, ma sul quale il conflitto con il potere civile è stato e può essere sempre facile. Il punto di minore resistenza è il dominio temporale, che oggi è una vera barriera per una (1 ) Si riferisce sempre al Concordato. 193 comprensione tra Stato e Chiesa, e che occorre superare, perchè i rapporti divengano da buoni ottimi. La Chiesa abdichi ad ogni temporalità, lo Stato riconoscerà tutta la grandezza della religione, la potenzierà praticamente, le darà tutti i mezzi per attuare in terra il compito antico. Certo le ragioni del dominio temporale sono profonde, ma sono tutte storiche, cioè superate; mentre le ragioni della grandezza spirituale della religione sono eterne, cioè presenti alla nostra coscienza umana insopprimibil i mente. Che le condizioni, che han reso il dominio temporale necessario per la religione e il suo bene, siano sorpassate, il Cuoco lo dimostra con una acutissima analisi, sulla quale merita fermarsi. I barbari, discesi dalle provincie nordiche dell'impero romano, permisero, essi meno civili, ai vinti culti e ricchi di sapienza, di vivere secondo le loro leggi, le loro usanze, i loro istituti. Nacque così, crede il molisano, quella specie di giurisdizione personale ignota agli antichi, donde poi scaturì la distinzione de' fori. « A poco a poco le menti degli uomini si avvezzarono a concepire due legislatori diversi ed uno Stato entro un altro Stato ». I vescovi professarono la giurisprudenza romana e l'adattarono ai nuovi bisogni, divennero feudatari, divennero ministri, cancellieri dei grandi sovrani. L'elemento romano trovò in essi un baluardo contro la sopraffazione. La Chiesa insomma fu nell'alto Medio Evo davvero un faro di luce nelle tenebre. Essa predicava l'umanità e la libertà, essa sola potè dichiarare la schiavitù contraria alla religione. Tutti questi elementi contribuirono a darle una forza grandissima, che si tradusse presto in un dominio terreno. È naturale quindi che un mutamento profondo negli ordini sociali porti seco un mutamento negli ordini ec clesiastici. La storia ha uno sviluppo che non permette a lungo superfetazioni antisociali. « Noi scorriamo rapi damente » scrive il nostro autore « sopra un soggetto che è di sua natura vastissimo. Ci basta avere indicate le cagioni principali. Conosciute queste, è facile conoscere che, a misura che gli uomini s'incivilivano e gli ordini pubblici ritornavano verso la loro perfezione, dovea ces sare tutto ciò che la sola infelicità de' tempi avea consi gliato, introdotto, tollerato; e dovean segnarsi di nuovo quei confini entro de' quali la sovranità temporale fosse più energica e meglio ordinata, e l'autorità religiosa più augusta e più sicura. Così dal caos emerse l'ordine, e fu a ciascuna cosa assegnato il suo luogo ». Questo or dine il Cuoco vede avverato in un giurisdizionalismo con fessionista, che tende a volte ad un vero e proprio con fessionalismo all’austriaca. Gli elementi di questo sistema non possono essere esposti brevemente, onde occorre pas sarvi su, Vincenzo Cuoco, se noi guardiamo ora dall'alto le cose, e cerchiamo di raccogliere le fila di ciò che siam venuti dicendo, ci si appalesa come un fermo sostenitore dei diritti dello Stato, concepito come sostanza etica, sostenitore che non ammette alcuna menomazione di quei caratteri salienti che abbiamo veduto. Egli si pre senta come un vero e proprio giurisdizionista, rappre sentante di quel giurisdizionalismo, che lo storico co nosce nelle forme del leopoldinismo, del giuseppinismo e sopra tutto del tanuccismo. Che il Cuoco sia giurisdizio nalista nel senso sovraccennato, molti elementi lo testifi cano. Egli è giurisdizionalista, ma nello stesso tempo il suo Stato è confessionista, sebbene tollerante: anzi il nostro lo consiglia ad essere più confessionista che può, perchè gli interessi dell'autorità civile e dell'autorità ec clesiastica collimano perfettamente. Lo Stato del Cuoco trova una Chiesa dominante e le dà di fatto privilegi, benefíci, considera i suoi sacerdoti come pubblici fun zionari, investiti di vere e proprie funzioni pubbliche, esercitanti un compito che il potere supremo non solo riconosce ma subordina al suo controllo: la stessa educa zione religiosa è vigilata dagli organi centrali. « Il che» come ben nota Giovanni Gentile « non viene, in conchiu sione, a soggiogare quello che non è soggiogabile, lo spi rito religioso e scientifico, alle forme giuridiche istitu zionali dello Stato; ma soltanto a risolvere nella vita concreta dello Stato l'elemento sociale e pratico di co teste forme superiori dello spirito, le quali, se sono ideal 195 mente sopramondane, storicamente rientrano anch'esse nella sfera dei rapporti sociali, materia del diritto » (1 ). Questo giurisdizionalismo confessionista del XVIII se colo, anteriore alla rivoluzione francese, aveva nei prin cipi e negli statisti un fondamento di vere e proprie credenze e convinzioni religiose, che portavano, come os serva lo Scaduto (2 ), all'affermazione d'una supremazia nel campo morale della Chiesa sullo Stato. Il giurisdizio nalismo napoleonico ha invece cause più politiche che re ligiose, s ' ispira più all'analisi delle condizioni storiche contemporanee che ad altro. Il Cuoco segue quest'ultimo indirizzo, temperandolo col tanuccismo, vale a dire, ri conoscendo l'altezza etica della Chiesa. Nulla ci induce a credere che egli fosse specificamente cattolico prati cante, ma da un'analisi minuta de' suoi scritti, da un manoscritto inedito sull' Ideologia, di cui ci dà' notizia il Gentile, dal Platone in Italia, noi possiamo ritenerlo uno spirito profondamente religioso. La sua filosofia serba anzi resti di trascendenza, e la sua teologia, se è lecito così esprimersi, ritorna ad una posizione che il Vico, suo maestro ideale, avea già superata (3). Egli differisce dagli scrittori politici del tempo suo, scettici e agnostici, per i quali il confessionismo ha basi puramente effimere, dif ferisce dunque per il fatto che nella religione vede un elemento insopprimibile della vita dello spirito. Da noi la religione dominante è la cattolica: non vi è legge che da essa e dalla sua morale possa prescindere. Il suo in gegno, la sua sicura intuizione delle varie attività dello spirito, lo porta ad un riconoscimento che non è solo do veroso in linea di principî, ma è savio in linea politica per lo Stato che voglia realmente attuare la sua missione, e sulla natura umana costruire il suo edificio istituzio nale. « Il primo dovere di chi ama la patria è quello di (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. (2) F. SCADUTO, Diritto ecclesiastico vigente, 1923, Cortona, v. I, p. 19 sg. (3) G. GENTILE; Studi vichiani, p. 385. Una parte dell’Ideo logia è stata ripubblicata in Scritti vari, v. I, pp. 297-302. 196 rispettare la religione de' padri suoi; il primo dovere di chi ama la religione è quello di rispettare il governo della patria, senza di cui non vi sarebbe alcuna religione ». Qui mi sembra che veramente il Cuoco si distacchi dal l’età che fu sua, e all'astrattismo filosoficizzante e scet tico sostituisca la realtà insopprimibile dello spirito, che è anche religiosità, ed, essendo religiosità, non può essere che tolleranza. CAPITOLO V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano ». Le origini della nuova Italia. Il concetto di naziona nalità presso Cesare Paribelli e Francesco Lomonaco. Presso Vincenzo Cuoco. - Sua visione spiritualistica del problema unitario e nazionale. - Mezzi per formare una nuova coscienza nazionale. Abbiamo nella prima parte di questo studio a lungo parlato del pensiero costituzionale di Vincenzo Cuoco, quale egli di fronte all'astrattismo rivoluzionario dei giacobini franco- italiani sistematicamente espresse ne'suoi Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, e quale poi mostrò in atto negato in quel Saggio storico, che resta ancora il più mirabile documento dei terribili giorni che passarono alla storia col nome di Rivoluzione napoletana e con la gloria d'eroismi non emulabili. Nel nostro lavoro abbiamo studiato il concetto che il molisano si è fatto dello Stato e dei suoi attributi, la visione della vita giu ridica e politica, e, infine, il modo ond'egli fissa il mille nario problema dei rapporti tra l'autorità civile e l'auto rità ecclesiastica. In tutta questa nostra analisi abbiamo visto come unitario sia il pensiero del nostro autore, che abbiamo definito il più vivo esponente dell'italianismo di fronte ad ogni forma, ad ogni espressione di vita, che non sia consona al nostro spirito, alle nostre esigenze, ai nostri bisogni, alla nostra tradizione. 198 L'italianismo del Cuoco ci si appalesa in tutta l'opera sua multiforme e molteplice, e noi non avremmo bisogno di insistervi più, se in esso non vi fosse un elemento nuovo che lo differenzia dall'italianismo di tutti i con temporanei e degli immediati ' posteri: il modo in cui egli concepisce la nazione e lo spirito nazionale. È que sto il punto sul quale verterà la nuova indagine. Giustamente Benedetto Croce, nella prefazione a La ri voluzione napoletana del 1799, dice che chi cerca « le ori gini sacre della nuova Italia » deve di necessità rifarsi ai fatti della Partenopea (1 ). Il tragico fato della repubblica disperde per la penisola centinaia di patrioti, gente, che, per quanto dottrinaria, astratta, più francese di costumi e di pensiero che italiana, ciò non pertanto ha una fede rigida e calorosa nei destini immancabili della patria. È il polline vivo, che trasportato dalla tempesta fecon derà in altri liti, e poi s'esprimerà in nuovi fiori e in nuovi frutti. Sarebbe facile fare dei nomi e degli scritti, ma uscirei dal mio compito e mancherei con ciò dal mio pro posto: ricorderò solo due scritti molto importanti per due ragioni, in primo luogo perchè in essi l'indagine storica può rinvenire le prime idee sull'indipendenza e sull'unità della nazione italiana; in secondo luogo perchè dal con fronto, che di essi si farà con le pagine cuochiane, sca turirà la diversa posizione spirituale, che il Cuoco rap presenta. Cesare Paribelli, ex ufficiale di Ferdinando IV, dal 1793 al 1799 rimasto quasi sempre in prigione per ragioni politiche, poi membro del Governo Provvisorio a Napoli, il 18 giugno 1799, essendo incaricato d’una missione a Parigi, proprio mentre le sorti repubblicane volgevano al peggio (il 17 giugno Ruffo accorda la resa alla città di Napoli e la Partenopea è finita ) scrive un Indirizzo dei Patriotti Italiani ai Direttori e Legislatori Francesi, in cui, dopo avere espresso numerose lagnanze contro gli stra nieri nemici ed amici, dopo avere descritto la misera (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. XII. 199 condizione dell'Italia tutta, dopo avere enumerati i voti delle varie regioni conclude con profetiche parole. « Legi slatori e Direttori, invoca, osate alfine di soddisfare il voto universale dell'Italia, e di proclamare la sua indi pendenza e la sua riunione, il di cui centro esiste già nella santa energia dei figli del Vesuvio, nello spirito repubblicano dei montagnari Liguri, nello sdegno invano ritenuto dei figli dell'infelice Vinegia, e nella disperazione di tutti i rifugiati Piemontesi, Romani e Toscani, cui non resta più ormai verun'altra alternativa, che o di cercare per via d'una morte volontaria un asilo nella tomba, o di crearsi di bel nuovo, per mezzo d'una volontà ferma e determinata, il felice avvenire, che era stato promesso alla loro Patria. Legislatori e Direttori del popolo fran cese, parlate, e la Repubblica Italica esisterà. Un'assem blea Nazionale e un Governo provvisorio, riunito in Fi renze nel centro dell'Italia, saranno invito a tutti gli abitanti di queste belle contrade; un'armata ausiliaria sarà formata, lo stendardo Italico sventolerà nell'aria ac canto al vessillo tricolorato, e gl ' intrighi stranieri sa ranno sventati ancor questa volta; e il secolo decimonono vedrà folgorare questi due astri vittoriosi e protettori, che annunzieranno all'Austria e al gabinetto Brittanico la vicina distruzione, o ai discendenti dei germani e agli abitanti delle tre isole, ormai troppo serve, la prossima loro libertà (1 ). Il documento è importantissimo, e la sua importanza appare ancor maggiore, se si pensa che è esso stato ver gato, quando le sorti non solo di Napoli e d'Italia, ma anche di Francia, volgevano al male, e molti pavidi disperavano. Lo stesso pensiero, un po ' più tardi, esprime Francesco Lomonaco in uno scritto, enfatico e gonfio di forma, ma caldo e commosso d'amor patrio: il Rapporto fatto al cit tadino Carnot, fiera requisitoria contro le malefatte degli (1 ) B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 335; M. Rosi, op. cit., v. I, p. 215 e sgg.; V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 151 e sgg 200 stessi francesi in Italia, malefatte, che non ebbero altro effetto che quello di allontanare sempre più le simpatie del popolo dalla causa rivoluzionaria. Anche il vesuviano Lo monaco sente che in Italia si sta formando una volontà che non era per l ' innanzi, ma invano si sforza di spie garsela filosoficamente, troppo imbevuto com'è di rigi dismo giacobino. Egli enumera i diritti, quelli che egli almeno dice diritti del popolo italiano, all'unità e all'in dipendenza, quegli elementi che l'indagine sistematica del secolo XIX poi preciserà come i presupposti del con cetto di nazionalità. L'Italia, non divisa da grossi fiumi nè da grandi mon tagne, separata dalle Alpi e dal triplice mare dagli altri popoli, forma una indissolubile unità geografica: è questo il primo elemento della nazionalità. Gli abitanti che l'a bitano hanno la stessa tinta di passioni e di carattere, godono d'un eguale germe di sviluppo morale e di fisica energia, hanno gli stessi interessi, la stessa lingua, la stessa religione: tutto li addimostra per membri della stessa famiglia: sono questi nuovi e complessi elementi della nazionalità, elementi etnici, linguistici e religiosi, che si pongono accanto al primo elemento geografico. Aggiungete a ciò una ininterrotta tradizione storica, per cui uno è il processo evolutivo della stirpe, uno il fasto e la sventura, come uno l'avvenire, ed avrete l'ultimo elemento, che informa di sè un popolo e cementa quel che possiamo dire d'una nazione (1 ). Gli italiani hanno perciò un diritto naturale, ab aeterno acquisito, all'unità e all ' indipendenza. La Francia, dice in sostanza lo stesso scrittore, può e deve riconoscerlo positivamente. Solo così l'Italia, dopo tanti secoli potrà vedere sanate le sue molte e sanguinose piaghe, che la tormentarono e la tormentano. « Qual riparo » scrive il Lomonaco « a tanti mali? Qual rimedio a piaghe sì profonde? Come imprimere alle de (1 ) F. LOMONACO, Rapporto al cittadino Carnot, ecc., in se guito al Saggio storico di V. Cuoco, Laterza ed., Bari, 1913, p. 323. 201 presse ed avvilite fisonomie italiane il suggello dell'an tica grandezza e maestà? Uno dei principali mezzi, se condo me, è l'unione. Perchè termini il monopolio in glese, e i vili isolani cessino di arricchirsi su le rovine del continente; perchè si oppongano argini all'ambizione del l'Austria, la Francia abbia una fedele alleata, la condotta della Prussia sia meno equivoca, il gran colosso dell’im pero russo stia immobile ne ' ghiacci del nord, la Spagna divenga stabile amica della gran repubblica; perchè, in una parola, vi sia in Europa bilancia politica e si disec chi la sorgente delle guerre, è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo, facendo un fascio di forze. Rea lizzandosi quest'idea, gl'italiani, avendo nazione, acqui steranno spirito di nazionalità; avendo governo, diver ranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutti beni che ne derivano; ecc. » (1 ). La ragione prima dell'unità italiana così è un fattore esterno, quello di un presunto equilibrio europeo, quello d'una nuova armonia tra i popoli, tra le genti del nostro belligero vecchio continente. Questi gli antecedenti dell'idea unitaria, queste le sante origini di quel concetto di nazionalità (2 ), che troverà poi in Giuseppe Mazzini il suo apostolo. Il Cuoco, che a Na poli visse ed operò, che con tutti i patrioti di Napoli a lungo ebbe rapporti, non può non agitare gli stessi senti menti. Ma questi da lui come vengono trasformati, in lui quanta nuova luce acquistano ! Esule dalle sventure della Partenopea, visitato Marsi glia, Chambery, Parigi, dopo Marengo, nel dicembre 1800 il Cuoco è a Milano, ove presto pubblica il Saggio e i Fram menti (3 ). Io non mi indugierò neppur brevemente sul l'attività del molisano nella Repubblica cisalpina (poi italica ) e nel Regno italico, attività vasta e complessa di (1). F. LOMONACO, op. cit., p. 327. (2 ) Chi vuole avere notizie più ampie veda La rivoluzione napoletana del CROCE, ove vi è un largo studio sull'argomento, pp. 329-342. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 3 ]. 202 studioso, di cui sono documento le Osservazioni sul Dipar timento dell'Agogna, che vanno sotto il nome di L. Lizzoli, sebbene siano, come è stato indiscutibilmente dimo strato (1), del nostro scrittore, e i frammenti su la Sta tistica della Repubblica italiana, opera scientifica di vasto respiro (2 ), che dimostrano quanto alto fosse il bisogno del nostro autore d'esaurire ogni forma di realtà umana, poichè solo sovra una conoscenza adeguata di essa si può fondare un coerente edificio politico e legislativo. Sono punti questi oramai acquisiti alla storia e su essi non mi soffermo. Vengo piuttosto ad un altro punto, la fonda zione del Giornale italiano, che tanta larga parte ha nella formazione della nostra coscienza nazionale, che primo agita, nel fulgore della gloria napoleonica, il problema unitario. In quel periodo tumultuoso, che comprende i primi decenni del secolo XIX, Milano è il centro culturale più cospicuo d'Italia. Napoli, dopo le aspre lotte giurisdi zionali con la Chiesa, dopo il fiorire della sua Università, dopo la gran luce diffusa da Filangieri, Galiani, Pagano, Cirillo, caduta la breve repubblica del 1799, colla restau razione del Ruffo, aveva visto disperso tutto quel te soro di sapienza che cinquant'anni di attività scientifica aveano accumulato. Torino era un centro troppo ristretto, ancor provinciale e particolaristico, sebbene già comin ciasse a dar segno di nuova e più ampia vita, ma non poteva offrire assolutamente nulla, dato che con le vit torie del Bonaparte aveva perduto l'antica libertà. Di Venezia, di Firenze, di Roma inutile parlare. Milano dunque ne ' primi anni del nuovo secolo è il centro più attivamente colto d'Italia. Grandi in essa sono le memorie del popolo, grande la tradizione recente. « Ivi si era formata prima la scuola del giansenismo, e poi la scuola de' diritti dell'uomo »; ivi « la 6 Società patriot tica ”, divenuta poi Società popolare, aveva lavorato alla diffusione delle idee nuove ». Come rileva Francesco (1 ) N. RUGGIERI, op. cit., p. 40; G. Cogo, op. cit., pp. 13-23, (2 ) G, Cogo, op. cit., p. 24 e sgg. 203 De Sanctis (1 ) ivi s'era espresso, contemporaneamente forse ai primi tentativi giurisdizionalisti del Tanucci, un moto, diretto principalmente contro la curia romana, per sonificata nei gesuiti, e contro l'aristocrazia, che pur non avendo portato ad immediati mutamenti politici, annun ciò importanti riforme civili per il miglioramento del l'uomo, che già erano concrete conquiste civili, allor quando il turbine rivoluzionario si scatenò, distruggendo tutto, l'antico e il nuovo, il cattivo e il buono, ciò che doveva crollare e ciò che era degno di restare. A Milano aveva scritto il Beccaria, instaurando nel campo penale nuove dottrine, che, reagendo a tutto il sistema degenere del medievale processo inquisitorio, preludono ad un mi rabile fiorire delle dottrine criminalistiche; il Verri aveva disputato di economia, di finanza, di sociologia; il Caffè aveva agitato nelle menti più illuminate i nuovi pro blemi filosofici e scientifici, le nuove posizioni artistiche, che appassionavano non solo l'Italia, ma la Francia e l'Europa tutta. Questa la tradizione, che ne' primi anni del nuovo se colo Milano rinnova in una vita sempre più grande e degna. Le varie rivoluzioni vi hanno fatto affluire esuli non solo da Napoli, ma da ogni parte d'Italia, poeti e filosofi, soldati e commercianti, giureconsulti ed econo misti (2 ). È il periodo grande della vita milanese; il pe riodo in cui, per dare tre illustri nomi, appena da poco spento il Parini, cantano Monti Foscolo Manzoni. Nulla da meravigliare se in questo ambiente d’intellettualità si agitano quelle questioni, che poi lo stesso secolo XIX vedrà realizzate e risolte, concreterà insomma nell’azione politica. L'animo ardente di Vincenzo Cuoco in questa società così vivace ed attiva trova tutta lo stimolo per destarsi da quella sua natural pigrizia, che lo stesso Manzoni in (1) F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves ed., 1918, v. III, p. 2. (2 ) R. SORIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della Società pavese di storia patria, a. XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121, 204 lui notava, e della sua nuova attività, oltre gli scritti statistici su citati, sono testimonianza gli articoli sul Gior nale italiano, che egli pubblica il 2 gennaio 1804 e di rige continuamente fino all'agosto del 1806, fino cioè al suo ritorno in patria, avvalendosi della cooperazione di due valentuomini, Bartolomeo Benincasa e Giovanni d'Aniello (1 ). Seguendo il nostro metodo di non occuparci di pro blemi biografici, noti a sufficienza, sorvoliamo sulla fon dazione del foglio milanese (2 ), e vediamo piuttosto che cosa esso rappresenti nella storia dell'idea nazionale, quale sia il suo rapporto con i precedenti ideologici del nazionalismo, che abbiamo visto in Paribelli e Lomonaco. Che cosa è innanzi tutto la nazione per Vincenzo Cuoco? È qualcosa di già acquisito, di rigidamente fatto, di sta tico, o invece qualcosa da acquisirsi, da farsi, di dina mico, qualcosa insomma che diviene in un processo inin terrotto? Esiste realmente e storicamente una naziona lità italiana, che è formata con questi e con quegli altri elementi, che sono questi e quelli, e nulla più? E quali sono questi elementi? Abbiamo noi perciò un diritto na turale ad essere nazione, diritto che gli stranieri non pos sono contestare, donde scaturisce un correlativo supe riore dovere a permettere la nostra unità nella forma d'uno Stato indipendente e sovrano? Sono questi al trettanti problemi, ai quali dovremo singolarmente ri spondere. Se noi ritorniamo col pensiero agli scritti del Paribelli e del Lomonaco, noi vediamo in essi uno sforzo a definire concretamente gli elementi costitutivi di questo concetto di nazionalità, che poi alla resa dei conti finisce per man care e per sfumare, proprio nel momento, in cui pure essi credono d'averlo conquistato e fissato. Nè è a dire che (1 ) V. FIORINI e F. LEMMI, op. cit., p. 655. (2 ) Cfr. A. BUTTI, La fondazione del Giornale italiano » e i suoi primi redattori, Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall’Ar chivio stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII); vedi pure N. RUGGIERI, op. cit., p. 43 e sgg.; nonchè G. Cogo, op. cit., pp. 30-34. 205 l'insufficienza sia dovuta all'insufficienza della loro cul tura. Uomini di ben maggiore preparazione si sono sfor zati d'esaurire criticamente il contenuto della naziona lità e non ci sono riusciti. Ogni elemento, tra quelli da noi presi in esame, si rivela attivo nella formazione della nazionalità, ma poi non può essere a rigore accolto come necessario essenziale costi tutivo. Ancora: vi sono elementi, che a volta sono, a volta non sono; altri che operano storicamente con una certa intensità, ed altri con una intensità maggiore o minore. Il Lomonaco accenna ad elementi geografici, etnici, lin guistici ed eziandio religiosi, quali antecedenti del nostro concetto, del concetto che noi tutti abbiamo di nazione, per cui gli italiani sono fatti per essere membri d'una sola famiglia. Tutti questi egli afferma come la base concreta, sovra la quale s'aderge il superiore diritto a che l'Italia sia un solo Stato. Data questa concezione naturalistica, la conseguenza che ne scaturisce è una sola: il popolo italiano ha una superiore ragione a divenire indipendente, a trovare la sua forma giuridica in un reggimento uni tario; gli stranieri non debbono che riconoscere positiva mente quel che Dio o la natura, o altri che dir si voglia, segnarono sulle coste delle montagne e nel corso de'fiumi, separando la patria nostra dalle altre patrie, facendo si che essa, geograficamente delimitata dalle Alpi e dal mare, sia abitata da una sola gente, parlante un solo idioma, avente una sola religione, una sola storia, una sola mis sione, una sola somma d'interessi. Ecco perchè il Paribelli e il Lomonaco si rivolgono ai francesi. Essi sono i più forti, essi possono perciò estrin secamente donare all'Italia quell'unità statale, a cui senza dubbio ha diritto, perchè la nazionalità è una realtà non da farsi, ma già fatta e perciò statica. Quel che ancora non è fatto ma da farsi è lo Stato uno ed indipendente, considerato come esterno alla nazione, quasi come una sua sovrastruttura, che può essere e può non essere, ma che, sia o non sia, lascia inalterata la nazionalità. Può esservi la nazione e non esservi lo Stato, e viceversa. Lo Stato sarà il riconoscimento susseguente ed esteriore d'una 206 realtà già concretizzata, e quindi definitiva, che è la na zione con quegli elementi che sappiamo. Contro questa concezione s’oppone il Cuoco Nessuno de gli elementi positivi della nazionalità può dirsi essenziale al concetto di nazionalità. Prendiamoli uno ad uno, ed ognuno di essi ci apparirà fallace e transeunte. Costruire sovr’essi val quanto costruire sovra la sabbia. Che è la terra se non una mera quiddità naturale, che in sè e per sè non ha che una importanza relativa, tant'è vero che gli ebrei sono nazione pur fuori dal territorio nativo, e lo sono dopo quasi due millenni da che si sono dispersi per il mondo? Che è la religione, se noi la concepiamo come religione comune di tutti, con quei determinati solenni riti e con quella certa gerarchia ecclesiastica, se non un astratto? Ma d'altra parte ognuno di questi ele menti, ed altri che abbiamo sorvolato, acquistano mag giore consistenza, se noi li guardiamo non già nella loro estrinsecità e nella loro astrattezza, ma se li consideriamo nella loro significazione spirituale, vale a dire in quanto noi li compenetriamo di noi, de ' nostri affetti, de' nostri sentimenti. Non è più allora la terra fisica geografica, « bagnata » come dice il Lomonaco « dal Mediterraneo, dal l ' Jonio, dall'Adriatico, e separata dagli altri popoli da una catena di monti inaccessibili », ma bensì quella terra che ci vide nascere e vide nascere i nostri avi, ove i nostri avi sono sepolti, saranno sepolti i nostri padri, saremo sepolti noi pure, quella terra ove noi lavoriamo ed amia mo, ove lavorarono le generazioni che furono e compi rono grandi cose, quelle grandi cose, di cui si vede ancor oggi la testimonianza nelle grandi costruzioni, nelle opere plastiche, ne ' carmi, nelle.storie, che ci commovono e ci fanno fremere d'orgoglio. Non è più allora la religione cattolica romana con i suoi dommi scritti e rivelati, fissati perennemente ne' sacri libri, bensì quella religione che vive ne ' nostri cuori, e ci anima nelle opere degne, ci rimprovera nelle indegne, ci consola nelle disgrazie, che brilla come speranza di luce futura, che noi sentiamoogni momento, sempre nuova e presente, sempre viva e rin novantesi. 207 La nazione insomma è in noi, è quella maggior consape volezza che noi abbiamo di noi, onde ci sentiamo fratelli di tanti altri individui, che perciò poniamo non come estranei a noi, ma simili ne’sentimenti e negli affetti, for manti una superiore unità spirituale. Non è perciò nè il territorio, nè la lingua, nè la razza, nè l'interesse che de termina la nazionalità, il suo essere e il suo contenuto, ma siamo noi stessi, che con la nostra spiritualità affermiamo i vari elementi di volta in volta come costituenti la nazio nalità, e li plasmiamo in una suprema volontà, che è co scienza ed energia. La nazionalità così non è fuori di noi, ma in noi; non è materia o natura, ma spirito; non è contenuto, ma forma del più vario contenuto. Le conseguenze di questa posizione sono incalcolabili. La nazionalità non è, diviene; non è qualche cosa di preesistente alla nostra determinata energia spirituale, ma coeva con essa, perchè da questa posta e generata in ogni suo momento. Tale più alta visuale del problema il Cuoco esprime in quel Disegno di un giornale italiano, che egli presentò nel 1809 al vice- presidente della Repubblica italiana Fran cesco Melzi d'Eril (1 ). La nazione, egli dice, non è formata; si tratta anzi di formarla. « Fra noi non si tratta di conservar lo spirito pubblico, ma di crearlo. Conviene avezzar le menti degli italiani a pensar nobilmente, condurle, quasi senza che se ne avvedano, alle idee che la loro nuova sorte richiede, e far divenire cittadini di uno Stato coloro i quali sono nati abitanti di una provincia o di paesi anche più umili di una provincia » (2 ). Da ciò è facile vedere come la con cezione naturalistica sia superata: la nazione non esiste (1 ) Il documento tratto dall'Archivio di Stato di Milano è stato pubblicato dal prof. ATTILIO Butti in appendice alla sua op. cit., nonchè ristampato da G. GENTILE: VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti e rari, Roma-Milano, Albrighi e Se gati ed., 1909, p. 3 e sgg.; e poi da N. CORTESE e F. NICOLINI: VINCENZO Cuoco, Scritti vari, Bari, Laterza ed., 1924, v. I., pp. 3-12. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 208 in natura, come mera entità di fatto, ma nello spirito, come superiore unità ideale. Quest'unità dello spirito, che poi è energia plasmatrice e volontà realizzatrice, come abbiamo detto, consiste di due parti principali: « la prima è la stima di noi stessi e delle cose nostre; la seconda è l'accordo de' giudizi di tutti su quegli oggetti che possono essere utili o dannosi » (1 ). Io direi: è in primo luogo autocoscienza, consapevolezza di noi e delle nostre pos sibilità; in secondo luogo quell'atto, per cui il nostro io particolare, coincidendo con tutti gli altri particolari in una sola volontà, s'afferma come universale. La nazione così null'altro è che volontà di nazione, e, siccome con cretamente la volontà è in noi uomini, la nazione è in noi, quella nazione che noi amiamo, sospiriamo, che noi idoleggiamo ne' nostri pensamenti, che vediamo cantata ne' grandi poeti, che desideriamo grande e possente nel futuro come lo fu nel lontano passato, che infine noi vo gliamo ed affermiamo in ogni nostro pensiero ed atto, onde ogni nostra opera o scritto reca l ' impronta d'un superiore carattere, che è il carattere di nostra gente. La stessa così detta tradizione nazionale non è, non ha alcun valore, se non nel presente, se non in quanto la poniamo come presente, e perciò solo operativa di grandi cose, incitamento a maggiori grandezze. Se noi l'assu miamo come passato, essa null'altro è che retorica, sban dieramento inutile di grandi fatti, su cui tutti possono meritamente ridere. « Un giornalista di Londra o di Pa rigi può mille volte al giorno ripetere ai suoi compatrioti: Noi siamo grandi. Egli sarà sempre creduto. Un giornalista italiano, se pronunzierà questa stessa propo sizione, desterà il riso; ed una proposizione di cui si è riso una volta, dice Shaftesbury, non può produrre mai più verun buon effetto » (2 ). Anche la tradizione, come tutti gli elementi della nazionalità non deve essere fuori degli uomini, ma veracemente parlare agli uomini. La sto ria resta mera erudizione passiva inerte, se la riguardiamo (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 4. 209 come un frigido insieme di fatti; ma se questi fatti par lano ad uomini, e ad essi dànno maggior consapevolezza di loro stessi, ond'essi acquistano maggiore energia e vo lontà di dominio, allora la storia diventa davvero maestra de' popoli. Così la tradizione ben'intesa diviene autoco scienza, stima di noi stessi. « Alla stima di loro stessi » scrive il Cuoco « e delle pro prie cose debbono le grandi nazioni e quella energia, per cui han fatto le grandi operazioni; e quella pazienza, per cui han sopportati grandi mali e sacrifizi gravissimi; e quell' affezione al proprio governo, che si raffredda ed estingue dall'idea che esso non operi bene o che un altro operi meglio; e finalmente quella costanza ne' pensieri, ne' disegni e nelle operazioni, la quale, fondata sul rispetto che abbiamo per i nostri maggiori, può sola farci ottenere i grandissimi effetti. Quando si analizzano le nazioni, si trova che i beni ed i mali, la verità e gli errori sono misti egualmente da per tutto, e che la differenza tra l'una e l'altra non dipende da altro che dalla loro diversa ma niera di pensare e di sentire » (1 ). Posto ciò, allorquando la nazione non si è ancora con cretata nella forma di uno Stato, non può esservi un di ritto, una pretesa a Stato unitario, che noi possiamo esi gere dagli stranieri, aventi verso di noi un corrispondente dovere al riconoscimento. Lo Stato è sì riconoscimento di nazionalità, ma non riconoscimento estrinseco di altri, ma bensì intima affermazione della nazionalità in ogni suo momento. Dire volontà di nazione e dire volontà di Stato nazionale è la stessa cosa: affermare la nazione val quanto affermare lo Stato nazionale. E siccome la nazione non è, ma diviene; lo Stato non è, ma diviene. In un senso altamente ideale esso è anche quando giuridicamente non è riconosciuto dagli altri Stati, in quanto è in noi che lo poniamo ed operiamo per realizzarlo, e lo realizziamo continuamente in ogni nostro atto. Come si tratta di fare lo spirito pubblico, la coscienza nazionale, si tratta di (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. 14  fare lo Stato, e lo si fa, facendo lo spirito pubblico e la coscienza nazionale. Circa la seconda parte della nazionalità, dello spirito pubblico, il Cuoco dice, c'è poco da aggiungere: è il pro blema dell'accordo di più uomini nelle idee utili (1 ), onde la loro volontà si può considerare come una sola volontà. Basta presentare queste idee utili, presentarle caldamente sinceramente, presentarle spesso, perchè tutti siano d'ac cordo. « È necessario che tutti gli uomini convengano in tre cose: in rispettar i governi, in rispettar la religione ed in praticar la morale; e se tra queste cose si potesse stabilire una progressione, io non avrei veruna difficoltà di dire che la corruzione della morale porta seco il di sprezzo prima della religione e poscia del governo. È na tura dell'uomo trascurar prima i doveri, indi conculcar le leggi che sanciscono i doveri, e finalmente disprezzar coloro dai quali ci vengono le leggi » (2 ). Dato che lo Stato moderno null'altro è che nazione, coincidendo la volontà di Stato con la volontà di nazione, e posto che questa non è fuor di noi, ne viene che la volontà statale non è estrinseca al soggetto, ma a lui intima e connaturale: anzi la volontà di Stato coincide con la nostra in quanto que sta si pone come universale, una ed armonica con tutte le altre. Il rispetto al governo non deve essere una coa zione, ma un'accettazione libera, poichè nell'atto go vernativo vediamo l'espressione di posizioni da noi con divise, anzi da noi volute. Il rispetto quindi allo Stato è in quanto nello Stato vediamo la sublimazione di quanto di meglio è in noi, e, siccome lo Stato del Cuoco è stato etico, e, in termini giuridici, professionista, ne scaturiscono come conseguenze inderogabili: il bisogno che i soggetti rispettino la loro religione che è anche religione di Stato, pratichino la loro morale che è anche morale di Stato. Vincenzo Cuoco, in quella parvenza di Stato unitario che è la Repubblica italica, poi Regno italico, si pone (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 8. 211 dinanzi una sublime missione, un compito titanico: for mare la coscienza di quel che sarà o diverrà la nazione italiana. Il problema che abbiamo esaminato nei napo letani del '99 è invertito. La rivoluzione imponeva una unitarietà estrinseca, mirava a formare un sentimento vuoto ed astratto di pseudo - solidarietà umana; il Cuoco invece s'affisa nell'interiore degli uomini, opera sui loro spiriti, ne ridesta quella coscienza che il nuovo secolo XIX dirà nazionalità, e che infine null'altro è che un atto d'energia volitiva, che plasma e fonde in sè ogni parti colare contenuto. V'è il popolo, quel popolo che i giacobini idolatravano e levavano alle stelle, ma a questo popolo la patria non è da darsi bell’e fatta, compiuta e grande, attraverso l'opera di pochi disinteressati idealisti, o italiani o stra nieri; no, questo popolo deve agire, vivere pur esso, sen tire i grandi problemi del tempo, acquistarne la cono scenza, prepararsi liberamente l'avvenire. Il Cuoco pone il popolo come elemento indispensabile della vita civile, come il grande operatore della storia in tutti i suoi sviluppi. La rivoluzione sublima in teoria il popolo, ma di fatto ne ha poco rispetto; poichè crede po terlo dominare dal di fuori, e fargli subire i nuovi sistemi politici, come già subiva i vecchi, vuote sovrastrutture, in cui può vibrare ogni mutevole realtà. La rivoluzione infine è ne' giacobini, che sono i pochi, non nel popolo, che è la molteplicità. Il Cuoco crede ciò un grande errore, ed è questa la grande sua trovata, ond’egli meritamente s’as side tra i grandi del nostro paese. Se vogliamo creare quella realtà spirituale che è la nazione, non possiamo prescindere dal popolo, dal popolo che abbiamo visto nel Saggio essere il solo autore delle rivoluzioni e delle con trorivoluzioni. Il principio della storia è in lui, e in lui sono tutte le più remote scaturigini della vita. Parlare al popolo, dunque, e ridestarlo, inserirlo nel pulsare della cosa pubblica, fargli acquistare dignità e sensibilità, e allora esso non odierà le istituzioni o non sarà ad esse indifferente, in quanto queste vede fuor di sè stesso, ma le amerà come sue, espressione della sua più alta eticità, 212 e con le istituzioni amerà la morale e la religione, che con le prime vedrà intimamente legate. Oggi, dice il molisano, esiste bene o male una Repub blica o un Regno italico; il popolo però ancora ne è fuori: bisogna unire i due termini, perchè solo così il primo sarà veramente un ente vitale, il secondo un'unità cosciente e non una molteplicità naturale e perciò bruta. Se domani, il Cuoco non lo dice ma noi lo intendiamo, vicende storiche nuove distruggeranno la mal connessa unità napoleonica, e nuovi stranieri invaderanno il bel suolo d'Italia, se in questo domani il popolo sarà ancor sopito o morto alla vita pubblica, ohimè, non vi sarà speranza più di unità e di indipendenza; ma, se per av ventura questo popolo noi lo avremo educato, istruito, reso elementó vero dell'attività sociale, oh, allora non vi sarà bisogno di lunghissime lotte perchè la volontà co mune di nazione, la volontà di Stato libero si concreti, s'imponga in giuridiche affermazioni dinanzi agli stra nieri, che le subiranno e le riconosceranno ! Così il problema politico in Vincenzo Cuoco diventa sopra tutto problema pedagogico, anzi il problema peda gogico per eccellenza, come quello che è destinato a creare un popolo, una nazione, uno Stato (1 ). Ben nota Guido De Ruggiero che, laddove il carattere spirituale dei moti, che dalla rivoluzione si espressero, sfuggiva ai rivoluzionari, anche ai più eletti, il Cuoco intende la nuova esigenza e vuol essere educatore: nella sua grandezza come peda gogista intendiamo la sua grandezza come storico e po litico (2 ). Certo gli ostacoli a questa missione, a questo fine sono grandissimi, ma non per ciò il molisano si sbigottisce: quanto maggiori sono gli ostacoli tanto più bello sarà il premio nell'avvenire. Oggi in Italia non v'è nazione, non v'è senso unitario; siamo poveri, pochi, disgregati, senza un esercito vero e (1 ) P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia, s. d. (1924 ), Torino, p. 106. (2 ) G. DE RUGGIERO, op. cit., p. 175. 213 proprio; non importa, tutto si farà, ammonisce Cuoco, ed esce in una profetica dichiarazione di fede, che, ancor oggi, commove e rende superbi nello stesso tempo. « Ogni Stato » scrive « ha un periodo da correre. Tutte le nazioni piccole son destinate ad ingrandirsi o a perire. Quelle non periscono, le quali dispongon per tempo le loro menti all'ampiezza de’destini futuri; onde, quando il corso de gli avvenimenti loro presenti le occasioni opportune, esse, per mancanza di preparazione, non si ritrovano impo tenti » (1 ). L'unità d'Italia prima sia nello spirito, poi certamente sarà nella vita giuridica: ma noi non possiamo presu merla in questa se non ci sforziamo di concretarla in quello. Dalla frase che io ho richiamato appare chiaro quanto caldo sia in Cuoco il pensiero unitario: non basta quella parvenza d'autonomia che la Francia ci dà e Na poleone mantiene, occorre di più, occorre che ciò che è Italia a Milano sia Italia a Scilla, e viceversa, occorre la vera unità, cioè lo Stato nazionale. Questo non è un di ritto del passato inestinto e inestinguibile, sacra eredità di generazioni trascorse, ma unità da formare ex novo attraverso un'opera diuturna e disinteressata, in cui tutto ciò che è diritto e storia antica deve rifondersi e rifog giarsi nel presente, diritto e storia nuova, perchè nuova volontà e nuova consapevolezza. La storia in un certo senso è peso bruto, se non si vince come passato; è atti vità propulsatrice, se noi la riviviamo e ne ritragghiamo incitamento. Perciò tutto il Giornale italiano è pieno di storia, di memorie antiche, di riesumazioni dotte, d'in formazioni nazionalistiche: ma tutto ciò non è materiale d'archivio, da biblioteca, bensì esempio da prospettarsi ad animi italiani, ond'essi vibrino di un legittimo orgoglio, che non è comodo adagiarsi in una indiscussa superiorità o antico primato italico, ma incitamento a nuove opere. Ecco ciò che si propone all'incirca il Giornale italiano: un'alta opera di pedagogia pubblica. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 7. 214 Questo giornale, divenuto rarissimo, per lungo tempo è stato dimenticato dagli studiosi, ma oggi ad esso si è ritornati, e in esso si sono rinvenute le vere ideali origini, di questa nostra Italia, di cui il Risorgimento è stato la cosciente affermazione, non l'estrinseco dono di questo o di quello, sia esso il terzo Napoleone o il Gabinetto britannico. La direzione cuochiana al Giornale italiano durò tre anni: sono tre anni d'un apostolato fervido sincero ele vatissimo, senza mai un minuto di riposo. Nessun pro blema, giuridico o politico, etnografico o storico, econo mico od agricolo, militare o industriale, sfugge alla mente di Vincenzo, e tutto egli rivolge ad un ben noto fine, poichè, com'egli stesso osserva, « per formar la mente de’ lettori, è necessario che l'opera istessa, abbia una mente, cioè un fine unico, e parti tutte corrispondenti al fine » (1 ). L'importanza di questo foglio non isfuggì ai più acuti studiosi delCuoco. Già il Romano lo proclamò « un nobi lissimo apostolato di italianità (2 ) », e, come il Cogo ri leva, questa affermazione il sopra detto critico convalida con prove sicure, sebbene sarebbe stato forse opportuno che egli vi avesse fermato un po' di più la sua atten zione (3 ). Parimenti sul Giornale italiano ha scritt oltre il Cogo, Paul Hazard, il quale nel suo obiettivo e felice intuito ha ben visto quanto il Cuoco si differenzia dai gia cobini francesi e quanto rigidamente affermi la sua na zione (). Ma, nonostante il loro acume, il Romano, il Cogo, l'Hazard, non poterono avere quella sensazione sicura della grandiosa importanza di quel giornale, che solo noi oggi possiamo apprezzare dopo che ulteriori studi hanno messo in luce come quegli scritti della gazzetta milanese, spesso non firmati, o sottoscritti con la sem plice sigla C., fossero letti da un giovanetto idealista ap (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 3. (2 ) M. ROMANO, op. cit., p. 136. (3 ) G. Cogo, op. cit., p. 32. (4 ) P. HAZARD, op. cit., p. 231 e sgg. 215 pena uscito dall'università, che li postillava e li trascri veva, da Giuseppe Mazzini: piccola favilla atta a destar gran fuoco. Per raggiungere i suoi alti fini tre sono i mezzi che il Giornale italiano si propone, e che esplicitamente di chiara: in primo luogo, « presentare al pubblico quanto più spesso si possa le memorie degli altri tempi: non, come talora si è fatto, sfigurate e dirette a turbar gli ordini che si avevano, ma quali realmente sono, e per confermar colla stima di noi stessi gli ordini che abbiamo »; in se condo luogo, « incominciare a misurarci, almen col pen siero, colle altre nazioni »; poi, « ragionar frequentemente sulle operazioni nostre », onde acquistare coscienza delle nostre possibilità, delle nostre virtù e dei nostri vizi (1 ). Tutti questi tre mezzi miravano ad un fine unico, far comprendere agli italiani che « chi oggi non è grande » e « quasi diffida di poterlo divenire », lo sarà, come « lo è stato una volta » (2 ). Nel luglio 1805 Vincenzo Cuoco, recensendo uno scritto del Monti, di quel Monti, che egli pur non troppo ammira come personalità morale (3), scritto col quale il poeta cesareo esalta l'Eroe, che' la gratitudine nazionale in voca « nel tempo stesso suo conquistatore, suo liberatore, suo Re », non loda l’autore per il suo lodare l'Eroe, « soggetto tanto comune qual è sempre », ma bensì per la novità che ha saputo trovare e per « l'interesse che ha saputo destare rammentando le antiche glorie italiane, e le sciagure e l'avvilimento, che alla gloria succedettero, ridestando le ombre de' tempi antichi, e dopo di esse l'ombra di Dante, di quel poeta del quale nessuna nazione p. 5. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5 e sgg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, (3 ) Vedi N. RUGGIERI, op. cit., p. 163; nonchè A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venti cinque anni del sec. XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 131 e sgg., e G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, 3a ediz. corretta da P. THOUAR, Firenze, 1853, v. II, p. 259, n. 3, ai quali il Ruggieri stesso rimanda. 216 può vantarne un altro più pieno di civile sapienza » (1 ). « Non altri » commenta « vi era di più opportuno di Dante all'occasione solenne che Monti celebrava; di Dante il quale forse il primo incominciò a illuminar le opre infi nite degli antichi italiani per ammaestramento de' mo derni; di Dante il più zelante dell'antica gloria degli italiani; il più severo censore della corruzione nella quale ai suoi tempi l'Italia era caduta; di Dante che tutti i suoi studi e tutte le sue cure dirigeva al solo fine del risorgimento dell'Italia; e con quali arti vi tendeva ! Col predicare tra gli abitanti delle varie parti nelle quali era allora divisa l'Italia l’unione, e negli ordini pubblici la concentrazione del potere moderata dalle leggi ». L'alta coscienza del Cuoco vede in Dante il simbolo d'ogni attività della stirpe, e per il divino poeta ha un vero culto, come lo hanno e l'avranno tutti i grandi fattori della nostra storia e della nostra civiltà, da Manzoni a Carducci, da Mazzini a Gioberti (2 ). E la sua volontà d'esaltare tutto ciò che è italiano, e in Italia ha avuto origine e nascimento, si compenetra con un felice intuito storico, per cui il fenomeno politico (1 ) Giorn. ital., 1805, 27 maggio, n. 63, p. 274: Visione del professore V. Monti. Per altri accenni del Cuoco sull’Alighieri vedi Scritti vari, v. I, p. 235, 257; v. II, p. 267. (2 ) L'alto concetto che V. Cuoco avea della grandezza di Dante si addimostrò chiaramente in una circostanza spiace vole, in una di quelle tante polemiche, con cui gli stranieri cercano di menomare quel che è nostro e di impicciolirlo. Avendo un giornalista dei Débats scritto che una vita di Dante poteva ritenersi a priori una lettura sonnifera, e che la Divina Commedia era l'opera di un piccolo politico, di un poeta bar: baro, del quale solo pochi frammenti potevano dirsi buoni, il molisano rimbecca: « Sia permesso all'autore dell'articolo di ignorare la storia, e non saper quanto Dante fosse politica mente grande. La gloria del sublime poeta ha offuscata quella del profondo politico, ed il maggior numero degli uomini ram menta l'autor della Divina Commedia e quasi oblìa l'autor della Monarchia, libro che, ad onta delle spinosità scolastiche onde è ricoperto, racchiude pensieri profondi, e, ciò che più importa, non è molto lontano dai nostri attuali bisogni ». Vedi Giorn. Ital., 1804, 25 gennaio, n. 11, p. 45. 217 e culturale è mirabilmente rappresentato. Esalta il se colo XVI, « il secolo in cui rinacquero tutte le arti e tutte le scienze, e tutte rinacquero in Italia, e dall'Italia si diffusero per tutto il resto ancor barbaro dell'Europa; si scopersero due nuovi mondi, e tanti mali e tanti beni si aggiunsero all'antico; sursero nuove sette religiose, ed il fermento che esse produssero fecondò li primi semi di quella libertà di pensare che dovea col tempo produrre e la sana filosofia e l'imsensato pirronismo »; ma subito si entusiasma, e, quasi a suggellare tanta gloria, esclama: « e tutti questi avvenimenti o nacquero o agitaronsi o compironsi in Italia o per l'Italia o per l'opera degli italiani...! » (1 ). Il secolo XVI è il secolo di Leonardo, di Raffaello, di Michelangiolo, di Cellini, di Palestrina, di Ariosto, di Tasso, di Machiavelli. Il Cuoco è un ammiratore del se gretario fiorentino. E chi mai, se si eccettui Francesco De Sanctis, intese così profondamente l'autore del Prin cipe e delle Deche? Anzi astraendo e generalizzando un parallelo tra il Cuoco e il Machiavelli si può fare, ed è stato fatto (2). « Più di uno » nota Giuseppe Ottone « ha paragonato [ Il Cuoco) al Machiavelli, perchè al pari di lui trovò i princípi e le formule di un rinnovamento della coscienza nazionale: e come il Machiavelli segna il punto nel quale i fervori umanistici si incarnano nella realtà della vita politica, e, svestito il paludamento retorico, si rivelano nelle linee semplici e precise di un nuovo ideale, così il Cuoco, dopo un secolo di vaneggiamenti filosofici e col concorso di una dura esperienza, per la quale si fondono come cera le antiche illusioni, ci rivela rinnovata e con sapevole di sè la coscienza italiana » (3 ). (1 ) Giorn. ital., 1804, 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11; pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà: (vedi in precedenza, p. 163 ). (2) G. OTTONE, Vincenzo Coco è il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tipografica vigevanese, 1903, Ap pendice B. LABANCA, op. cit., p. 407 e sgg. (3) G. OTTONE, op. cit., p. 4. 218 « Le ragioni che possono suggerire il pensiero di una certa affinità tra i due scrittori sono parecchie: 1° la tradizione, superficiale e scolastica più che al tro, della trasmissione dell'ideale unitario; 2º una certa affinità nelle circostanze che hanno sug gerito all'uno e all'altro scrittore di attendere alle fatiche dello scrivere; 30 il comune intento di ricamare sul tessuto della storia il disegno della loro personale esperienza e delle loro convinzioni; 40 le frequenti citazioni che il Cuoco appunto fa di detti e sentenze del Machiavelli; 50 la comune ammirazione per Roma repubbli cana » (1 ). Ma non è questo che a noi interessa vedere, poi che i paralleli hanno sempre un valore approssimativo, dato che prescindono dalle mutevoli condizioni dei tempi, che di volta in volta sono e non si riproducono più, onde il Rinascimento, fenomeno sopra tutto culturale e in su bordinata politico, non si può mai raffrontare col Risor gimento, fenomeno soprattutto politico sebbene anche culturale. Quel che a noi invece interessa, ripeto, è la nuova luce che il Cuoco riverbera sul segretario di Fi renze, onde per vie diverse da quelle che tiene Ugo Fo scolo, tende a scagionarlo dai « giudizi ingiusti che il maggior numero degli uomini dà sugli scritti suoi ». A ciò immagina che un suo amico conservi il mano scritto d'uno de' suoi antenati, che visse nel secolo di Leone X ed ebbe rapporti con i grandi uomini del tempo: in questo manoscritto l'avo descrive una sua conversa zione col Machiavelli sovra un tema politico. La discolpa del grande fiorentino non potrebbe essere più completa e sicura. « Il maggior numero (degli uomini), dice il Machiavelli, è ingiusto, perchè pieno di passioni e servo de' partiti. Io (1 ) G. OTTONE, op. cit., p. 51. Giustamente nota l’A. che l'ideale unitario nel Machiavelli è scolastico, laddove nel Cuoco è più profondo ed intimo. 219 ho voluto scrivere senza passione veruna; non ho seguito nessun partito, e li ho offesi tutti. Ho scritto per gli uomini ragionevoli, e questo è stato il mio torto: gli uomini ragionevoli son pochi ». Il Cuoco perciò intende studiare e giudicare il Machia velli realisticamente, da un punto di vista storico, pre scindendo da ogni giudizio a priori (1 ). Ha il Machiavelli insegnato massime di tirannia ai Me dici, ha preso per modelli uomini scelleratissimi quali Ca struccio e il duca Valentino? Nulla di tutto ciò. Egli ha visto i costumi e gli ordini dei suoi tempi, e li ha descritti. Ha detto ai principi: che fate? voi non sapete essere nè buoni nè cattivi, voi finirete con l'essere nulla e vi per derete; voi non avete religione e virtù, necessarie allo Stato, e finirete per distruggerle negli altri. Ha detto: siate giusti, e, se pure qualche volta vorrete permettervi di derogare dalle leggi della giustizia, sia questo a voi soli permesso, non agli altri, non a tutti. Ecco un Machia velli più umano dell'uomo foscoliano: che temprando lo scettro a' regnatori gli allòr ne sfronda, ed alle genti svela di che lagrime grondi e di che sangue. (1 ) Che questa sia proprio la posizione, sulla quale il Cuoco crede di poter pervenire ad una esatta comprensione di Ma chiavelli politico, lo dimostra assai bene un passo di un altro suo articolo: Giorn. ital., 1806, 5, 6, 7, 8 gennaio, n. 5, 6, 7, 8; p. 19, pp. 23-24, pp. 27-28, pp. 31-32: Politica (ristampato in Scritti vari, v. I, pp. 201-213 col titolo La politica inglese e l’Italia ). « Quelli li quali leggono » scrive il Cuoco « le opere di Macchiavelli colla stessa attenzione colla quale leggono un romanzo, e quegli altri i quali lo giudicano senza averlo letto (com'è accaduto al padre Possevino ed a tutta la scuola ge suitica ) credono che Macchiavelli abbia date lezioni di tiran nide o abbia voluto rappresentar quella stessa parte che rap presentò Samuele al popolo ebreo. Io son persuaso che Mac. chiavelli non volle fare nè l'una nè l'altra cosa, ma vide i costumi e gli ordini de' suoi tempi, e ne giudicò con una mente la quale era superiore ai tempi suoi, e che in conseguenza doveva esser per necessità ammirata o biasimata, e sempre senza ragione, perchè non era mai ben compresa ». 220 Ma perchè invece di parlare ai sovrani non ha parlato ai popoli? Ha tentato di parlare anche ai popoli, ma si è avveduto che avrebbe parlato, dati i tempi, invano. I principi si muovono per il loro potere, i popoli per la loro virtù. Sperimentati i popoli tra i quali viveva, non ha potuto dir loro: fate uso della vostra virtù; essi non l'avevano. Invece si è rivolto ai principi ed ha detto: fate uso del vostro potere; e questo precetto prima o dopo avrebbe dovuto produrre gli stessi effetti del primo, « perchè è tanta l'efficacia della virtù che, anche simulata, vale a ricomporre gli animi e gli ordini delle nazioni ». Ma perchè ha scelto come suo esempio il duca Valentino? Perchè quelli che il duca oppresse e distrusse erano più scellerati di lui, e fra tanti scellerati ha preferito quello « che almeno dirigeva le sue scelleraggini ad un fine più nobile e tendeva a riunir l'Italia, che gli altri, con iscel leraggini più vili, dividevano e desolavano ». Da queste notazioni scaturisce ben netto il giudizio che il Cuoco fa del Machiavelli, giudizio ben diverso da quello che ne davano tutti gli storici e ne dà lo stesso Foscolo, che si arresta sbigottito di fronte alla crudezza e alla rigidità delle massime politiche dell'autore del Principe. Ma il molisano troppo vigile senso storico e troppo realismo ha in sé per arrestarsi, ed il suo giudizio infine coincide con quello di Francesco De Sanctis (1). Conobbe questi proprio lo scritto cuochiano? Io ne du bito assai; ma certo è che i due critici si incontrano, spinti forse ad un punto comune da un solo ideale, da studi similari sovra la grande opera vichiana, da un eguale temperamento meridionale, più nobilmente concreto nel suo idealismo critico che non astratto in un nebuloso atomistico positivismo. (1 ) « C'è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte le lingue, il Principe, che ha gittato nell'ombra le altre sue opere. L’autore è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo valore logico e scientifico, ma nel suo va. lore morale. E hanno trovato che questo libro èun codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato machia. 221 Il Cuoco risulta da questo nostro esame un esaltatore caldo delle glorie italiche, ma la sua esaltazione non è un'esaltazione cieca fanatica, bensì cosciente illuminata da fine senso storico, per cui ogni uomo, poeta o statista, ogni fenomeno politico, glorioso od infausto, deve inse rirsi nel suo tempo, ove trova le sue radici, cioè la sua determinazione genetica. Dante è Dante nel suo tempo; Machiavelli è Machiavelli nel suo. Quel che per essi potea avere una ragione, per noi può anche non averla. In ogni caso noi non dobbiamo essere dinanzi a loro passivi, ma assorbirli, farli nostri, sentirli, fare la loro esperienza no stra, affinchè la loro vita spirituale non resti campata in cielo ma si saldi con la nostra, e si continui e si perpetui. Quest'alta dignità umana di Vincenzo lo differenza ben nettamente dagli stessi suoi cooperatori. Ben rivela a questo proposito l ' Hazard che, per esempio, il Benin casa esercita nel giornale una propaganda continua d'ita vellismo questa dottrina. Molte difese sonosi fatte di questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un Machiavelli rimpiccinito ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 50). « Machiavelli bisogna giudicarlo da un alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidato da elementi so prannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E il suo Eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che com prende e regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istru menti. Lo scopo può essere lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la voce e protestare in nome del genere umano.... Ma, posto lo scopo, la sua am mirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo con seguirlo. La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso e lo spregevole. L'odioso è il male fatto per libidine o per passione e per fanatismo, senza scopo. Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove l'intelletto ti dice che pur bisogna andare ». (F. DE SANCTIS, Storia, v. II, p. 69 ). 222 lianità esaltata, che finisce per divenire noiosa nella sua metodicità, che fa pensare al partito preso. Si tratta di geografia: sono gli italiani che hanno scoperto India ed America (1804, n. 6 ); si tratta del sistema di Gall: esso è stato preceduto da trovate di italiani (1804, n. 140); si tratta d'arte tipografica: il primato italico con i vari Bo doni è indiscusso (1805, n. 55): e così in materia di belle arti, di poesia, di teatro (1 ). Il Cuoco ha un altro metodo, spesso esagera sull'infe riorità dei suoi connazionali di fronte agli stranieri, ma esagera non per altro che per provocare una specie d'emu lazione, una specie di slancio a cose più alte. Nè è a dire però che la lode manchi al Cuoco, no, anzi gli abbonda, e si rivolge non solo ai grandi antichi, ma anche ai contemporanei più eletti o a coloro che da poco sono mancati ai vivi. E in quest'elogio quasi sempre co glie nel segno, e le sue osservazioni sono quanto di più giusto si possa concepire. Esprime un giudizio su Verri, ed il giudizio gli sgorga caldo, come un'apoteosi. « Egli fu » scrive « sublime filosofo, profondo letterato; il primo storico della sua patria, la quale avanti di lui non aveva avuto che cronichisti privi per lo più di filosofia, di cri tica, di gusto; magistrato zelante, attivissimo, autore o almeno parte principale di tutte le utili riforme che can giarono quasi interamente la vita politica della Lom bardia austriaca ». E il Verri richiama alla mente un altro grande, che in una disciplina delicatissima, come quella dei delitti e delle pene, segna l'inizio d'una nuova èra. « A Verri deve l'Europa Beccaria. Egli fu quasi l'oste trico di un genio grandissimo che taceva compresso dal l'indolenza a cui era portato per fisica costituzione » (2). Spesso sono nomi, grandi ma non abbastanza noti, quelli ai quali si riferisce, e allora il Cuoco si accalora e la parola diviene incitatrice ed eloquente, sebben dolorosa (1 ) P. HAZARD, op. cit., p. 235. (2) Giorn: ital., 1804, 4 luglio, n. 80, p. 323-324, Scrittori clas sici italiani di economia politica. 1 223 nello stesso tempo per la incomprensione degli italiani. Parlando d’economia trova modo di ricordare un pio niere di questa scienza e di richiamarvi l'attenzione na zionale, Giammaria Ortez. « Chi era questo Giammaria Ortez? Ecco una domanda che tutti gl'italiani fanno, e che intanto farebbe torto a tutti gl'italiani se un uo mo di tanto merito quanto Ortez, non avesse voluto egli stesso rimanersene ignoto, non sapremmo dir se per mo destia o per orgoglio; modestia sempre lodevole, orgoglio spesso nobile in un secolo corrotto, ma tanto l'una quanto l'altro eccedenti quei limiti tra quali si contiene la virtù » (1 ). In questa difesa del nome italico il molisano muove contro tutti gli stranieri che a lui ingiustamente s’oppon gono e divengono dispregiatori delle glorie nostre. Recen sendo infatti nel giornale un opuscolo di Vincenzo Monti, Del cavallo alato d'Arsinoe, nel quale il poeta si scaglia contro Salvatore De Coureil, che con gallica fatuità aveva osato menomare glorie purissime d'Italia, il Cuoco lo loda assai di ciò. « Noi non entriamo in questa disputa.... Ma il sig. De Coureil chiama Parini cattivo poeta; Alfieri, se non mediocre, almeno non degno di tante lodi quante gliene dànno gli italiani sol perchè non hanno altri tra gici; ecc. ecc.... Haec non sana esse, non sanus juvet Ore stes » (2 ). (1 ) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 573: Economisti italiani. (2) Giorn. ital., 1804, 24 novembre, n. 141, p. 574: Il cavallo alato di drsinoe di V. MONTI. Nè la tutela vigile che il Cuoco fa del buon nome italico s’ar resta qui: allorquando « un Lalande dice con pueril sangue freddo, che l'Italia non ha oggi un solo (un solo? ) uomo di merito»; allorquando il tragico -comico, drammatico -sentimen tale e memorioso Kotzebue tratta tutti gl'italiani da ignoranti, da incolti e quasi da canaglia » (Giorn. ital., 1805, 18 agosto, Sup plemento al n. 98, pp. 577-8, Necrologia ), egli è là, e s'appa lesa bellicoso difensore d'italianità. Recensisce un opuscolo di Luigi Bossi, in cui questi vendica « l'onore italico trattato con poca civiltà dal sig. Akerblad », egli pur sempre ha dinanzi a sè un alto fine civile: la difesa delle nostre intangibili glorie 224 Da questa rapida scorsa attraverso il Giornale italiano appare chiara la posizione di Vincenzo. « Noi italiani ab biamo un maggior numero di uomini grandi che non le altre nazioni », ma noi non li conosciamo neppure per la nostra apatia: « longa urgentur nocte, carent quia vate sacro » (1 ). La pianta uomo da noi cresce florida, ma gli ' italiani non la coltivano; e, se vicendevolmente non si ignorano, gli italiani si disconoscono. « Dotati gl' italiani dalla natura di grandissimo ed acutissimo ingegno, non mancano di cognizioni ed osservazioni, e nell'angolo più incolto si ritrova talora un uomo il quale vale per dieci accademici. Che pro? Le sue osservazioni, le cognizioni sue vivono una brevissima vita, ristretta tra i confini di una picciola terra e muoiono con lui. Gli italiani sono grandi, ma l'Italia rimane picciola » (2 ). E così gli stra nieri si avvantaggiano su noi: scoperte che furon fatte da italiani, poi vengon ripresentate come novità francesi o inglesi, e magari da noi ammirate, da noi che forse le avevamo vilipese e trascurate. E nel rilevare ciò Cuoco non esita a discendere a problemi pratici, per dimostrare, per esempio, come un ramo d'industria, la pastorizia « tanto utile » e largamente sfruttata all'estero, sia stata esercitata tecnicamente per la prima volta da un italiano, il Dandolo, il quale poi l'ha diffusa con grande dottrina e ripetuta esperienza (3 ); come, ancora, certe pratiche agricole generalizzate in Inghilterra o altrove, siano po steriori d’un buon secolo a ricognizioni nostre, del tutto (Giorn. ital., 1805, 22 luglio, n. 87, p. 470: A proposito della « Lettre » di L. Bossi allo SCHLEGEL ). Sovra Lalande, Kotzebue e Akerblad vedi G. Cogo, op. cit., p. 89-90, ove di essi si parla esaurientemente, dando biblio grafia e notizie. (1 ) Giorn. ital., 1804, 28 marzo, n. 38, p. 152: Scrittori italiani di economia politica. (2 ) Giorn. ital., 1804, 19 novembre, n. 139, p. 566: Biblioteca di campagna, ecc. (3) Giorn. ital., 1805, 25 febbraio, n. 24, p. 96: Del governo delle pecore spagnole e italiane, ecc., saggio di VINCENZO Dan. DOLO: sovra il Dandolo vedi G. Cogo, op. cit., p. 88. 225 nostre secondo il giudizio degli stessi stranieri (1 ); come, infine, addirittura pretese scoperte fisiche intorno a cui inglesi e galli si disputano il primato siano scoperte, ri trovati di un filosofo il cui nome va per la maggiore, nientemeno di Giambattista Vico (2 ). Tutte queste osservazioni rispondono ai mezzi, con cui il Cuoco si propone di raggiungere il suo fine: la formazione della coscienza nazionale e dello spirito pubblico. Bisogna cominciare a misurarci con gli stranieri, ond'essi così ci p. 87. (1 ) Giorn. ital., 1805, 31 ottobre, 2, 4 novembre; n. 148, 150, 152; p. 874, pp. 882, p. 889-90: Giudizio sopra tre istituzioni agrarie. A proposito di questo articolo vedi G. Cogo, op. cit., (2 ) « Abbiamo parlato della scoperta fatta da un inglese della virtù che hauna sfera magnetica nuotante nel mercurio di rivolgersi intorno al proprio asse, e d'indicare così la la titudine e la longitudine. Ora i francesi disputano agli in glesi l'onor della scoperta, e pretendono che questo fenomeno trovasi descritto nelle Efemeridi geografiche di Busch, 1803. È pur graziosa cosa veder altri popoli disputarsi la gloria di ciò che è italiano. Nella Vita che Vico ha scritto di sè stesso (e la scriveva circa il 1730, quasi un secolo prima di Busch e del l'inglese ), quest'uomo parla di una nuova teoria che egli avea imaginata per ispiegar il fenomeno della calamita, e da questa sua nuovateoria trae la conseguenza che la calamita non solo si dirige al polo, ma anche al zenit, onde vien poi la rotazione intorno al proprio asse, l' imitazione, diciam così, del giro della terra, ecc. Ķico conchiude dicendo che questa nuova proprietà si sarebbe osservata tosto che si fossero fatte dell'esperienze, in modo che la calamita avesse potuto svilupparla. Non parliamo della ragione che mosse Vico a far questa congettura: essa era figlia di una ipotesi forse falsa. E qual altra ragione può aver altro fondamento che un'ipotesi, o qual altra ipotesi può dirsi vera? Del resto Vico proponeva un'esperienza: dovea farsi e non si fece. Ma già da due secoli l'Italia non mancava di sommi ngegni, perchè questi li producono il suolo ed il cielo: però l'italiani più non navigavano, più non commerciavano; i overni non si curavano di nulla ed i privati curavan solo lo studio delle leggi o della medicina, dal quale speravan ric chezza, quello della teologia, che li promoveva ad un canoni cato, e qualche sonetto, unico mezzo che un uomo d'ingegno avea per vedersi aprire la casa d'un grande... ». (Giorn. it., 1804, 6 'ottobre, n. 120, p. 489, Senza titolo: vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 244. 15 appariranno sempre meno grandi di quello che presu mono di essere, e noi appariremo sempre più grandi di quel che noi stessi non crediamo. Se essi poi di fatto « sono oggi più grandi di noi »; « non importa: appariranno sem pre tanto meno grandi quanto più ci saranno vicini, e perderanno quella riverenza che suole aversi per le cose lontane » (1 ). Ma in quest'esaltazione dell'italianità l'autore del Sag gio storico non è cieco, anzi, laddove vede una deficienza, la rileva, la rileva, direi, con crudeltà e freddo sguardo d'anatomista. Gli italiani, per esempio, hanno rinvenuto quella filosofia delle lingue che è una scienza tutta nostra, ma i piccoli nipoti, i discendenti di quel Vico, che in essa tant’orma stampò, non che curarla, l'hanno abbando nata (2 ): gli italiani hanno creato i più splendidi melo drammi e libretti, che si conoscano, orbene, oggi essi stessi non sono capaci di darci nulla più di buono, e la deca denza del libretto porta seco la decadenza della musica (3 ): gli italiani un dì maestri nella difficile arte della sacra eloquenza, oggi sono inferiori agli stranieri che da noi hanno appreso (4 ). Questa posizione critica, che tanto distingue l'italiani smo del Cuoco da quello del Benincasa o del Lomonaco, si rivela anche nel terzo mezzo dal molisano adottato per creare un sentimento unitario: il ragionar di frequente delle cose nostre. « Delle cose nostre o non ne abbiamo parlato, o ne abbiam parlato con insensato disprezzo e con più insensata lode; cose le quali, sebbene opposte, pure per la natura dello spirito umano, che oscilla sempre tra gli estremi, non sono inconciliabili tra loro ». Delle cose nostre occorre invece ragionare obiettivamente, senza (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 5. (2 ) Giorn. ital., 1804, 25 febbraio, n. 24: Sullo studio delle lingue (ristampato in Scritti vari, v. I, p. 78 e sgg., col titolo G. B. Vico e lo studio delle lingue come documenti storici). (3 ) Giorn. ital., 1804, 8 ottobre, n. 121, p. 493: Spettacoli. (4 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (ristam pato in Scritti pedagogici, pp. 16-22; ed ora in Scritti vari, v. I, pp. 89-92, col titolo di Eloquenza ecclesiastica ). 227 accenderci troppo, con scienza e ragione, e allora saremo davvero illuminati, e allora troveremo « mille volte motivi di renderci migliori e non mai di crederci pessimi » (1 ). A questi princípi superiori il nostro uniforma l'analisi, che, di volta in volta, fa dei più importanti fenomeni del tempo. Recensendo, per esempio, un libro dell'avv. An tonio Corbetta sulla malavita, (2 ) ritiene che tra le altre cause, che questa alimentano, la più importante și debba ritrovare nell'educazione insufficiente. « Noi non abbiamo costume ». « Noi non abbiamo educazione fisica ». « Noi non abbiamo educazione dello spirito. I figli del popolo non imparan da fanciulli nulla di ciò che.... dovrebbero sapere quando sono adulti». Ecco come Cuoco getta rapi damente la luce sul fenomeno, e dal fenomeno risale alle cause, anzi alla causa per eccellenza, più remota, ma più vera. Provvedimenti di sicurezza? Ma questi sono insuf ficienti per eliminare il male, una volta note le cause de terminanti. Se volete estirpare la delinquenza, consiglia Vincenzo, i mezzi non sono la reazione e il carcere, ma le istituzioni sociali con una intensa opera di pedagogia preventiva. Che abbiamo fatto, si domanda, in questo campo? Nulla. Ecco come un problema giuridico diviene un problema di natura superiore, pedagogico, anzi filosofico: l'educa zione del popolo, di cui il Cuoco è il più strenuo soste nitore, e che egli pone sovra basi nuove e geniali. Ma questo problema, che poi è il fulcro del pensiero del mo lisano, il problema insomma per eccellenza, noi esamine remo più a lungo, quando verremo a parlare del Rap porto e Progetto di decreto per l'ordinamento della pubblica istruzione nel regno di Napoli. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 6. (2) Giorn. it., 1804, 20 agosto, n. 100, p. 410: Osservazioni di un ex giudice, ecc.  L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”, nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”,  mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso: creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in Italia” nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice Cuoco, in una lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria, quell’amor della milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di Cuoco perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente l'ulteriore valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di questo scopo che Cuoco persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del “Platone in Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che Cuoco quasi non se ne accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un viaggio culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il suo scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto, Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente o indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco, in Giornale storico della letteratura italiana. La lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. Cuoco, Saggio storico. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro. dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte, disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il viaggio. Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega ad ogni finalità. Il “Platone in Italia” di Cuoco anzi è nello stesso tempo viaggio ed epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo l'altra le varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può servire a qua lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può ricevere ogni specie d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il capriccio dello scultore. È difficile trovare una forma più libera, più pieghevole al vostro volere. Passate da una città in un'altra: nessun limite trovate al vostro pensiero. Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace; immaginare ogni specie d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da' costumi al l'anima; visitare, qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi, tutto solo, nella vostra stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere, a vostro grado, sogni, ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui, visioni e rac conti. Se voi vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone il tal contenuto, il tale ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un limite, che non procede dal mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che avete in mente. Ma se voi leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine, quello che interessa il Cuoco, e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi. Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio educativo nei vari reami della storia si sia al molisano altre volte presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri, cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, non sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2 ). Il fine dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina tutto, soffoca, purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il romanziere cerca di scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza fantastica e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che la sua storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico, perchè ritrovato da suo nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa, ergentesi sovra quel suolo ove un dì superba e Eraclea, manoscritto che è lacerato in varî punti e perciò lacunoso, onde varje situazioni, prima accennate, non sono poi svolte e tanto meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa nulla, poichè tutti sanno che il manoscritto non è se non nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè meno come l'anonimo ma [DÉ SANCTIS, Saggi critici, v. III, pag. 290 e seg. (2 ) Giorn. ital., 1804; 21, 23, 25 gennaio; n. 9, 10, 11, pp. 35-36, pp. 39-40, pp. 43-44: Varietà (vedi p. 163 del nostro lavoro ). (3) L. SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve unicamente al sopravvento di fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici. E gli stessi personaggi, che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li vediamo e non li vediamo. Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in atto, con i loro caratteri e con le loro passioni. A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro italiano -- appaiono, se mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi componimenti teatrali, che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue considerazioni. Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere un altro. Non sono essi quelli che contano, conta quel che dicono, o che per essi dice Cuoco. Da questa condizion di cose, è evidente, scaturisce un dissidio insanabile tra quello che è arte, e che perciò non ha nè può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo scopo stesso dichiarato dall'autore: il rammentare agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici, he furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano. Come il Vico nel “De antiquissima italorum sapiential” si pone dinanzi il fine di dimostrare qual filosofia si debba trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia che in antico dovè certo essere professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco si propone di dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che abitarono la nostra penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui civiltà fu persino anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima riceve luce, e non viceversa. E come chi voglia intendere il ”De antiquissima” non deve tenere nessun conto del suo titolo e del proemio, e di tutte le vane investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo Vico supporrebbero talune voci latine, per considerare unicamente in sè stessa questa dottrina che Cuoco pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro della mente e dell’anima italica, e che non è altro che una dottrina modernissima, quale puo essere costruita da esso Vico. Così chi voglia comprendere il vero spirito del “Platone in Italia” di Cuoco deve prescindere dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa ricostruzione archeologica, e considerarlo nella sua attualità. Esso non esprime i pensieri nè di Archita nè di Cleobolo, ma i pensieri del Cuoco, scrittore del Regno italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e non sulle esperienze di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno, per esempio, riferite tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla religione, sulle istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera dottrinale, filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera del Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici, e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa persino versi del Petrarca? [GENTILE, Studi vichiani, p. 95. (2 ) L. SETTEMBRINI, In una lettera che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così, passando di pensiero in pensiero e dimonte in monte, spesso sopraggiunge la sera; e, mentre par che tutta la natura dorma, solo il mio cuore veglia, innalzandosi col pensiero fino a quegli astri eternamente lucenti che [ E chi è quel Platone, che non ignora i princípi della nazionalità e con Archita disputa di filosofia moderna! La contaminazione è troppo evidente, e la filosofia pitagorica e platonica si mesce in uno strano viluppo con quella vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam detto una deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza filosofica del Platone in Italia. È questo un'opera d'arte? Un lavoro filosofico? Uno scritto politico? Nulla di tutto ciò, e pure tutto ciò misto in una unità singolare. Non scritto storico, perchè, a parte il valore molto discutibile del suo metodo, che egli si propone di ragionare e giustificare più tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l'incertezza del pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo preoccupato da fini estrinseci alla storia, artistici ed educativi] non filosofia, perchè Cuoco non segue un indirizzo unico, ma si trova costretto dal l'imbastitura della narrazione a mescere quel che è patrimonio dell'antichità con quella vigile coscienza tutta moderna e vichiana della spiritualità del reale. Non opera d'arte per ragioni sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta pacatezza della fantasia, che sola può generare creature vive. L'arte «non c'è principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco non si dimentica abbastanza in questa visione confortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia grande per virtù private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E corre a ogni po' col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente, piccola, inferma, senza spirito pubblico, senza amor di grandezza, senza orgoglio di nazione, senza forze vive: e ondeggia tra la statua brillano sul mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo. Di là si dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno e rimarranno unite per sempre! [G. GENTILE, Studi vichiani, p. 375. 235 che avrebbe da animare, e sè stesso che egli quasi non crede da tanto; e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte, ma il lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in cui realmente l'animo si placa in una commossa visione d'amore, o in un paesaggio italico, ricco di tinte forti calde sfumanti (1 ); poi c'è una sempre vigile volontà, tesa in un fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori dall'autore, ma pur sempre in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto nazionalismo. C'è in somma una matura attività dello spirito, che, sia che [Per dare un esempio dell'arte del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano, che già al RUGGIERI apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri sera sedevamo in quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il sito più delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più forti i sensi del cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera, forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava; ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li rial zava, quasi dolendole di non averli incontrati.... Vedi quel l'arboscello di cotogno? — mi disse (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello? Quanta verità è in quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce tutti i teneri rami!... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io tu non li hai detti tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al soffio del vento di Tra cia, divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò e le vossi.... Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so; so che tacqui, mi levai e ritornai in casa, se guendola sempre un passo indietro, senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi le antiche istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e indirettamente dica della rivoluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone, tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza, con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo. Noi dimentichiamo l'artista mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un non perituro insegnamento. Cuoco parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto di vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio non parla ai suoi sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo questa posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti già precedentemente esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma, se guardiamo l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni non appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice il Cuoco, di conservare lo spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga, spesso do lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non è una novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi sia stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che per il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della quale civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero. L'opinione, sia essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini greche del pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per cui l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi, vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni filosofiche del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a Cleobolo, “ciò che dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne' tempi antichissimi l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi e per commercio. Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però facilmente altri che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso dirti io: che allora tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro imperio chiamavasi etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai antica e sul suo vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa, l'altra è in isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle innegabili im migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim. Pitagora, che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una sintesi concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella natura vi sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è alterata, i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi fiumi che prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così nella storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e modificato organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo a Platone, riferendo un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un tempo tutta l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco. Grandi e per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo d'isola, cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco; l'altro, dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di questi etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de' vostri iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli etrusci opra rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e favole coprono le memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci estendevano il loro commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte le isole che sono nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla Grecia. Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era troppo grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario, onde esso avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato a render forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha ritenuto il proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello della città principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”. Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio, nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte delle città. Perciò l'Etruria, o Italia, si sfasciò per legge naturale di cose. Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro impero ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le varie città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città. Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili. Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è se non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran giornate alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano. Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non gl’ellenici, che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri degl’italiani in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però ancor si conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo primato italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco, fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona, riempiendo di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani che primi danno opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale della loro filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli italiani, in Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie. Invece, gl'italiani, potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace, fanno delle scoperte ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni che versano sulla quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica, nella musica; ed hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi tutte quelle altre che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e delle milizie in Italia si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai tempi di Platone gl’italici mantengono indiscussa la loro superiorità. La guerra presso gl’elleni ancora è duello, scienza rudimentale. Presso gl’italiani l’arte della guerra è savio urto di masse e organica distribuzione di manipoli. La stessa legge, che regola la convivenza nella penisola, e originaria e nazionale, frutto di una intima esperienza sociale, e perciò nel loro complesso immuni da contaminazioni eterogenee. Le romane XII tavole quindi non sono mai derivate, come alcune storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla poteva dare a un popolo, come il romano, discendente da popoli dell’ateniese più antichi. Vedete dunque, dice Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una parte delle vostre leggi è più antica della città vostra. Un'altra è sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver imitate le leggi d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei re, le quali dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon Servio Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra queste. Tali sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee del popolo, il diritto di giudicar della vita di un cittadino, e che so io! Queste dunque già esistevano in Roma; ed e superfluo correr tanti stadi e valicare un mare tempestosissimo per prenderle da un popolo che non le ha. Tre quarti dunque del vostro diritto non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane una quarta parte, ed è quella appunto nella quale può aver luogo l’imitazione, perchè può stare, senza sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla patria potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma queste cose sono dalle vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve li abbian spediti per imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano fare. Passando nel campo delle arti belle, tra gl’elleni la poesia drammatica è meno antica che tra gl'italiani. Ben poche olimpiadi, dice un comico italiano, Alesside, a Platone e Cleobolo, contate dalla morte di Tespi e di Frinico, padri della vostra tragedia. Quando il siciliano Epicarmo si ha già meritato quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un dialogo goffo e villano, che tutta ancor oliva la rusticità del villaggio ove era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra noi era già adulta. I poemi omerici stessi nel loro nucleo fondamentale sono stati elaborati in Italia, poichè di favole omeriche gl’italiani ne hanno più degl’elleni, e quelle elleniche cominciano ove le italiche finiscono. In tutto ciò noi non possiamo non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad ogni costo quel che il Cuoco a priori afferma, l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha dinanzi, vale a fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e Cleobolo iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in dissoluzione. I vari popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche. Non si sentono fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni, lotte sono frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza. Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla forza delle acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora torreggia intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il rimanente dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi, antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola gente, un nome unico: ‘Italia.’ Pure, se tu osservi attentamente e con costanza, ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello.  È la gran fede del Cuoco. Da questa unità o da questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. Cuoco però ha fede che questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora volea far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli e la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E l'energia di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente difender la patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di barbari a tutti coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria, e chiama poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua, non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli stranieri. Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete agl’elleni. Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate guerra, è sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste arrossire. Sia stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze, ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva del problema unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A questa meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa venderla. Ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario istruir il popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le campagne: spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera, cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde il Cuoco o Archita per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città, perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di cittadini. La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario perciò ai fini dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di forze distinte che è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la subordinazione. Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti. Ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere la loro stima. Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi. Tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare tutto ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile o più utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe farne quell'uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in cui la sua mente si acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi non gli direte una cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i filosofi che credono opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a contatto con i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura del dotto filosofo e del popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è tutto senso e fantasia. Il popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore che mente, più sensi che ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello stesso linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo cose e massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi. Se è vero che gl’esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi possono sembrare inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli per i quali furono immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con mezzi diversi di quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza: la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi, gl’errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per convincerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli, prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo solo se l'hanno utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono implicite nel saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta. Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se non si vuole che essa cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume sono i principali oggetti di tutta la scienza politica. La prima risponde all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se condi invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del vivere, invece di evitare il male, spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca. La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelligenza è immutabile. Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran parte composti; e quindi è che il costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge. È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango di cui siamo formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di quell'altra che Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra i funesti esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la mente delle sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de ' popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in tal modo il buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale, non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde, ha rotto miseramente il suo legno tra gli scogli.  La legge però resterà sempre un astratto, se gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore, anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî » dice il Cuoco con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità. Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio, s'attua l'ar monia immanente nelle cose. « Ora, ordinate le leggi di una città, per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone leggi. Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta dal Cuoco in poche parole che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello che non è affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti, perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle opere loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico, cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi, religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il bisogno della religione per il Cuoco non si basa tanto su ragioni ideali quanto su ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione, lasciando intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi la religione può moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e costumi, Stato e Chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione, che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile allo Stato » (1 ). Ora concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e dei poveri, dei savi e degli stolti, il Cuoco riguarda la vita pubblica come una loro armonizzazione continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a priori savio, ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi un'educazione superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano negli Stati e perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di censo, sono, per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al reggimento civile, mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno della cosa statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar monia di queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza audace delle classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri difensori dei loro diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti, preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu la debolezza dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle altre, in cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi diritti, ebbero sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla sapienza, e poterono durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È nell'ordine eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed hanno vita felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi vengono tra loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia il Cuoco. concepisce la lotta di classe non solo come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti della legge per giungere ad un buono e durevole reggimento politico, ma come necessità di vita: e qui è un punto fermo della sua dottrina politica, che nel suo saggio storico non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in Italia,” si rivela nella sua luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la plebe, tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di Roma, di Atene, di Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita: ivi un giogo di ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo e, con esse, il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi imprese. Al cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che invidierebbe, se son tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto quanto dura la disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi diresti fatale, il quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema ignoranza ed op pressione, e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co stumi, di idee. Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto, posseggon tutto. Se le cose si rima nessero sempre così, la città sarebbe sempre barbara, cioè sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco a poco, ed in modo che non se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna: l'uno e l'altro ec cesso porta seco o pericolosa sedizione o languore più funesto della sedizione istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e che abbia sempre nuovi bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua prosperità. Guai a quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma guai a quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con gratitudine, e non cessi mai di sperare » (1 ). Da queste considerazioni il molisano trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte plicità non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur necessaria per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui convergere forma la felicità dello Stato. La vita di questo perciò è varietà, e non può essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi un'utopia dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno sempre i pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e molti scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi si diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei. Allorquando la plebe avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora, « dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto. Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò scaturisce un'altra conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi, pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi, ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello stato. I migliori ordini pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria. Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato, equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissension. Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed ardito, e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un uomo il quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono quelle che fanno più grandi cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le pro ponga nè chi le esegua. Soltanto attraverso questa coscienza politica dei diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel pensiero del Cuoco: fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole, così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti, d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal l'interno all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre nociva e deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla religione unica e dalla legge unica. Il primo effetto della filosofia, dice il Cuoco, è quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di distrug gersi, ma di difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè, unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce il Cuoco, è la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che Platone e Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo Platone e Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto dire quel che Vincenzo pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il nostro spirito critico le riferisca all'autore del romanzo, non possono non commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una prima età, scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e perciò s ' ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno guerra, o con le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza e questa guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da questa vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo un'irresistibile ten denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna di esse ama aver le altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire la servitù del genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra, il miglior consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città il numero de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la quale la virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo antico caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo Cuoco « che la natura, colle diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni; non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola?  Da ciò scaturisce la necessità della conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza, Provvidenza che per il Cuoco, come del resto per Giambattista Vico, è nell'immanenza della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità delle parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia, intuisce Platone, un solo popolo sarà di ciò capace, il romano, che sovra la fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del mez zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo. Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto tutto il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del sangue del genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro indocile razza. Grande sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo lasciare nel passato inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più, ma trasportare nel presente del Cuoco, cioè nel presente del 1806, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in un' Italia scissa e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come quelle napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella nostra vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione, conquista prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario mondo dei commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi, inerte grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia, combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro, la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento: ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia, a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo parallelismo fu prima accennato dal Gentile (2 ), ma poi sbozzato da un francese, acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo frequentemente cennato, Paul Hazard (3 ). ac (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 386, (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 387. (3 ) P. HAZARD, op. cit., p. 246. Anche P. ROMANO, op. cit., p. 5 raffronta il Cuoco e il Gioberti e dice che il “Platone in Italia” è la preparazione del Primato morale e civile degli Italiani. Il principio genetico dei due libri è lo stesso: una na zione non può esplicare le forze vere, che sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza d'avere queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi dispiegare nella storia: perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla concreta realtà, è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il Primato giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di purità religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; il Cuoco, pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze, espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana, nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la volontà di Stato realmente Stato, Vincenzo Cuoco si lega ad un altro grande, Mazzini, tanto diverso da Gioberti, ma pur con questi entusiasta caldo nella visione del futuro popolo dell'Italia re denta. CAPITOLO VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. - I tre caratteri di una educazione nazionale: universalità, pubblicità, uniformità. - Tre gradi in una completa educazione: scuola elementare, media, universitaria. - Morale e religione nella scuola. - Educazione filosofica. Quanto sopra abbiamo detto segna ben precisa la po sizione di Vincenzo Cuoco come politico e pedagogo nel Regno italico. Il Platone e gli scritti del Giornale italiano sono i do cumenti luminosi del periodo milanese della vita del l'autore, e basterebbero a dargli una gloria non dubbia nelle lettere del nostro paese, confortata anche da una amicizia intellettuale, che egli godette con uomini come il Monti e il Manzoni (1 ). Con il 1806, ritornati i francesi oramai a Napoli, Vin cenzo pur esso riede in patria, preceduto da una vasta notorietà e annunciato da missive ufficiali del governo di Milano per quello meridionale. È l'ultimo tratto della nobile vita del molisano, che, attraverso una fiera ma (1 ) B. LABANCA, op. cit., p. 409; N. RUGGIERI, op. cit., p. 48; B. CROCE, La rivoluzione napoletana, p. 172; G. GEN TILE, op. cit., p. 389. 261 lattia di nervi e di mente, si concluderà il 13 dicembre 1823 con la morte, tratto di vita, che è pur ricco di atti vità pubblica, per cui il nostro attinge cariche supreme (1 ), nonchè di un'opera dottrinale e pratica nello stesso tempo (2 ), il Rapporto e il Progetto di decreto per l'ordi namento della pubblica istruzione nel Regno di Napoli, che di per sé sola basterebbe ad assicurargli un posto eminente tra i pedagogisti dell'epoca, Rapporto, che, seb bene tragga « occasione da un incarico speciale.... agli inizi del regno murattiano » non è « il prodotto dell’oc casione, poichè come vedremo, risponde nelle linee prin cipali, a idee profondamente maturate dal Cuoco in tutta (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 390. (2 ) Oltre il Rapporto il Cuoco lavorò in vari campi dello sci bile, e della sua attività sono documento varie pagine raccolte nel secondo volume degli Scritti vari. Del Rapporto e del Pro getto di decreto esistono numerose edizioni: una prima, senza data e senza frontespizio, fatta a spese del governo prima del 10 ottobre 1809 per tenere il luogo del manoscritto nelle distri buzioni che del Rapporto e del Progetto si fece al re, ai mini stri e ad altre autorità, e quindi non pubblica; una seconda, che dovea essere il primo volume delle Opere di V. Cuoco, raccolta iniziata nel 1848 a speso di Luisa de Conciliis, nipote del gran molisano, e naturalmente non venuta mai a compi mento, edizione che porta il titolo: Progetto di decreto per l'or dinamento della pubblica istruzione seguito da un Rapporto ra gionato per V. Cuoco (Napoli, Migliaccio, 1848); una terza infine, che uscì alla luce nel primo tomo della Collezione delle leggi, de' decreti e di altri atti riguardanti la Pubblica Istruzione promulgati nel già Reame di Napoli dall'anno 1806 in poi (Na poli, Fibreno, 1861). Sovra queste edizioni, tutte e tre scor rette, il Gentile trasse la sua edizione critica del Rapporto e del Progetto, corredata di documenti e note bio -bibliografiche illustrate, che inserì negli Scritti pedagogici inediti o rari (pa gine 49-276 ). I criteri critici di collazione delle tre suddette edizioni, seguìti dal Gentile, non furono dismessi da N. Cortese e da F. Nicolini, che dovettero far posto sia al Rapporto che al Progetto negli Scritti vari (v. II, pp. 3-161 ), correggendo ta lune sviste e supplendo in talune omissioni il loro illustre pre decessore. Nonostante che gli Scritti vari abbiano visto la luce, allorquando questo lavoro era già compiuto, le citazioni sono state su di essi rivedute definitivamente anche per la parte pedagogica. 262 ī la sua carriera di scrittore e di uomo politico, in rela zione con le questioni fondamentali del tempo suo » (1 ). Evitando di entrare nell'analisi dei fatti, che al Rap porto precedettero e che perciò lo determinarono, perchè oramai sufficienza noti, vengo a studiare le idee che in esso si agitano ed i loro addentellati con tutto il pen siero cuochiano. L'istruzione è la chiave di volta d'ogni sistema po litico. E, come ogni sistema politico mira al benessere sociale, in quanto questo è realizzato eticamente dallo Stato, così chi questo benessere vuol attuato, deve ope rare col mezzo dell'istruzione e della scuola. Il Cuoco vuol rendere grande uno indipendente il popolo italiano, dan dogli veramente il modo di formarsi una coscienza na zionale. Ma praticamente come? Con la scuola. « La sola istruzione, risponde, può far diventare volontà ciò che è dovere. La sola istruzione può renderci l'antica gran dezza e l'antica gloria » (2 ). Il termine di riferimento di questa istruzione è pur sempre il popolo, nel di cui spi rito dovranno essere alimentate le più nobili idealità pub bliche e civili, alimentate da un lato dall'opera giorna listica, dall'altro dalla scuola. Per comprendere questo punto occorre riferirsi, aver presenti le condizioni del popolo e della scuola ne' primi decenni del secolo XIX. Di chi era la scuola? Non certo del popolo, il quale, assente in tutte le manifestazioni della vita, era assente anche nella scuola. Di chi dunque? Di pochi fortunati, dotati dalla sorte dei mezzi necessari, onde formarsi quel che si suol dire una cultura: i nobili, i possidenti delle campagne, i borghesi e i commercianti nelle grandi città. La rivoluzione ha il grande merito di avere richiamato l'attenzione dei governanti sulle masse popolaresche, ha il merito di aver compreso che solo queste sono il nucleo dello Stato, e che cointeressarle alla cosa pubblica equi vale eternare lo Stato stesso. Ma la rivoluzione non po (1 ) G. GENTILE, op. cit., p. 336 e sg. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 3. 263 teva dare nel campo educativo, e in generale formativo, buoni risultati, dato il suo astrattismo e la sua filosofia, troppo razionalista, lontana com'era dai bisogni e dagli interessi delle classi basse. Il Cuoco di contro accetta il postulato rivoluzionario, per cui dal popolo non si pre scinde, ma lo rinnova col suo concreto senso storico della realtà: bisogna, dice, non elevare il popolo alle nostre supreme idee di libertà, di virtù, di moralità, che, in quanto assolute, esso non comprenderà, ma noi discen dere a lui, entrare nel suo spirito, nel suo sistema men tale, e, attraverso un progresso graduale e lento, mostrar gli l'utilità, oltre che la necessità ideale, della libertà, della virtù, della moralità. Questo compito, essenzial mente pratico, si può assolvere con la scuola, che prende l'uomo fanciullo, e lo conduce all'adolescenza, e magari alla gioventù, maturandone i sentimenti con un processo intimo ed interiore, non mai estrinseco e forzato. Sol tanto così il popolo entrerà nello Stato, rafforzandolo e potenziandolo. Sentite come ragiona il Cuoco. « Le rivoluzioni » scrive « sogliono svelare il gran segreto della forza di quel po polo, che ne' tempi di tranquillità suol esser la parte pas siva di uno Stato. La rivoluzione francese lo ha messo in istato di produrre grandi beni e grandi mali: la sua condizione è cangiata in gran parte degli Stati dell'Eu ropa. Chiamarlo a parte della difesa dello Stato e delle leggi senza istruirlo è lo stesso che renderlo pericoloso, facendogli fare ciò che non sa fare. Volerlo ritenere inu tile, qual era prima, è lo stesso che voler condannare lo Stato a perpetua debolezza esterna, a frequente disordine interno. Debolezza, perchè è sempre debole quello Stato che non è difeso da’ cittadini, e non sono cittadini co loro che occupano col loro corpo sette palmi di terra in una città, ma bensì coloro che contano tra i loro doveri l'amarla ed il difenderla. Disordine, perchè le leggi e le istituzioni politiche non hanno la loro garanzia se non nella volontà del maggior numero, e, se questo maggior numero non è istruito, o non ha volontà o spesso ne ha una contraria alla legge.... Tutto in Europa mostra la 264 necessità di dare al popolo, e specialmente alla classe degli artefici e degli agricoltori, una nuova educazione ed ispirargli l'amor della patria, delle armi, della gloria nazionale » (1 ). Indietro non si torna ! Avranno i conser vatori tutte le loro buone ragioni per fossilizzarsi in forme statali superate, ma essi non potranno mai negare al popolo, quello che a lui si deve: l'educazione, A coloro che obiettano che il popolo è un ammasso inemendabile di vizi e di passioni è facile rispondere. « E pure tra questo popolo noi viviamo; questo popolo forma la parte più grande della nostra patria, da cui di pende, vogliamo o non vogliamo, la nostra sussistenza e la difesa nostra; e noi abbiam core di dormir tran quilli, affidando la nostra sussistenza e la difesa nostra a colui che noi stessi reputiamo pieno di ogni vizio ed incapace d'ogni virtù? ». A coloro poi che dicono il popolo essere senza mente, o che ripetono il vecchio sofi sma aristotelico, esservi uomini nati a servire ed altri nati a governare, è pur facile controribattere. « Ebbene questo popolo nato a servire, questo popolo che non ha mente, è quello che tante volte vi fa tremare con quei delitti, ai quali lo spingono quella miseria, quell’ozio, quella roz zezza in cui, per mancanza di educazione, voi lo lasciate. Se la religione non avesse presa un poco di cura della educazione sua, qual sarebbe mai questo popolo? ». Oggi non si può tornare indietro: il bisogno dell'edu cazione è immanente, sentito da tutti, sovrani e sudditi, governanti e governati. « Non mai il bisogno dell'educa zione è stato maggiore. Tutti gli usi antichi, che tenevan luogo di precetti, vacillano: gli uomini, dopo i troppo vio lenti cangiamenti di ordini e d'idee, soglion cadere nel l'anarchia de'costumi, che è peggiore di quella delle leggi. Non mai vi è stato bisogno maggiore di educare quella (1 ) Giorn. ital., 1804; n. 61, 62, 75; 21, 23 maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-304: Educazione popolare (ri stampato in Scritti pedagogici, p. 23 e sgg.; ed ora in Scritti vari v. II, pp. 93-102 ). 265 parte della nazione che chiamasi popolo e diffonder l'istru zione ne' villaggi e nelle campagne ». Per queste sue considerazioni il Cuoco si ricollega al grande pedagogista prerivoluzionario, a Jean- Jacques Rousseau, il solo forse che primo sentì le vive pulsanti forze del popolo nuovo ed il bisogno di provvedere alla di lui istruzione, riferendosi alla sua natura e all'evolu zione delle sue facoltà (1 ). A chi noi daremo mai questo alto compito di creare degli uomini consapevoli del loro posto nella società ! La risposta del Cuoco non è dubbia. Dato il carattere etico -giuridico che egli attribuisce allo Stato, è ovvio che l'educazione debba essere impartita, o almeno control lata, dallo Stato. L'educazione mira a formare buoni cit tadini: è naturale dunque che lo Stato » volontà collet tiva, somma di volontà individuali, da essa non possa prescindere. « Posto questo bisogno nello Stato » osserva giustamente il Gentile « di consolidare sempre più le pro (1) Del resto il concetto di natura e quello d'educazione e di Stato nel Rousseau hanno un significato ben più profondo di quanto generalmente non si creda. Vedi a questo proposito il libro di G. DEL VECCHIO, Su la teoria del contratto sociale, Bologna, Zanichelli, 1906, p. 32. « È.... massima (del Rous seau ) che nella realtà si distingua ciò che è fattizio, ossia sopravvenuto per arbitrio ed arte dell'uomo, da ciò che è na turale, ossia fondato nell'essenza medesima della cosa. Questo ha valore di norma rispetto a quello. La natura è dunque per Rousseau il principio del dover essere, più ancora che quello dell'essere. Essa esprime la realtà in un senso filoso fico e non già fisico; rappresenta la sua ragione e non la sua contingenza ». Ma questa concezione della natura, propria del Rousseau, nel Cuoco viene integrata e corretta, come nota il GENTILE (Studi vichiani, p. 419), con la concezione storica dello spirito. « Ed è in verità non una contaminazione delle due filo sofie, ma la schietta pedagogia del Vico, che aveva più salda mente fondata (benchè con fortuna storica senza paragone minore) che non il Rousseau, il motivo di vero del suo natu ralismo: l'autonomia dello spirito ». A due distinte fonti oc corre ricondurre la pedagogia cuochiana, al Rousseau che gli dà vivo il senso dell'essenza prima d'ogni realtà, al Vico che gli dà la consapevole riduzione della stessa realtà allo spirito nella sua dialetticità. 266 prie basi nella coscienza nazionale, è evidente che l'istru zione, come pensavano i pedagogisti della Rivoluzione francese, e come prima aveva insegnato il Montesquieu per lo Stato democratico, è funzione di Stato. Poichè lo Stato si regge sulla coscienza nazionale, e questa si forma con l'istruzione pubblica, rinunziare a questa è per lo Stato un assurdo: sarebbe come rinunziare a sè stesso » (.1). Il compito educativo certo non si esaurisce nella scuola, ma questa trascende: l'ecclesiastico, il filosofo, il legi slatore tutti e tre mirano allo spirito e al suo sviluppo, ma la loro opera è di necessità insufficiente, se non è in tegrata dall'attività generale e pubblica dello Stato. Scuole di morale, laiche od ecclesiastiche, possono pur vivere, occorre però che lo Stato le controlli, e le adatti sempre meglio allo scopo, alla finalità che esso si pro pone, e le riconduca a questo, ove se ne allontanino. Sarà perfetta quella città, quello Stato, in cui il sa cerdote, il filosofo e il legislatore si saranno messi di ac cordo, e concorreranno ugualmente all'educazione del popolo. Stabilito il punto primo che l'educazione deve essere dello Stato, ancorchè sia educazione religiosa, fissiamo i suoi caratteri: essa deve essere in primo luogo univer sale, poi pubblica, infine uniforme. L'educazione deve essere universale. Il Cuoco concepi sce la vita da un punto di vista spiritualistico. Vita non è vegetazione o deambulazione, è coscienza della propria posizione nel mondo, perciò è innanzi tutto attività dello (1 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 408. Noto a questo propo sito come soltanto tenendo presente il concetto di Stato qual'è nel Rousseau, il Cuoco poteva giungere a concepire uno Stato educatore. « Quando il Rousseau parla (Vedi DEL VECCHIO, op. cit., p. 33) della « nature du corps politique », non intende con ciò di riferirsi alla guisa onde lo Stato si presenta nei fatti; ma alla ragione dell'essere suo ingenerale, all'esigenza suprema, cui esso ha da corrispondere.... La libertà e l'uguaglianza, fon date nell'essenza stessa dell'uomo, debbono aver nello Stato la loro assoluta sanzione ». E la libertà e l'uguaglianza bisogna intendere in un senso spirituale e non empirico, intimo e non estrinseco. 267 spirito. Lo spirito è qualcosa di inscindibilmente uni tario, onde l'educazione dev'essere inscindibilmente uni taria. Tutto, scienze ed arti, scienze fisico - naturali e scienze morali, debbono convergere ad un sol centro, lo spirito. I secoli barbari potranno dire « non esservi alcun rapporto tra le scienze e le arti » (1 ); i secoli di pro gresso, in quanto più hanno consapevolezza della realtà mirano ad unire le disiecta membra di quel che in astratto sarà questa o quella scienza a noi precostituita, ma che in concreto non è che una elaborazione dello spirito, una nostra formazione, e nello spirito attinge l'uni versale. Perciò, dice il Cuoco, « noi adopriamo la parola istruzione nel suo più ampio significato; ed in ciò, oltre d'imitare tutta l'Europa colta, abbiam la gloria di se guire gli esempi domestici. I nostri pittagorici, forse i più savi istruttori di tutta l'antichità, niuna parte della vita umana escludevano dalla pubblica istruzione » (2 ). L'educazione, in secondo luogo, deve essere pubblica. L'Italia è sempre stata una terra feracissima di ingegni, ricca di uomini grandi, ma costoro, maturatisi in am bienti apatici e morti alla cultura, hanno molto contri buito alla propria gloria, poco alla gloria dello Stato e al benessere della collettività. Poichè « la nazione non era istruita, essi fecero molto per la gloria loro, nulla o poco per l'utilità della patria; tra essi ed il popolo non eravi nè lingua intelligibile, nè mezzo alcuno di comunica zione » (3 ). Occorre quindi che lo Stato dia un'istruzione ai suoi cittadini, onde le loro forze non vadano disperse, ma convergano sempre più e meglio ad un fine unico,. il progresso civile. Ma il fatto che l'istruzione sia pubblica e statale si gnifica dunque la morte delle scuole private, specie in un paese come l'Italia ed in particolare Napoli, ove la scuola privata ha una storia nobilissima? No certo: le scuole private sussistano pure gestite da chiunque, ma (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. (3) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 4. 5. 268 lo Stato ha l'alto controllo a che i maestri siano degni e moralmente e culturalmente, a che la materia d'in segnamento sia comune a quella delle scuole pubbliche, a che non si propaghino per mezzo loro dottrine con trarie all'ordine pubblico e alla moralità media della società. Il fatto però che l'ente pubblico, cioè lo Stato, dia una educazione ai suoi cittadini non significa che tutti i cit tadini debbano divenire altrettanti dotti. Lo Stato non pud perseguire questo fine. Ricordiamo quel che il Cuoco dice nel Platone in Italia, laddove osserva che una città di soli savi non meriterebbe nemmeno il nome di città, perchè le mancherebbe ciò che solo tramuta una congre gazione d’uomini, in città, in Stato: « la vicendevole di pendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stra nieri » (1 ). Accanto al savio è necessaria la coesistenza della massa dei non savi, e in questa è poi necessaria una ulteriore differenziazione di funzioni, per cui l'agricoltore non sia calzolaio, il muratore non sia mugnaio. Coloro che si propongono un assoluto illimitato eleva mento intellettuale del popolo cadono nell'errore, poichè vogliono l'impossibile e il dannoso: l'impossibile, « per chè non si può giungere alla perfezione nelle scienze se non per la stessa via, per la quale vi si perviene in tutte le arti, cioè dividendo gli oggetti del lavoro ed occu pandosi di un solo; il che da un popolo intero non si può fare, poichè, per sapere, dovrebbe egli rinunciare ai mezzi di vivere »: il pernicioso, « perchè rimanendosi il popolo a mezza strada, avremmo una nazione di mezzo sapienti; ed un mezzo sapiente, diceva il Chesterfield, è unpazzo intero » (2 ). Da ciò consegue che l'istruzione, sebbene pubblica, non può essere uguale per tutti, e come nel paese vi deb bono essere i ricchi e i poveri, i conservatorie i filoneisti, (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 86. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 5. 269 così vi debbono essere i dotti e gli indotti, i più colti e i meno colti. Vi sarà perciò una istruzione per pochi, che diremo sublime o alta, una per molti, che diremo media o secondaria, una per tutti, che diremo elementare o pri maria. La prima è destinata al progresso delle scienze, la seconda ha per iscopo di diffondere i trovati dell'alta cultura nella vita commerciale industriale agricola a con tatto con il popolo, la terza di dare allo Stato fedeli sud diti, virtuosi e morali cittadini. Questa tripartizione della scuola rivela il gran senso pratico del nostro autore, a cui della vasta gamma della vita umana nulla sfugge e si perde. Ma la discriminazione non si ferma qui. Occorre che l'istruzione, che lo Stato impartisce alle donne, sia diversa da quella, che impar tisce agli uomini, e che per le donne stesse sianvi pure le tre forme o gradi di scuola sovra dette. L'istruzione alle donne? È questo un tema caro al Cuoco. Le donne, scrive nel Platone, hanno il grandioso compito di allevare figli per lo Stato, e di allevarli non nel senso comune, cioè di nutrirli, ma di istillare in essi i primi sensi della vita sociale, i primi germi, che poi nell'interiorità dello spirito si svilupperanno. Esse, che hanno un così alto compito, conviene che abbiano una adeguata preparazione. Infatti, scrive il Cuoco, « non può dare al figlio l'educazione di un cittadino colei che ha la condizione e la mente di una serva » (1. ). Perciò lo Stato si deve preoccupare dell'educazione femminile, e provvedervi in modo da non turbare l'ordine della natura e la sua essenza: educare le donne da donne, ed educarle secondo la diversa posizione sociale che nel mondo esse avranno: e « quando le donne saranno educate, sarà com piuta per metà l'educazione degli uomini » (2 ). Una questione subordinata è quella della gratuitità del l'istruzione. Deve essere questa gratuita per tutti? No. L'istruzione inferiore o primaria, appunto perchè ha i (1 ) V. Cuoco, Platone, v. I, p. 25. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 21. 270 caratteri della più vasta generalità, è offerta dallo Stato a tutti senza retribuzione alcuna, ma l'istruzione media e superiore, siccome risponde ad utilità non solo sociale, ma altresì particolare, deve essere pagata da chi ne usu fruisce, salvo sempre a fare condizioni di favore a chi, essendo sfornito di beni di fortuna, s'addimostri degno per altezza d'ingegno di essere mantenuto agli studi dallo Stato, che un giorno o l'altro con le opere sue glo rificherà. Infine, in terzo luogo, l'istruzione deve essere uni forme. Dopo quanto abbiamo detto l'uniformità dell'istru zione appare chiara: in ogni suo grado, inferiore medio e superiore, in ogni suo aspetto, maschile e femminile, l'istruzione deve essere uniforme, svolta con gli stessi programmi, con gli stessi metodi, con gli stessi libri. Il Cuoco non si nasconde i gravi difetti insiti nell'abuso d'un simile sistema: le scienze possono anche arrestarsi, poichè la discussione e il contrasto sono il vero e più efficace stimolo al progresso: si può generalizzare un abito di servilità verso il passato, che è quanto di più nocivo per la vita, che si sviluppa in un irrefrenabile superamento dell'antico nel nuovo. Perciò questa uniformità non si può intenderla in un senso assoluto, ma bensì relativo. Ognuno che insegna deve insegnare, previa autorizzazione dello Stato, ed in segnare sulla base di un programma -metodo anteceden temente presentato alle superiori autorità pubbliche. I corsi impartiti da privati non avranno effetto accade mico, se non in seguito ad un esame dinanzi ai docenti di Stato. Lo Stato inoltre esamina e giudica i libri di testo che andranno per le mani dei giovani. Certo questo sistema potrebbe portare con sè il più grave degli inconvenienti, lo staticizzarsi dell'insegnamento, il chiudersi in for mule, in programmi, in metodi, cioè in quanto di più astratto si possa immaginare. Per eliminare tutto ciò il Cuoco propone una direzione o ministero di tecnici, che aperto a tutti gl'influssi scientifici europei, nell'opera sua di controllo riconosca meriti e punisca abusi, ed 271 in ogni caso abbia di mira il progresso e lo sviluppo del l'attività spirituale (1). Posti questi princípi fondamentali, Vincenzo Cuoco abbozza un suo vero e proprio progetto di riforma sco lastica, particolareggiato e minuto, monumento insigne di sapienza pedagogica, in cui davvero noi sentiamo vi vere quella che è la scuola moderna. Noi non possiamo seguirlo fino alle ultime delucidazioni, ma ci proponiamo di astrarre dall'opera quei princípi generali, che più hanno relazione con l'assunto politico. Caratterizzando la scuola primaria il nostro scrittore dice che questa, oltre a dare le prime nozioni della lettura e della scrittura, mira a formare una morale, volendo significare che mira a formare una moralità media so ciale. È un punto importante. La morale è necessaria per gli aggregati umani, ed è necessaria in sè e nella sua uniformità. Possiamo anzi osservare che essa è un bi sogno dello spirito che la elabora e la pone. Questo pro cesso di formazione è un processo spontaneo. Lo Stato non può ignorarlo. O esso interviene e lo promuove, al lorquando prende i fanciulli nelle prime scuole e li porta giovinetti fino alle superiori, plasmando e riplasmando le loro coscienze, o esso inattivo assisterà a degli svi luppi spirituali, dai quali può anche ricevere danno. « È necessario che ai popoli si dia (una morale ]: altri. menti se la formeranno da loro » (2 ). Questo compito, il dare al popolo una morale, è af fidato alla scuola primaria, allorquando l'uomo è tenero ed atto a ricevere le più svariate nozioni e a compene trarle di tutto il proprio afflato spirituale. Se questa mo rale « la riserbate all'età adulta, quando già l'uomo ha sentito ed ha agito, voi gliela darete tardi; egli si tro verà di aversene già formata un'altra: siete sicuro che non sia diversa dalla vostra, e che, essendo diversa, vi riesca di distruggerla? » (3). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 14. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. (3 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 16. 272 La prima morale, quella dell'infanzia, è la più pro fonda. Il fanciullo la riceverà, quando il suo animo è ancora puro, in sublime stato d'innocenza, scevro di passioni conturbatrici, e non la dimenticherà mai più, poichè essa gli è divenuta abitudinaria, vale a dire con naturale al proprio esssere. E, se tutti i fanciulli saranno stati educati dallo Stato allo stesso modo, l'opinione dei singoli sarà coincidente con l'opinione universale. Qui si rivela un grande senso pratico. Non basta im porre la legge ai singoli, occorre sentirne la necessarietà od anche, ov'è possibile, l'utilità, perchè essa non resti un astratto, ma vibri davvero nella coscienza collettiva: e questo è il compito della morale. Lo Stato perciò di Cuoco non si preoccupa dell'istru zione letteraria soltanto, ma anche, e sopra tutto, del l'istruzione morale e politica. Dell'istruzione religiosa non si preoccupa « perchè appartiene ai di lei ministri » (1 ). Ma quest'affermazione non bisogna assumerla in senso rigido. Dato il sistema politico del Cuoco, per cui lo Stato è stato professionista e giurisdizionalista, è ovvio che lo Stato non può disinteressarsi di quell'educazione reli giosa, che, ancorchè si ponga fuori dalle mura delle aule scolastiche, mira agli spiriti, cioè agli uomini, che sono poi cittadini. La religione è un mirabile strumento d'educazione, an corchè non sia l'educazione stessa. Come può lo Stato ri manere indifferente dinanzi ad essa? « È necessario che la legge le dia la norma, perchè spetta alla legge, alla sola legge, il determinare qual debba essere la virtù del cittadino. È necessario che la filosofia le indichi i mezzi, perchè la filosofia è quella cui spetta conoscere il cuore e la mente umana e le vie per insinuarvi la virtù e la saviezza » (2 ). Ma d'altra parte la stessa educazione di Stato deve (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 12. (2 ) Giorn. ital., 1804, n. 61, 62, 75; 21, 29. maggio, 23 giugno; pp. 243-44, pp. 247-48, pp. 303-4: Educazione popolare (vedi p. 264 del presente lavoro ). 273 avere carattere religioso. Il Cuoco ha detto che la reli gione non s'insegnerà nelle scuole: va bene: ma l'in segnamento, ' specie il primario, non sarà efficace se non sarà circonfuso di quello spirito religioso, che parla alle anime semplici. Il dotto trova nell'assoluto etico il soddisfacimento delle sue esigenze di libertà; l ' indotto, il fanciullo hanno bisogno di quella morale rivelata ed oggettiva che è la religione. In un articolo del Giornale italiano il Cuoco, par lando di una scuola normale danese, atta a creare ottimi maestri, scrive che « il popolo deve esser istruito, ma non deve esser dotto: ad ottener ambedue questi fini, non vi è altro mezzo più efficace che dargli de' maestri egual mente lontani dall'ignoranza e dalla pedanteria; met terli in tutt'i punti dello Stato, onde sieno.in contatto col popolo, nè il popolo abbia bisogno di cercarli; rive stirli di un carattere che pel popolo è il più sacro, cioè del carattere religioso » (1 ). Quindi anche l'istruzione ele mentare, ancorchè laica e gestita e controllata dallo Stato, non può prescindere da quel carattere, che diremo in senso assai largo religioso, come quello che meglio risponde all'indole e alla natura del popolo, che è tutto senso e fantasia e poco ragione. Sovra questa base religiosa si potrà fondare una mo rale civica, poichè chi è buon credente in massima sarà buon cittadino, e sulla morale poi si assicurerà il rispetto alle leggi e allo Stato. Ma la base di tutto è la religione. E, siccome la pubblica autorità « si occupa dapertutto a fare sì che vi sieno istituzioni uniformi di quelle idee che più importa che sieno comuni e concordi, così dia una norma anche per le istruzioni che fanno i ministri dell'altare; le quali, se non sono concordi colle altre, sa ranno inutili; se sono discordi, diventeranno nocive ». Da tutto ciò una illazione. « Riuniamo (esse non si avreb bero dovuto separar giammai) le istruzioni della casa, (1 ) Giorn. ital., 1804, 29 ottobre, n. 130, p. 528-29: Utilità pubblica. 18 - F. BATTAGLIA. 274 del fòro, del tempio; tolgansi una volta quelle diversità di princípi, per cui ciò che la legge economica di una famiglia richiede è condannato dalla legge politica di tutta la città, e ciò che la patria impone è indifferente per la religione; facciam sì che costumi, leggi, religione non abbiano che un sol fine, che è quello di render i cit tadini più virtuosi e la patria più felice » (1 ). È la naturale logica conseguenza di quella visuale che il Cuoco ha dei rapporti tra Stato e Chiesa e del posto che egli attribuisce alla religione nella vita dello spirito, so luzione tirannica, se si vuole, ma altamente liberale, se si pensa alla natura dello Stato cuochiano, Stato etico, attuante una sua libera finalità superiore ad ogni parti colare transeunte ed assommante in sè tutte le varie ma nifestazioni della vita. Lo Stato del Cuoco ha molti punti di contatto con lo Stato del Fichte e dell' Hegel. « E ogni - volta » nota giustamente il Gentile « che si sente forte mente la sostanzialità etica, il valore ideale e morale dello Stato (il che avviene quando piuttosto si guarda all'idea di esso o a uno Stato futuro, che non quando si abbia sott'occhio un determinato governo, il quale di tanto è imperfetto a rappresentare realmente lo Stato, di quanto è inferiore alle idealità che nello Stato pure si agitano, senza raggiungere la forma giuridica ), così della religione come della filosofia, in quanto servono anch'esse come elementi riformatori della coscienza civile, si fa necessariamente uno strumento del fine politico » (2 ). Laddove l'educazione primaria deve mirare alla fan tasia e al senso, e perciò deve essere essenzialmente re ligiosa, l'educazione superiore deve essere filosofica, cioè mirare allo spirito nelle sue più elevate manifestazioni razionali. Le qualità proprie d'ogni vera educazione, in quanto spirito, l'unitarietà sopra tutte, si rivelano ora. « L'educazione ben diretta non ha tanto in mira d’in segnare una o due idee positive di più o di meno, quanto (1 ) Giorn. ital., 1804, 25 aprile, n. 50, p. 200: Varietà (vedi p. 226 del presente nostro lavoro ). (2 ) G. GENTILE, Studi vichiani, p. 416. 275 d'ispirare l'amore di una scienza e dare alla mente una attitudine maggiore a comprenderla. Quasi diremmo che non si tratta di formar un libro, ma un uomo: giacchè ad un libro rassomiglia un uomo meramente passivo, il quale tante idee tiene quante se gliene son date; mentre al contrario il carattere della mente è quella di esser at tiva, creatrice, capace di formare le sue idee, ordinarle, saperle insomma dominare in tutti i modi e signoreg giare » (1 ). Il concetto realistico della vecchia pedagogia è superato. Il maestro, infine, è tale in quanto è nello spirito del discente, in cui si compie quel processo, per cui la nozione divien vita, cioè atteggiamento spirituale e s’armonizza in un vasto tutto, la personalità. La scuola non è accademia, ma intima affermazione di coscienze formatesi gradualmente in un logico libero sviluppo. Tutto il vecchio macchinario formalistico deve essere bandito: il giovane deve essere posto a tu per tu con i grandi scrittori, poeti storici filosofi, senza il tramite di quei cimiteri di formule che sono le grammatiche, senza il tramite di quelle carceri di idee, che sono le retoriche e le poetiche: il giovane deve mirare al contenuto ideale delle cose, formarsi quel che si può dire estrinsecamente un metodo acquisitivo, ma che in sostanza null'altro è che una forma dello spirito inscindibile dal suo conte nuto. Questo stesso carattere unitario deve offrire l'istru zione superiore. Una differenziazione di facoltà o scuole speciali e di cattedre s ' impone per i fini professionali che si perseguono, ma « l'istruzione vera è quella che tutte le parti dello scibile ci presenta ben ordinate, tutte ce le addita e ci mette nello stato di poter da noi stessi trattenerci intorno a quella che più ci piace » (2 ). Messo dinanzi ai mezzi con cui si può progredire nello spirito, il giovane deve scegliere, perfezionarsi nel sapere, af fermarsi nella gara della vita. (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 25. (2) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 53. 276 Se ora l'istruzione media ed universitaria, come ho detto deve avere carattere filosofico, ne deriva una pro fonda trasformazione di tutto ciò che era per l' innanzi. Un esempio solo basterà per mostrarci le infinite conse guenze di questa nuova posizione. L'eloquenza per gli antichi null'altro era che uno strumento per il ben scri vere, e questo bene scrivere tutto si imperniava sovra il gioco delle grammatiche, delle retoriche, delle poe tiche. Ora, osserva il Cuoco, la filosofia s'è impadronita delle materie dell'eloquenza. Nè è a dire questa una usur pazione, ma una legittima rivendica di ciò che la filosofia già possedeva in antico, cioè con i Platoni e gli Aristo teli. La forza del dire, la perspicuità dello stile non di pendono da cause estranee a noi, come le norme più o meno buone apprese sui " libri scolastici, ma dalla ric chezza della nostra vita interiore, « dalla forza e dal nu mero delle idee presentate al nostro spirito » (1 ). Perciò quello che nella riforma del Cuoco serba il vecchio nome di eloquenza, diviene una vera filosofia del bello o este tica, che dir si voglia, come quella che direttamente mira allo spirito e alle sue manifestazioni fantastiche, cioè artistiche. Ne il Cuoco si arresta qui, ma seguendo la sua idea che la vera grammatica non possa essere se non nella vita del periodo, in quanto questo scaturisce dalla mente originario e fresco, vagheggia una grammatica universale e filosofica, che insegni il meccanismo di tutte le lingue sulla base della comune uniforme mente umana (2 ). La stessa filologia, come la stessa erudizione e lo stesso studio dei monumenti antichi, sia grafici che tecnici, « ha le sue idee astratte, ha la sua parte filosofica; perchè ha (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v p. 56.. II, (2 ) Qui più che mai si palesa quel concetto della natura, per cui nelle cose occorre distinguere quel che è fattizio accessorio da ciò che è essenziale ed originario, che il Cuoco attinge come abbiamo veduto dal Rousseau ed integra con una sicura intui. zione dello spirito in ogni suo aspetto o attività di vita, che de riva certamente dal Vico. 277 le sue regole universali applicabili ai fatti di tutte le na zioni. » (1 ). Bisogna uscire dallo studio del fatto in sè e per sè, sia esso un documento grafico o un rudere ar chitettonico, risalire allo spirito, all'idea che ha mosso un popolo o un individuo a crearlo. E come nello spi rito umano c'è un'essenzialità comune, dalle conclusioni particolari ad un popolo occorre risalire a conclusioni più vaste, a generalizzazioni più audaci, investenti il nu cleo della universalità, seguendo questi stessi princípi, che il Vico ha divinato nella sua Scienza nova. Giambattista Vico, analizzando la filologia dei greci e dei romani, ha così fissato le norme per ogni filologia, ha stabilito leggi sicure, addimostrando non le leggi che governano il linguaggio dei singoli, ma bensì quelle che governano il linguaggio delle nazioni. E così si dica, per i miti, per le norme giuridiche, per i riti. « In tal modo la scienza dell'erudizione diventa veramente filosofica; e ciò, che sappiamo de ' greci e de ' romani, diventa utile ad intendere ciò che della filologia delle altre nazioni o ignoriamo o conosciamo imperfettissimamente » (2 ). (1 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. (2 ) V. Cuoco, Scritti vari, v. II, p. 62. Conclusione. Ed ora che abbiamo analizzato la personalità di Vin cenzo Cuoco in tutte le sue manifestazioni politiche e pedagogiche, ci sia lecito concludere, pur sapendo quanta parte del pensiero del molisano sia rimasta fuor dalle linee tracciate. Qual'è la posizione del nostro scrittore nella storia culturale d'Italia? Posto a cavaliere tra il secolo XVIII e il XIX è il più importante rappresentante di quel che un critico francese, Paul Hazard, ha detto l'italiani smo, e che, se nel secolo XVIII s'impersona nel pen siero storicista, e perciò antirazionalista, di Giambattista Vico, reagente contro l'astrattismo razionalistico di Car tesio, nonchè contro il materialismo di altri minori, in nome di supreme esigenze dello spirito; nel secolo XIX si impersona nel Cuoco, che animato dall'alta tradizione nazionale muove contro ogni forma di vita, che italiana non sia, e quindi non connaturale a noi, e perciò non veramente storica ma rigidamente morta, astratta, vuota d'ogni vibrante contenuto umano. È un'ideale continuità quella che lega il Vico al Cuoco, è la gloria perenne del pensiero italico rinascente, quando le straniere infiltrazioni sempre più sembrano soffocarlo. Il Vico rappresenta un profondo rinnovamento nella filosofia, e perciò in tutte le attività umane, che dal me todo filosofico non possono prescindere: la politica, la storia, la giurisprudenza, l'economia. Asserendo lo spi 279 rito fonte prima d'ogni realtà morale, asserisce la vera libertà, libertà che nè il Medio Evo nè il Rinascimento, moventisi ancora nell'antico dualismo dell'essere e del divenire, potevano assolutamente concepire. Egli è il primo, che sente il dinamismo dello spirito e pone le grandi proposizioni della filosofia moderna: il mondo del l'arte sensuoso e fantastico, il mondo della storia delle nazioni concretato nelle istituzioni e nelle leggi, il mondo della religione e della moralità s'originano da noi, in noi trovano la loro fonte prima perenne inesauribile, nella continua attività dello spirito. E, se teniamo fermo questo punto, tutto ci si discopre trasformato, e quel che prima era estrinseco, incasellato, morto diviene intimo, libero, vivo. Ma questa posizione implica un nuovo e diverso processo: la realtà spirituale non si conosce, se non affi sandosi nelle più varie manifestazioni delle sue concretiz zazioni, vale a dire discendendo al vero storico, per poi risalire di nuovo allo spirito prima e remota scaturigine: l'unità dello spirito non si comprende se non attraverso la molteplicità, e viceversa la molteplicità non si com prenderebbe se non per il tramite dell'unità. Chiamiamo filosofia la scienza dell'idea eterna ed im mutabile, di ciò che non è transeunte e contingente; chiamiamo filologia la scienza dei fatti umani, assom mante in sè ogni mutevole prodotto storico: occorre con ciliare l'una con l'altra, la filologia con la filosofia. È il grande assunto del Vico: porre questo nesso correlativo: non v'è filosofia senza filologia, nè filologia senza filosofia. La mente umana è l'origine dell’una e dell'altra, produce l'idea, il vero filosofico, come genera il fatto umano, il vero storico. Da ciò scaturisce che la sua realtà è questo mondo degli uomini, in cui siamo nati ed in cui ci muo viamo, in cui dobbiamo foggiare la nostra individualità ed agire per noi e per gli altri, per il nostro particolare e per lo Stato, in cui vive il nostro miglior noi. E questo il Vico esprime nella notissima icasastica frase: « questo mondo civile certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perchè se ne debbono, ritruovare i prin cípi, dentro le modificazioni della nostra medesima mente 280 umana » (1). Questo il nucleo profondo della filosofia del Vico, che Cuoco acquisisce e fa sangue del suo sangue, movendo da esso a rinnovare la struttura della politica e della pedagogia tradizionale: Il Cuoco in senso rigido non è filosofo vero, come colui nel quale rimangono vecchi e irresoluti reliquati intellet tualistici nonchè contraddizioni insanabili, per cui in qualche punto è ancor più indietro del suo istesso maestro; ma il suo grande merito è l'aver posto in termini poli tici quel che in Vico era filosofia, e l'aver visto quale inesauribilità di situazioni poteva germinare dalla vec chia esperienza vichiana. In un mondo vuoto e falso quale quello della rivolu zione italo - francese, egli, riinnestandosi al Vico, dà alla nazione quel senso storico che le mancava, e le ridona * quella comprensione sicura della realtà, quella fiducia, che solo può scaturire da una ferma credenza in noi, nelle nostre possibilità, nel nostro avvenire. Nella rivoluzione napoletana si è detto con felice frase sono i germi dell'unità d'Italia, e, notiamo, non solo dal punto di vista estrinseco, ma dal punto di vista anche intellettuale. Con il cadere della Partenopea, diecine e diecine di esuli si diffondono per il Nord d'Italia, ed ivi portano il loro sapere, la loro cultura filosofica più o meno permeata di vichismo, il loro diritto, la loro economia: da ciò nasce una più intima comunione di spiriti, una più attiva fratellanza di idee tra italiani ed italiani. E chi resta insensibile a questo gran movimento cultu rale, in cui sono non pochi e piccoli germi di quel che sarà il Romanticismo? Nessuno, direi: non v'è alta co scienza che per effetto di questa propaganda non vi chianeggi. È un po' la moda, ma una moda benefica, che porta ad una migliore intesa tra uomini di diverse regioni d'Italia, che erano per secoli rimaste quasi estranee tra loro. Più gli studi si approfondiscono e più questo fenomeno (1 ) G. Vico, Scienza nova, v. I, p. 172. 281 appar vero, ' e, notiamo, anteriore in un certo senso al l'opera stessa di Vincenzo Cuoco. È di ieri, recentissimo, uno scritto di Luigi Rava, che ci informa di una rivista, fiorita a Venezia verso il 1796, tre anni prima dunque dell'esilio del nostro molisano, il Mercurio d'Italia, in cui Ugo Foscolo giovinetto fa le sue prime armi e pubblica i suoi precoci scritti, La Croce, l'Ode a Dante, La morte di *** ed altri componimenti di minore importanza (1 ). Ebbene in un articolo anonimo sovra l'Abbozzo di un quadro del progresso dello spirito umano del Condorcet v'è un raffronto tra le dottrine del francese e quelle di Giambattista Vico. È proprio ca suale questa coincidenza? E il Foscolo giovinetto, che del Vico poi certo si nutrì come dimostrano molte idee dei Sepolcri e degli scritti critici, rimase insensibile al richiamo di questo grande filosofo italiano, « così poco conosciuto fuori della sua Napoli »? (2 ). Ma i veri apo (1) Luigi RAVA, Le prime armi del Foscolo giornalista: il Mercurio d'Italia, in Rivista d'Italia, a. XXVII (1924), v. I, fasc. III, pp. 257-279. (2 ) Un certo quale influsso vichiano forse inconscio si può rinvenire in Carlo Gozzi e nella posizione assunta con le sue ce lebri Fiabe contro il Chiari e il Goldoni, in cui certo egli rappre senta una tradizione veramente italica, se pure esausta dal tempo, contro una riforma che a lui pareva una volgarità, troppo permeata di verismo com'era. Lastessa ricerca del fan tastico per il popolo in una società razionalista, superba della infinita sicurezza dell' intelletto, è una posizione vichiana. « Il contenuto » scrive il DE SANCTIS, (Storia, II, p. 305 e sg. ) se è il mondo poetico com'è concepito dal popolo, avido del meraviglioso e del misterioso, impressionabile, facile al riso e al pianto. La sua base è il soprannaturale nelle sue forme: miracolo, stregoneria, magia. Questo mondo dell'immagina zione, tanto più vivo quanto meno l' intelletto è sviluppato, è la base naturale della poesia popolana sotto le più diverse forme: conti, novelle, romanzi, storie, commedie, farse. La vecchia letteratura se n'era impadronita, ma per demolirlo, per gettarvi entro il sorriso incredulo della colta borghesia. Rifare questo mondo nella sua ingenuità, drammatizzare la fiaba o la fola, cercare ivi il sangue giovane e nuovo della com media a soggetto: questo osò Gozzi in presenza d'una società scettica e nel secolo de’lumi, nel secolo degli spiriti forti e 282 stoli del vichismo sono nell'Italia settentrionale gli esuli napoletani del '99, come osserva B. Croce (1 ), sono Vin cenzo Cuoco, Francesco Lomonaco, Francesco Salfi, il Massa, il De Angelis ed innumerevoli altri minori ma pur degni. Per la loro opera si può dire che non vi sia grande scrittore che non vichianeggi. L'influsso che il Cuoco od altri esercitò sul Foscolo, è indiscutibile. A noi non risulta alcun documento com provante possibili e diretti rapporti Cuoco - Foscolo, ma è certo che, se il molisano ebbe relazioni, anche super ficiali, con amici del poeta dei Sepolcri, questi non potè ignorare l'autore del Saggio storico (2 ). Ma sia o non sia stato il Cuoco od altri (3 ) a far conoscere il Vico al Foscolo, de’belli spiriti. E riuscì ad interessarvi il pubblico, perchè quel mondo ha un valore assoluto e risponde a certe corde che, ma neggiate da abile mano d'artista, suonano sempre nell'animo: ciascuno ha entro di sè più o meno del fanciullo e del popolo ». Del resto l'ultimo editore di C. Gozzi, Domenico Bulferetti, (Le memorie inutili, Torino, 1923, vol. due) non ha potuto ne gare che lo spirito dell'autore delle Fiabe assuma atteggia menti non certo consoni al tempo suo e alla veneta società, come tutte le società del tempo illuminata, ma riecheggi un po' il nuovo storicismo meridionale, pur senza essere riuscito a provare una diretta influenza di quest'ultimo sugli studi del suo autore. (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. Vico, p. 289; B. CROCE, Storia della storiografia, v. I, p. 12. (2 ) G. ROBERTI, in Giornale storico della letteratura italiana, a. XII, v. XXIII, pp. 416-427. Il Roberti raccoglie nell'arti colo alcune lettere che C. Botta, U. Foscolo, V. Cuoco inviarono al suo bisavolo paterno, Giovanni Giulio Robert (poi italianiz zato in Roberti). Le lettere di Foscolo sono delle mere com mendatizie di due esuli meridionali, uno certo Piscopo, l'altro un anonimo, che il Roberti crede, senza peraltro dimostrarlo, che sia il Lomonaco. Da ciò si deduce sicuramente che Ugo ebbe rapporti con meridionali e con amici diretti del Cuoco. (3 ) Vedi a proposito G. PECCHIO, Vita di U. Foscolo, Città di Castello, Lapi, ed., 1915, p. 170, p. 210 e passim. P. HAZARD, op. cit., p. 241 osserva: « Son influence se répandra même dans la littérature pure, où en trouvera des traces chez Monti et chez Foscolo. Toux ceux lacomprennent les articles que Cuoco consacre à son maître (Vico] ». Ora F. NICOLINI nella Nota agli Scritti vari di V. Cuoco, v. II,p. 397, dice che gli 283 gli scritti del poeta stanno lì a testimoniare come pro fondamente nutriti essi siano di pensiero vichiano: così il processo dell'incivilimento descritto nel carme, per cui furono nozze e tribunali ed are, che diero alle umane belve essere pietose di sè stesse e d'altrui, è derivato di-. rettamente dalla Scienza nova, ove è meditato il pas saggio dall'età degli dei alle grandi società eroiche (1 ); e così pure il costume che tolse i miserandi cadaverici avanzi alle fiere e li provvide di sepoltura (2 ). Parimenti articoli del Giornale italiano furono letti attentamente, « molto letti » oltre che da V. Monti e A. Manzoni anche da U. Fo scolo, e allo scopo di provare ciò rimanda ad una recensione, in cui il molisano parla del libro Della Tumulazione di A. DELLA PORTA, Como, Ostinelli, in cui « è, come si vede, il medesimo fondo di idee vichiane, a cui.... s’ ispirò il Foscolo nei Sepolcri » (v. I, p. 254). (1 ) B. CROCE, La filosofia di G. B. Vico, p. 172. (2) Confronta i su citati brani foscoliani con i seguenti di Vico: à Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lon tane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matri moni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; nè tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che reli gioni, matrimoni e seppolture. Chè per la Degnità, che « idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon avere un principio comune di vero, dee essere stato dettato a tutte, che da queste tre cose incominciò appo tutte l'umanità, e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte, perchè 1 mondo non s'infierisca e si rinselvi di nuovo » (Scienza nova, v. I, p. 173). « Finalmente, quanto gran principio dell'umanità sieno le seppolture, s'immagini uno stato ferino nel quale restino insep polti i cadaveri umani sopra la terra ad esser esca de corvi e cani; chè certamente con questo bestiale costume dee andar di concerto quello d'esser incolti i campi nonchè disabitate le città, e che gli uomini a guisa di porci anderebbono a mangiar le ghiande, colte dentro il marciume de’ loro morti congionti. Onde agran ragione le seppolture con quella espressione su blime Foedera Generis Humani ci furono diffinite e, con minor grandezza, Humanitatis Commercia ci furono descritte da Ta cito ». (Scienza nova, I, p. 177 ). Notiamo che nel primo brano citato il rinselvarsi sta per 284 lo stato ferino dei figli della terra, duellanti a predarsi, primi avi dell'uomo, quei cannibali che s ' imbandiscono convito delle carni umane, così vivi nel mondo rifinito de Le Grazie, non si intendono, se non riferendoci ad un sistema filosofico che è certo quello del Vico (1 ), si stema che siffattamente compenetra l'opera del poeta, che questa trascende e si riflette in tutti gli scritti pro sastici, sia pure storici e critici (2 ). Onde tutta la sua cri tica trova il nucleo originale nei nuovi portati dell'este significare il ritorno allo stato selvaggio primitivo, onde la parola selva significherebbe lo stato stesso, e che precisamente in questo senso il primo e il secondo termine sono stati as sunti da Ugo Foscolo nella celebre Orazione inaugurale: « le umane belve ancor vagabonde per la grande selva della terra » (Opere, ed. Lemonnier, v. II, p. 21 ); nonchè ripetuti da un gio vane, pur esso destinato a divenire un grande scrittore, da GIOSUE CARDUCCI: « fuggendo per la gran selva de la terra il nato de la donna ululò già co' leoni a la preda cruenta: indi con vitto ferin la vita propagando, incerti videsi intorno i figli: e lui cedente de la materia a le vicende eterne l ' immane salma, per lo gran deserto dilaceraro i lupi ». (Rime, San Miniato, Tipografia Ristori, 1857, p. 84). (1) La vita preistorica è con viva arte descritta dallo stesso Vico nelle prime pagine dell'opera sua, laddove accenna alle prime trasmigrazioni marittime: «.... gli antenati di coloro che furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime: furono dapprima uomini empi, che non conoscevano niuna divinità; nefari, chè, per non esser tra loro distinti i paren tadi co' matrimoni, giacevano sovente i figliuoli con le madri, i padri con le figliuole; e, finalmente, perchè, come fiere be stie, non intendevano società, in mezzo ad essa infame comu nion delle cose, tutti soli e, quindi, deboli e, finalmente, miseri ed infelici, perchè bisognosi di tutti i beni che fan d'uopo per conservare con sicurezza la vita. Essi, con la fuga de propri mali, sperimentati nelle risse, ch'essa ferina comunità produ ceva, per loro scampo e salvezza, ricorsero ecc. » (Scienza nova, v. I, p. 27 ). (2 ) Il vichismo del Foscolo è stato rilevato da N. TOMMASEO, Storia civile nella letteraria, Torino, 1872, ma certo non com preso, troppo imbevuto, com'era il critico, di passioni oscura trici d'un equanime giudizio e di false idee d’un'arte pedago gica: il brano, al quale intendiamo riferirci, è stato raccolto nell'antologia del TOMMASEO, Scritti di critica e di estetica scelti da A. ALBERTAZZI, Napoli, Ricciardi ed., s. d., p. 192 e sgg. 285 tica vichiana, che prima scuote le vecchie scolasticherie, a base di retoriche e di poetiche per penetrare nello spi rito vivo e fantastico dell'opera d'arte (1). Ma l'influsso più importante e diretto Cuoco lo eser cita direttamente sul Monti col quale ebbe rapporti epi stolari (2 ), nonchè disappunti letterari, dovuti al fiero" giudizio che l'autore del Saggio faceva circa il carattere del poeta cesareo assai volubile in politica; e sul Man zoni di cui fu davvero intimo (3 ). Le lezioni universi tarie, dal primo tenute a Pavia, specie la prolusione Della necessità dell'eloquenza (1 ), il Discorso sulla storia longobarda del secondo (5 ), sono la prova sicura della dif fusione delle dottrine del Vico. (1 ) Vedi a proposito come Foscolo intende l'eloquenza e confrontala con il modo come l'intende il Cuoco: G. PECCHIO, op. cit., p. 210, nota; B. ZUMBINI, Studi di letteratura ita liana, Firenze, Le Monnier ed., 1894, p. 267; G. A. BORGESE, Storia della critica romantica in Italia, Milano, Treves ed., 1920, p. 248 e sgg., sopra tutto p. 266: « non è una scoperta, dice quest'ultimo, quella dello Zumbini che anche le lezioni di eloquenza siano tutte nutrite di concetti vichiani; anzi fa rebbe una scoperta chi indicasse uno scritto capitale del Fo scolo, nel quale la filosofia della Scienza nova non abbia bene o male la sua parte ». (2 ) G. Cogo, op. cit., p. 181; N. RUGGIERI, op. cit., p. 47; P. HAZARD, op. cit., p. 241; vedi anche V. Cuoco, Scritti vari v. II, pp. 318, 367, passim. (3) N. RUGGIERI, op. cit., p. 48, il quale in nota richiama G. CAPITELLI, Patria ed arte, Lanciano, Carabba ed., 1887, p. 182 e sg.; vedi V. Cuoco, Scritti vari, v. I, p. 285; v. II, pp. 318, 358, 367, 397, passim. (4 ) V. MONTI, Prose e poesie, Firenze, Le Monnier, 1847, v. IV, p. 31 e sgg. (5 ) A. MANZONI, Prose minori con note di A. BERTOLDI, Firenze, Sansoni ed., s. d., p. 22 e sgg. Allorquando questo lavoro era già ultimato usciva per le stampe l'opuscolo di G. GENTILE, Vincenzo Cuoco; commemorazione tenuta a Campo basso nel primo centenario della sua morte, Roma, C. De Al berti ed., *1924. L'influsso vichiano, per il tramite del Cuoco, nota il prof. Gentile, si rivela « non solo per l'alto concetto in cui dimostra di tenere il grande filosofo napoletano, ma anche e principalmente per la forma definitiva della sua mente, per alcuno dei caratteri più significativi della sua individualità di 286 n Nè questa si arresta qui, ma plasma disè tutta la nuova critica d'arte, e in parte la nuova storiografia, rifonden dosi con dottrine di diversa origine e di diversi paesi, specie con i canoni romantici di Germania: a chi legge gli scritti del Berchet (1 ), del Torti (2 ), del Di Breme (3 ), non sarà difficile rinvenirvi idee e proposizioni vichiane. Così, gradualmente per opera del Cuoco e di pochi altri napoletani, il pensiero nazionale si vien formando attra verso un apporto di storicismo e d’idealismo meridio pensatore e scrittore, quale è rappresentata sopra tutto ne romanzo. Poichè anche Manzoni pensatore e scrittore è un realista che non conosce tipi astratti, ma vede sempre gli uo mini e li rappresenta come sono in fatto storicamente; non repubblica di Platone e neppur feccia di Romolo; ideale col suo limite, come diceva De Sanctis: tutto determinato, vero e certo: e così in questa determinatezza e limitazione e storia, tutto segnato dal dito di Dio, tutto,come aveva insegnato Vico, governato da una Provvidenza che non precede per mi racoli, ma opera naturalmente attraverso gli stessi effetti delle cose e le azioni degli uomini. (1 ) Vedi BORGESE, op. cit., p. 105: « il Berchet s'era nutrito degli scrittori più audaci d'oltremonte: la Staël, il Bouterweck, gli Schlegel erangli familiari; conobbe non leggermente la let teratura inglese e la tedesca; dei nostri venerò sopra tutti il Vico e il Beccaria. Vari fili della vita intellettuale d'Italia, annodandosi, davano origine alla nuova critica e alla nuova letteratura;.... nel secolo decimottavo la filosofia aveva silen ziosamente ed oscuramente rinnovato gli spiriti e s' era con pertinace lentezza accostata alla letteratura, col Vico, non compreso, col Cesarotti non comune ragionatore, col Beccaria autore di un trattato dello stile: e, se forza di filosofare non ebbe il Berchet, questi filosofi studiò e ammirò non debol mente ». (2 ) BORGESE, op. cit., p. 189: « il Torti fu uomo di non co mune coltura e d'ingegno e, cosa a quei tempi molto rara, conobbe il Vico e si richiamò alle leggi da luisegnate, senza divenire per questo critico grande ». (3 ) L'ampia influenza del Vico si stende su tutta l'opera di Ludovico Di Breme e su quella di tutti i redattori del Concilia tore, ed è stata ben messa in luce dall'ultimo editore dell'abate piemontese C. CALCATERRA (L. d. B., Polemiche, Torino, Unione tip. - editrice torinese, s. d. (1923 ) ], che dell'idealismo dei primi romantici, della loro reazione ai vecchi sistemi filosofici, dei loro studi, fa un'ampia disamina. 287 nale al positivismo e al razionalismo settentrionale. È certo un processo lento e faticoso, ma nondimeno si curo, le di cui conseguenze ultime occorre osservare non soltanto nel campo critico e storiografico, ma anche, e sopra tutto, nel campo politico. « Eppure si come giusta mente nota Giovanni Gentile « nonostante la propaganda del Cuoco,... quantunque i germi da lui seminati sian caduti in intelligenze delle maggiori del secolo, si può affermare che la voce del Cuoco come banditrice della verità vichiana non trovi nessuna eco in tutto il resto del secolo. Altri scrittori, segnatamente il Gioberti, hanno lavorato ad educare le menti italiane al realismo poli tico; altri filosofi, segnatamente lo Spaventa, hanno la vorato a sviscerare il nucleo centrale della filosofia vi chiana; ma fino ai nostri giorni nessuno ha visto in questa filosofia così nettamente e fermamente come Vincenzo Cuoco il nuovo metodo, veramente rivoluzionario, " del pensare storico e politico e un potente irresistibile argo mento per un programma politico nazionale. Egli, per questo rispetto, rimane sulla soglia del secolo XIX, maestro unico solitario: un veggente » (1 ). Con ciò vo gliamo semplicemente dire che se le dottrine vichiane nel campo estetico, attraverso la propaganda del Cuoco, dànno subiti e luminosi effetti, nel campo politico, que sti effetti sono più lenti e tardi, quasi misconosciuti al lorquando si manifestano: Vincenzo Cuoco è un maestro senza discepoli, o meglio, con un solo discepolo, e per avventura grandissimo, Giuseppe Mazzini. Quel che nel Cuoco abbiamo detto realismo politico, derivazione stretta di tutto l'insegnamento della Scienza nova, non è destinato a perire, ma, rinnovandosi, tra sformandosi porta alle più grandi conquiste del secolo: « primo, a riconoscere e a mettere in rilievo l'individua lità insopprimibile di tutte le formazioni storiche; se condo, a negare che un popolo, come un individuo, possa nulla ricevere di fuori, e che possa progredire ed elevarsi senza uno sforzo proprio fondato sulla stima di sè e sulla (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 13 e sg. 288 fiducia delle proprie forze » (1 ). Questi due postulati gran diosi e veri, posti dal Cuoco nella coscienza degli Italiani, non si distaccheranno più da essa, e formeranno il nucleo di tutta l'educazione nazionale e di tutta la pratica po litica, che si sintetizza nell'opera di Mazzini. Ora i nuovi studi di F. L. Mannucci circa la prima fase del pensiero mazziniano hanno messo bene in luce come il genovese non solo si sia nutrito del Vico (2 ) per il tra mite del Michelet (3 ), ma in suoi privati zibaldoni abbia recensito e fatto estratti de ' numerosi e vivi articoli, che (1 ) G. GENTILE, V. Cuoco: commemorazione, p. 14. (2 ) L'influenza del Vico su Mazzini è stata ben posta in luce prima che dal Mannucci dal BORGESE, op. cit., p. 291 e sgg. « Egli era, come il Foscolo, lontano dal finalismo dommatico che impediva in ogni modoal Tommasèo di trarre vita e nutri mento dalle dottrine del Vico. Epperò egli era in condizioni più felici di quei due che l'avevano preceduto nell’a i mirazione pel Vico, e se ne disse discepolo con convinzione non minore, ed anzi ne persuase lo studioproprio per il rinnovamento della storia letteraria. « Il vuoto esistente nella filosofia », egli la mentava, « deve naturalmente ripetersi nella critica letteraria, che è la filosofia della letteratura »; e la filosofia ch'egli desi derava era proprio la Scienza nova. « Il vincolo », disse altrove, paragonando le antiche congerie erudite che usurpavano il nome di storie letterarie con quelle che venivano in onore per effetto del rinnovamento romantico, « il vincolo che annoda in un popolo le istituzioni, le lettere e i progressi della civiltà, indovinato un secolo innanzi dal nostro Vico, fu posto in chiaro, sottomesso ad analisi e diede cominciamento ad una sola scuola, il cui scopo santissimo or s'irride da chi non sa, o non cura comprenderlo ». E si compiaceva che ora molti libri e molti studiosi traessero il Vico da quell'obblìo a cui per cento anni lo avevano condannato le baieerudite e l'inerzia degli animi». (3 ) F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario: l'aurora d'un genio, Casa ed. Risorgi. mento, Roma, ecc., 1919, p. 16, p. 23 e sg., p. 66 e sgg., p. 143. Il Mannucci ci rende edotti che uno dei cinque mss. da lui stu diati, di cui due sono aPortomaurizio in casa dei sigg. Cremona eredi Ferrari, tre nel Museo del Risorgimento a Genova, con tiene una recensione dei Principes de la philosophie de l'histoire traduits de la Scienza Nuova de Fico et precédés d'un discours sur le système et la vie de l'auteur, par J. MICHELET, professeur, ecc., Paris, Renouard, 1827. Vedi a proposito di questa versione fran cese, CROCE. La filosofia di G. B. Vico, pp. 289, 291, 304. 289 il Cuoco andava pubblicando sul Giornale italiano, firman doli con la semplice sigla C (1 ). E in questi zibaldoni il lettore commosso può rinvenirvi annotate le Osserva zioni sullo stato politico dell'Europa, le Considerazioni sul Concordato, in cui Vincenzo getta uno sguardo rapido non solo sul passato e sul presente d'Italia, ma anche nel più lontano avvenire, risolvendo, da una parte, sovra basi giurisdizionali il millenario problema dei rapporti tra Stato e Chiesa, dall'altra la questione dell'equilibrio europeo. È interessante notare, pure, come il Mazzini, po stillando il famoso scritto cuochiano sul Machiavelli, da noi a più riprese richiamato, laddove il molisano loda con il segretario di Firenze il duca Valentino, perchè tra tanti scellerati principotti avrebbe potuto rimanere solo, nota: oltre a questo aggiungerei che un tiranno si spegne più facilmente di cento ». Esuberanze giova nili che il Cuoco avrebbe rimproverato e che lo stesso Maz zini maturo avrebbe certo rinnegato ! Sicuramente.... Ma io amo pensare il giovane Giuseppe, appena uscito dal l'università, chino sulle pagine del Cuoco, e, meditabondo, ripensare con lui le sorti della patria e la sua redenzione morale non attraverso giuridici compromessi o speranze d'equilibrii europei, ma attraverso un'azione che è pen siero, perchè guidata dal pensiero, attraverso un pen siero che è azione, perchè mirante agli uomini e alle loro coscienze. Il grande merito del Mazzini è precisamente l'avere accettato le ultime conclusioni politiche cuochiane ed averle con un apostolato senza pari concretate nella vita. Il popolo, il popolo, che il Cuoco vede nell'avvenire nucleo vibrante della patria, diviene il fondamento della repubblica del Mazzini, e in suo nome e per lui l'Italia (1 ) Il fatto che gli articoli non siano firmati che con una si gla, il fatto che negli zibaldoni il Mazzini non citi espressamente il Cuoco fa pensare al Mannucci (op. cit., p. 107, n. 101 ) che il grande agitatore non abbia mai pensato che gli articoli da lui letti nel Giornale italiano fossero proprio di V. Cuoco: così pure GENTILE, V. C.: commemorazione, p. 26. In quanto poi al Saggio storico il prof. Gentile sostiene nella stessa pagina che il genovese non solo lo conobbe ma lo menzionò. 19 F. BATTAGLIA, 290 diviene dopo tante lotte una e indipendente, diviene nazione e Stato. Il Cuoco intuisce che il problema unitario è un problema di coscienze, Mazzini lo conferma, e nel binomio Pensiero e azione redime l' Italia. Questa vasta trama d'influssi, che la dottrina cuo chiana, in tutti i suoi attributi, sopra tutto nelle inter ferenze politiche, ha esercitato nel pensiero italiano, specie settentrionale, meriterebbe uno studio a parte, ma a me basta averne tracciato le somme linee, il filo conduttore, perchè risulti ai lettori uno essere il processo che porta all'unificazione d'Italia nel nome di una tra dizione secolare, che dal Vico va al Mazzini e che un'unità così raggiunta, vale a dire attraverso una compenetra zione graduale e lenta di spiriti e d'idee, per quanto ancor recente, è troppo salda, perchè alcuno possa te mere di vederla infranta nell'urto fragoroso d'interessi antagonistici internazionali o classisti, perchè altri si ar roghi il non ammissibile diritto di salvarla e di rappre sentarla. 4 Nota bibliografica. Ho seguito i testi più sicuri dal punto di vista tipografico, cioè: VINCENZO Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 a cura di Fausto Nicolini, Bari, Laterza ed., 1913, che ho raffrontato con l'edizione milanese del Sonzogno, 1820, e con quella fiorentina del Barbèra, 1865; VINCENZO Cuoco, Platone in Italia a cura di F. Nicolini, Bari, Laterza, ed., 1916-24, volumi due; VINCENZO Cuoco, Scritti pedagogici inediti o rari raccolti e pubblicati da Giovanni Gentile, Roma-Milano, Albrighi e Se ganti ed., 1909. Gli articoli del Giornale italiano ho veduto sul testo originario, ma spesso mi sono servito delle ristampe in appendice alle opere critiche del Romano e del Cogo. Allorquando il mio lavoro era già compiuto sono usciti i due volumi di scritti cuochiani, che integrano nella raccolta degli Scrittori d'Italia laterziana il Saggio e il Platone: VIN CENZO Cuoco, Scritti vari a cura di N. Cortese e F. Nicolini, Bari, Laterza ed., 1924, volumi due. Con questa stampa quanto di meglio è stato scritto dal grande molisano è oramai stato dato al pubblico, e ben poco resta da fare nel campo dell'ine dito. Non tutti gli articoli del Giornale italiano invero hanno tro vato l'attesa ripubblicazione, ma, sebbene alcuni scritti di una certa importanza siano stati posti fuori, quei ventisette che il Cortese e il Nicolini hanno scelto, uniti al catalogo ragionato dei 292 rimanenti, bastano a dare un'idea più che sufficiente al let tore dell'attività pubblicistica del nostro autore. Va data lode ai due insigni editori Cortese e Nicolini per non avere lasciato da parte gli articoli; che il Cuoco ha pubblicato nel Corriere di Napoli e nel Monitore delle due Sicilie, i quali, sebbene assai meno interessanti di quelli del Giornale italiano, pure possono essere utili, e per avere di essi pure offerto un catalogo ragio nato. S’ intende che ho riveduto il testo di tutti gli scritti minori di Vincenzo Cuoco sovra la nuova edizione laterziana, che offre i migliori affidamenti di serietà e di rigore, sopra tutto per la ortografia, che, specie nei fogli originari del Giornale italiano, è la più volubile e ineguale. P. ALBINO, Biografie e ritratti degli uomini illustri della pro vincia di Molise, Campobasso, 1864, I, pp. 1-36; F. BALSANO, Vincenzo Cuoco e gli studi della gioventù italiana in Rivista Bolognese, a. II, v. I, fasc. IV, aprile 1868; F. BATTAGLIA, Critica rivoluzionaria e tradizione nel pensiero di V. Cuoco in Studi politici, a. I, fasc. 4-5, aprile 1923; A. BUTTI, La fondazione del « Giornale italiano » e i suoi primi redattori (1804-1806), Milano, Cogliati ed., 1905 (estr. dall' Arch. stor. lomb., a. XXXII, fasc. VII ), alla quale operetta si riferisce la recensione di G. OTTONE in Riv, stor. it., a. XXIII, za serie, vol. V (1906 ), p. 341 e sgg.; A. BUTTI, Una lettera di V. Cuoco al vicerè Eugenio, nella miscellanea Dai tempi antichi ai tempi moderni (per nozze Scherillo- Negri), Milano, Hoepli ed., 1904, p. 529 e sgg.; A. BUTTI, L'Anglofobia nella letteratura della cisalpina e del regno italico, in Archivio storico lombardo, a. XXXVI (1909), p. 434 e sgg.; C. CANTONI, Giambattista Vico, studi storici e comparativi, Torino, Civelli ed., p. 23 e sgg.; N. CAPRARA, V. Cuoco, Isernia, 1919 (1 ); (1 ) L'indicazione dell'opuscolo non è esatta, poichè la sola copia che ho potuto vedere manca del frontespizio: del resto si tratta di uno scritto di mero inte resse bio - bibliografico. 293 9 G. Cogo, Vincenzo Cuoco, note e documenti, Napoli, Jovene ed., 1909 (cfr. le recensioni di G. GENTILE in Archivio stor. nap. XXXIV (1909), pp. 588 e sgg., poi ristampata in ap pendice agli Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915; di G. GALLAVRESI in Il Risorgimento italiano, a. III, fasc. I - II, p. 223 e sgg.; e ancora di G. GALLAVRESI in Arch. stor. lomb., a. VII, (1910), p. 462 e sgg. ); L. CONFORTI, Napoli nel 1799, critica e documenti inediti, Napoli, De Falco ed., 1886, p. 21 e sgg., passim (una confuta zione di molte affermazioni ingiuste dell'autore è in N. RUG GIERI, Vincenzo Cuoco, Rocca San Casciano, Cappelli, ed., 1903, p. 104 e sgg., nonchè in M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, Isernia, 1904, p. 99 ); B. CROCE, La filosofia di Giambattista Vico, Bari, Laterza ed., 1911, passim; B. CROCE, La rivoluzione napoletana del 1799, terza edizione, Bari, Laterza, 1912, passim; B. CROCE, Storia della storiografia italiana nel secolo XIX, Bari, Laterza, 1921, vol. I, p. 8 e sgg; R. DE RENZIS, Il risveglio degli studi intorno a V. Cuoco in Italia moderna, 1905; G. DE RUGGIERO, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari, Laterza ed., 1922, p. 166 e sgg.; F. DE SANCTIS, Storia della letteratura italiana, Milano, Treves ed., v. II, p. 309, p. 327 (accenni ); F. DE SANCTIS, Saggi critici, Milano, Treves, v. III, p. 291; A. FRANCHETTI, Storia d'Italia, Milano, s. d., Vallardi, p. 557 e sgg.; G. GENTILE, Studi vichiani, Messina, Principato ed., 1915 (in cui è ristampato lo studio Un discepolo di G. B. Vico: Vincenzo Cuoco pedagogista, già pubblicato in Riv. pedagogica, a. II, 1908); G. GENTILE, Dal Genovesi al Galluppi, Napoli, edizione della Critica, 1903, p. 375 e sgg. G. B. GERINI, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo XIX, G. B. Paravia ed., 1910, Torino, pp. 30-44; F. GUEX, Storia dell' istruzione e della educazione, trad. o note con app. su Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico di G. VIDARI, G. B. Paravia ed., s. d., Torino, v. II, p. 314 e sgg.; 294 e P. HAZARD, La révolution française et les lettres italiennes, 1779-1815, Paris, Hachette ed., 1911, p. 218 e egg.; B. LABANCA, Giambattista Vico e i suoi critici cattolici, Na poli, Pierro ed., 1898, p. 406 e sgg.; A. LEVATI, Saggio sulla storia della letteratura italiana nei primi venticinque anni del secolo XIX, Milano, Stella ed., 1831, p. 228; G. MAFFEI, Storia della letteratura italiana, riveduta da P. Thouar, Firenze, Le Monnier ed., 1853, v. II, p. 259, p. 348 e sgg.; F. L. MANNUCCI, Giuseppe Mazzini e la prima fase del suo pensiero letterario; l'aurora di un genio, Casa ed. Risorgimento, Roma, 1919, (cfr. recensione di G. GENTILE in Critica, v. XVII, p. 317 e sgg. ); G. B. MARCHESI, Studi e ricerche intorno ai romanzieri e ro manzi del ' 700, Bergamo, 1903; A. MARTINAZZOLI E CREDARO, Dizionario illustrato di peda gogia, F. Vallardi ed., 1901-5, Milano, v. I, p. 420 e sgg. (1 ); 0. MASTROIANNI, Ricerche storiche pubblicate per delibera zione del R. Istituto d' incoraggiamento di Napoli, Napoli, Pierro ed., 1907, p. 196 e sgg.; P. MONROE ed E. CODIGNOLA, Breve corso di storia dell'edu cazione, trad. di S. CARAMELLA, Vallecchi ed., 8. d., Firenze, v. II, pp. 207 e sgg.; G. NATÁLI, Nel primo centenario della morte di V. Cuoco in Rivista d'Italia, a. XXVI, fasc. XII (15 dic. 1923); G. NATALI, L'idea del primato italiano prima di V. Gio berti, Roma, 1917 (estr. dalla Nuova Antologia ); G. NATALI, La letteratura italiana nel periodo napoleonico, 1916 (estr, dalla Rivista d'Italia ); G. NATALI, La vita e il pensiero di F. Lomonaco, Napoli, San giovanni ed., 1912 (estr. dagli Atti della R. Accademia di sc. mor. di Napoli: cfr. GENTILE, Studi vichiani, p. 361 ); L. PALMA, I tentativi di nuove costituzioni in Italia dal 1796 al 1815 in Nuova Antologia, a. XXVI, fasc. XXVI, 16 novembre, 1-16 dicembre 1891, p. 433 e sgg. (1 ) L'articolo Cuoco è fifmato A. Martin azzoli. 295 1 G. OTTONE, V. Cuoco e il risveglio della coscienza nazionale, Vigevano, Unione tip. vigevanese, 1903 (cfr. le recensioni di A. LEONE, in Riv. stor. ital., a XXI, s. 3a, v. III, pp. 57-8; di A. Butti, in Giorn. stor. d. lett. it., a. XLIV (1904), p. 240 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. létt. it. a. IX (1904), p. 277 e sgg.; e infine di G. G[ ENTILE) in Arch. st. per le prov. nap., a. XXX (1905), p. 73 e sgg. ); G. OTTONE, La tesi vichiana di un antico primato italiano nel « Platone » di V. Cuoco: contributo alla storia del risveglio nazionale nel periodo napoleonico, Fossano, Rossetti, 1905, (cfr. recensioni di A. Butti, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVII (1906), p. 157 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. XI (1906), p. 181 e sgg. ); G. OTTONE, Mario Pagano e la tradizione vichiana del secolo scorso, Milano, Trevisini, 1897; G. PEPE, Necrologia: Vincenzo Cuoco, in Antologia, a. XIV (1824), p. 99 e sgg. (riprodotta dinanzi a varie edizioni del Saggio storico del Pomba di Torino ); I. RINIERI, Della rovina d'una monarchia; relazioni storiche tra Pio VI e la Corte di Napoli negli anni 1776-1779, Torino, 1901, p. 484 e sgg.; G. ROBERTI, Lettere inedite di C. Botta, U. Foscolo e V. Cuoco in Giorn. st. d. lett. it., a. XII, v. XXIII (1894), p. 416 e sgg.; M. ROMANO, Ricerche su V. Cuoco, politico, storiografo, ro manziere, giornalista, Isernia, Colitti, 1904 (cfr. recensioni di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1904 ), p. 147 e sgg.; di A. BUTTI, in Giorn. st. d. lett. it., a. XLVI (1905), p. 412 e sgg; infine di G. GENTILE, in Critica, III (1905), p. 39 e sgg., ristampata in Scritti vichiani, p. 427 e sgg. ); M. ROMANO, Una pagina inedita di V. Cuoco su G. B. Vico, nella miscellanea: Scritti di storia, di filosofia e d'arte (nozze FEDELE- DE FABRITIIS ), Napoli, Ricciardi ed., 1908, p. 181 e sgg.; P. ROMANO, Per una nuova coscienza pedagogica, G. B. Pa ravia ed., s. d., Torino, pp. 102-124; N. RUGGIERI, Vincenzo Cuoco: studio storico critico con una appendice di documenti inediti, Rocca S. Casciano, L. Cappelli ed., 1903 (cfr. recensioni di B. CROCE, nella Critica, v. I (1903), ſ. pad 296 p. 298 e sgg.; di G. R[OBERTI), in Giornale st. d. lett. it., a. XLII (1903 ), p. 429 e sgg.; di F. TORRACA, in Rass. bibl. d. lett. it., a. XII (1904 ), p. 132 e sgg.; di S. Rocco, in Rass. crit. d. lett. it., a. IX (1903), p. 34 e sgg.; di C. R [INAUDO), in Riv. stor. it., a. XXI, 3a 8., vol. III (1904), p. 58 e sgg ); L. SETTEMBRINI, Lezioni di letteratura italiana, Napoli, Mo rano ed., 1872 v. III, p. 279 e sgg.; R. SÓRIGA, L'emigrazione meridionale a Milano nel primo quinquennio del secolo XIX, in Bollettino della società pavese di storia patria, XVIII (1918 ), pp. 102-117, pp. 119-121; U. TRIA, Vincenzo Cuoco a proposito di due sue lettere ine dite in Rass. crit. d. lett. it., v. VI (1901 ), p. 193 e sgg. (cfr. RUGGIERI, op. cit., p. 94; ROMANO, op. cit., p. 51 e sgg. ); A. Zazo, Le riforme scolastiche di Gioacchino Murat, Roma, Albrighi e Segati ed., 1924, (estratto dalla Rivista pedagogica, a. XVII ). « Nel 1905, scrive il GENTILE (Studi vichiani p. 336), l'Accade. mia delle scienze morali e politiche di Napoli bandì un concorso sul pensiero politico di V. Cuoco, da studiarsi anche nei mss. acquistati dalla Nazionale di Napoli. Fu presentata una sola memoria, ancora inedita, di M. ROMANO, Di V. Cuoco consi derato come scrittore politico e dei mss. recentemente acquistati dalla Nazionale di Napoli (sulla quale vedi F. PERSICO, Rel. sul concorso per il premio annuale dell'anno 1905 sul tema « Di Vincenzo Cuoco, ecc. » nei Rend. dell'Acc. ecc., tornata del 22 dic. 1906 ». Circa questi mss. vedi Suppl. alla Riv. di bibl. ed arch., 1905, pag. 3, nonchè RUGGIERI, op. cit., p. 63; Cogo, op. cit., p. 45, n. 13, il quale ultimo di essi mss. abbondante mente si serve, documentando le sue acute asserzioni, e infine CROCE nella Critica, a. I (1903 ), p. 299. Del Cuoco si sono occupati varî autori in storie generali politiche e letterarie, di cui citerò soltanto alcuni più noti: V. FIORINI e F. LEMMI, Periodo napoleonico dal 1799 al 1814, in Storia politica scritta da una Società di professori, Milano, Vallardi, s. d. passim; F. LEMMI, Le origini del Risorgimento italiano (1789-1815), Milano, Hoepli, 1906, passim; M. Rosi, L'Italia odierna, Unione tip.- editr. torinese, 1922, v. I, p. 206, p. 238, passim; G. MAZZONI, L'Ottocento, Milano, Vallardi, 1913, p. 106-7, p. 131-32, e passim, in Storia letteraria scritta da una 297 società di professori; V. Rossi, Storia della letteratura italia na, Milano, Vallardi, 1915, v. III, p. 243; A. D' ANCONA e 0. BACCI, Manuale della letteratura italiana, Firenze, Barbèra, 1914, v. V, p. 132, v. VI, p. 386-7 (1 ); F. TORRACA, Manuale della letteratura italiana, settima ed., Firenze, Sansoni, 1918, v. III, p. II, p. 441 e sgg. Il primo centenario della morte di V. Cuoco è stato degna mente ricordato agli italiani, oltre che dalla pubblicazione dei due volumi di Scritti vari per cura di N. Cortese e di F. Nico lini, dalla commemorazione di Campobasso tenuta da G. GEN TILE (Vincenzo Cuoco, Roma, Alberti ed., 1924). Preannunziando o annunziando la ricorrenza scrissero del grande molisano S. ARCOLESE, Vincenzo Cuoco (1823-1923 ), in Il popolo molisano, 15 marzo 1923; G. COLESANTI, Un realista; Vincenzo Cuoco, in Il mondo, 13 dicembre 1923 (2 ); F. BARIOLA, Vincenzo Cuoco, in Gazzetta delle Puglie, febbraio 1924; F. Mo MIGLIANO, Commemorazione di V. Cuoco, in Conscientia, 2 feb braio 1924. Ottima sotto ogni rapporto è la prolusione al Corso di Fi losofia Giuridica tenuta nella R. Università di Firenze da G. DE MONTEMAYOR: La buona politica: dal Vico al Cuoco al Risorgimento Italiano (Roma, Soc. Anonima Poligrafica 1925). Altra raccolta di scritti per uso scolastico. V. CUOCO - Educazione e politica (Bemporad 1925 ) fu composta, pre ceduta da una larga introduzione, da G. MARCHI. (1 ) A pag. 387 v'è una duplice inesattezza: ad A. BUTTI sono riferiti gli scritti, Un articolo dimenticato di V. Cuoco sugli scrittori politici italiani, in La Critica, II, p. 337 e Una pagina inedita su G. B. Vico in miscellanea Per nozze Fedele- Fabritiis, p. 181, la riesumazione dei quali spetta, del primo a B. CROCE, del secondo a M. ROMANO. (2) L'articolo del Colesanti era presentato su Il mondo come facente parte di un numero unico cuochiano da pubblicarsi in Campobasso, che non ho potuto avere nè vedere. INDICE CAP. I. La tradizione italica Pag. CAP. II. I « Frammenti di lettere a V. Russo » e la critica rivoluzionaria. 27 CAP. III. Il « Saggio Storico sulla rivoluzione di Napoli » 80 CAP. IV. Napoleone e la sua politica generale. 123 CAP. V. Nazionalità e italianismo nel « Giornale italiano » 197 CAP. VI. Il « Platone in Italia » e la tesi di un antico primato italico.. >> 228 Cap. VII. L'educazione nazionale nel pensiero cuochiano 260 Conclusione 278 Nota bibliografica. ·Felice Battaglia. Keywords: valori italiani, essere italiano, valori italiani,  “spirito nazionale in Italia” -- ius, giure. – spirito nazionale, spirito italico, spirito italiano, spirito nazionale in Italia, Vicco, Cuoco, roma antica, Etruria, ‘la tradizione italica’, il ‘Platone’ di Cuoco, ‘Cuoco non e un vero filosofo’, Gentile, Schelling, volksseele volksgeist, anima di una nazione, anima universale, animus di una nazione.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Battaglia” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Battista – la percezione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nicosia). Filosofo italiano. Grice: Very good. – Giovanni Battista – he assumed the name “BONOMO” Gabriele Bonomo Frate Gabriele Bonomo o Bonhomo – Appartenente all'Ordine dei Minimi. Scrive un saggio sulla “trigonometria”.  e inventò un orologio automatico.  Entra come frate nell'Ordine dei Minimi con il nome di Gabriello e fu assegnato al convento di Santa Oliva di Palermo.  Pietro Riccardi, Bibliotheca mathematica italiana dalla origine della stampa ai primi anni del secolo XIX, Editore Soliani, Antonio Muccioli, Le strade di Palermo, Editore Newton & Compton, 1998127. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Biografie:  di   biografie Categorie: Teologi italianiMatematici italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore Nicosia (Italia) PalermoMinimi. Batista. Giovanni Batista. Giovanni Battista. Battista. Keywords: percezione, trigonometria, orologio automatico, la filosofia della trigonometria, Comte, la trigonometria nella matematica italiana, Venezia, la filosofia illustrata, la teoria causale della percezione. Refs.: “Grice e Battista” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bausola – solidarietà – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ovada). Filosofo italiano. Grice: “I would call Basuola a Griceian – he speaks of the ‘reasons for solidarity,’ which is exactly the point I want to make, alla Kant, in ‘Aspects of reason,’ as people kept asking me for the rationale – i. e., literally, the rational basis – for conversational cooperation – People agree that conversation is rational; but my stronger thesis is that it’s cooperation which is rational. That is Bausola’s point.” “Basuola has also explored the topics of ‘inter-personal relation’ from a philosophical rather than sociological perspective – and therefore into the compromise between self-love and other-love, or freedom and responsibility --. A genius! That he also admires my latitudinal and longitudinal unity of philosophy (‘storiografia filosofica,’ as the Italians call it) is a plus, or bonus!” – Figlio di Filippo, scultore cieco di guerra ed Eugenia Bertero. Conseguita una formazione cattolica attraverso le scuole primarie delle Madri Pie, fondate da Paolo Gerolamo Franzoni, e dei Padri Scolopi, gli studi liceali lo vedono a Novi Ligure al Classico Statale "Doria" dove «la materia che veramente fu per lui una rivelazione è la filosofia».  Sceglie così la facoltà all'Università Cattolica a Milano, dopo un incontro con Padre Agostino Gemelli e Monsignor Francesco Olgiati, vincendo anche il concorso per un posto gratuito nel Collegio Augustinianum. Fra i suoi docenti emergono due figure che per lui sono «maestri di vita e di pensiero», esponenti di spicco del movimento neotomista: Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi. Diventa così libero docente di filosofia morale nel 1962. Nel 1970 vincendo la cattedra di storia della filosofia viene chiamato alla Cattolica, dove dal 1974 al 1979 è ordinario di filosofia morale passando poi, nel 1980, ad ordinario di filosofia teoretica. È preside della facoltà di lettere e filosofia dal 1974 al 1983.  Nel 1982 è chiamato a far parte del Pontificio Consiglio della Cultura istituito da Giovanni Paolo II per il periodo 1982-1992. Nel 1983 dell'Università Cattolica del Sacro Cuore ne diventa il Rettore, carica che mantiene fino al 1998.  È stato anche direttore della Rivista di filosofia neo-scolastica, ininterrottamente, dal 1971, e dal 1984 della rivista Vita e Pensiero e condirettore della Rivista Internazionale dei diritti dell'uomo. Inoltre ha diretto la sezione di filosofia moderna della collana dei Classici della Filosofia dell'Einaudi Rusconi. Ha fatto parte del Direttivo del Centro di metafisica istituito dalla Cattolica, e per esso ha co-diretto la collana di pubblicazioni Metafisica e storia della metafisica.  Tra gli altri incarichi e funzioni è stato:  Socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei nella categoria scienze filosofiche; Membro dell'Istituto LombardoAccademia di Scienze e lettere; Membro del direttivo della Società Filosofica Italiana; Vice Presidente del Comitato Scientifico e Organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani dal 1985 al 1994; Consulente della Sacra Congregazione per l'Educazione Cattolica; Presidente di una delle Commissioni del Convegno ecclesiale Evangelizzazione e promozione umana a Roma dal 30 ottobre al 4 novembre 1976; Moderatore di uno dei cinque ambiti del Convegno ecclesiale Riconciliazione cristiana e comunità degli uomini a Loreto dal 9 al 13 aprile 1985; Uditore al Sinodo straordinario dei Vescovi indetto dal Papa per il 20º anniversario del Concilio Vaticano II; Studi Sul piano teorico, le direttive di indagine di Bausola sono soprattutto quella etica (fondazione della morale), quella antropologica (il problema della libertà; il tema della cultura e della cultura cristiana in particolare), e quelle della metafisica e della gnoseologia. I suoi interessi principali di studioso sono rivolti, sul piano storico all'idealismo e al neo-idealismo, esperto a livello internazionale di Friedrich Schelling e di Blaise Pascal i suoi studi sono rivolti anche a Franz Brentano, John Dewey e al pragmatismo, alla tematica esistenzialista. Caratteristico delle opere di Bausolalà dove si tratti dello studio di filosofi del passato, o del nostro tempoè il legame tra ricostruzione storica e ripensamento critico, secondo criteri teoretici: un orientamento volto, attraverso il dialogo con alcune delle più importanti prospettive della filosofia moderna e contemporanea, ad un ripensamento della concezione classica del sapere. La sua attività pubblicistica si è svolta sul terreno filosofico, politico-culturale, etico-religioso, e si è realizzata su giornali e su riviste di cultura.  Altre opere: “Saggi sulla filosofia di Schelling” (Milano, Vita e Pensiero); “L'Etica di John Dewey, Milano, Vita e Pensiero); “Filosofia e storia nel pensiero crociano, Milano, Vita e Pensiero); “Metafisica e rivelazione nella filosofia positiva di Schelling, Milano, Vita e Pensiero); “Etica e politica nel pensiero di Benedetto Croce, Milano, Vita e Pensiero); “Il pensiero di Schelling); “Conoscenza e moralità in Franz Brentano, Milano, Vita e Pensiero); “Indagini di storia della filosofia. Da Leibniz a Moore, Milano, Vita e Pensiero); “Lo svolgimento del pensiero di Schelling. Ricerche, Milano, Vita e Pensiero); “Il problema del valore nella filosofia analitica, Milano, Scuole Grafiche Opera Don Calabria); “Il problema della libertà. Introduzione a Sartre, Milano); “Filosofia della rivelazione. Federico Guglielmo Giuseppe Schelling” (Bologna, Zanichelli); “Introduzione a Pascal, Bari, Laterza); “Friedrich W. J. Schelling, Firenze, La Nuova Italia); “Filosofia Morale. Lineamenti, Milano, Vita e Pensiero); “Natura e progetto dell'uomo: riflessioni sul dibattito contemporaneo, Milano, Vita e Pensiero); “Libertà e relazioni interpersonali: introduzione alla lettura di L'essere e il nulla, Milano, Vita e Pensiero); “Pensieri, opuscoli, lettere di Blaise Pascal, con Remo Tapella, Milano, Rusconi); “Libertà e responsabilità, Milano, Vita e Pensiero “La libertà” (Brescia, La Scuola); “Le ragioni della libertà, le ragioni della solidarietà” (Milano, Vita e Pensiero); “Fra etica e politica, Milano, Vita e Pensiero. Onorificenze Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinariaMedaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1981 Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana —Cavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCavaliere di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana — Roma, 2 giugno 1988 Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magnonastrino per uniforme ordinariaCavaliere di Gran Croce dell'Ordine di San Gregorio Magno Note  Anna Maria Bausola Grillo, Adriano Bausola nei ricordi della sorella, ne Atti del convegno "Studi di Storia Ovadese", pubblicazione dedicata alla memoria di Adriano Bausola, Accademia Urbense di Ovada, Avvenire, su swif . Quirinale: dettaglio decorato.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato.  Emilio Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, in URBS Silva et flumen, Alessandro Laguzzi; Edilio Riccardini, Atti del Convegno Studi di Storia Ovadese, Ovada, Accademia Urbense, Costa, Un Ovadese nel mondo della cultura italiana: Adriano Bausola, filosofo, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, Anno su archiviostorico.net. Flavio Rolla, Adriano Bausola, filosofo. Ricordo dell'illustre ovadese a 10 anni dalla scomparsa, URBS silva et flumen, trimestrale di storia locale dell'Accademia Urbense di Ovada, su accademiaurbense. Dal sito filosofico.net: Adriano Bausola Diego Fusaro, su filosofico.net. blogphilosophica.wordpress Lorenzo Cortesi PredecessoreMagnifico Rettore dell'Università Cattolica del Sacro CuoreSuccessoreStemma UCSC.png Giuseppe Lazzati19831998Sergio Zaninelli Filosofia Università  Università Filosofo del XX secoloAccademici italiani Professore Ovada RomaBenemeriti della scuola, della cultura e dell'arteCavalieri di gran croce OMRICommendatori OMRIStudenti dell'Università Cattolica del Sacro CuoreRettori dell'Università Cattolica del Sacro CuoreProfessori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Adriano Bausola. Keywords: solidarietà, storia in Croce – “The problem with Bausola is that he is a Roman!” – Grice. Croce, fascismo, totalitarismo, utilitarismo, egoita, noi-ita, Marx, conflitto, cooperazione, soderale, anche solidaria, Butler, egoism, altruismo, self-love, other-love, self-love, benevolence, ichheit, wirkheit, weness, we-ness, io-ita, ioita – Archivio di Filosofia – noi-eta, noi-ita. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bausola” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bazzanella – il luogo dell’altro – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Grice: “I like Bazzanella; he has a totally different background from mine, but we can communicate – I have focused on conversational communication; he specializes in televisional communication; he has used Heidegger’s concept of contamination to elucidate that of structure .” Grice: “My favourite of his tracts must be one on ethics and topology, broadly understood, which is all that my theory of conversational helpfulness is about – Bazzanella entitles his essay, ‘il lugo dell’altro,’ playing with the strictness of his topological approach as applied to the ethos that results when ‘ego’ meets and communes with ‘alter.’”  Partecipa a tre edizioni della Biennale di Venezia e a una edizione della Biennale di Architettura. Di formazione fenomenologica e tutee di Rovatti, inizia la sua attività filosofica a con un saggio su Jankélévitch, per poi approfondire il pensiero di Heidegger, Husserl, nonché di autori francesi del secondo dopoguerra quali Derrida, Foucault, Lacan, Merleau-Ponty, Deleuze e Guattari. Delinea una echologia. Ipotizzando che l'ontologia non e che una finzione o un dispositivo di tipo immunologico, storicizzabile e tipico della società occidentale. Successivamente elabora l’echologia inserendola nel contesto più ampio del senso -- applicandola al consumo.  Espone a Udine "Size".  Il suo sviluppo della performance introduce nella gestualità del corpo le nuove tecnologie multimediali sulla scia delle installazioni di Tony Oursler. Alla  Biennale di Venezia progetta un'installazione multimediale (Blue Zone) che inaugura una serie di opere ispirate alla "morte dell'arte". In una mostra surreale, quasi post-human, le opere degli artisti sono ricoperte da un velo, mentre in una serie di monitor sparsi negli spazi espositivi vengono riprodotti i volti degli artisti che cercano di descrivere a parole le loro opere invisibili. Alla Biennale di Venezia del, invece, propone un'installazione (Overplay), inserita nel contesto di un palazzo veneziano, in cui 16 iPad riproducono in maniera casuale e differenziata delle domande generate da un software. Si tratta di un'evoluzione del progetto "Tautologia" nel quale invece il programma riproduce in rete una serie infinita di pensieri filosofici. Dal pensiero debole al pensiero orizzontale. Bazzanella declina la debolezza nel senso di un passaggio dalla profondità della metafisica a un'idea del superficiale di cui vede alcune tracce presenti in Husserl, Merleau-Ponty e Heidegger. In questo passaggio il relativismo non viene più interpretato come una manifestazione del nichilismo, bensì come il tentativo di articolare una filosofia di una “relazionie orizzontale” che tende a scardinare l'impianto della logica aristotelica.  L'echologia è un termine che Bazzanella desume da Deleuze a proposito di Tarde. Nella genesi delle Categorie di Aristotele ci siano stati movimenti contrapposti, in cui soltanto in una seconda istanza sarebbe prevalsa un'impostazione "usiologica", “ouisologia” -- cioè basata sulla centralità della "sostanza" (ousia, stantia, essential, izzing, x izzes y.  Questo passaggio è decisivo poiché segna il definitivo abbandono delle suggestioni della filosofia presocratica (Velia, Parmenide, Zenone, Crotone, Empedocle da Girgentu) ponendo le basi di quello che sarebbe stato l'impianto della filosofia occidentale. La lateralizzazione, dunque, della categoria di “échein” (hazzing – habitus) nel suo duplice significato di "avere" (Grice: x hazzes y”) e di "essere in relazione" ha comportato il privilegio dell'"essere" e di un'ontologia che impone un principio ed una gerarchia verticale, colla, suddivisione tra la "cosa" ed il "oggetto" (Grice’s ‘obble’). x Fid y.  La relazione diadica x/y e una “echo-logia, e non una “onto-logia”. L’echologia e decostruttiva. L’echo-logia evidenzia come ogni costruzione di senso, prima che “onto-logica” od ‘ontica’ e fondata sull’ente e  articolata sulla relazione o, come li definisce Bazzanella, sull’”essema”. In “Echologia,” attraverso una rilettura del concetto di “aletheia” (disvegliamento), sviluppa una teoria del senso secondo la quale il senso non può sussistere senza un rapporto essenziale con il “non” senso. Ciò significa che le classiche legge di Parmenide dell’identità, la legge della non-contraddizione, e la legge del terzo escluso sono costruite sopra una superficie illogica. La legge logica e una forma di copertura (vegliamento) dell'”àlogon” (‘irrationale’). Bazzanella sostiene inoltre che la legge logica (a izz a, non-a non izz a, a o non-a), dipende mimeticamente o iconicamente da una relazione essematica esprimibile come una pre-posizioni che istanzia una relazioni senza referenza a le due relati.  La preposizione "in" (‘jack IN the box). La preposizione "con" (p & q, p con q). La preposizione "di” (il perro di Strawsn). La preposizione “ri-" (Grice ri-torna). Si tratta di una filosofia al limite della pensabilità. Invita a non concepire la cosa o l’oggetto. Invita a concepire la *re-lazione* (re-ferenza) -- che vengono ad esempio esperite dal neonate. l'"in" esprime l'in-essere del feto nel grembo materno – Jack in the box, il feto nel grembo. Il "con" esprime l'essere-con la propria madre e il suo seno (“Achille e Teti”, “Romolo con la lupa”, La madre di Ascanio. La madre di Enea. La madre di Romolo (Rea Silva). Il padre di Romolo: Marte. Il "di-" echeggia nel “dià” del “dia-framma” rappresentato dal liquido amniotico rispetto al mondo esterno. Il dia-framma della dia-logo. El dia-lettico. Il "ri-" allude alla ri-petizione e al carattere originariamente ossessivo del bambino che cerca sicurezza ri-petendo sempre i medesimo gesto (pianto,  sorriso) e i medesimi suono (‘ma-ma’ ‘da-da’). L'impostazione relazionistica che è partita da una fenomenologia dell'orizzonte per articolarsi attraverso un'echologia e una teoria del senso, trova il suo significato nel "paradigma immunitario. Lo desume da Foucault e, soprattutto, da Gehlen, Sloterdijk ed Esposito. Se l'Ego si trova ggettato" nell'Altro sin dalla nascita, cioè in una relazione che viola la legge della logica e, soprattutto, che non consentono un ancoraggio rassicurante alla cosa ed all’ oggetto, deve proteggersi e difendersi. Questo processo avviene però in analogia con il sistema immunitario del corpo. Cioè l'Altro, il non-Ego, il non-senso (o anche il "reale" come lo definisce traendo spunto dalla definizione di Lacan) non può essere addomesticato che attraverso l'Altro. Il senso ha una funzione difensiva e immunizzante e si basa su una "mimesi" del reale mediata dall’essema. Il senso "imita" iconicamente così il non-senso, ne è una sorta di estrusione. Questo paradosso implica anche una riconsiderazione del soggetto e della relazioni di soggeti (l’inter-soggetivo), soprattutto alla luce del suo dispiegamento a partire dal cogito cartesiano. Il soggetto non coincide con un'identità, un "io" pre-costituito. L’”io” rappresenta una funzione immunologica in cui l'individuo assoggetta una cosa o un’altra persona, delegando le medesime ad affrontare il reale al proprio posto. Il soggetto è un a-soggetto nel doppio senso di non-essere-soggetto e di as-soggettare (ab-sub-jectum, ad-sub-jectum). La communita inter-soggetiva rappresenta il paradigma di un processo di normo-tipizzazione in cui una relazione essematica il puro cum senza relati, in questo caso si trasforma in una difesa immunologica nei confronti del "fuori". Riprende il dispositivo come orizzonte di potere intersoggetivo che funge da barriera o filtro nei confronti del reale, nonché da sistema di controllo endo-geno e normalizzante. La normotipia da' senso a una relazione nella misura in cui riesce a bilanciare più o meno efficacemente il senso e il non-senso. Il rischio di un sistema di senso, infatti, è paradossalmente quello di un eccesso di senso. Ciò implica infatti una psico-tizzazione della comunità intersoggetiva, e, quindi, una sorta di non-senso di ritorno. Gli esempi sono ormai classici: il marxismo declina nel leninismo e degenera  nello stalinismo. Il fascismo dai un presupposto  socialista diviene un totalitarismo spietato e annientante. Si tratta di un *eccesso* di senso, di un surplus immunitario che, se inizialmente intendeva distanziare e filtrare il reale, comporta alfine una sorta di "divenire-reale" del senso stesso, un'insensatezza reattiva e reazionaria. È in tale prospettiva che il modello di senso tardocapitalistico sembra svolgere una funzione autoimmunitaria. Il soggeto non ha a che fare soltanto con un processo di stretta pertinenza economica, ma con un orizzonte di senso condiviso che permea ogni aspetto dell'esistenza itersoggetiva. Società dello spettacolo e società dei consume momenti in cui in particolare si esplica il capitalism non sarebbero che una forme dialettica di reazione all'eccesso di senso del totalitarismio. Si tratta di un bilanciamento tra un'evasione nell'immaginario e un ri-torno al reale che si manifesterebbe nel momento stesso del consume. Note  A. Fabris, La noia, il nulla, in «aut aut», n. 270, La Nuova Italia, Firenze, Bonami, La dittatura dello spettatore, Catalogo generale della 50. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Storr (a c. di), Pensa con i sensi, senti con la mente, Catalogo generale della 52. Esposizione Internazionale d'Arte. La biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Birnbaum (a c. di), Fare Mondi, Catalogo generale della 53. Esposizione Internazionale d'Arte. La Biennale di Venezia, Marsilio, Venezia, Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France, Feltrinelli, Milano, Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino, Esposito, Communitas. Origine e destino della comunità, Einaudi, Torino, Tempo e linguaggio. Studio su Vladimir Jankélévitch, Franco Angeli, Milano, Orizzonte. Passività e soggetto in Husserl e Merleau-Ponty, Guerini e associati, Milano, Contaminazione. L'idea di struttura in Heidegger, Franco Angeli, Milano, Spazio e potere. Heidegger, Foucault, la televisione, Mimesis, Milano, Il luogo dell'Altro. Etica e topologia in Jacques Lacan, Franco Angeli, Milano, Idee per un'echologia fenomenologica, Franco Angeli, Milano, Echologia. Introduzione a una fenomenologia della proprietà e a una critica del pensiero ontologico, Asterios Editore, Trieste, Fede, echologia, sapere, Asterios Editore, Trieste, La Fabbrica, Trieste, FrancoPuzzoEditore,  Trattato di echologia, Mimesis, Milano, La fabbrica, FPE Editore, Trieste, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari, Mimesis, (Milano). Il tardocapitalismo. Decorsi e patologie di una rivoluzione permanente, Asterios Editore, Trieste, Etica del tardocapitalismo, Mimesis, Milano, Logica e tempo, Abiblio, Trieste, Autoscrittura, Asterios Editore, Trieste, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo, Mimesis, Milano  Religio II. La religione del soggetto, Mimesis, Milano. Indignatevi, Asterios Editore Trieste. Oltre la decrescita. Il Tapis Roulant e la società dei consumi, Asterios Editore, Trieste. Lacan. Immaginario, simbolico e reale in tre lezioni, Asterios, Trieste. Filosofie della paura. Verso la condizione post-postmoderna, Asterios Editore, Trieste. La filosofia e il suo consumo. Nuovo realismo e postmoderno, Asterios Editore, Trieste. Religio III. Logica e follia, Mimesis, Milano. Eros e Thanatos. Senso, corpo e morte nel XX Seminario di Lacan, Asterios Editore, Trieste,. Come. Linee guida per una immuno-fenomenologia, Asterios Editore, Trieste,. Il numero e il fenomeno, Asterios Editore, Trieste. Il tragico e il comico nell'epoca del grillismo e del trumpismo, Asterios Editore, Trieste. Simbolo e violenza, Asterios Editore, Trieste. Del fallimento. Simbolo e violenza II, Asterios Editore. Filosofi italiani del XX secoloFilosofi. Emiliano Bazzanella. Keywords: il lugo dell’altro – etica e topologia, L’echologia di Grice (dal greco ‘echein,’ avere, hazzing), essema, essematica, inessema, coessema, diaessema, riessema, aritmetica. Esposito, communita, immunita.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bazzanella” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Beccaria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I would call Beccaria a Griceian, but I’m not sure he would call me a Beccarian!” Grice: “His explicit, rather than implicated, Griceian ideology is in the opening chapter on “Lo stilo conversazionale’ – he notes that the implicaturum ain’t a part of the ‘sintassi’ of the ‘proposizione’ which is explicated – he adds that ‘senses’ should not be multiplied because your addressee may get YOUR sense, but trust he will lose interest if you keep multiplying – “to the risk that he won’t get your sense in the last place!” – Grice: “Like me, Beccaria was a unitarian philosopher; his tract on ‘I piaceri’ is delightful, very pleasant read!” – If Austin and us met on different grounds and pubs, Beccaria met at the caffe, and he liked it – Italians, unfortunately, only know him for his tract on guilt and punishment!” – Grice: “Most Italians don’t even  consider Beccaria an Italian philosopher but as a member of the Accademia dei Pigne, as part of the illuminismo Lombardo --.” Grice: “The philosophical panorama or landscape of Italian philosophy is much diverse than our Oxonian dialectic!” --  One of the most essential of Italian philosophersReferred to by H. P. Grice in his explorations on moral versus legal right, studied in Parma and Pavia and taught political economy in Milan. Here, he met Pietro and Alessandro Verri and other Milanese intellectuals attempting to promote political, economical, and judiciary reforms. His major work, Dei delitti e delle pene “On Crimes and Punishments,” 1764, denounces the contemporary methods in the administration of justice and the treatment f criminals. Beccaria argues that the highest good is the greatest happiness shared by the greatest number of people; hence, actions against the state are the most serious crimes. Crimes against individuals and property are less serious, and crimes endangering public harmony are the least serious. The purposes of punishment are deterrence and the protection of society. However, the employment of torture to obtain confessions is unjust and useless: it results in acquittal of the strong and the ruthless and conviction of the weak and the innocent. Beccaria also rejects the death penalty as a war of the state against the individual. He claims that the duration and certainty of the punishment, not its intensity, most strongly affect criminals. Beccaria was influenced by Montesquieu, Rousseau, and Condillac. His major work was tr. into many languages and set guidelines for revising the criminal and judicial systems of several European countries. Se dimostrerò non essere la pena di morte né utile, né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità.»  (da Dei delitti e delle pene) Cesare Beccaria Bonesana, marchese di Gualdrasco e di Villareggio (Milano), giurista, filosofo, economista e letterato italiano considerato tra i massimi esponenti dell'illuminismo italiano, figura di spicco della scuola illuministica milanese.  La sua opera principale, il trattato Dei delitti e delle pene, in cui viene condotta un'analisi politica e giuridica contro la pena di morte e la tortura sulla base del razionalismo e del pragmatismo di stampo utilitarista, è tra i testi più influenti della storia del diritto penale ed ispirò tra gli altri il codice penale voluto dal granduca Pietro Leopoldo di Toscana.  Nonno materno di Alessandro Manzoni, Cesare Beccaria è considerato inoltre come uno dei padri fondatori della teoria classica del diritto penale e della criminologia di scuola liberale.  nacque a Milano (allora appartenente all'impero asburgico), figlio di Giovanni Saverio di Francesco e di Maria Visconti di Saliceto, il 15 marzo 1738. Fu educato a Parma dai gesuiti e si laureò in Giurisprudenza il 13 settembre 1758 all'Università degli Studi di Pavia. Il padre aveva sposato la Visconti in seconde nozze nel 1736, dopo essere rimasto vedovo nel 1730 di Cecilia Baldroni.  Nel 1760 Cesare sposò Teresa Blasco contro la volontà del padre, che lo costrinse a rinunciare ai diritti di primogenitura (mantenne però il titolo di marchese); da questo matrimonio ebbe quattro figli: Giulia, Maria (1766-1788), nata con gravi problemi neurologici e morta giovane, Giovanni Annibale nato e morto nel 1767 e Margherita anch'essa nata e morta nel 1772.  Il padre lo cacciò anche da casa dopo il matrimonio, così dovette essere ospitato da Pietro Verri, che lo mantenne anche economicamente per un periodo.  Teresa morì il 14 marzo 1774, a causa della sifilide o della tubercolosi. Beccaria, dopo appena 40 giorni di vedovanza, firmò il contratto di matrimonio con Anna dei Conti Barnaba Barbò, che sposò in seconde nozze il 4 giugno 1774, ad appena 82 giorni dalla morte della prima moglie. Da Anna Barbò ebbe un altro figlio, Giulio. l suo avvicinamento all'Illuminismo avvenne dopo la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie ai quali si entusiasmò per i problemi filosofici e sociali ed entrò nel cenacolo di casa Verri, dove aveva sede anche la redazione del Caffè, il più celebre giornale politico-letterario del tempo, per il quale scrisse sporadicamente. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di economia, nel 1764 diede alle stampe Dei delitti e delle pene, capolavoro ispirato dalle discussioni in casa Verri del problema dello stato deplorevole della giustizia penale. Inizialmente anonimo è un breve scritto contro la tortura e la pena di morte che ebbe enorme fortuna in tutta Europa e nel mondo e in particolare in Francia.  Contro le posizioni di Beccaria uscì, nel 1765 il testo Note ed osservazioni sul libro intitolato Dei delitti e delle pene di Ferdinando Facchinei. Le polemiche che ne seguirono contribuirono alla decisione di mettere il trattato di Beccaria all'Indice dei libri proibiti nel 1766, a causa della distinzione tra peccato e reato. Nel 1766 Beccaria viaggiò poi controvoglia fino a Parigi, e solo dietro l'insistenza dei fratelli Verri e dei filosofi francesi desiderosi di conoscerlo. Fu accolto per breve tempo nel circolo del barone d'Holbach. La sua giustificata gelosia per la moglie lontana e il suo carattere ombroso e scostante, fecero sì che appena possibile tornasse a Milano, lasciando solo il suo accompagnatore Alessandro Verri a proseguire il viaggio verso l'Inghilterra. Il carattere riservato e riluttante di Beccaria, tanto nelle vicende private quanto nelle pubbliche, ebbe nei fratelli Verri, e soprattutto in Pietro, un fondamentale punto di appoggio e di stimolo soprattutto quando iniziò ad interessarsi allo studio dell'economia. Come Rousseau, Beccaria era a tratti paranoico e aveva spesso sbalzi d'umore, la sua personalità era abbastanza indolente e il carattere debole, poco brillante e non portato alla vita sociale; ciò non gli impediva però di esprimere molto bene i concetti che aveva in mente, soprattutto nei suoi scritti.  Tornato a Milano nel 1768 ottenne la cattedra di Scienze Camerali (economia politica), creata per lui nelle scuole palatine di Milano e cominciò a progettare una grande opera sulla convivenza umana, mai completata.   Antonio Perego, L'Accademia dei Pugni. Da sinistra a destra: Alfonso Longo (di spalle), Alessandro Verri, Giambattista Biffi, Cesare Beccaria, Luigi Lambertenghi, Pietro Verri, Giuseppe Visconti di Saliceto Entrato nell'amministrazione austriaca nel 1771, fu nominato membro del Supremo Consiglio dell'Economia, carica che ricoprì per oltre vent'anni, contribuendo alle riforme asburgiche sotto Maria Teresa e Giuseppe II. Fu criticato per questo dagli amici (tra cui Pietro Verri), che gli rimproveravano di essere diventato un burocrate. Gli studiosi, però, considerano questi giudizi ingiusti dal momento che Cesare Beccaria si dedicò ad importanti riforme, che richiedevano una notevole preparazione intellettuale, non solo amministrativa. Fra queste ci fu la riforma delle misure dello stato milanese, intrapresa prima di quella del sistema metrico decimale francese, e a cui Beccaria, insieme al fratello Annibale, dedicò quasi vent'anni della sua vita. (La riforma, notevolmente complessa, coinvolse alla fine solo il braccio milanese. La successiva riforma dei pesi non fu mai realizzata.)  Il suo rapporto con la figlia Giulia, futura madre di Alessandro Manzoni, fu conflittuale per gran parte della sua vita; ella era stata messa in collegio (nonostante Beccaria avesse spesso deprecato i collegi religiosi) subito dopo la morte della madre e lì dimenticata per quasi sei anni: suo padre non volle più sapere niente di lei per molto tempo e non la considerò mai sua figlia, bensì il frutto di una relazione extraconiugale delle numerose che la moglie aveva avuto. Beccaria non si sentiva adeguato al ruolo di padre, inoltre negò l'eredità materna alla figlia, avendo contratto dei debiti: ciò gli diede la fama di irriducibile avarizia. Giulia uscì dal collegio nel 1780, frequentando poi gli ambienti illuministi e libertini. Nel 1782 la diede in sposa al conte Pietro Manzoni, più vecchio di vent'anni di lei: il nipote Alessandro nacque nel 1785, ma pare fosse in realtà il figlio di Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro, e amante di Giulia. Prima della morte del padre, Giulia abbandonò il marito, nel 1792, per andare a vivere a Parigi insieme al conte Carlo Imbonati, rompendo i rapporti definitivamente col padre,  e temporaneamente anche con il figlio.  Beccaria morì a Milano il 28 novembre 1794, a causa di un ictus, all'età di 56 anni, e trovò sepoltura nel Cimitero della Mojazza, fuori Porta Comasina, in una sepoltura popolare (dove fu sepolto anche Giuseppe Parini) anziché nella tomba di famiglia. Quando tutti i resti vennero traslati nel cimitero monumentale di Milano, un secolo dopo, si perse traccia della tomba del grande giurista. Pietro Verri, con una riflessione valida ancora oggi, deplorò nei suoi scritti il fatto che i milanesi non avessero onorato abbastanza il nome di Cesare Beccaria, né da vivo né da morto, che tanta gloria aveva portato alla città. Ai funerali di Beccaria era presente anche il giovane nipote Alessandro Manzoni (che riprenderà molte delle riflessioni del nonno e di Verri nella Storia della colonna infame e nel suo capolavoro, I promessi sposi), nonché il figlio superstite ed erede, Giulio. Beccaria fu influenzato dalla lettura di Locke, Helvetius, Rousseau e, come gran parte degli illuministi milanesi, dal sensismo di Condillac. Fu influenzato anche dagli enciclopedisti, in particolare da Voltaire e Diderot. Partendo dalla classica teoria contrattualistica del diritto, derivata in parte dalla formulazione datane da Rousseau, che sostanzialmente fonda la società su un contratto sociale (nell'omonima opera) teso a salvaguardare i diritti degli individui e a garantire in questo modo l'ordine, Beccaria definì in pratica il delitto in maniera laica come una violazione del contratto, e non come offesa alla legge divina, che appartiene alla coscienza della persona e non alla sfera pubblica. La società nel suo complesso godeva pertanto di un diritto di autodifesa, da esercitare in misura proporzionata al delitto commesso (principio del proporzionalismo della pena) e secondo il principio contrattualistico per cui nessun uomo può disporre della vita di un altro (Rousseau non considerava moralmente lecito nemmeno il suicidio, in quanto non l'uomo, ma la natura, nella visione del ginevrino, aveva potere sulla propria vita, e quindi tale diritto non poteva certamente andare allo Stato, che comunque avrebbe violato un diritto individuale). Il punto di vista illuministico del Beccaria si concentra in frasi come «Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l'uomo cessi di essere persona e diventi cosa». Ribadisce come è necessario neutralizzare l'«inutile prodigalità di supplizi» ampiamente diffusi nella società del suo tempo. La tesi umanitaria, messa in risalto da Voltaire, è parzialmente da lui accantonata, in quanto Beccaria vuole dimostrare pragmaticamente l'inutilità della tortura e della pena di morte, più che la loro ingiustizia. Egli è infatti consapevole che i legislatori sono mossi più dall'utile pratico di una legge, che da principi assoluti, di ordine religioso o filosofico. Beccaria afferma infatti che «se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell'umanità». Beccaria quindi si inserisce nel filone utilitaristico: considera l'utile come movente e metro di valutazione di ogni azione umana.   Monumento a Cesare Beccaria, Giuseppe Grandi, Milano L'ambito della sua dottrina è quello general-preventivo, nel quale si suppone che l'uomo sia condizionabile in base alla promessa di un premio o di un castigo e, nel contempo, si ritiene che sussista fra ogni cittadino e le istituzioni una conflittualità più o meno latente. Sostiene la laicità dello Stato. Adotta come metodo d'indagine quello analitico-deduttivo (tipico della matematica) e per lui l'esperienza è da intendersi in termini fenomenici (approccio sensista).  La natura umana si svolge in una dimensione edonistico-pulsionistica, ovvero sia i singoli, sia la moltitudine, agiscono seguendo i loro sensi. In poche parole l'uomo è caratterizzato dall'edonismo. Gli individui possono essere parago dei «fluidi» messi in movimento dalla costante ricerca del piacere, intesa come fuga dal dolore. L'uomo però è una macchina intelligente capace di razionalizzare le pulsioni, in modo da consentire la vita in società; infatti certamente ogni uomo pretende di essere autonomo e insindacabile nelle sue decisioni, ma si rende conto della convenienza della vita sociale. Ma la conflittualità rimane e quindi bisogna impedire che il cittadino venga sedotto dall'idea di infrangere la legge al fine di perseguire il proprio utile a tutti i costi, pertanto il legislatore, da «abile architetto», deve predisporre sanzioni e premi in funzione preventiva; è necessario tenere sotto controllo i «fluidi», inibendo le pulsioni antisociali.  Tuttavia Beccaria sostiene che la sanzione deve essere sì idonea e sicura, a garantire la difesa sociale, ma al contempo mitigata e rispettosa della persona umana.  «Il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d'impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d'infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione più efficace e più durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.» «Parmi un assurdo che le leggi, che sono l'espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l'omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall'assassinio, ordinino un pubblico assassinio»  (Dei delitti e delle pene, cap. XXVIII)  Illustrazione allegorica da Dei delitti e delle pene: la giustizia personificata respinge il boia, con in mano una testa, e una spada. La pena di morte, “una guerra della nazione contro un cittadino”, è inaccettabile perché il bene della vita è indisponibile, quindi sottratto alla volontà del singolo e dello Stato. Inoltre essa:  non è un vero deterrente non è assolutamente necessaria in tempo di pace Essa non svolge un'adeguata azione intimidatoria poiché lo stesso criminale teme meno la morte di un ergastolo perpetuo o di una miserabile schiavitù: si tratta di una sofferenza definitiva contro una sofferenza ripetuta. Ai soggetti che assistono alla sua esecuzione, inoltre, essa può apparire come uno spettacolo o suscitare compassione. Nel primo caso, essa indurisce gli animi, rendendoli più inclini al delitto; nel secondo, non rafforza il senso di obbligatorietà della legge e il senso di fiducia nelle istituzioni.  Questa condizione è assai più potente dell'idea della morte e spaventa più chi la vede che chi la soffre; è quindi efficace ed intimidatoria, benché tenue. In realtà così facendo viene sostituita alla morte del corpo la morte dell'anima, il condannato viene annichilito interiormente. Tuttavia non è la punizione fine a sé stessa l'obiettivo di Beccaria, ma egli utilizza questo argomento dell'afflittività penale per convincere i governanti e i giudici, in quanto il suo fine resta eminentemente rieducativo e risarcitivo (il condannato non deve essere afflitto o torturato, ma deve riparare il danno in maniera economico-politica, come previsto da una concezione puramente utilitaristica e di giustizia anti-retributiva).  Beccaria ammette che il ricorso alla pena capitale sia necessario solo quando l'eliminazione del singolo fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, come nel caso di chi fomenta tumulti e tensioni sociali: ma questo caso non sarebbe applicabile se non verso un individuo molto potente e solo in caso di una guerra civile. Tale motivazione fu usata, per chiedere la condanna di Luigi XVI, da Maximilien de Robespierre, il quale era inizialmente avverso alla pena capitale ma in seguito diede il via ad un uso spropositato della pena di morte e poi al Terrore; comportamenti del tutto inammissibili nel pensiero di Beccaria, che infatti prese le distanze, come molti illuministi moderati, dalla Rivoluzione francese dopo il 1793.  La tortura, “l'infame crociuolo della verità”, viene confutata da Beccaria con varie argomentazioni:  essa viola la presunzione di innocenza, dato che «un uomo non può chiamarsi reo fino alla sentenza del giudice». consiste in un'afflizione e pertanto è inaccettabile; se il delitto è certo porta alla pena stabilita dalle leggi, se è incerto non si deve tormentare un possibile innocente. non è operativa in quanto induce a false confessioni, poiché l'uomo, stremato dal dolore, arriverà ad affermare falsità al fine di porre termine alla sofferenza. è da rifiutarsi anche per motivi di umanità: l'innocente è posto in condizioni peggiori del colpevole. non porta all'emenda del soggetto, né lo purifica agli occhi della collettività. Beccaria ammette razionalmente l'afflizione della tortura nel caso di testimone reticente, cioè a chi durante il processo si ostini a non rispondere alle domande; in questo caso la tortura trova una sua giustificazione, ma egli preferisce comunque chiederne la totale abolizione, in quanto l'argomento utilitario viene in questo caso sopraffatto comunque da quello razionale (il fatto che è ingiusto applicare una pena preventiva, sproporzionata e comunque violenta).  Il carcere preventivo Beccaria mostra dubbi e raccomanda cautela nella custodia cautelare in attesa di processo, attuata negli ordinamenti penali solitamente in casi di pericolo di fuga, reiterazione o inquinamento delle prove, e alla sua epoca assolutamente discrezionale e ingiusta. «Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è l'opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi, d'imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e il lasciare impunito un amico ad onta degl'indizi più forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza di ogni altra, precedere la dichiarazione del delitto; ma questo carattere distintivo non le toglie l'altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi, nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gli indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena.»  Può essere necessaria, ma essendo comunque una pena contro un presunto innocente, come la tortura (concezione garantista della giustizia), non deve essere attuata tramite arbitrio di un magistrato o di un ufficiale di polizia. La carcerazione dopo cattura e prima del processo è ammessibile solo quando ci sia, oltre ogni dubbio la prova della pericolosità dell'imputato: «pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d'un compagno del delitto, le minacce e la costante inimicizia con l'offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino. Ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de' quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice».  Le prove dovranno essere quanto più solide quanto la prigionia rischi di essere lunga o pesante: «A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l'umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno agli inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d'indizi sempre più deboli per catturare».  Egli raccomanda inoltre la piena riabilitazione per la carcerazione ingiusta: «Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assoluto, non dovrebbe portar seco nota alcuna d'infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è così diverso ai tempi nostri l'esito di un innocente? perché sembra che nel presente sistema criminale, secondo l'opinione degli uomini, prevalga l'idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplizio, che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbono essere».  Il carattere della sanzione  Frontespizio di Scritti e lettere inediti del 1910  Cesare Beccaria, incisione da Dei delitti e delle pene Beccaria indica come la sanzione deve possedere alcuni requisiti:  la prontezza ovvero la vicinanza temporale della pena al delitto l’infallibilità ovvero vi deve essere la certezza della risposta sanzionatoria da parte delle autorità la proporzionalità con il reato (difficile da realizzare ma auspicabile) la durata, che dev'essere adeguata la pubblica esemplarità, infatti la destinataria della sanzione è la collettività, che constata la non convenienza all'infrazione essere la «minima delle possibili nelle date circostanze» Secondo Beccaria, per ottenere un'approssimativa proporzionalità pena-delitto, bisogna tener conto:  del danno subito dalla collettività del vantaggio che comporta la commissione di tale reato della tendenza dei cittadini a commettere tale reato Non dev'essere comunque una violenza gratuita, ma dev'essere dettata dalle leggi, oltre a possedere tutti i caratteri razionali citati, e sprovvista di personalismi e sentimenti irrazionali di vendetta.  La pena è oltretutto una extrema ratio, infatti si dovrebbe evitare di ricorrere ad essa quando si hanno efficaci strumenti di controllo sociale (non deve inoltre colpire le intenzioni in maniera analoga al fatto compiuto: ad esempio, l'attentato fallito non è paragonabile a uno riuscito). Per questi motivi è importante attuare degli espedienti di “prevenzione indiretta”, come ad esempio: un sistema ordinato della magistratura, la diffusione dell'istruzione nella società, il diritto premiale (premiare la virtù del cittadino, anziché punire solo la colpa), una riforma economico-sociale che migliori le condizioni di vita delle classi sociali disagiate. Beccaria si dichiara inoltre sospettoso verso il sistema delatorio (cosiddetta collaborazione di giustizia), da usare solo per prevenire delitti importanti, in quanto incoraggia il tradimento e favorisce dei criminali rei confessi dando loro l'impunità.  Per quanto riguarda l'istituto premiale nella pena già comminata, cioè le amnistie e la grazia, essi possono essere usati ma con cautela: al condannato che si comporta in maniera esemplare durante l'esecuzione della pena o in casi specifici, ma solo in caso di pene pesanti, esse possono essere concesse; suggerisce però di limitare la discrezionalità del governante e del giudice, poiché egli teme che lo strumento della clemenza venga usato per favoritismi, come nell'Antico Regime, eliminando anche pene lievi a persone che siano potenti o vicini politicamente o umanamente al sovrano: «La clemenza è la virtú del legislatore e non dell'esecutor delle leggi», scrive infatti.  Pertanto il fine della sanzione non è quello di affliggere, ma quello di impedire al reo di compiere altri delitti e di intimidire gli altri dal compierne altri, fino a parlare di "dolcezza della pena", in contrasto alla pena violenta:  «Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l'infallibilità di esse. La certezza di un castigo, benché moderato farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito con la speranza dell'impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l'idea dei maggiori, massimamente quando l'impunità, che l'avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L'atrocità stessa della pena fa sì che si ardisca tanto più per schivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa sì che si commettano più delitti, per fuggir la pena di uno solo.  I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. (...) Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male deve essere calcolata l'infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico.»  Il diritto all'autodifesa: sul porto di armi Il pensiero di Beccaria sul porto di armi, che egli riteneva un utile strumento di deterrenza del crimine, si riassume nelle seguenti citazioni:  «Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di troppa conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l'acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portare armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determii delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi più sacre della umanità e le più importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravvenzioni, e l'esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all'uomo, carissima all'illuminato legislatore, e sottopone gl'innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei? Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell'assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiamano leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl'inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale»  Influenza Anche Ugo Foscolo rileverà nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis che "le pene crescono coi supplizi".  L'opera ed il pensiero di Beccaria, inoltre, influenzarono la codificazione del Granducato di Toscana, concretizzata nella Riforma della legislazione criminale toscana, promulgata da Pietro Leopoldo d'Asburgo nel 1787, meglio conosciuta come "Codice leopoldino" col quale la Toscana divenne il primo stato in Europa ad eliminare integralmente la pena di morte e la tortura dal proprio sistema penale.  Il filosofo utilitarista Jeremy Bentham ne riprenderà alcune idee.  Le idee del Beccaria stimolarono un dibattito (si pensi alle critiche che Kant gli mosse nella sua Metafisica dei costumi) ancora vivo e attuale oggi.  Citazioni e riferimenti  Monumento a Cesare Beccaria, Milano Nel 1837 venne realizzato un monumento a Cesare Beccaria, opera dello scultore Pompeo Marchesi, posto sulla scalinata richiniana del palazzo di Brera. Venne inaugurato un secondo monumento in marmo a Milano (oggi piazza Beccaria); a causa del deterioramento, nel 1913 il monumento fu sostituito da una copia in bronzo. Gli è stato dedicato un asteroide: 8935 Beccaria. Il carcere minorile di Milano è a lui intitolato. A lui è intitolato un prestigioso Liceo Classico milanese, il Ginnasio Liceo Statale Cesare Beccaria. A lui è dedicato uno dei 3 dipartimenti della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Milano. Altre opere: “Del disordine e de' rimedi delle monete a Milano”; “Del delitto e della pena” (Livorno, Marco Cortellini).  Giovanni Claudio Molini); “Ricerche intorno alla natura dello stile”; “Elementi di economia pubblica”; “Raccolte di articoli Gli articoli di Beccaria in «Il Caffè» Collana «Pantheon», Bollati Boringhieri). Due volumi,  Genealogia Dati tratti da genealogia settecentesca della famiglia Beccaria con indicazione della discendenza di Cesare Beccaria”; “Simone «attese a negozi con prosperità”;  Gerolamo «tesoriere di vari luoghi pii, uomo di molti trafici” Sposa Isabella Busnata di Giovanni Stefano.    Galeazzo «I.C. causidico nel civile».   Francesco “cassiere generale del Banco Sant'Ambrogio sino a morte ed agente del luogo Pio della Carità». Sposa Anna Cremasca.Filippo «Successe al padre nel posto di cassiere suddetto, che poscia rinunciò e si fece sacerdote». Anastasia«Monaca in Vigevano»    Giovanni «Alla morte di suo padre ebbe un'entrata di scuti 5000 con che la trattò alla cavalleresca». Sposò Maddalena Bonesana figlia di Francesco («rimaritata nel conte Isidoro del Careto»).   Francesco «Fece aquisto de sudetti feudi di Gualdrasco e Villareggio nel vicariato di Settimo per istrumento 3 marzo 1705 rogato dal notaio Benag.a. Creato marchese nel 1711 per cesareo diploma». Sposò Francesca Paribelli di Nicolò «da Sondrio nella Valtellina».  Giovanni Saverio Secondo marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Ereditò il cognome Bonesana del prozio Cesare Bonesana. Con decreto, entrò a far parte del patriziato milanese. Sposa Cecilia Baldironi Maria Visconti di Saliceto Cesare Terzo marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò  Teresa de Blasco Anna Barbò    Giulia Sposò Pietro Manzoni.   Anna Maria Aloisia Giovanni Annibale    Margherita Teresa    Giulio Quarto marchese di Gualdrasco e di Villareggio. Sposò nel 1821 Antonietta Curioni de Civati Francesca Cecilia Cesare Antonio Maddalena Sposò Giulio Cesare Isimbardi Tozzi.    Annibale Sposò nel 1776 Marianna Vaccani Francesco (1749-1856)Sposò  Rosa Conti (vedova Fè). Carlo Sposò Rosa Tronconi Giacomo Filippo Mariaabate   Carlo Teresamonaca Chiaramonaca Nicola Francesco Laureato in legge, membro del collegio dei giurisperiti, fu anche giudice a Milano e a Pavia.    Giuseppe   Marianna   Ignazio   Anna Maria Sposò un Cattaneo «fisico»   Gerolamo«Canonico ordinario del Duomo»   AngiolaSposò Alberto Priorino nel 1619. Tendente al deismo  Il nome di «marchese di Beccaria», usato talvolta nella corrispondenza, si trova in molte fonti (tra cui l'Enciclopedia Britannica) ma è errato: il titolo esatto era «marchese di Gualdrasco e di Villareggio» (cfr. Maria G. Vitali, Cesare Beccaria. Progresso e discorsi di economia politica, Paris, Philippe Audegean, Introduzione, in Lione, 20099. )  John Hostettler, Cesare Beccaria: The Genius of 'On Crimes and Punishments', Hampshire, Waterside Press, Indicata come "Ortensia" in Pompeo Litta, Visconti, in Famiglie celebri italiane.  Renzo Zorzi, Cesare Beccaria. Dramma della Giustizia, Milano, Pirrotta, art. cit  C. e M. Sambugar, D. Ermini, G. Salà, op, cit..  Emanuele Lugli, 'Cesare Beccaria e la riduzione delle misure lineari a Milano,' Nuova Informazione Bibliografica non riposa sul Lario  F.Venturi, Settecento riformatore, Einaudi, Torino, Sambugar, Salà, Letteratura modulare,  I  Dei delitti e delle pene, capitolo XII  Cesare Beccaria, la scoperta della libertà, con Lucio Villari, Il tempo e la storia, Rai Tre  Dei delitti e delle pene, capitolo VI  Dei delitti e delle pene, Capitolo XLVII  Dei delitti e delle pene, Capitoli 38 e seguenti  Dei delitti e delle pene, capitolo 46, Delle grazie  Dei delitti e delle pene, capitolo 27  I. Kant, La metafisica dei costumi, traduzione e note di G. Vidari, revisione di N. Merker, 10ª ed., Roma-Bari, Laterza,   «Il marchese Beccaria, per un affettato sentimento umanitario, sostiene [...] la illegalità di ogni pena di morte: essa infatti non potrebbe essere contenuta nel contratto civile originario, perché allora ogni individuo del popolo avrebbe dovuto acconsentire a perdere la vita nel caso ch'egli avesse a uccidere un altro (nel popolo); ora questo consenso sarebbe impossibile perché nessuno può disporre della propria vita. Tutto ciò però non è che sofisma e snaturamento del diritto».  Teatro genealogico delle famiglie nobili milanesi, su Hispanic Digital Library.  Felice Calvi, Il patriziato milanese, Milano, 1875,  52-53.  Nella genealogia settecentesca è indicato un Nicolò abbate.  Pietro Verri, Scritti di argomento familiare e autobiografico, G. 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Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Beccaria," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.  Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale sarà intorno al diverso effetto che le idee accessorie pos sono produrre quando siano espresse coi termini loro corrispondenti, o quando siano semplicemente suggerite o destate nell' animo di chi legge o di chi ascolta. Espresse nuocerebbero al fascio intero del le sensazioni; destate solamente lo giovano, non solo perchè la picciola fatica che facciamo, e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza abbiano le idee espresse e le taciute, e tutt'altra attenzione esigono da noi quel le che queste. Ora le attenzioni saranno tanto più lunghe o più frequenti, tanto più si nuocono tra di loro, e scemano l'attenzione al tutto; mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per tutte le idee espresse, e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione deile parti, o solamente ad alcune noi faremo idee accessorie e non espresse, accrescono delle sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una simultanea attenzione: la vivacità degli oggetti presenti non le concedono una maggior ampiezza ed u na maggiore comprensibilità. Nelle cose lette o ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della parola visibile o auditiva se noi dunque volessimo tutte le accessorie, che si tacciono, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo della mente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune l'immagine corrispondente alla parola si risveglierà nella mente, ed allora le altre parole rimanendo insignificanti. Se dunque una parola racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come 'spada', 'esercito', 'nave', ec. cosic chè la mente dalla parola medesima non sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti  1 e terruzione al senso, e distruggeranno l'effetto delle altre in vece di aumentarlo., faranno i n 43 suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a co nsiderarle tutte in una volta, accaderà che condensando due o tre di queste parole intorno ad un'idea principale, vi saranno non due o tre accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza al la principale, ma invece un molto maggior numero, quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto i nomi di 'spada', 'esercito', 'nave', ec.: tutte queste varie e numerose sensazioni non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite, tutte concorrono contemporaneamente ad associarsi colla principale; onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é confusa. Per lo contrario, se invece de' nomi 'spada', 'esercito', 'nave', ec., si dicesse 'ferro', 'soldato', 'vele', e che questi nomi si condensassero attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio significato delle tres uddette parole si quelle ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia; saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di onde associazione non tra lascerà la parola di 'ferro' di suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola 'spada'; quella di 'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priamente queste sensazioni suggerite pro associate colle parole 'ferro', 'soldato', e 'vele', ma con le idee che nuocere alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò st che io intendo per idee suggerite e per idee espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo che nel progresso io avrò parlato de' nomi speciali ed appellativi, e de' traslati. sono. E de sta que immediatamente risvegliano, non pos Le idee semplicemente suggerite non entrano nella sintassi della proposizione, la quale regge senza di quelle: non sono non SI. Accipite hanc animam, me que his exolvit e curis, quanta folla d'idee si risveglia in chi legge quelle sole parole, in quella occasione dette, dulces exuviae: la sintassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente!  Egli è evidente che una medesima serie d'idee per intervalli di tempo più lunghi occupa la mente se siano espresse, di quello che se siano taciute, per chè un maggior tempo si consuma nella percezione della parola, per la durata della quale si continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dalle parole immediatamente, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore dispendio ditempo e di forzesi ottiene un più grande effetto. Quando Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant,  a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del tutto, oppure essunto nella rapida ed affollata successio ne d'imagini che per forza di associa zione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non sarà inutile il qui osservare che molte espressioni non so no preferibili alle altre, se non appunto perchè la sensazione auditiva o della parola è materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile pressione la parola cocchio della carrozza non per es parola visibile breve l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed avilita pressione, giacchè tant'altre che nelle bocche di tutti sieno continuamente; cio nonostante nè si rigettano, nè per meno belle son riputate, ma soltanto p e r chè è parola più breve, e l'idea da un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e ditempo. Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verremmo mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'idea principale dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'accessorio principale, pro la durrebbe e confusione nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate d'idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro nonè per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili) è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti e la politica debbono aver considerazione; perchè tutte le più fine e le più sottili ed interiori, egualmente che le più complicate e più grossolane ed esteriori operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accesso rie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo, tramolte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, una sola sarà l'espressa, le altre taciute; perchè se tutte fossero espresse, ciascheduna espressione replicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e d i spendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso. In secondo luogo, tra la moltitudine delle idee accessorie vi saranno, oltre le analoghe, quelle che sono più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed associate: di queste ognu na apre la mente ad una serie d'impressioni, e sono direi quasi capi -idee e c a pi- pensieri; queste saranno le espresse, perchè non si destano reciprocamente, ed  effetto della ripetizione delle idee principali; queste si rinfrancano come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara; quelle ripetute annebbiano e dissipano l'attenzione dalle principali: per lo contrario, se una sola sia 1 espressa, le altre analoghe semplicemente destate, la quantità d'idee ed'impressione rinchiusa in una sola espressione diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito l'occhio, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione: così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; problema è solo l'oggetto de'meccanici,m a della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia e del visto che un a che non to spese del   necessa  è necessaria l'espressione per eccitare, ossia perchè la mente possa percorrere tutte queste differenti progressioni d'idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie colla principale, in cui tutte le accessorie espresse siano ca pi-pensieri, e non molto analoghi ed associati tradi loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto delle idee espresse e taciute; cioè che tra una espressione e l'altra, per i limiti e la debolezza de'sensi esterni, tanto per mezzo dell'occhio quanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo: se vi sono idee desta te e non espresse, queste come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stan chezza; ma se tutte sono espresse, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica delle espressioni da leggersi o da ascoltarsi. Quanto più grandi epiù forti saranno le idee accessorie espresse, tanto più numerose pos ono essere le idee taciute, ma riamente destate da quelle, perchè l'efficacia delle prime tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudicare all'interesse del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fermano l'immaginazione di chi legge o d'ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a misura che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza é grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere una serie d'idee quasi trattenuta, più facilmente potrà ricevere altre idee rapidamente risvegliate all'occasione di espressioni forti ed energiche. Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, potrà facilmente scorgere che sempre che un grande ed interessante o ggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' inten sione nella quale trovavasi, per così dire, attuatae raccolta, non si abbandona su bito all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene de stasi in lei una moltitudine d'idee tutte relative non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancoraa se stessa, ed alle passioni dalle quali è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, som no ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si gettano nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spin  51 ľ 1 gertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciole e più deboli saranno le accessorie espresse; la scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza tra le une e le altre essendo minore, e sovente più importanti e più forti potendo essere le destate che le espresse, si corre rischio che le idee dell'autore siano perdute divista, e confuso ed interrotto riesca l'effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterne sensibili manifestazioni. L e deboli accessorie espresse, secondo abbiamo di mostrato, debbono essere molte, accioc chè il numero compensi la debolezza; m a molte idee espresse occupano un tempo ch' esclude molte idee taciute o sottinte se, altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento dell'idea principale. L e accessorie forti, per una contraria ragio ne, debbono essere poche in ciascun m o mento d'impressione; m a poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito. Delle idee espresse, e delle idee semplicemente suggerite. Un altra osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso *effetto* che una idea *accessoria* puo produrre quando è *espressa* col termino corrispondente, o quando è *semplicemente suggerita o *destata* nell'animo di chi ascolta. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensaziona; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e l'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfranca l'attenzione sul restante, ma molto più perchè è legge della nostra sensibilità che tutt'altra forza ha la idea espressa e la idea taciuta, e tutt'altra attenzione esigono da noi quella le che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente, tanto più si nuocono tra di se, e scema l'attenzione al tutto. Mentre per lo contrario quei lampi, rapidi e passeggieri di attenzione che balenano, in noi per la idea espressa, e confusa per il *tutto* e debolissima è la percezione della *parte* o solamente ad alcune noi faremo idea accessoria e non espressa, accrescono della sensazioni senza nuocere all'attenzione ed all'energia del tutto. Abbiamo semplicemente il numero dimostrato che la quantità d'impressione momentanee non deve eccedere che *tre o quattro* sensazioni ordinarie, perchè per tante e non più la mente umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità dell'oggetto presenti non le concede una maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nella cosa ascoltate, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità dell'*espressione* se noi dunque volessimo l'accessoria, che si tacce, esprimere, veremmo ad offendere quella legge determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo del recipiente si porterà su destate che le attenzione, cioè solamente di alcune l'immagine corrispondente all'espresione si risveglie nella mente, ed allora le altre espressioni rimaneno insignificanti. Se dunque un'espressione racchiude nel suo concetto o senso molte sensazioni -- come 'spada', 'esercito', o'nave' -- cosicchè la mente dall'espressione medesima non sia determinata a considerar più l'una che l'altra delle sensazioni componenti e l'interruzione al *senso* della profferenza, e distruggeranno l'effetto delle altre espressione in vece di aumentarlo., faranno in suc, ma sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte le sensazioni in una volta, accade che, condensando l'espressione intorno ad un'idea *principale*, vi è un'idea accessoria soltanto unita e destinata ad aggiunger forza alla idea principale, ma invece un molto maggior numero, quante sono le sensazioni egualmente comprese sotto l'espressione 'spada', o 'esercito' o  'nave'. Le varie sensazioni, non essendo più immediatamente le une che le altre suggerite, concorrono contemporaneamente ad associarsi coll'idea principale. Onde l'effetto reale che ne cede si è, che la fantasia nostra resta distratta é *confusa*. Per lo contrario, se invece dell'espressione 'spada', o 'esercito', o 'nave', si dicesse 'ferro', o 'soldato', o 'vele', e che questa espressione si condensa attorno ad un'idea principale per formarne un senso, si osserva che la sola nozione e precisa sensaziona compressa nel proprio significato dell'espressione 'ferro', o 'soldato' o 'vele', si quelle ogni sono che immediatamente, e prima di altra, si risvegliano nella fantasia -- è quella che immediatamente si une coll'idea principale. Ma per forza di onde associazione non tra lascerà l'espressione 'ferro' di suggerire rapidamente altre sensazioni comprese sotto l'espressione 'spada'; quella di 'soldato', quelle di 'esercito'; quella di 'vele', quelle di 'navi'. Ma essendo priopiamente questa o quella sensazione *suggerita* propriamente, associata coll'espressione 'ferro' o 'soldato' o 'vele', ma colla idea che nuocere all'idea principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io intendo per una *idea suggerita* e per una *idea espressa*, mentre però tutta questa teoria è resa più evidente nel nome o espressione speciale, l'appellativo, e nel traslato. E de sta que immediatamente risvegliano, non pos. Un'*idea semplicemente suggerita* non entra nella sintassi o forma logica della proposizione, la quale regge senza di quella. Non sono non. Quando Virgilio fa dire à Didone: 'Dulces exuviae dum futa, Deusque sinebant, accipite hanc animam, me que his exolvit e curis" --  quanta folla d'idee si risveglia in chi ascolta quelle sole espressioni, in quella occasione dette, 'dulces exuviae'. La sintassi latina regge senza che si risveglino quest'idea semplicemente suggerita, onde la mente non trovasi affaccendata a raccapezzare un *senso complicato* e in molte parti diviso e coll'accennar sol tanto la spada di Enea sotto l'espressione di una spoglia, cioè di una cosa da lui portata e da lui ricevuta in dono, quanto teneri e contrastanti sentimenti non ci sentiamo fremere interiormente!  Egli è evidente che una medesima idea per intervalli di tempo più lunga occupa la mente se è espressa, di quell'idea che se è taciuta, per chè un maggior tempo si consuma nella percezione dell'espressione, per la durata della quale si continua la presenza dell'idea corrispondente di quello che sia con durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dall'espressione *immediatamente*, quantunque come le altre, alla occasione di quelle, si risveglino; onde con minore dispendio di tempo e di forze si ottiene un più grande effetto.  a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali, il che renderebbe annoiante e faticoso il netto coucepimento del *tutto*, oppure essunto nella rapida ed affollate imagini che per forza di associazione si eccitano reciprocamente. Tanto è ciò vero, che non è inutile il qui osservare che un'espressione E1 non e preferibili ad altr'espressione E2, se non appunto perchè la sensazione auditiva o dell'espressione è materialmente più dell' altra. È più bella e più nobile pressione l'espressione 'cocchio' (o 'se p, q') dell'espressione 'carrozza' (o 'p o non q') non per l'azzardo capriccioso dell'esser meno comune ed avilita epressione, giacchè tant'altra che nella bocca di tutti è continuamente. Cio nonostante nè si rigettano, nè per meno bella è  riputata, ma soltanto perchè è espressione più breve e l'idea da un più rapido segno è rappresentata. Onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo. Ora se l'idee taciuta divienne espressa, noi verremmo la mente nostra dividerebbe in più tempi ciò che per l'unità dell'*idea principale* dovrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo l'idea accessoria una idea principale, pro la durrebbe e *confusione* nella chiarezza, e noia nelle unioni diseguali e sproporzionate dell'idea fatta nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo, che altro non è per noi che la successione delle idee degli esseri sensibili, è una quantità alla quale non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle ti e la politica debbono aver considerazione. Perchè la più fina e la più sottile ed interiore, egualmente che la più complicata e più grossolana ed esteriore operazioni dell'intelletto sotto l'inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra l'idea accessoria che si presenta, quali sceglieremo per essere espressa, quali sceglieeremo per essere *semplicemente destata*? In primo luogo, tra una accessoria analoga e moltissimo simile e che si risveglia reciprocamente ed infallibilmente l'una l'altra, *una sola* sarà l'espressa (l'acqua liquida), l'altra *semplicemente* taciuta. Perchè se 'liquida' è espressa, ciascheduna espressione replicando l'idea è  superfluità e ridondanza che fastidio produrrebbe e stanchezza, e di spendio di tempo. La ripetizione di una idea accessoria non produce lo stesso. Tra l'*idea accessoria* è, oltre l'analoga, quelle che è più distante (disparata), ciascheduna delle quali ha la sua rispettiva simile ed associata (acqua liquida, bambino non-adulto). Di questa ognuna apre la mente del co-conversatore ad una serie d'impressioni, e è direi quasi capi-idea e capi-pensiero. Questa è l'idea accessoria *espressa*, perchè non si desta reciprocamente, ed effetto della ripetizione dell'idea principale ('bambino'). Questa si rinfranca come tale nella mente, e divienne perciò come un centro di luce che il *tutto* ('il bambino è un'adulto') riscalda e rischiara. Quella (non-adulto) ripetuta annebbia e dissipa l'attenzione dall'idea principale ('bambino'). Per lo contrario, se una sola sia l'idea espressa, le altr'analoga *semplicemente destata*, la quantità dell'idea e dell'impressione rinchiusa in una *sola* espressione ('bambino' = umano non adulto) diviene più grande, e per conseguenza più piacevole, restando picciola la insipida sensazione dell'udito, che abbiamo tempo considerabile esige le idee e dell'immaginazione. Così veniamo ad ottenere un più grand'effetto in più breve tempo; Questo problema non è solo l'oggetto de'meccanici, ma della morale e della politica, anzi di tutta la filosofia! Abbaimo visto che un a che non to spese del  necessa  è necessaria l'*espressione* per *eccitare* (o comunicare), ossia perchè la mente possa percorrere la progressione dell'idea del discorso. Sarà dunque eccellente la combinazione di quell'idea accessoria coll'idea principale, in cui l' accessorie espresse siano capi-pensieri ('ha una calligrafia bellissima') e *non* molto analoga ed associata e moltissimo coll'idea principale ('è un pessimo filosofo') per una delle ndicate sorgenti per cui le idee vicende volmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno al l'effetto dell'idea espresse e dell'idea taciuta. Tra una espressione E1 e l'altra, E2, per i limiti e la debolezza de' sensi esterni, tanto per mezzo dell'udito, corre un picciolo intervallo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo. Se vi è  idea semplicemente destata e non espressa, questa come lampi di mente riempiono questo vuoto senza stanchezza. Ma se l'idea è espressa, si moltiplicano i vuoti e non si riempiono; il che porta diminuzione di piacere e stanchezza per l'aumentata fatica dalla quantita d'informazione dell'espressione totale (ill moto conversazionale) da interpretare. Quanto più grande e più *forte* ('bella calligrafia) è  l'idea accessoria espressa, tanto più numerosa puo essere l'idea semplicemente taciute, ma riamente destata da quelle, perchè l'efficacia dell'idea espressa tende e rinforza l'attenzione che con più rapidi voli slancia si ad abbracciare l'idea non espressa ('è  un pessimo filosofo') senza pregiudicare all'interesse dell'espressione totale, e perchè l'espressione più grande e più forte ferma l'immaginazione del co-discorsante, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbligata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione di una idea ('è un pessimo filosofo?') a misura che è  più grande e più forte. Onde per questo tempo necessario, per questa dimora di processamento, per così dire, della mente su di un oggetto, quantunque egli medesimo per la forza e grandezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione, cio nonostante la mente, dall'impeto concepito a percorrere un'idea quasi trattenuta, più facilmente puo ricevere altr'idea rapidamente risvegliata all'occasione di una espressione forte ed energica ('Ha bella calligrafia'). Chi ben considera, e ritorna sulla esperienza dell'animo suo, puo facilmente scorgere che sempre che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improvvisamente l' immaginazione, questa dopo considerato quell'oggetto, nell'atto che si riscuote e si risveglia dall' intensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta, non si abbandona subito all'ordinaria impressione delle cose che le stanno d'attorno, ma sibbene destasa in lei un'idea relativa non solo a quella straordinaria impressione che l'ha percossa, ma ancora a se stessa, ed alla passione dalla quale è dominata. È da ciò che i boschi, nei cupi e vari ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini antiche dei monti ove signoreggia illimitata la natura, che la vista del mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti l'attonita immaginazione, sono ricercati da coloro che più amano di pascolare i loro pensieri, ed esercitar l'animo liberamente e senza distrazioni dal la considerazione di se medesimi. Mentre chi odia di rientrare in se stessi, e cerca fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero, si getta nel minuto e sempre u niforme vortice della vita comune, gli oggetti della quale sono atti bensi a spingertato l'animo fuori di se stesso in un continuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pensieroso. Per lo contrario, più picciola e più debole è  l'idea accessoria espressa. La scelta si farà su di quelle che ne risvegliano un minor numero, perchè la differenza, essendo minore, e sovente più importanti e più *forti* potendo essere l'idea destata che l'idea espressa, si corre rischio che le idea, intenzione, significato dell'autore è perduto (involontariamente) di vista, e confuso ed interrotto riesca l'effetto del tutto o l'espressione totale sopra l'immaginazione non legata da sufficientemente forte ed esterne sensibile manifestazione ('-- è  un pessimo filosofo'). L'idea debola accessoria espressa debbe essere molte, acciocchè il numero compensi la debolezza. Ma un'idea espressa ('bambino) occupa un tempo ch'*esclude* un'idea taciuta o sottintesa ('non-adulto'), altrimenti di troppo allontaneremo il concepimento di un'idea principale. L'idea accessoria forte, per una contraria ragione, debbe essere minima in ciascun momento d'impressione. Ma poche forti la scierebbero del vuoto negli intervalli n e cessari dell'espressione,che da molte idee non espresse debb'essere supplito. Dello espresso e dello semplicemente suggerito, un’osservazione non meno importante che generale è intorno al diverso effetto che una proposizione, non principale, ma *accessoria*, puo produrre quando *espressa* o quando è semplicemente suggerita dal conversatore, o destata nell'animo di chi con che conversa. Espressa nuocerebbero al fascio intero della sensazione; destata solamente lo giove, non solo perchè la picciola fatica che facciamo e 1'applauso interno del nostro ritrovato ci rinfrancano l'attenzione sul restante, ma molto più perche è legge della nostra sensibilità che tutt’altra forza ha una proposizione espressa e una proposizione taciuta o semplicemente suggerita, e tutt’ altra attenzione esigono da noi conversatori civile quella che questa. Ora l'attenzione è tanto più lunga o più frequente, tanto più si nuoce tra di se, e scema l’attenzione al tutto comunicato; mentre per lo contrario quei lampi rapidi e passaggeri d'attenzione, che balenano bruci per la proposizione accessoria *semplicemente suggerita* o destata e *non* espressa, accresce il numero di sensazione senza nuocere all’attenzióne ed all'energia del tutto comunicato. La quantità d’impressione momentanea non deve eccedere che tre o quattro sensazioni ordinarie, perchè per tante, e non più, la mente umana è capace di una simultanea attenzione. La vivacità di un oggett presente -- la spada di Enea -- non le concedono ima maggior ampiezza ed una maggiore comprensibilità. Nell'espresso, in luogo della vivacità e della realità che è nell'oggetto quando è presente, vi è la vivacità e la realità della *espressione* che representa (di modo iconico o altro) la spada d'Enea. Se noi dunque volessimo la proposizione accessoria che si taccie esprimere verressimo ad offendere quella legge che determina e limita la quantità d'impressioni simultanee, oltre la quale, o lo sforzo d'interpretazione si porterà su il tutto communicato (espresso e semplicemente suggerito) e confusa per il tutto e debolissima sarà la percezione delle due parti (l'espresso e lo semplicementee suggerito) o solamente ad alcune, noi faremo attenzione cioè solamente di alcune 1'immagine o concetto o segnato o significato o senso corrispondente all'espressione si risveglie nella mente, ed allora un altr'espressione rimanendo *insignificanti* o superflua, fa inter- ruzione al senso della proposizione comunicata, e distrugge l'effetto delle altre in vece di aumentarlo. Se dunque una proposizione espressa racchiude nel suo concetto molte e varie sensazioni, come "Questa spada e bella", "L'esercito e bravo", "La nave va," ec., cosicché la mente dalla proposizione espressa medesima noù sia determinata a considerar più l'una che 1'altra delle sensazioni componenti ma sibbene sia piuttosto sforzata a considerarle tutte in una volta accaderà che condensando due o tre di queste proposizioni intorno ad un proposizione *principale*, vi saranno non due o tre proposizioni accessorie soltanto unite e destinate ad aggiunger forza alla proposizione principale, ma invece un molto maggior numero quante saranno le sensazioni egualmente comprese sotto la proposizione espressa, "La spada e bella", "L'esercito e bravo," "La nave va", e tutte queste varie e uumerose sensazioni, non essendo più immediatamente le uno che le altre suggerito, tutte concorirono contemporaneamente ad associarsi colla proposizione principale; onde l'effetto reale che ne succede è, che la fantasia di nostro conversatore resta distratta e confusa. Per lo contrario, se invece della proposizione "La spada e bela", "L'esercito e bravo", "La nave ve", spa* da si dicesse "Il ferro e formidable", "Il soldato e bravo", "Le vele va", e che questi proposizioni si condensassero attorno ad una proposizione principale per formarne il senso complesso, si osservi che le tre sole nozioni e precise sensazioni comprese nel proprio significato o senso delle tre suddette proposizione espresse piu specifica sono quelle che immediatamente e, prima d’ ogn’ altra si risvegliano nella fantasia. Onde saranno quelle che immediatamente si uniranno colla principale. Ma per forza di associazione non tralascerà la parola di fer- ro di suggerire rapidamente le altre sensazioni comprese sotto la parola spada quella di soldato quelle di;, esercito quella di vele quelle di navi.;, Ma non essendo queste sensazioni sug- gerite propriamente associate colie parole ferro, soldato e vele, ma Con le idee che queste immediatamen- te risvegliano non possono nuocere, alla principale così facilmente. Ecco chiaramente spiegato ciò che io in- tendo per idee suggerite e per idee * espresse, mentre però tutta questa teoria sarà resa più evidente dopo ‘ che nel progresso io avrò parlato de’ nomi speciali ed appellativi, e de’ traslati. Ee idee semplicemente, suggerite Digitj^ed by Google   3o non entrano nella sintassi della pro- posizione la quale regge senza di, quelle: non sono durevoli nella mente quanto le idee che eccitate sono dal- le parole immediatamente, quantun- que come le altre alla occasione di quelle si risveglino; onde con mino- re dispendio di tempo e di forze si ottiene uu più grande effetto. Quan- do Virgilio fa dire a Didone: Dulces exuviae dum fata, Deusque sinebant, Accipite hanc animam, meque his exolvite curi», quanta folla d’idee si risveglia in citi legge quelle sole parole, in quella oc- casione dette, dulces exuviaes la sin- tassi regge senza che si risveglino queste idee, onde la mente non tro- vasi affacceudata a raccapezzare un senso complicato e in molte parti diviso; e coll* accennar soltanto la spada di Enea sotto il nome di una spoglia, cioè di una cosa da lui por- tata e da lui ricevuta in dono quan-, to teneri e contrastanti sentimenti noa ci sentiamo fremere interiormente! Egli è evidente che una medesi- ma serie d’idee per intervalli di tem- po più lunghi occupa la menta se siano espresse, di quello che se siane taciute perchè un maggior tempo,   $T si cotìsuma nella percezione della pa- rola per la durata della quale si con- tinua la presenza deir idea corrispon- dente di quello che sia consunto, nella rapida ed affollata successione d* immagini che per forza di associa- zione si eccitano reciprocamente. Tan- to è ciò vero, che non sarà inutile il qui osservare ohe molte espressioni non sono preferibili alle altre appunto perchè la sensazione auditiva o visibile della parola è materialmen- te più breve dell’ altra. E* più bella e più nobile espressione la parola cocchio della parola carrozza non per l’azzardo capriccioso dell’ esser meno comune ed invilita espressione, giac- ché tant’ altre che nelle bocche di tutti sieno contiuuamente cionono-; stante nè si rigettano nè per meno belle son riputate, ma soltanto perchè è parola più breve, e l’idea da un più rapido segno è rappresentata; onde si ottiene lo stesso effetto con minore spesa di forza e di tempo Ora se le idee taciute fossero tutte espresse, noi verressimo a rendere più tarda e più lontana la connessione tra le idee principali il che rende-, rebbe annojaote e faticoso il netto, se non. Sa concepimento del tutto, oppure fa mente nostra dividerebbe in più tem- pi ciò che per 1’ unità dell’ idea prin- cipale dorrebbe essere rinchiuso in un solo; il che rendendo 1* accessorio principale, produrrebbe e confusione nella chiarezza, e noja nelle unioni diseguali e sproporzionate d’ idee fatte nella mente nostra. Tanto è vero che il tempo (che altro non è per noi che la successione delle idee degli es- è una quantità alla qua- le non la scienza del moto solamente, ma le scienze tutte e le belle arti e la politica debbono aver considera- zione perchè tutte le più fine e le; più sottili ed interiori egualmente, che le più complicate e più grossola- ne ed esteriori operazioni dell’ intel- letto, sotto l’ inesorabile suo dominio si fanno e si manifestano. Fra la moltitudine delle idee accessorie che si presentano, quali sceglieremo per essere espresse, quali serberemo per essere semplicemente destate? In primo luogo tra molte accessorie analoghe e moltissimo simili fra di loro, e che si risvegliano reci- procamente ed infallibilmeute l* una l’ altra uua sola sarà 1’ espressa > le y peri sensibili ) Digitized by Google  33 altre taciute perchè se tutte fossero; espresse, ciascheduna espressione re- plicando le idee di tutte le altre, vi sarebbe superfluità e ridondanza che, fastidio produrrebbe e stanchezza e dispendio di tempo. La ripetizione delle idee accessorie non produce lo stesso effetto della ripetizione delle idee principali queste si rinfrancano; come tali nella mente, e divengono perciò come un centro di luce che il tutto riscalda e rischiara quelle ri-; petute annebbiano e dissipano 1’ atten- zione dalle principali: per lo contra- rio se una sola sia 1* espressa le al-,, tre analoghe semplicemente destate, la quantità d’ idea e d’ impressione rinchiusa in una sola espressione di- viene più grande, e per* conseguenza più piacevole restando picciola la, insipida sensazione dell’ udito e dell* occhio che abbiamo visto che uu, tempo considerabile esige a spese delle idee e dell’ immaginazione: così ve- niamo ad ottenere un più grand’ effet- to in più breve tempo problema che; nonè solo l’oggetto de’meccanici ma della morale e della politica anzi, di tutta la filosofia. lu secondo luogo, tra la moltituaine dell© idee accessorie vi saran- no, oltre le analoghe, quelle che sodo più distanti, ciascheduna delle quali avrà le sue rispettive simili ed asso- ciate; di queste ognuna apre la meu- te ad una serie d’impressioni, e sono direi quasi capi-idee e capi-pensieri; queste saranno l’ espresse perchè non, si destano reciprocamente ed è ne-, cessaria F espressione per eccitare ossia perchè la mente possa percorre- re tutte queste differenti progressioni d’ idee. Sarà dunque eccellente la combinazione di quelle accessorie col- la principale in cui tutte le accesso- rie espresse siano capi-pensieri, e non molto analoghi od associati tra di loro, e moltissimo colla principale per una delle tre indicate sorgenti per cui le idee vicendevolmente si legano. Una riflessione soggiungo intorno all* effetto delle idee espresse e ta- ciute; cioè che tra una espressione e F altra, per i limiti e la debolezza de’ sensi esterni, tanto per mezzo del- F occhio quanto per mezzo del- F udito, corre un piccolo interval- lo di tempo e, per così dire, di silenzio e di riposo se vi sono idee;   35 queste come lampi di mente riempiono questo vo- to senza stanchezza; ma se tutte sono espresse, moltiplioano i voti e non si riempiono il che porta diminuzio- mentata fatica delle espressioni da leg- gersi o da ascoltarsi. Quanto più gran* di e più forti saranno le idee acces- sorie espresse tanto più numerose, destate e non espresse,; ne di piacere e stanchezza per 1* au. possono essere le idee taciute, ma necessariamente destate da quelle, perchè l* efficacia delle prime tende e rinforza 1* attenzione che con più rapidi voli slanciasi ad abbracciare le idee non espresse senza pregiudica- re all* interesse del tutto, e perchè espressioni più grandi e più forti fer- mano T immaginazione di chi legge od ascolta, essendo manifesta legge della mente nostra di trovarsi obbli- gata ad impiegar un tempo maggiore nella considerazione delle idee a mi- sura che sono più grandi e più forti: onde per questo tempo necessario, per questa dimora per così dire della,, mente su di un oggetto quantunque, egli medesimo per la forza e gran- dezza sua esiga tutto questo tempo maggiore di attenzione ciononostan-, Digitized by Google   36 te la mente, dall’impeto concepito * percorrere una serie d’ idee quasi trat- tenuta più facilmente potrà ricevere, altre idee rapidamente risvegliate al- P occasione di espressioni forti ed energiche: chi ben considera torna sulla esperienza dell* animo suo» potrà facilmente scorgere che sempro che un grande ed interessante oggetto fermi il pensiero, e percuota improv- visamente P immaginazione, questa do- po considerato quell’oggetto, nell’at- to che si riscuote e si risveglia dal- Pintensione nella quale trovavasi, per così dire, attuata e raccolta non si, abbandona subito all’ordinaria impres- sione delle cose che le stanno d’ at- torno ma sibbene destasi in lei una, moltitudine d’idee tutte relative non solo a quella straordinaria impressio- ne che P ha percossa ma ancora a,, ed alle passioui dalle quali se stessa è dominata. E’ da ciò che i boschi nei cupi e varj ravvolgimenti dei quali erra il pensiero, che le solitudini an- tiche de’ monti ove signoreggia illi- mitata la natura che la vista del, mare che si allarga fra mille nazioni, oggetti immensi e tanto occupanti P attonita immaginazione, sono ricer-, e ricati da coloro che piu amano di pa- scolare i loro pensieri, ed esercitar P animo liberamente e senza distra- - zioni dalla considerazione di se me- desimi; mentre coloro i quali odiano di rientrare in se stessi, e cercano fuggire in certo modo e sottrarsi dal sincerissimo accusatore pensiero si, gettano nel minuto e sempre unifor- me vortice della vita comune, gli og- getti della quale sono atti bensì a spioger l’animo fuori di se stesso in un coutinuo movimento, ma non a fermarlo, e renderlo attonito e pen- sieroso. Per lo contrario, più piccio- le e più deboli saranno le accessorie espresse, la scelta si farà su di quel- le che ne risvegliano un minor nu- mero, perchè la differenza tra le mie e le altre essendo minore, e sovente piu importanti e più forti potendo essere le destate che P espresse si, corre rischio che le idee dell’ autore siano perdute di vista e confuso ed, interrotto riesca l’effetto del tutto sopra le immaginazioni varie e non legate da sufficientemente forti ed esterno sensibili manifestazioni. Le deboli accessorie espresse, secondo ab- biamo dimostrato debbono essere, molte, acciocché il numero compenti la debolezza; ma molte idee espresse occupano un tempo eh* esclude molte idee taciute o sottintese, altrimenti di troppo alloutaneressimo il concepimento dell’ idea principale. Le ac- cessorie forti, per una contraria ra- gione debbono essere poche in cia-, scun momento d’impressione; ma po- che forti lascierebbero del voto ne- gl* intervalli necessarj dell* espressione che da molte idee non espresse debb’essere supplito. Cesare Beccaria. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Beccaria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Becchi – l’incubo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo Italiano. Grice: “Becchi is pretty controversial; a good reason why he is not invited to the New World for “Italian Studies”! – My favourite is his tract mocking Umberto Eco’s “Il pnedolo di Foucault,” “L’incubo di Foucault”! – But Becchi is a jurisprudential philosopher like Hart, and perhaps more than Hart did, knows what’s he’s doing! -- Paolo Becchi  -- Paolo Aureliano Becchi (Genova),  filosofo. Laureato in filosofia, si è poi trasferito in Germania dove ha collaborato come assistente alla cattedra di Filosofia e Sociologia del Diritto della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università del Saarland, e in seguito come borsista per il Deutscher Akademischer Austauschdienst (DAAD). Attualmente è Professore di Filosofia del Diritto presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Genova. Inoltre fino al  è stato professore presso l'Lucerna. Ha prodotto circa 200 pubblicazioni su temi concernenti la filosofia del diritto, la storia della cultura giuridica e la bioetica.  Nel  si avvicina al Movimento 5 Stelle, venendo definito dalla stampa l’“ideologo del movimento” ma a gennaio del  lo abbandona criticandolo duramente e scrivendo ad aprile il libro Cinquestelle & Associati. Di recente ha focalizzato il discorso politico sulla categoria del sovranismo ed in particolare sul concetto di sovranismo debole, detto althusiano; coniugando così, istanze federaliste e sovraniste in linea con la Lega di Matteo Salvini.  I suoi interventi di natura politica sono raccolti nel suo blog. Fino alla metà del  era noto al pubblico del piccolo schermo per le interviste e i talk show in cui dibatteva.  È attualmente editorialista di Libero e de Il Sole 24 ORE, oltre ad avere un blog sul sito de Il Fatto Quotidiano. Altre opere: “Morte cerebrale e trapianto di organi. Una questione di etica giuridica” (Morcelliana); “Quando finisce la vita. La morale e il diritto di fronte alla morte” (Aracne); “Giuristi e prìncipi. Alle origini del diritto moderno” (Aracne); “Il principio dignità umana” (Morcelliana), “Nuovi scritti corsari (Adagio Editore); “I figli delle stelle. L'Italia in moVimento” (Adagio); “Colpo di Stato permanente” (Marsilio); “Apocalypse Euro” (Arianna); “Oltre l'Euro” (Arianna); “Napolitano, re nella Repubblica. Per una messa in stato d’accusa (Mimesis): “Cinquestelle & Associati. Il MoVimento dopo Grillo (Kaos); “Referendum costituzionale. Sì o no. Le ragioni per il no e il testo della «controriforma» (Arianna); “Come finisce una democrazia. I sistemi elettorali dal dopoguerra ad oggi (Arianna); “Italia sovrana (Sperling & Kupfer); “Democrazia in quarantena. Come un virus ha travolto il Paese” (Historica)  Note    Biografia sul sito Genova Archiviato  in.  M5S, Grillo scomunica (di nuovo) Becchi: “Non ci rappresenta”. Lui: “Tolgo il disturbo”, ilfattoquotidiano,  Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla Paolo Becchi, formiche.net, 5 M5S, Becchi lascia il Movimento: “È diventato partito stampella di Renzi. È finito il sogno”, ilfattoquotidiano, 5 gennaio. 9 gennaio.  Per un’idea ‘federativa’ di Stato nazionale, in "ParadoXa", Skytg24, Becchi: “Repubblica? Il giornale dell’orfano”. Bellasio lascia lo studio. La redazione della tv si scusa con Calabresi, ilfattoquotidiano, Paolo Becchi  Blog ufficiale, su paolobecchi. wordpress. Opere di Paolo Becchi,.  Registrazioni di Paolo Becchi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Filosofia Politica  Politica Filosofo del XXI secoloAccademici italiani del XXI secoloBlogger italiani GenovaProfessori dell'LucernaProfessori dell'Università degli Studi di Genova. Paolo Aureliano Becchi. Paolo Becchi. Keywords: l’incubo, filosofia politica, dignita, soveranita, giurisprudenza, filosofia della giurisprudenza, repubblica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Becchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bedeschi – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Alphonsine). Filosofo italiano Grice: “You gotta love Bedeschi – at Oxford Jurisprudence is not considered Philosophy, but in Italy, ‘filosofia politica’ is at the centre of it all – and Bedeschi knows it – this is because Italians take Hegel seriously with his ‘dialectic;’ and while I did speak profusely of the Athenian versus the Oxonian dialectic or dialexis, I skipped the Hegelian dialectic! Bedeschi doesn’t – and Hegel leads to the reset of it!” --  Giuseppe Bedeschi (Alfonsine), filosofo. Docente di storia della filosofia all'Università La Sapienza di Roma, ha insegnato all'Cagliari e all'Istituto Universitario Orientale di Napoli. Studioso di Hegel e del marxismo, ha approfondito in seguito la storia del pensiero liberale. Caporedattore dell'Enciclopedia del Novecento, direttore dell'Enciclopedia delle scienze sociali e dell'Enciclopedia dei Ragazzi, è membro del comitato scientifico della rivista "Nuova storia contemporanea" e collabora al supplemento domenicale de Il Sole 24 ORE.  Altre opere: “Alienazione e feticismo nel pensiero di Marx” (Bari, Laterza); “Introduzione a Lukacs” (Bari, Laterza); “Politica e storia in Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a Marx” (Roma-Bari, Laterza); “La parabola del marxismo in Italia” (Roma-Bari, Laterza); “Introduzione a La scuola di Francoforte (Roma-Bari, Laterza); “Storia del pensiero liberale” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Hegel” (Roma-Bari, Laterza); “Il pensiero politico di Tocqueville” (Roma-Bari, Laterza); “La fabbrica delle ideologie: il pensiero politico nell'Italia del Novecento” (Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo vero e falso, Firenze, Le lettere); “Il rifiuto della modernita: saggio su Jean-Jacques Rousseau” (Firenze, Le lettere); “La prima Repubblica (1946-1993). Storia di una democrazia difficile” (Soveria Mannelli, Rubbettino,  Opere di Giuseppe Bedeschi,. Giuseppe Bedeschi, su Goodreads.  Registrazioni di Giuseppe Bedeschi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Profilo su RAI Educational, su emsf.rai. 16 marzo  21 dicembre ). Giuseppe Bedeschi sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Filosofi italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1939d Alfonsine. Giuseppe Bedeschi. Keywords: dialettica, la parabola del Marxism in Italia, liberalismo, conservatorismo, italia, fabbrica di ideologie”, sulla parte conservatrice, I conservatori in italia, Scruton, ‘conservatismo’, nel dizionario di politica del partito, la dialettica hegeliana, dialettica, dialexis. The two references ‘Sulla parte conservatrice’ and ‘I conservatori’ given in that entry, studio della ideologia nell’italia del Novecento, Giuliani, prima guerra, veintenna. Refs.: Luigi Speranza, “Bedeschi e Grice” – The Swimming-Pool Library.

 

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Grice e Belluto – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Belluto; he shows that the philosopher is the master of grammar – his explanation of modi of the different ‘perfect’ orations—is genial and exactly what I tried to convey in my lectures on ‘mode’: vocativo, imperativo, optativo, indicativo – That this belongs in dialettica is obvious – since all modi share the same logic, and that’s Belluto’s point!” --  Bonaventura Belluto, o Belluti (n. Catania), filosofo.  Nato da distinta e facoltosa famiglia, studiò diritto civile all'Catania. Entrato nell'Ordine dei Frati Minori Conventuali nel 1621, emise la professione religiosa l'anno successivo. A Roma studiò teologia presso il Collegio sistino di San Bonaventura dove conobbe il confratello Bartolomeo Mastri di Meldola del quale divenne compagno indivisibile di studio e di lavoro come reggente degli studi prima al convento di Cesena, quindi a Perugia e poi a Padova. Durante questo periodo, entrambi operarono per il rinnovamento della tradizione e per una nuova interpretazione della dottrina scotista tale da soddisfare la nuova cultura religiosa dell'epoca.  Pubblica a Roma con la collaborazione di Bartolomeo Mastri il primo volume di filosofia scolastica, dal titolo “Disputationes in Aristotelis libros physicorum, quibus ab adversantibus... Scoti philosophia vindicator” che ha il fine di essere diffuso nelle scuole francescane per far conoscere la filosofia di Scoto difendendola dalle critiche d’Aquino i e dai travisamenti operati da altri interpreti tra i quali i gesuiti.  Successivamente pubblica un piccolo trattato di logica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt” (Venezia). Ad opera dei due filosofi fu pubblicato un “Cursus integer philosophiae ad mentem Scoti” che riune le “Disputationes”,  le “Disputationes in libros de coelo et de metheoris”, le “Disputationes in libros de generatione et corruptione” e le “Disputationes in libros de anima”. Il “Cursus” e un'opera, con fini esclusivamente didattici e divulgativi del pensiero scotista, dove manca ogni riferimento alla cultura filosofica e scientifica contemporanea. Alla fine della comune reggenza a Padova i due filosofi si separarono. Belluto torna a Catania dove fu ministro provinciale di Sicilia e di Malta, distinguendosi per intelligenza e saggezza di governo. In questo periodo esercita anche la carica di consultore e censore per l'Inquisizione. Nell'ambito del piano di rinnovamento del pensiero di Scoto oltre all'insegnamento della sua filosofia i due filosofi progettarono un corso di teologia che Mastri sviluppa con il trattato D”e Deo in se” mentre Belluto continua l'elaborazione dell'opera “De Deo homine” della quale fu pubblicata solo la parte riguardante le “Disputationes de Incarnatione dominica ad mentem Doctoris subtilis”. Tema specifico e quello della predestinazione di Maria: argomento questo che non apparteneva alla dottrina di Scoto ma che cerca di risolvere applicando i principi del maestro nel senso che applicò alla predestinazione della Vergine Maria la dottrina scotista della predestinazione assoluta di Cristo.  Note  F. Costa, IlBonaventura Belluto, (1603-1676). Il religioso, lo scotista, lo scrittore, Roma 1976  La Sicilia e l'Immacolata: non solo 150 anni: atti del convegno di studio, Palermo, Diego Ciccarelli, Marisa Dora Valenza, Officina di Studi Medievali, 2006 p.172  Francesco Costa, Il primato assoluto di Cristo secondo Bonaventura Belluto, OFMConv. (+1676), in "Miscellanea francescana", Cesare Vasoli, Belluti, Bonaventura, in: Dizionario Biografico degli Italiani, Roberto Osculati, Gli Opuscoli morali di Bonaventura Belluti. Duns Scoto Bartolomeo Mastri V D M Francescanesimo. INSTITVTIONVM LOGICALIVM. Nomina transcendentia infinitari possint verbum adiectiuum & substantiuum de Secundo adiacente sint verba apud Log, de attinentibùs ad formam syllogiſmi, De oratione, quid sit, quotuplex, oratio necesario debeat constare verbo, quid sit propositio, seu Enunciatio, quotu De terminis, ac eorum affectionibus, Quanam sit recta Enunciationis definitio.quotuplex sit terminus. Quomodo Enunciatio vocalis dicatur vera, vel communi. falſa. Quæ dctiones fubeant rationem, divisio in catheg. bypotb. sit generi sin termini. Species. An dentur termini in cap. 4. Quid sit propositio cathegorica b quotuplex. propositione mentali, Determinorum multiplicitate ratione fignifi Dub. 1, Qualis sit diuisio propusitionis in veram, falsam, affirmativam, negativam, quid sit signum [segno], a quotuplex  uniuersalem o particularem qui sint termini mixti inter cathegoremati qualis sit diuisio propositionis in modalem cum syncathegorematicum de inesse qui sit terminus complexus o incomplexys Capo, 5. Quid sit propositio modalis, & quotuplex, Cap: 3. Determinorum multiplicitate in ratione modi qualis sit divisio propositionis modalis significandi  in compositam o diuitam. Quid fit terminus connotatiuus. n.g Quid sit propositio bypothetica, oquotuplex, D emultiplicitate terminorum in ordine ad res P.20 fignificatas. Dubi. An bypotbetica propositio benèdefiniatur.n. De Uniuerfalibus, fue Prædicabilibus. Divisio bypothetice in conditionalem. De Prædicamentis, primode absolutis. copulativam  & disiunctiuam sit generis in species De prædicamentis respectivis, De legibus eorum, quæ funt in Predicamento, De oppositione cathegoricarum simplicium. De Terminorum collatione inter se, An inter contradictoria detur medium, Varia terminorum supposition quod  sint species oppositionis, An suppositio competat adiectivis de æquipollentia, o conversione categorical. Quo pacto differente suppositio determinata, rum simplicium & confusa, Quomodo equipolleant ſubcontraria, De reliquis terminorum proprietatibus, propositio affirmativa depredicato infins, Determinis componibilibus aquipolleat negative de predicato finite explicantur quidam termini in fchalis fre è contra quentiffimi, De oppositione, æquipollentia, &conuersione catbegoricarum, modalium, ac etiam hypotheticarum propositionibus exponibilibus, insolubili de Propositione & eius affectionibus, bus, propositiones exponibiless int catheg vel by Comez de nomine o verba, pot. & quomodo contradicant solum nomen finitum rectum sit propositiones insolubiles sint catheg, vel by nomen apud Logicum, pot.cies de Argumentatione, & eius affectionibus de attinentibus ad materiain syllogiſmi. oquotuplex fit Argumentatio formalis. De syllogismo Demonstrativo. De speciebus argumentat. Quoi fint argumentationiss pecies, og mun ald. precognitionibus eo perecognitis quod sint precognitiones, omnis consequentia sit argumentatio de regulis communibus bona argumentatione. Quid depaſſionepre cognoscatur. nis. De fcientia demonftrationis effectu liceat argumentariex fuppofitioneimpos Dub.V n.An dentur scientia de novo. sibili, de neceffitate principiorum, ubi de modis de inductione, ubi de ascensu, descensu, per feitatis Que predicentur in primo modo dicendi per Dei. inductio fit bona, formalis consequentia, vel argumentatio, modus intrinsecuspredicetur in primo modo De syllogifmo, & eius principis constitutiuis, dicendi per se. n.is obi de figuris eiusdem quo patto quartus modus dicendiper se disse unde dicantur maior, o minor in syllogism rat a secundo. Propositio per se convertatur in propositio, conclusio sit de essentia syllogismi nem per fe. detur quarta figura De demonstratione propter quid De principis regulatiuis syllogismi Ancaufa virtualis pofit in seruire demonstra dub us. quodnam sit principium precipuum regulationi siuum syllogismi quomodo illud axioma propter quod, unum regule generales, especiales cuiuscunque si quodque tale & illud magis. gure alignantur. De demonstratione quia Alignantur modi cuiuscumque figura cum. De medio demonstrationis.corum exemplis. De numero quaffionum modi syllogismorum sint sufficientere numerati. figura dentur modi indirecte concludentes sicut in prima de syllogiſmo topico, de inductione modorum imperfectorum ad perfectos. De varis speciebus syllogiſmi cathegorici. De materia tum remota tum proxima syllogiſmi topici. detur syllogismus constans ex propositinibus non significantibus de numero predicatorum de locis topicis de Syllogismo hypothetico & alijs syllogismi, de locis intrinsecis speciebus de locis extrinsecis un de finepetende divisions syllogifmi, De locis medijs.fint eſentiales. Digifmus, ut fic, fit genus demonftratiui, opici, co Sopbiſici.De arte inueniendí medium, ac bene disputan de syllogismo sophistico de modis seu instrumentis sciendi fallacis in genere An detur diftin & tiomedia interdiftin & tionem reslem,orationis, de Fallaciis extra dictionem.  Impiegatura del segnare.  Ex variis capitibus solent termini multiplicari et variæ eorum divisiones assignari, ex parte nimirum significationis, ex parte modi significandi, et ex parte rei significatæ. Ex primo capite, quantum ad præsens spectat, solet in primis dividi vocalis terminus in significativum et non significativum. Ille est, qui aliquid significat, ut hæc vox homo, qui naturam significat humanam, ille est, qui nihil qui nihil fignificat, ut "blittri", "buf", "baf". Sed ut ista divisio sit recte tradita intelligi debet de termino in prima acceptione assignata cap. præced. nam in secunda acceptione omnes termini sunt significativi, cum esse possint subiectum et prædicatum in propositione. Terminus igitur vocalis in tota sua latitudine sumptus dividitur in significativum et non significativum. Quæ divisio ut bene percipiatur, cum terminus vocalis constituatur in ratione significantis per significationem, videnduın est quid sit significare & quid signum [segnante, segnare, segnato] a quo verbum "significare" derivatum est. [A cloud may sign but a cloud does not 'make' [fare] a sign -- you cannot order a cloud, 'make a sign!' 'Signify', "Fa un segno!"]. Signum (ex August. De Doct. Christ. cap. i) est illud [x], quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, facit nos venire in cognitionem alterius [y], v. g. hæc vox "homo" præter speciem, quam imprimit in auditu, ut sonus est, facit nos venire in cognitionem alterius scilicet naturæ humanæ, unde signum [segnante] debet esse tale, utillo cognito per sensus, mediante illo deinde veniamus in cognitionem rei, cum qua signut habet *connexionem* [any link will do]. Hinc significare nil aliud erit, quam aliquid aliud a se distinctum *re-præsentare* potentiæ cognoscenti. Ex quo patet signum dicere ordinem et ad potentiam cognoscentem, cui *re-præsentat* et ad rem significatam [signata, segnata], quam re-præsentat. Dividitur porro signum in formale et est illud, quod absque sui prævia cognitione aliud nobis [dual scenario] re-præsentat & in eius cognitionem ducit, quales sunt species impressa et expressa respectu proprii objecti et in instrumentale, quod præ-supposita sui cognitione facit nos in alterius cognitionem venire, ut imago respectu Cælaris, vestigium respectu feræ transeuntis. Qua de causa Scotus 2. d. 3.quæst. 9. et quol.14, hoc secundum signum appellat medium cognitum, quia ut ducat in cognitionem *signati* [segnato], prius petit ipsum cognosci, illud vero primum vocat præcise rationem cognoscendi, quatenus præcise est quo aliud cognoscitur et non quod cognoscitur. Signum autem instrumentale est, de quo agimus in præsenti et quod proprie dicitur signum et definitur ab August. citat, ea tamen definitio etiam formali conveniet, si prima pars dematur & dicatur signum esse, quod facit nos in alterius rei cognitionem venire. Hæc tamen signi descriptio, quamvis sit ab August, tradita & ob tanti doctoris authoritatem ab omnibus passim recepta, non recipitur a Poncio disput. 19. Log. quæst. i, eamque impugnat quo ad veramque partem. Quo ad primam quidem cum ait signum [segnante] esse id, quod præter sui cognitionem, quam ingerit sensibus, etc. redarguit, quia non complectitur omne signum, quia possent dari *signa spiritualia*, quae deducerent in cognitionem aliarum rerum, nec possent percipi a *sensibus materialibus*. Quo ad aliam vero partem, in qua ait. Quod signum facit nos venire in cognitionem alterius eam impugnat, tamquam ab Arriag. traditam, quia obiectum facit nos in cognitionem sui venire et tanem *non* dicitur signum. Rursus Deus ipse facit nos venire in cognitionem multarum rerum eas nobis revelando, nec tamen ab illo vocatur signum illarum rerum. Præterea cognitio est signum rei quae cognoscitur per ipsam & tamen non facit nos in cognitionem venire.  Sed nimis audacter insiciatur Poncius doctrinam D. Augustini, quam omnes venerantur, ut communis Magistri, unde mirum esse non debet, quod saepius hic auctor minimo rubore suffusus doctrinam Scoti praeceptoris audeat impugnare. Optima enim est illa descriptio quo ad omnes partes, si bene intelligatur, nam duae solent assignari conditiones alicuius, ut alterius rei signum dicatur, una est, quod nos ducat in illius rei cognitionem, altera est, quod ducat in eius cognitionem, quatenus cognita, quarum conditionum utramque *optime* [cf. optimality] exprimit definitio signi ab Augustino tradita. Nam per primam partem definitionis secundum exprimit conditionem. Vulc enim rem, quæ inservire debet pro alterius signo, prius nostris sensibus cognitionem sui ingerere debere, specificat autem signum esse debere *sensibile*, quia ut notat doctor 4. d. 1. quæst. 2. & 3. *signa sensibilia* sunt *maxime apta pro statu ipso excitare intellectum coniunctum a sensuum ministerio dependentem, ut in alterius rei cognitionem veniat. Per alteram vero partem definitionis altera quoque conditio exprimirur, contra quam nil urgent instantiæ a Poncio adducta, quia obiectum facit venire in cognitionem sui, non alterius, nec facit venire in cognitionem sui, quatenus cognitum, ut facit signum, sed quarenus cognoscibile. Nec etiam *Deus* hoc modo ad instar signi ducit nos in rerum cognitionem, quatenus cognitus, sed eas revelando, quod adhuc facere posset, etiamsi prius a nobis non cognosceretur. Cognitio denique esse signum rei cognitae per ipsam formale, ut dicebamus, non autem instrumentale, quod solum *proprie* dicitur signum et ab Aug. definitur & ideo cognitio proprie loquendo non dicitur facere nos venire in cognitionem rei, quam re-præsentat, quia non ducit nos in cognitionem illius rei, quatenus cognita, sed ut medium cognitum, sed ut racio cognoscendi. Solum autem signum instrumentale est illud, quod hic definitur. Et hoc signum instrumentale adhuc *duplex* [like vyse and vice?] est, aliud *naturale*, et est quod *ex natura* sua independenter ab hominum voluntate [those spots mean measles] aliquid [measles] re-praesentat, ut fumus ignem [where there is smoke, there's fire], et universaliter omnis *effectus* [causa/effectus] suam causum, qui præsertim si *sensibilis* [fumus] erit, dicetur signum causae juxta sensum definitionis allatæ. An vero ita e contra *causa* dici posse signum sui *effectus*, negat Hurtad. disput. 1. sect. 4. quia etsi causa cognitio ducat in cognitionem *effectus*, tamen, non es ordinata ad illum re-præsentandum. Sed plane non minus ordinata est cognitio *causæ* ad nos ducendum in cognitionem *effectus* a priori, quam cognitio *effectus* sic *ordinata* ad notitiam *cautiam* a posteriori, quare ratio Hurtad. parum valet. At inquirare alii, quod licet ita res se habeat, sola tamen cognitio, quae per *effectum* habetur, dicitur haberi per signum, unde sola demonstratio a posteriori, quae est *per effectum*, dicitur *a signo* et ideo solum *effectus* dici potest signum *causæ*, non e contra. Verum neque hoc viget, licet enim cognitio habita *per effectum* veluti sensibiliorem *causa*, magis proprie dicatur *a signo*, nil tamen impedit, quin et cognitio habita *per causam* possit dici *a signo* absolute loquendo. Potest igitur etiam *causa* dici signum sui *effectus*, et praesertim quando *sensibilis* est, unde a theologis sacramenta dicuntur *signa* *gratia*, cuius sunt *causa*, ita clare colligitur ex Doctore 4. d. 1. quaest. 2. De secundo principali et sequitur Casil. cit. & Arriaga disputat. 3. sect. 2. Aliud vero est *signum artificiale* [not conventional! ars/natura], seu *ad placitum* et est: quod ex hominum impositione aliud re-præsentat, sic ramus est signum venditionis vini, sonus campanae est signum lectionis [the bell means the bus is full], et vox illius rei, ad quam *signi-ficandum* est imposita. Ubi tamen est advertendum etiam in vocibus ipsis non tamtum significationem ad placitum reperiri posse, sed etiam naturalem, ut patet de gemitu infirmorum et latratu canum et ideo terminus vocalis *signi-ficativus subdividi solet in *significatiuum naturaliter et ad placitum et hic ad dialecticum spectat non quidem secundum suam realem entitatem, ut vox est, et sonus quidam in aere *causatus*, sed secundum quod impositus est ad res ipsas *signi-ficandas* et conceptus mentis exprimendos, in hoc enim sensu voces pertinere dicuntur ad institutum dialecticum, ut dicemus disp. de vocibus, ubi etiam declarabimus, per quid constituatur ratio signi. Special section on ‘sign’ – two sections. General definition of sign, following Augustine, but with objections by Ponzio. Second section, the criterion between artificial (‘a piacere’) and mere natural signs. Segno – segnare – segnante, segnatum. Bonaventura Belluti. Bonaventura Belluto. Keywords: dialettica, “Institutiones logicae, quae vulgo Summulas, vel logicam parvam nuncuparunt”, section on ‘segno’ – signum. The teacher ringing the bell means that Strawson should go to the tutorial. The branch of grapes means that Grice is selling wine from his orchard. Rather than ‘artificiale’ ‘a piacere’ is better, ‘ad placitum’. Scottism against Thomism in Italy – x means y in terms of cause and effect. The problem of God, should sign be always ‘material’?—Etimologia di ‘segno’ – relazione con greco ‘semeion’ neutro.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Belluto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bencivenga – il piacere – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio Calabria). Filosofo italiano. Grice: You’ve got to love Bencivenga; my favourite is his little tract on ‘pleasure,’ but he has philosophised on one of Austin’s favourite concepts – that of ‘game’ – gioco – which he applies to communication and philosophy – he thinks that Austin took philosophese too seriously – ‘implicatura,’ ‘perlocution,’ – when it was all meant in fun – as a joke –“. Dopo la laurea in filosofia alla Statale di Milano, Bencivenga ha lasciato presto l'Italia, trasferendosi prima in Canada per gli studi di dottorato e poi negli Stati Uniti, dove ha intrapreso la sua carriera accademica insegnando, dal 1979, all'Università della California a Irvine.  I suoi interessi di studio, nel corso del tempo, hanno riguardato la logica formale (negli anni settanta), la storia della filosofia (negli anni ottanta), l'etica, la filosofia politica. Ha pubblicato numerosi testi sulla storia della filosofia e su specifici argomenti filosofici, come logica, estetica, filosofia del linguaggio, in forma dialogica, saggistica, trattatistica – “Teoria del linguaggio e della mente” (Bollati Boringheri --, con scrittura aforistica – “Anime danzanti” (Aragno) -- o affrontando singole figure storiche (come Hegel e Kant). Ha scritto inoltre diversi testi introduttivi alla filosofia e a sue tematiche, desti un pubblico più vasto, e alcuni libri di poesie. “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Montadori)  è un saggio ripubblicato negli Oscar Mondadori. Pur potendo essere raccontato a un uditorio di bambini, il saggio si pone l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere umano, che lo rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande della filosofia. Il saggio è stato riedito in edizioni aumentate (a quarantadue, cinquantadue, sessantadue e ottantadue favole). “Giocare per forza: critica della società del divertimento” (Arnoldo Mondatori) è dedicato all'importanza del gioco e all'esame critico del sovvertimento di senso di cui esso è stato fatto oggetto nella società contemporanea: trasformato in industria, il divertimento ha perduto la sua naturale collocazione, quale manifestazione della sfera fantastica, ricerca libera e volontaria. Trasposto in una dimensione 'industrializzata' e organizzata, il gioco si qualifica come attività passiva e ripetitiva, espressa all'insegna di rapporti psicologici coattivi che snaturano completamente il senso dell’Homo Ludens di Johan Huizinga: il gioco del lotto e l'intrattenersi con videogame o slot machine diventano forme di subire passivo, una dimensione alla quale è precluso il manifestarsi dell'agire ludico dell'uomo attraverso l'attività fantastica della psiche umana.  In un mondo in cui domina la dimensione organizzata del divertimento, si apre all'uomo una prospettiva impoverita dell'esistenza, in cui si realizza la perdita del senso profondo del gioco, una prospettiva che l'autore considera esiziale perché, nelle sue stesse parole, «se perdiamo il gioco perdiamo la stessa umanità».  Pubblica il saggio “L'etica di Kant: la razionalità del bene” (Bruno Mondatori), una riflessione sul concetto di Etica in Kant e sul fondamento logico-razionale del Bene.  L'Etica consiste nel negare la preminenza al nostro punto di vista, aprendosi all'esperienza altrui, all'ascolto di tutte le altre voci e presenze che hanno diritto a occupare un posto nella riflessione comune. Di converso, la negazione dell'etica consiste esattamente nella negazione di questo diritto, nell'impedire agli altri la partecipazione alla riflessione collettiva, la possibilità di offrire all'esperienza comune il contributo particolare della propria ragione. Questa partecipazione coinvolge ciò che si chiama l'"uso pubblico della ragione", un'espansione della dimensione privata della ragione, quest'ultima intesa come la sfera d'uso che ci è concessa, ad esempio, nell'esercizio dei compiti derivanti da necessità e ruoli della nostra vita e della nostra professione.  L'Etica è come un "fuoco immaginario", impossibile da attingere. Ma ciò che conta veramente è il percorso attraverso cui ci si muove in direzione di questo "fuoco", un cammino in grado di aprire l'uomo a nuove acquisizioni, schiudendone gli orizzonti al di fuori di pregiudizi e preconcetti.  Si pone poi il problema di come considerare l'etica in un contesto dominato dalla corruzione: l'etica non lascia spazio alla rinuncia e al cinismo, anche se spesso quest'ultimo può presentasi in forma artefatta, dissimulato da "realismo", e per questo non immediatamente riconoscibile. Riprendendo la celebre riflessione sulla «banalità del male» di Arendt (per Bencivenga, la massima interprete kantiana del XX secolo), il bene ha una logica e una ragione, un fondamento da cui non è invece sorretto il male. Quest'ultimo, infatti, trae origine proprio dalla rinuncia alle ragioni dell'etica, si insinua proprio nelle lacerazioni dell'etica lasciate aperte da questa rinuncia. Diversi suoi contributi sono apparsi negli anni su vari giornali italiani, come La Stampa, il Sole 24 Ore, l'Unità, ecc.   Altre opere: “Le logiche libere” (Bollati Boringhieri); “Una logica nei termini singolari” (Bollati Boringhieri); “Il primo libro di logica” (Bollati Boringhieri); “Tre dialoghi: un invito alla pratica filosofica” (Bollati Boringhieri); “Giochiamo con la filosofia” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia in trentadue favole” (Arnoldo Mondadori); “La filosofia in quarantadue favole”; “La filosofia in cinquantadue favole”; “La filosofia in sessantadue favole”; “La filosofia in ottantadue favole”; “La libertà: un dialogo. Il Saggiatore); “Oltre la tolleranza. Feltrinelli); “Il metodo della follia. Il Saggiatore); “Filosofia: istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “Platone amico mio. Arnoldo Mondadori); “Manifesto per un mondo senza lavoro, Feltrinelli); “Per gioco e per passione, Di Renzo); “La rivoluzione copernicana di Kant. Bollati Boringhieri); “Filosofia: nuove istruzioni per l'uso. Arnoldo Mondadori); “I passi falsi della scienza. Garzanti 2001, Premio Nazionale Rhegium Julii); “Una rivoluzione senza futuro. Garzanti); “Parole che contano. Da amicizia a volontà, piccolo dizionario filosofico-politico. Arnoldo Mondadori); “Le due Americhe. Perché amiamo e perché detestiamo gli Usa” (Arnoldo Mondadori); “Dio in gioco: logica e sovversione in Anselmo d'Aosta” (Bollati Boringhieri); “Il pensiero come stile” (Bruno Mondadori); “La dimostrazione di Dio. Come la filosofia ha cercato di capire la fede” (Arnoldo Mondadori Editore);  “La filosofia come strumento di liberazione” (Raffaello Cortina); “Parole in gioco. Arnoldo Mondadori); “La logica dialettica di Hegel. Bruno Mondadori); “Il piacere. Indagine filosofica. Laterza); Filosofia in gioco. Laterza); “Filosofia chimica” (Editori Riuniti); “Il bene e il bello. Etica dell'immagine” (Il Saggiatore  Prendiamola con filosofia. Nel tempo del terrore: un'indagine su quanto le parole mettono in gioco); “Giunti  La scomparsa del pensiero. Perché non possiamo rinunciare a ragionare con la nostra testa. Feltrinelli); “Filosofo anche tu. Siamo filosofi senza saperlo. Giunti); “La stupidità del male. Storie di uomini molto cattivi” (Feltrinelli); “L'arte della guerra per cavarsela nella vita” (Rizzoli Bur); “100 idee di cui non sapevi di aver bisogno” (Rizzoli Bur); “Critica della ragione digitale. Feltrinelli); “Nel nome del padre e del figlio. Hoepli; “I delitti della logica” (Arnoldo Mondadori); “Abramo, tragedia in tre atti. Aragno  Case. Cairo  Il giorno in cui non tornarono i conti. MdS, “Annibale, tragedia in tre atti” (Aragno); Amori. MdS; “Alessandro, tragedia in tre atti” (Aragno); Ada. Lettera a mia madre. Arsenio. Poesia Panni sporchi. Garzanti); Un amore da quattro soldi. Aragno); Polvere e pioggia. Aragno  Poesia dei miei coglioni. Galassia Arte); “Le parole della notte. Di Felice  Amore per Milla. Di Felice. Interventi di Ermanno Bencivenga Archiviato il 13 giugno  in. da SWIFTSito web italiano per la filosofia  premio Rhegium Julii, su circolorhegiumjulii.wordpress.com. Blog ufficiale, su sites.uci.edu.  Opere di Ermanno Bencivenga, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ermanno Bencivenga,.  Profilo dal sito dell'UCI Department of Philosophy Testi di e su Ermanno Bencivenga dal sito dell'UCI Department of Philosophy Biografia dal sito del Festivaletteratura di Mantova.  Da un quarto di secolo ormai parlo di gioco, e intorno a questo tema ho raccolto tutte le attività che hanno per me il più profondo significato. Ho detto che il linguaggio e la mente sono spazi ludici, che lo sono la soggettività e la politica, che letteratura e filosofia sono giochi intellettuali. Ho scritto un libro polemico nel quale criticavo varie attività che nel mondo contemporaneo sono presentate e propagandate come forme di gioco e invece ne rappresentano l’opposto: una violazione e repressione del gioco. Ma non ho mai spiegato con cura che cosa intendo per gioco, non ho mai articolato i molteplici risvolti di questo intricato concetto. Lo faccio qui, e forse è bene che lo faccia alla mia età e dopo tante vicissitudini e traversie: forse un libro così, su un argomento per me di tale importanza, poteva solo presentarsi come sommario di un’esperienza di vita, come enunciazione della sua morale.  Questo dunque è il libro di tutti i miei libri e ogni mia forma espressiva è stata un suo episodio. Che io mi sia dedicato alla logica o alla poesia, abbia esplorato problemi metafisici o dialogato con i grandi della storia del pensiero, abbia insegnato, parlato in pubblico o scritto articoli di giornale, non ho fatto che pratica della sua composizione, non ho trovato che esempi delle sue tesi. Di conseguenza, nel prepararlo, ho dovuto affrontare una difficoltà: quella di mantenere una precisa misura. Il libro non poteva diventare un’enciclopedia: doveva essere chiaro ed efficace, breve anzi, e gli stimoli che avrebbe offerto alla lettura non dovevano causare distrazioni per un percorso che volevo coerente e risolto in sé stesso. Se ho realizzato i miei scopi non sta a me dire; aggiungerò solo una nota di commiato. In quella costellazione variegata che è il mio lavoro di quarant’anni c’è un sole (un faro, l’aveva chiamato l’amico Luciano Genta in un’intervista di molto tempo fa): Immanuel Kant. E c’è un centro di forza, a lungo nascosto per quanto instancabilmente operoso e ora infine venuto alla luce. Ringrazio Alessandro Giuliani, Ignazio Licata, Cinzio Lombardi, Pasqualino Masciarelli, Daniela Mazzoli, Fabio Paglieri e Paolo Zorzato per i loro  commenti a una versione precedente del libro. Un ringraziamento e un ricordo particolari vanno a Nuccia, antica compagna di giochi, che, fin quando ha potuto, ha seguito queste pagine con l’intelligenza, il rigore e la sensibilità di sempre. Roma, novembre 2012 Avvertenza Di regola, le citazioni sono accompagnate dall’autore, dal titolo della fonte e dai numeri delle pagine (le altre informazioni bibliografiche sono contenute nella Bibliografia in fondo al volume), con le eccezioni seguenti: Quando mancano autore o titolo è perché (a) sono menzionati nel testo che accompagna immediatamente la citazione, (b) nel libro viene citata una sola opera di quell’autore e l’opera è già stata menzionata, oppure (c) la citazione è tratta dalla stessa fonte della citazione precedente. Quando mancano le pagine è perché sono le stesse della citazione precedente. Infine, quando una citazione è inserita nel testo (anziché presentata a parte, in corpo minore), la sua iniziale maiuscola o minuscola è stata adattata alle esigenze del contesto.  1. Il gioco Una bambina di due anni entra in una stanza per lei nuova, cosparsa di oggetti ignoti. Si muove incerta dall’uno all’altro; li prende in mano, osservandoli curiosa e perplessa da ogni punto di vista; li assaggia e li mordicchia con i suoi piccoli denti; li scaglia per terra e per aria; li fa rotolare sul pavimento, seguendone il percorso e le reazioni; ci infila dentro le mani cercando di smontarli, di farli a pezzi; li picchia con forza per trarne un suono e sorride quando rispondono. Poi si accovaccia in un angolo, raccoglie intorno a sé tutti questi suoi tesori e li combina in forme sempre nuove: un cerchio di libri e scarpe con un telefono in mezzo, una pila di pentole e stoviglie, un orsacchiotto che guarda in cagnesco un altoparlante. Il portiere ha appena raccolto una palla morta. Potrebbe rilanciare lungo, oltre il centrocampo; ma preferisce l’appoggio al difensore di fascia, appena fuori dall’area. Il terzino scatta veloce: gli avversari sono sbilanciati dall’altro lato del campo, lui ha un’autostrada davanti e il centinaio di metri che lo separa dalla linea di fondo è la distanza giusta per le sue doti di velocista potente e armonioso. In affanno, sopraggiunge infine un marcatore, ma prima che si stringa troppo il terzino si ferma di botto in un fazzoletto di terra. Ha spazio, ancora per una frazione di secondo; lancia un cross morbido per la testa del suo centravanti, chiaro punto di riferimento a dieci metri dal portiere. L’attaccante ne ha due addosso, che lo spingono e lo strattonano rischiando il rigore e gli bloccano la visuale della porta, così invece di schiacciare direttamente a rete fa da torre e deposita la sfera sui piedi dell’ala che si è appostata sul secondo palo. Non c’è che da spingere, il pallone varca la linea bianca, lo stadio impazzisce. Tutto questo miracolo di perfetti gesti atletici, di geometrie essenziali non è durato neanche un minuto. Sono due esempi di un’attività che chiamiamo «gioco»; ma non è affatto evidente che sia lecito usare per entrambi la stessa denominazione. Sembra anzi un arbitrio, un capriccio; sembra non possano esserci modi più disparati di occupare il tempo. La bambina agisce in assoluta libertà, guidata solo dall’inclinazione del momento; non accetta alcuna barriera tra ciò che è in  gioco e ciò che non lo è, tra mosse consentite ed escluse; non contempla un limite temporale per quel che sta facendo, e infatti si dovrà sempre e comunque interromperla, e quando lo si farà lei manifesterà con vigore il suo disappunto; non ha uno scopo, non vuole ottenere nulla – null’altro, cioè, che continuare a giocare. I calciatori, invece, vivono un episodio che dura esattamente novanta minuti (più recupero); sono soggetti a regole che è compito dell’arbitro e dei suoi collaboratori far rispettare alla lettera (e che domani provocheranno discussioni a non finire sui giornali e nei bar); hanno l’obiettivo di vincere la partita, segnando un gol più degli avversari, e per questa via conseguire fama imperitura e ingaggi stratosferici. Che cosa ci può offrire l’uso di una stessa parola con significati tanto diversi se non una penosa confusione? E non è finita, non per me almeno. Consideriamo infatti un passo come il seguente, dalla Critica del giudizio: È un principio trascendentale quello col quale è rappresentata la condizione universale a priori, sotto la quale soltanto le cose possono diventare oggetti della nostra conoscenza in generale. Invece, un principio si chiama metafisico quando esso rappresenta la condizione a priori, sotto la quale soltanto oggetti, il cui concetto deve esser dato empiricamente, possono essere ulteriormente determinati a priori. Così il principio della conoscenza dei corpi, come sostanze e come sostanze mutevoli, è trascendentale, quando s’intenda che il loro mutare debba avere una causa: è metafisico, invece, quando s’intenda che quel mutamento debba avere una causa esterna; perché nel primo caso basta che il corpo sia pensato solo mediante predicati ontologici (concetti puri dell’intelletto) – per esempio, come sostanza – per conoscere a priori la proposizione; laddove nel secondo deve essere messo a fondamento di questa proposizione il concetto empirico di un corpo (come una cosa mobile nello spazio), ed allora si può vedere interamente a priori che l’ultimo predicato (del movimento prodotto solo da una causa esterna) conviene al corpo (p. 21). Queste frasi compaiono in un libro che rappresenta uno dei massimi vertici della filosofia occidentale, e io ho sostenuto a più riprese che la filosofia è un gioco. Non solo la filosofia, perché l’ho detto pure dell’arte e della letteratura, ma anche la filosofia. E che cosa giustifica l’accostamento di espressioni così nobili dell’ingegno umano a una partita di calcio o alle peripezie di una bimba da poco in grado di reggersi in piedi? In filosofia si fa terribilmente sul serio, ci si concentra sui temi che più contano, che dànno senso alla vita e all’esperienza del mondo, e si fa di tutto per sviscerarne la struttura, per arrivare in proposito all’unica, esatta verità; non ci si sta divertendo (sviando, cioè: andando a spasso) per godere della novità e della sfida. In ballo non ci sono soldi o il plauso delle folle, e neppure il piacere che deriva da qualche ora trascorsa spensieratamente. Tutt’altro: il pensiero qui è acuto come uno spillo e profondo come l’oceano, diretto come un raggio laser verso problemi per cui le folle non provano  (ahimè) alcun interesse, anche perché sono spesso trattati in termini (come quelli del passo citato) che le folle troverebbero incomprensibili; e talvolta l’esito di tanto ossessivo impegno, di tanta rigorosa dedizione, di tanta puntuale insistenza sull’uso di formule corrette e ragionamenti apodittici è un infuso di cicuta propinato al tramonto o il rogo in una piazza romana, fra i pellegrini convenuti per l’anno santo. Anche questo è un gioco: quello che stiamo conducendo adesso, voglio dire, quello suggerito dall’inizio del mio libro. Ed è importante capire che gioco sia. Potrebbe essere come quando si mettono accanto due vignette che raffigurano situazioni del tutto diverse – che so io?, il varo di una nave e un compito in classe – e si chiede che cosa abbiano in comune. E, aguzzando bene la vista e non lasciandosi distrarre dalle forme più prominenti, si finisce per scoprire che la superficie di un banco coincide con la bandiera spiegata, o la barra del timone con il righello. Un gioco così non è nuovo, per rispondere alle domande che ho posto qui sopra. Si mettono accanto un ragazzo che costruisce un castello di sabbia, un campione di scacchi alle prese con un’apertura inconsueta, Guernica ed Essere e tempo e ci si interroga su quali siano i dettagli che si ripresentano identici in ciascuna situazione. Stabilendo, per esempio, che si ha sempre a che fare con un esercizio fine a sé stesso o con un affrancamento dell’essere umano dalla servitù del bisogno. Identificando il gioco, insomma (quel che lo rende tale), con una singola, astratta caratteristica di ogni gioco particolare, tanto astratta da far scomparire ciò che un gioco particolare ha di vivido e intenso, di suggestivo e appassionante. Che cosa rimane dell’inventiva del trasformare un passeggino in un’automobile, dell’eccitazione di tirare un rigore all’ultimo istante, della sconfinata ingegnosità (e sublime impertinenza) della prova ontologica anselmiana quando le dichiariamo ridotte a una qualsiasi concisa definizione che ci dia l’essenza del gioco? Non è questo il gioco a cui voglio giocare. È invece un gioco analogo a quello del labirinto. C’è un punto di partenza e noi siamo lì, carichi di tutta la nostra individualità, di tutto ciò che ci rende irripetibili, inconfondibili con chiunque altro. Davanti a noi ci sono bivi e ostacoli, comodi varchi che potrebbero finire in un vicolo cieco e strettoie malsane per cui potremmo trovare il passaggio agognato. E c’è una meta che ci aspetta al termine di un tracciato arduo e sofferto; ma una meta da raggiungere interi, non assottigliati in un’ombra priva di peso e di spessore, anzi avendo acquisito maggior peso e spessore per le avventure vissute e i rischi corsi, avendo visto maturare anziché  spegnersi le nostre opinioni e i nostri sentimenti. Nel linguaggio della filosofia, i due giochi che ho descritto sarebbero ribattezzati con i nomi di Aristotele e di Hegel: il primo fautore di una logica analitica che divide (analizza) oggetti ed esperienze nelle loro molteplici caratteristiche e quindi astrae le caratteristiche comuni costituendo concetti universali che diventano il luogo privilegiato della sua azione; il secondo, invece, di una logica dialettica che unisce (lega) oggetti ed esperienze fra loro, senza perdere nulla della loro complessità, mediante un tessuto narrativo, una storia che gradualmente trascende l’uno nell’altro mantenendo però l’uno presente e attivo nell’altro, un po’ come il monello dodicenne è trasceso, ma ancora presente e attivo, nell’attempato capitano d’industria. Più avanti potremo riprendere in mano questa terminologia filosofica e precisarla meglio; ora è tempo di giocare, di trovare la via nel labirinto. Dovremo spiegare il punto di partenza: il gioco della bimba di due anni – spiegarlo come si spiega una vela, mostrando tutto quel che le pieghe nascondono. Dovremo avere sempre chiaro in mente l’obiettivo: ritrovare quel gioco e quella bambina nella Critica del giudizio, passando per il gioco del calcio e molte altre tappe. E dovremo affrontare false piste e pericoli, cioè tutte le domande e obiezioni che già ci siamo posti e quelle che dovremo ancora porci, e superarle senza lasciare sul terreno alcun elemento significativo del punto di partenza: senza smarrire l’incanto che affascina la bimba, il brivido con cui tenta un nuovo gesto o una prospettiva strampalata, il piacere riflesso nel suo sorriso, il paziente e prezioso sviluppo della sua personalità che si realizza attraverso questi um ili, intimi passi.  2. Il punto di partenza Cominciamo con la bimba, dunque; studiamone la situazione e (per quel che possiamo capirlo) lo stato d’animo. La prima cosa da notare è che il suo comportamento è trasgressivo: sovverte ogni abitudine sull’uso «corretto» degli oggetti con cui ha a che fare e ogni aspettativa che chiunque si sia formato in proposito. Parte di questa sua natura rivoluzionaria è dovuta al semplice fatto che la bimba non sa quale sia l’uso corretto degli oggetti: non sa, per esempio, che con una spillatrice si cuciono dei fogli e se ne serve invece come di un grosso pesce nella cui bocca spalancata inserire l’«esca» di una pedina della dama, e chi la vede sorride e osserva bonario quanto ingegnoso sia il suo spirito, quanto la sua immaginazione sia in grado di sopperire ai difetti dell’ignoranza. Magari il benevolo spettatore prenderà la spillatrice e ne dimostrerà con sapiente manovra pedagogica il funzionamento: la userà per realizzare in quattro e quattr’otto un bel quadernetto degli appunti che porgerà alla sua pupilla, perché colga subito un elemento decisivo della sua educazione formale prossima ventura – perché l’esperienza attuale non rimanga «solo un gioco». E avvertirà una profonda frustrazione quando l’indisciplinata (presunta) scolara in erba si guarderà bene dall’imitare il suo esempio e realizzare altri dieci quadernetti, e cercherà piuttosto di infilare le dita dentro la spillatrice e strapparle i punti, cioè i piccoli denti affilati di questo pesce goloso, intenzionato a divorare tutte le pedine della dama. Scuoterà la testa, il nostro insegnante per il momento mancato, e si consolerà pensando che è solo questione di tempo: prima o poi la bimba imparerà il minimo indispensabile per un comportamento «come si deve» e allora ci si potrà costruire sopra e darle altre utili lezioni, senza questo continuo cambiare le carte in tavola che sarà forse motivo d’allegria per lei ma è anche, per tutti gli altri e per la sua stessa crescita, un’inutile distrazione. Il secondo commento va in senso opposto al primo, indicando che con il suo procedere caotico e informale la bimba impara un’enorme quantità di cose molto importanti. Non quante siano state le guerre puniche o chi abbia malgovernato l’Italia negli ultimi anni; questi contenuti li apprenderà a scuola,  quando ci andrà, o da altre autorevoli e comunque successive fonti d’informazione. Ora invece impara a vivere nel suo corpo, a distenderlo e ritrarlo; impara quali resistenze è in grado di superare e a quali altre deve cedere; impara a valutare le distanze fra le pareti e fra gli oggetti sparsi per la stanza; impara la struttura complessa di quegli oggetti, rigirandoli fra le mani e guardandoli e toccandoli da ogni angolo. Vocalizzando reazioni emotive alle sue vicende, impara a padroneggiare la sua voce, ad articolarla e modularla: a trasformare suoni rozzi e primitivi in un flusso sonoro di grande ricchezza e flessibilità, nel quale inscenare il dramma del linguaggio. Non è un’esagerazione dire che tutto quel che facciamo sul serio lo abbiamo un giorno imparato giocando, purché non si dia dell’imparare – cioè della conoscenza – un’interpretazione puramente intellettuale, che lo legga come una relazione fra un soggetto ed entità astratte quali idee o proposizioni (i «contenuti» cui accennavo). Certo sarebbe possibile, e per me desiderabile, imparare il teorema di Pitagora o le valenze chimiche giocando; ma sta di fatto che la maggior parte di noi li impara in situazioni d’imbarazzante rigidità. Non potrebbe impararli affatto, però, se non avesse acquisito abilità «elementari» che tendiamo a prendere per scontate ma che, riflettendoci, ci riempiono di ammirato stupore: nel caso specifico, l’abilità di comprendere quel che ci viene detto, di coglierlo come uguale a sé stesso nelle mille differenze di tono e pronuncia di parlanti diversi, di adattarlo al contesto nel quale è inserito. Prima dei tre anni un bambino impara tutto ciò senza sforzo – alcuni bambini in più lingue – mentre i cultori dell’intelligenza artificiale ancora non sono riusciti a produrre un meccanismo di traduzione automatica decente. E impara a riconoscere e categorizzare oggetti nello spazio, distinguendoli dallo sfondo; a interagire ed empatizzare con altri esseri umani; a bilanciarsi sulle gambe e muoversi disinvoltamente in ogni direzione. Se pensiamo alla fatica con cui, in età posteriori, quello stesso bambino ormai cresciuto tenterà d’impadronirsi di una lingua straniera, di una teoria scientifica o di uno strumento musicale, non possiamo non rimpiangere la facilità con cui l’apprendimento avveniva nell’infanzia, e il fatto che l’infanzia sia terminata. Ho menzionato l’apparente contrasto fra il carattere sovversivo del gioco e la sua sconfinata capacità di insegnare. Sembra esserci un contrasto, qui, perché di solito concepiamo la conoscenza (oltre che in termini astratti) come rispecchiamento di una realtà data, da acquisire senza modificarla. Io vengo a sapere che piove osservando in modo neutrale lo spettacolo che mi si porge  attraverso i vetri della finestra, piegandomi con assoluta deferenza all’indipendente oggettività della pioggia e facendo del mio meglio perché i miei piani, le mie esigenze e la mia immaginazione non la turbino. Se avvertissi troppo forte l’anelito per una bella giornata di sole e una fantasia troppo vivida me ne rappresentasse una davanti, finirei forse per illudermi (parola importante, sulla quale ritornerò) che non piova, per rimanere vittima del gioco delle mie emozioni e delle mie facoltà mentali – e non saprei più che tempo fa. Il che senz’altro è ragionevole, ma non va frainteso. Non c’è nulla di sbagliato nel desiderio di una conoscenza che rispecchi la realtà; ma non ne segue che il metodo migliore per soddisfare tale desiderio sia adagiarsi in una supina e passiva registrazione di circostanze a noi aliene. La realtà va costantemente sfidata, messa sotto pressione come farebbe uno scienziato con i suoi esperimenti di laboratorio: il suo carattere oggettivo non è un dono che ci viene generosamente elargito ma il residuo di un’attività ininterrotta da parte nostra. Per essere conosciuta, la realtà va esplorata; e il gioco è il paradigma di questa esplorazione. La tensione fra trasgressione e apprendimento può così essere risolta. Senza arrivare agli estremi di Bacone, per il quale dovremmo costringere la natura con le sevizie a rivelarci i suoi segreti, l’apprendere è un fare, non un puro constatare, o meglio è un constatare che risulta da un fare. Se ci fossimo limitati a guardare la luce che emana dal sole e da altre fonti luminose, la concepiremmo ancora come un fluido che pervade l’aria. Invece abbiamo proiettato un fascio di luce su uno schermo attraverso due fessure, osservando fenomeni d’interferenza e concludendo che eravamo in presenza di onde. Prove successive ci hanno convinto che la luce si comporta anche come se fosse costituita da particelle, e ragionando su questo paradosso siamo arrivati alla meccanica quantistica che, sebbene in certa misura inintelligibile, dà previsioni più accurate di ogni altra teoria nella storia della fisica. Possiamo dire di aver raggiunto una perfetta conoscenza della realtà? No di certo; ma non credo ci siano dubbi che abbiamo imparato sulla luce molto più di quanto ne sapessimo in passato, e che abbiamo fatto grandi progressi perché non siamo rimasti con le mani in mano, perché in analogia con i grandi viaggiatori e scopritori di continenti del Rinascimento ci siamo inoltrati in un terreno ignoto e lo abbiamo percorso in lungo e in largo come cavalieri erranti, scrutando qua e là e menando fendenti all’impazzata e a volte commettendo veri e propri errori – scambiando mulini a vento per giganti. Il primo cavaliere errante è il bambino; il terreno ignoto che esplora è il suo  ambiente; i continenti che scopre sono oggetti di uso comune, il che potrà sembrare banale solo a chi non consideri quanto indispensabili, irrinunciabili siano tali scoperte e non ricordi che non c’è altro modo di scoprire alcunché. Si potrebbero seguire alla lettera delle istruzioni, ovviamente, e se ne diventerebbe prigionieri. Pensate per esempio ai diversi atteggiamenti che un ragazzo e un adulto hanno spesso nei confronti di un nuovo dispositivo elettronico. Il secondo segue istruzioni; il primo invece schiaccia tutti i tasti e tenta tutte le combinazioni operative; come risultato, quando il secondo si trova in difficoltà deve chiedere aiuto al primo. Perché il primo ha errato, in entrambi i sensi della parola, quindi ha imparato davvero: non solo quel che gli era stato detto ma anche, forse, quel che nessuno gli avrebbe potuto dire, quel che nessuno sapeva, quel che stava intorno a quel che ognuno sapeva e che mai si sarebbe visto se non si fosse andati a zonzo, girovagato, per divertirsi – per deviare cioè dalla strada battuta. Le parole «divertimento» e affini sono usate sovente come sinonimi di «piacere» e affini; «mi sono divertito molto» ha nella maggior parte dei casi lo stesso significato di «è stata un’esperienza molto piacevole». Il legame che ho appena tracciato fra divertirsi e imparare getta una luce provvidenziale su questa particolarità semantica: provvidenziale come sa esserlo l’evoluzione. Ha fatto bene la natura, operando per mutazione e selezione, ad associare un vivo piacere alla nutrizione e al sesso, come incentivo ad attività essenziali per la sopravvivenza dell’individuo e della specie, e altrettanto ragionevole si è mostrata nel farci vivere il divertimento, la divagazione, come fonte di gioia, se è vero che divagare è il modo migliore di apprendere. L’ampio spettro d’intercambiabilità fra piacere e divertimento suggerisce addirittura che esplorare ed errare abbiano un valore adattativo più alto, o almeno più capillare, di mangiare e accoppiarsi: non esiste occupazione umana che non provochi «divertimento» per qualcuno, ma non sempre le stesse occupazioni sarebbero definite dalle stesse persone «erotiche» o «gustose». Ad ogni buon conto, arriviamo così a identificare un’ulteriore caratteristica della scena ludica primaria: la bimba prova un indubbio piacere, che sembra durare per tutto il tempo in cui gioca. Lo tradiscono talvolta i suoi sorrisi e gridolini di eccitazione, ma in modo più ovvio (perché più continuo) la sua assoluta concentrazione e apparente instancabilità, le sue proteste quando viene interrotta, il suo pronto ritornare a quel che tanto la avvince quando le proteste hanno effetto. Ed è il piacere che prova a motivarla a giocare: non c’è in questa attività nessun secondo fine; l’attività è fine a sé stessa, perseguita in  completa autonomia (in accordo con una delle possibili definizioni analitiche di gioco). La bimba non si aspetta nessun risultato, non intende conseguire nessun obiettivo, o quantomeno nessun risultato o obiettivo esterni. Nonostante tutto quel che ho detto sulla funzione pedagogica del gioco, non è per imparare che si gioca: quale che sia il vantaggio adattativo che il gioco procura, ognuno di noi gioca all’unico scopo di giocare. Nelle prime pagine del suo I giochi e gli uomini, Roger Caillois lascia apparentemente la porta aperta a un’interpretazione strumentale delle attività ludiche, nel senso di un loro contributo all’addestramento fisico: Contrariamente a quanto si sostiene spesso, il gioco non è un apprendistato del lavoro. Esso non anticipa che in apparenza le attività dell’adulto [...]. Il gioco non prepara a un mestiere preciso, esso allena in generale alla vita aumentando ogni capacità di superare gli ostacoli o di far fronte alle difficoltà. È assurdo, e non serve a niente nella vita reale, lanciare il più lontano possibile un martello o un disco di metallo, o riprendere e rilanciare continuamente una palla con una racchetta. Ma è utilissimo avere dei muscoli possenti e dei riflessi pronti (p. 12; corsivo aggiunto). Alla fine del libro, però, la chiude con decisione: Il gioco non è esercizio, non è neanche gara o prodezza, se non in sovrappiù. Le facoltà che esso sviluppa beneficiano certamente di questo allenamento supplementare, che è per di più libero, intenso, divertente, creativo e protetto. Ma funzione specifica del gioco non è mai quella di sviluppare una capacità. Scopo del gioco è il gioco stesso (p. 195). A testimonianza del fatto che il gioco non è facile da capire, affiora in queste ultime battute un nuovo elemento di tensione. È naturale infatti porre in contrasto il gioco fine a sé stesso con quanto si fa «sul serio»; ma che cosa c’è di più serio, per la bimba, dell’immersione totale, dell’assorta partecipazione con cui vive le sue trasgressioni e i suoi esperimenti? È quando le si vorrà imporre un comportamento giudicato desiderabile dai grandi che si mostrerà svogliata e distratta come chi non prenda la cosa sul serio; lo farà anche quando le si vorrà dare da mangiare, una volta soddisfatta la fame più immediata, e si calmerà e riprenderà il suo sguardo intento e le sue mosse accurate appena i grandi si saranno allontanati e le sarà possibile giocare con il cibo. In Homo ludens, Johan Huizinga conferma l’esistenza di un problema quando scrive: «l’opposizione gioco-serietà non pare né conclusiva né stabile» (p. 23). E più avanti dichiara: «Bambini, calciatori, scacchisti giocano con la massima serietà senza la minima tendenza a ridere» (p. 24). «L’autentica, spontanea mentalità del gioco può essere quella della profonda serietà. Il giocatore può arrendersi al gioco con tutto l’essere» (p. 45). Càpita spesso che termini ritenuti descrittivi di come va il mondo abbiano un valore assai più decisamente prescrittivo: fungano, cioè, da ricette implicite su  come il mondo dovrebbe andare. Una persona è spesso detta normale non perché rappresenta una media statistica ma perché meglio si adatta alle norme di chi così la descrive, e il senso comune è spesso comune solo a chi lo chiama in causa per dar credito a una propria tesi. Qui siamo di fronte a una situazione analoga. Le cose che si fanno sul serio sono quelle cui si dedica pazienza, sforzo, attenzione costante, e per chi sia stato «appropriatamente» socializzato pazienza, sforzo e attenzione dovrebbero essere profusi nell’andare al lavoro, nel preparare la cena e nel lavare i piatti. Che nel fare cose del genere si risulti svogliati e distratti, che non si riesca a prestar loro la cura che meritano, è giudicato un’anormalità, per quanto sovente succeda, per quanto oneroso sia adempiere alla norma che viene così (implicitamente) assunta. La bimba che stiamo osservando ci rivela la vanità di tali pretese: rivela nel modo più chiaro che per lei il gioco è l’attività più seria, anzi perché qualcosa sia davvero preso sul serio (non si voglia soltanto che lo sia) deve entrare a far parte di un gioco. Superata anche questa difficoltà, sembriamo aver ottenuto un’immagine incondizionatamente positiva del nostro oggetto di studio. Il gioco sovverte abitudini e aspettative, ma non solo questa sua natura irrispettosa è compatibile con una sua funzione educativa: sembra che non ci sia un modo migliore, forse non ci sia un altro modo, di educare che sfidando lo status quo ed esaminandone minuziosamente tutte le possibili alternative. Il gioco è piacevole ed è praticato per il piacere che dà; eppure è l’attività più seria, forse l’unica attività che venga condotta con autentica serietà. C’è però ancora un aspetto del gioco che occorre discutere, ed è un aspetto stavolta inquietante. Il gioco è pericoloso; violando abitudini e aspettative ci si può far male, ed è probabile che i grandi lo sappiano – che, se la bimba è stata lasciata sola nella stanza a giocare, gli spigoli più acuti siano stati tolti di mezzo, le prese di corrente siano state coperte e le finestre siano ben chiuse (già il fatto che avesse a disposizione una spillatrice avrà sollevato qualche perplessità). Abitudini e aspettative richiamano alla mente un’atmosfera di inerzia, di tedio, di mediocrità; e nell’immagine che ne abbiamo dato finora il gioco emerge, per contrasto, come eroico e innovativo, fantasioso ed eccitante. Ma su abitudini e aspettative si fondano contesti che ci rassicurano, che ci permettono di guardare al futuro con fiducia, almeno finché il futuro somiglierà al passato – a quel passato che ha gradualmente dato luogo al costituirsi di abitudini e aspettative. Chi gioca, d’altra parte, non mette in crisi solo il suo ambiente e magari le altre persone che lo popolano: mette in gioco, e in crisi, anche sé stesso, e questo comportamento avventato implica  inequivocabilmente dei rischi. Di gioco si può morire. «Il gioco può sempre diventare un fatto pauroso», afferma lo psicoanalista Donald Winnicott in Gioco e realtà. «I giochi regolamentati [in inglese games, parola che in seguito dovrà essere discussa] e la loro organizzazione debbono essere considerati come parte di un tentativo inteso a tenere a bada l’aspetto pauroso del gioco» (p. 88; traduzione modificata). Incontriamo così un ulteriore ostacolo sul nostro cammino, un enigma da risolvere prima di poter raggiungere la prossima tappa. Stabilito che il gioco ha tutte le caratteristiche positive che ho elencato, urge però un’analisi di costi e benefici se vogliamo mantenerne una concezione generalmente provvidenziale. Vale la pena di educarsi attraverso una piacevole attività di trasgressione se tale attività minaccia la nostra integrità fisica o psicologica? Non sarebbe stato meglio per l’evoluzione scegliere percorsi meno arditi: associare un vivo piacere, per esempio, proprio a quell’ascolto e a quell’applicazione degli insegnamenti di un esperto cui il gioco, irridente, fa gli sberleffi? Sarà anche vero che giocando impariamo di più; ma non è preferibile talvolta, o sempre, imparare meno, se l’imparare mette a repentaglio la nostra esistenza e il nostro benessere – le ragioni, cioè, per le quali vorremmo imparare qualsiasi cosa? In che senso un’attività che ci fa spesso correre pericoli può essere funzionale alla nostra sopravvivenza?  3. Caos e ordine Nell’antica mitologia greca non esiste una creazione dal nulla. Quel che dà origine al mondo così come abbiamo imparato a conoscerlo e abitarlo è invece una variante globale delle pulizie primaverili: al caos originario (quindi in particolare privo di inizio) si sostituisce un cosmo, cioè una struttura ordinata che obbedisce a leggi definite. Noi da tempo non crediamo più nella storia di Zeus e delle sue lotte sanguinose con Crono, i Titani e svariate altre forze oscure e ancestrali (forse non ci credevano davvero neanche i greci); in secoli di sviluppo scientifico abbiamo elaborato un modello ben più articolato e plausibile dell’universo e delle sue origini. Solo recentemente, però, tale sviluppo ha cominciato a incidere in modo critico su quello che era rimasto un elemento fondamentale di accordo con le favole antiche: risiediamo in un cosmo e di conseguenza basta (in linea di principio, perché poi la cosa è difficile e magari impossibile da realizzare) scoprire le leggi che lo regolano per poterne prevedere con assoluta certezza il comportamento futuro. Se così fosse, non sarebbe una cattiva idea fidarsi delle istruzioni di chi è più esperto di noi: le leggi del cosmo dovrebbero essere sempre le stesse e chi le ha viste all’opera più a lungo di noi dovrebbe essere in grado di darci in proposito indicazioni preziose. Non sembrerebbe economico o vantaggioso che ciascuno di noi dovesse invece riscoprire – giocando, esplorando e contestando – quel che è comunque già noto. Se pure traessimo un grande piacere da queste pratiche, ci sarebbe da chiedersi – riformulando in altri termini le domande con cui ho chiuso il capitolo precedente – perché la biologia associ un piacere simile a un’attività che nella migliore delle ipotesi è inutile e nella peggiore è controproducente. Certo è possibile che le leggi «scoperte» da chi è vissuto e ha operato prima di noi siano sbagliate; nella scienza non solo le teorie si sono spesso reciprocamente confutate e avvicendate ma sembra addirittura all’opera una perversa induzione in base alla quale ogni teoria un tempo ritenuta corretta si è poi rivelata fallace – dunque, probabilmente, lo saranno anche le teorie che oggi riteniamo corrette. Questa allarmante conclusione, però, varrebbe solo  per quel che la scienza offre di più profondo e sofisticato, non per quella sua solida struttura intermedia che appare costituita di verità inoppugnabili. Nel saggio Sulla libertà John Stuart Mill, paladino di una discussione pubblica il più possibile aperta e coraggiosa, considera un problema il fatto che su un numero crescente di tesi il progresso scientifico abbia pronunciato una sentenza definitiva (quindi, in particolare, indiscutibile) e auspica che si ricorra a espedienti fittizi – che so io? a sostenere accanitamente che la Terra sia piatta – per ridar significato e vividezza a credenze che altrimenti rischiano di trasformarsi in puri dogmi. In assenza di dibattito non vengono dimenticati solamente i fondamenti di un’opinione, ma viene dimenticato sovente il significato dell’opinione stessa. Le parole che la esprimono cessano di suggerire idee, o suggeriscono solo una piccola parte di quelle idee che in origine comunicavano. In luogo di un concetto vivido e di una convinzione viva, rimangono soltanto alcune frasi ritenute meccanicamente; oppure, se rimane qualcosa, è solo l’involucro o il guscio del significato, mentre la sua essenza più pura è andata dissolta. Col progresso dell’umanità, il numero delle dottrine che non vengono più messe in discussione o in dubbio sarà costantemente in aumento, e il benessere del genere umano può essere quasi misurato dal numero e dalla rilevanza delle verità che hanno raggiunto la condizione di verità incontestate [...]. Il venire meno di un aiuto così importante all’intelligente e viva comprensione di una verità – com’è quello offerto dalla necessità di spiegarla o di difenderla dagli avversari – rappresenta un inconveniente non di poco conto. Là dove questo vantaggio viene a mancare, confesso che sarei contento di vedere i maestri del genere umano sforzarsi per trovarne un sostituto, un espediente per far sì che le difficoltà della questione siano presenti alla coscienza di colui che la affronta, allo stesso modo in cui lo sarebbero se gli venissero imposte da un avversario agguerrito, impegnato a convertirlo. Con tutto il rispetto per Mill, però, siamo daccapo: sarà appassionante riscoprire il senso di opinioni generalmente accettate sottoponendole a critiche fittizie ma, al di là dell’intensa emozione che provoca, a che cosa serve questo esercizio? Non converrebbe invece riservare le nostre risorse ludiche per le questioni che si collocano ai margini della conoscenza, dove non si è ancora raggiunto un pacifico accordo e quindi le opinioni attuali saranno verosimilmente contestate in futuro? Una modesta replica alla sfida suggerita da queste domande emergerà nel quinto capitolo: se non mantenessimo attiva in noi la pratica della contestazione, sia pure senza vantaggi diretti, non potremmo risvegliarla quando lo giudichiamo opportuno. Come suggerivo poc’anzi, però, la scienza contemporanea ha fatto di meglio: ha mostrato che è vantaggioso contestare non solo quel che è in discussione o in dubbio (esercitandosi magari prima con quel che non lo è) ma anche tutto ciò che si ritiene ormai acquisito. Un primo passo in tal senso viene dalla teoria del caos. A dispetto del suo nome, questa teoria non dichiara che il mondo non sia mai uscito da una condizione di disordine e non ci siano leggi che ne regolano il funzionamento. Le leggi ci sono, codificate come sempre nella fisica moderna da equazioni matematiche, ma le equazioni sono altamente non-lineari. Per esse, cioè, non vale la condizione seguente (tipica delle equazioni lineari): a variazioni minime nell’input (diciamo, nell’istante di tempo considerato) corrispondono variazioni minime nell’output (diciamo, nella posizione spaziale di un certo corpo; quindi in istanti molto vicini fra loro il corpo sarà in posizioni molto vicine fra loro). In un’equazione non-lineare, una variazione impercettibile nell’input può causare conseguenze catastrofiche nell’output, secondo la metafora suggerita dal famoso effetto-farfalla: il battito d’ali di una farfalla in un punto della Terra può causare, dopo un certo numero di passi, un uragano di spaventose dimensioni in un altro punto. Nel linguaggio tecnico della filosofia, la teoria del caos non cambia la sostanza metafisica dell’universo, e infatti il caos che essa evoca è descritto come deterministico, fedele alla posizione tradizionale (per quanto oggi un po’ in crisi) secondo cui il passato determina necessariamente il futuro. Sconvolge però l’epistemologia del nostro rapporto cognitivo con il mondo. In ogni situazione in cui ci troviamo, sapremo solo in misura approssimativa come stanno le cose: i nostri strumenti di osservazione e di controllo hanno una portata limitata e, se per caso non l’avessero, perderemmo la testa davanti alla quantità infinita di dati (perlopiù irrilevanti) che ci fornirebbero (un po’ come la perdiamo davanti all’incontrollabile quantità di dati fornita da Internet). Il che non creerebbe problemi se una conoscenza approssimativa delle cause ci desse una conoscenza approssimativa degli effetti: se potessimo stabilire grosso modo che cosa seguirà da che cos’altro. L’effetto-farfalla ci costringe ad accantonare questa ipotesi favorevole: informazioni che al momento sono sotto la soglia osservabile dai nostri strumenti o che, se osservabili, rimarrebbero alla stregua di un fastidioso rumore di fondo, potrebbero in seguito acquisire un peso decisivo e confutare drasticamente ogni nostra previsione – trasformarla in qualcosa che non è vero approssimativamente, o fino a un certo punto, ma non è vero per nulla. In un caos del genere, il fatto che esistano leggi (cioè equazioni matematiche che ne descrivano il comportamento) o che le conosciamo ha scarso peso ai fini della nostra capacità di adattarci al mondo. Le equazioni non-lineari, in generale, non sono solubili con i metodi dell’analisi matematica; il meglio che si possa fare, in generale, è simularle a un computer e osservarne il percorso –  senza peraltro mai sfuggire al problema che ho indicato: la nostra simulazione sarà efficace nella misura in cui avremo dato i valori «giusti» ai parametri significativi, ma spesso basterà un’alterazione infinitesima in uno di questi valori per cambiare radicalmente la situazione. Che cosa ci converrà fare allora? Le equazioni non-lineari attraversano fasi anche estese di linearità; nel caos esistono nicchie anche cospicue di cosmo. In tali nicchie il futuro somiglia al passato e, per chi ci vive, le previsioni degli esperti risultano accurate e le loro istruzioni valide. Sarebbe una pessima idea, però, estrapolare da un’accuratezza e validità locali una loro variante universale, perché le cose possono cambiare enormemente e molto in fretta. È preferibile procurarsi una polizza di assicurazione: rispettare previsioni e istruzioni finché dànno buona prova di sé, ma continuare anche incessantemente a sperimentare concezioni alternative del mondo e modalità alternative di azione. Vale a dire: conviene incoraggiare la trasgressione dell’autorità (intellettuale e operativa) costituita, l’esplorazione fine a sé stessa e il rischio che vi si accompagna – perché il gioco, secondo il detto popolare, vale la candela. E, siccome (già vi accennavo e ci ritornerò) non si può improvvisare un atteggiamento trasgressivo da un momento all’altro, dopo aver seguitato per anni a genuflettersi deferenti verso «chi ne sa più di noi», conviene (alla natura e anche a noi, in quanto capiamo che in questo caso è meglio non ostacolarla) lasciare i cuccioli umani liberi di godersi il loro gioco, precisamente nel senso delineato nel capitolo precedente. Fin qui la teoria del caos, ma c’è di più. C’è la teoria della complessità, dove (in una lettura, lo ammetto, un po’ radicale, che peraltro si accorda bene a mio parere con importanti conclusioni kantiane) la sfida alla visione tradizionale è di carattere metafisico, dove anzi si mette in discussione il concetto stesso di metafisica. La conclusione raggiunta dalla teoria del caos è che il mondo sia troppo complesso perché noi possiamo conoscerlo in modo certo ed esauriente, e questa tesi (epistemologica) continua a essere vera nel nuovo scenario, ma come conseguenza di una tesi assai più forte, in base alla quale non esiste «il mondo», inteso come ente unico e onnicomprensivo, dotato di una sua propria struttura, indipendente dal fatto che lo si conosca o meno. Esiste invece un numero indefinito di descrizioni diverse, formulate in vocabolari fra loro incommensurabili; quindi prima di poter accedere a domande su che cosa ci sia e che natura abbia occorre scegliere un vocabolario e così determinare un particolare ambito descrittivo, nel quale sarà possibile fornire una risposta a quelle domande. Non si può dire come stiano le cose, insomma (ed eventualmente fino a che punto siamo in grado di conoscerle),  finché non si sia deciso in che linguaggio dirlo. (E parole come «scegliere» e «deciso» vanno prese alla lettera: la selezione di un linguaggio non è un evento a sua volta determinato; è invece condizione necessaria perché possa darsi, nel suo ambito, una qualsiasi determinazione.) Vediamo di capirci con un esempio. Davanti ai nostri occhi allibiti si svolge una seduta del Senato italiano, con il solito contorno di urla, parolacce, insulti e spintoni. Questa, verrebbe da dire, è la realtà oggettiva, e non c’è che da diventarne consapevoli. Si potrà provare a spiegarla, ma prima di lanciarsi in una siffatta operazione bisogna appurare che cosa sia effettivamente successo – e debba essere spiegato. E su questo non ci sono dubbi. Davvero? Certo per me è naturale, essendo io un essere umano, leggere la situazione in termini di esseri come me e di oggetti di media grandezza (scranni, sedie, microfoni) come quelli con cui sono abituato ad aver a che fare. Ma la stessa identica scena potrebbe essere descritta in un linguaggio, per esempio, di particelle elementari, e in quel linguaggio la frase «X ha dato una bastonata a Y» (memore in ciò dell’infelice destino di Tiberio Gracco, in un altro Senato di epoche remote ma di clima analogo) non avrebbe corso: non potrebbe essere né direttamente formulata né tradotta in un’altra frase di uso corrente (o insieme di tali frasi). Oppure, invece di spostarci dalla media grandezza a uno sguardo microscopico, potremmo andare in direzione inversa ed esprimere in un linguaggio ideale e astratto la nostra accorata testimonianza di quanto sia caduta in basso la civiltà occidentale e di come atti di ingiustizia, violenza e volgarità siano conseguenze inevitabili di una perdita dei valori di riferimento, e in questo linguaggio non ci sarebbero bastoni e nemmeno particolari individui ma solo, appunto, valori e princìpi, contraddizioni logiche e (forse) loro risoluzioni dialettiche. Oppure potremmo muoverci lateralmente, per così dire, e, rimanendo sempre al livello degli oggetti di media grandezza, vedere la scena con gli occhi non di un giornalista affascinato dai pettegolezzi della politica ma di un usciere che appena il baccano sarà finito e gli onorevoli si saranno allontanati dovrà pulire l’aula. (E si noti come l’ultima possibilità citata permetta di affinare e approfondire quel che ho detto in precedenza: che io sia un essere umano potrà influire in parte su come mi viene «naturale» leggere una situazione, ma molto dipenderà anche, al riguardo, da che tipo di essere umano sono – fra l’altro, da qual è la mia occupazione.) Secondo la teoria della complessità, vale per molti dei linguaggi in cui «la stessa» situazione può essere descritta che nessuno di essi sia riducibile a un altro: ciascuno rappresenta un punto di vista autosufficiente che costituisce la  sua realtà, e non c’è una realtà neutrale e autonoma, «sottostante» a queste diverse costituzioni. Un particolare linguaggio potrà essere o non essere deterministico, nel suo ambito descrittivo il futuro potrà somigliare o non somigliare al passato; ma anche chi avesse un controllo assoluto di un linguaggio deterministico e potesse formulare in esso previsioni del tutto certe rimarrebbe in presenza di un’infinita, irrimediabile apertura a linguaggi diversi e dovrebbe operare una scelta fra tali linguaggi, sia pure implicitamente o inconsciamente, prima di poter emettere qualsiasi frase dotata di senso. Una delle difficoltà più ardue con cui si è costantemente confrontata l’intelligenza artificiale è il cosiddetto frame problem: il problema della cornice. Un computer è uno strumento di prodigiosa efficienza una volta che gli sia stato assegnato un compito preciso: sa ricordare, calcolare e combinare dati a velocità e con rigore sovrumani. Perché ciò accada, però, deve prima ricevere questi dati; qualcuno glieli deve dare. Qualcuno, cioè, deve configurare per lui il compito da eseguire e assegnarglielo: incorniciare un quadro ben definito della situazione e chiedergli un intervento specifico entro quella cornice, alle condizioni che essa pone. Sono esseri umani quelli che provvedono alle cornici dei computer, e gli esseri umani non hanno bisogno che altri lo facciano per loro: ovunque si trovino, sono in grado di decidere da soli quale sia il compito prima di tentare di eseguirlo – e magari poi lo eseguiranno con prontezza inferiore a un computer, ma è proprio per questo che sono stati gli esseri umani a inventare dei computer che li assistessero e non viceversa. Che cosa fa la differenza fra gli uni e gli altri? Una volta inquadrato, un problema sarà risolto applicando istruzioni valide in quel quadro; ma non possono esserci istruzioni su quali siano le istruzioni da applicare prima che il problema sia inquadrato, perché ciò presupporrebbe che l’inquadramento fosse già avvenuto; quindi un approccio che si serva solo di istruzioni (come è stato finora quello disponibile a un computer) non può avere successo. Posto di fronte a un quesito analogo, Kant invocava il giudizio, che, in contrasto con le istruzioni, non può essere imparato a memoria e poi eseguito meccanicamente ma solo essere stimolato e perfezionato mediante l’esercizio e l’esempio. Il quesito però rimane: esercizio di quale pratica? esempio di quale comportamento? La mia riformulazione del quesito ci riporta al tema principale della nostra discussione. Quel che un essere umano impara (e a tutt’oggi un computer non ha imparato) a fare è selezionare un punto di vista appropriato dal quale vedere le sue circostanze, e nessuna selezione può avvenire nel vuoto. L’esercizio che  è opportuno per acquisire questa capacità deve dunque consistere nel mettere in gioco i punti di vista più svariati e adattarli alle circostanze, finché uno fra essi ci sembri (a torto o a ragione) il più appropriato e facendolo nostro (almeno temporaneamente) noi procediamo a interagire con le circostanze in quell’ottica, applicando le istruzioni, o regole, che l’ottica determina (con modalità che studieremo nel prossimo capitolo). L’esempio che può aiutarci in proposito avrà a che fare con altre persone che fanno la stessa cosa. E la «cosa» di cui stiamo parlando ha un nome, che non a caso ho già usato: gioco. Senza la continua, piacevole trasgressione di abitudini e aspettative che abbiamo identificato con il gioco, rimarremmo bloccati in un’unica prospettiva e forse qualcuno (dall’esterno) dovrebbe premere un nostro tasto per farci scattare in una prospettiva diversa. Violando l’uso appropriato di tutto ciò che ha intorno, il bambino sta addestrandosi a sviluppare un suo senso di appropriatezza che gli permetta di inquadrare un compito senza che altri lo facciano per lui. E, se volessimo davvero che un computer acquistasse la stessa capacità, dovremmo avere il coraggio di lasciar giocare anche lui – come suggerivo anni fa, un po’ preoccupato delle conseguenze del mio stesso suggerimento, in Giocare per forza. Riassumendo, l’itinerario che stiamo percorrendo nel continente gioco ci aveva posto davanti a un ostacolo: sembrava irragionevole che i nostri istinti privilegiassero un’attività che avrà sì valore educativo ma comporta gravi rischi. L’ostacolo è stato affrontato e superato, chiarendo che non ci sono alternative plausibili al correre rischi di questo tipo. Indipendentemente dal fatto che ogni ricetta di vita elaborata in passato potrebbe rivelarsi sbagliata, è comunque vero che le ricette che fossero al momento «giuste» sono state elaborate sulla base delle regolarità riscontrate finora e saranno prima o poi contraddette dalla natura caotica del mondo; quindi è bene adottare un atteggiamento sperimentale ed esplorativo che allarghi l’ambito delle nostre possibilità di concezione e di azione ben al di là di quanto è utile adesso – perché non possiamo sapere che cosa sarà utile in futuro, quando la nostra nicchia diventerà inospitale. Inoltre, questo stesso sperimentare ed esplorare è indispensabile se vogliamo essere più che semplici esecutori di compiti: se vogliamo determinare quali siano i compiti da eseguire. C’è qualcosa di eccessivo nel gioco; esso sembra richiedere qualcosa (o molto) di più del necessario (ricordiamo la segnalazione da parte di Caillois del suo «sovrappiù»). Stiamo cominciando a capire, però, che per ottenere il necessario si deve spesso scommettere sull’eccessivo, su ciò che al momento non conta,  che al momento è solo possibile.  4. Regole Avendo così tutelato la natura provvidenziale della sua attività, torniamo alla bimba che gioca e portiamone alla luce un aspetto che era rimasto in ombra. Per quanto trasgressivo ed esplorativo, impertinente e creativo, il gioco ha dei limiti. La bimba può percorrere la stanza in lungo e in largo, ma si scontrerà infine con le pareti; può rigirare per ogni verso gli oggetti disponibili e combinarli nei modi più inaspettati, ma dovrà piegarsi al fatto che questi oggetti hanno una certa forma, sono composti di un certo materiale, hanno un certo peso e certe dimensioni, una superficie ruvida o levigata, sono rossi piuttosto che neri, sonori piuttosto che ottusi, luccicanti piuttosto che opachi. E lo stesso varrebbe per qualsiasi altra situazione e in qualsiasi altro ambiente: ci sarebbero sempre dei parametri che determinano l’impossibilità di certe mosse e l’irraggiungibilità di certi obiettivi. Quando gioca, la bimba può fare molto, e molto di sorprendente, ma non può fare tutto. Per dirla altrimenti, la mia descrizione del gioco ne ha sottolineato la tendenza a ribellarsi a ogni fonte di autorità, sia essa la tradizione, il buonsenso, gli espliciti comandi o divieti di un «superiore» o la soggezione che proviamo nei confronti di quanto è utile o opportuno – e ci costringe a comportarci in un modo specifico per conseguirlo. In contrasto con ogni attività asservita e deferente (a una persona, a un compito, a un ruolo, a uno scopo esterno), il gioco si presenta come spontaneo: pronto a seguire idiosincrasie e ghiribizzi, a cambiare direzione, a ricominciare da capo senza sentirsi vincolati a quel che si è già realizzato o raggiunto, per nessun altro motivo che il puro piacere di giocare. Ha insomma tratti che normalmente associamo alla libertà, e Huizinga è d’accordo: «Ogni gioco è anzitutto e soprattutto un atto libero. Il gioco comandato non è più gioco» (p. 26). Da qui a trovare nella libertà, quindi nel gioco, l’essenza della nostra umanità e a lanciarsi in un peana celebrativo di una specie biologica che sacrifica il proprio tornaconto alla pratica del superfluo, del gratuito, dell’errabondo il passo sarebbe breve; ma non cederò (per ora) a questa tentazione. Mi chiederò invece che cosa si debba intendere per libertà e risponderò che di solito non  s’intende un’infinita capacità di arrivare dappertutto e ottenere qualsiasi risultato bensì la capacità di operare una scelta entro un ambito più o meno ristretto di opzioni. La libertà che noi conosciamo non è una condizione assoluta, sciolta cioè da ogni legame, da ogni relazione; è sempre e solo un determinato grado di libertà, come quello che mi è consentito dai miei arti, che certo mi dànno una notevole libertà di movimento ma non mi rendono possibile ogni movimento. Nel primo capitolo ho mostrato quanto ambigua appaia la parola «gioco» e mi sono proposto di riscattare questa (apparente) ambiguità: di raccontare una storia in cui i suoi vari significati siano connessi, nascano l’uno dall’altro per motivi comprensibili. In lingue diverse dall’italiano l’ambiguità sembra ancora maggiore: parole come «play», «spielen» e «jouer» possono anche significare che si recita o si suona uno strumento – e anche questi significati dovranno essere catturati dalla mia storia. Qui però voglio notare un’altra vicissitudine semantica del gioco (Huizinga ci informa che essa «è comune al francese, all’italiano, allo spagnolo, all’inglese, al tedesco, all’olandese e [...] al giapponese», p. 66), illustrativa della tesi che sto articolando adesso. Chiamiamo «gioco», infatti (o «play», o «Spielraum», o «jeu»), lo spazio libero che (per esempio) una vite ha nel suo foro filettato, quando non aderisce a perfezione, quando «balla». È anche in questo senso che la bimba gioca: le pareti, il pavimento e i vari oggetti che vi giacciono sopra le permettono un certo gioco, un certo (limitato) spazio di discrezione, che lei occupa ballandovi, riempiendolo con le sue piroette e i suoi salti. Ed è questo il ruolo principale, ritengo, che il gioco ha nella nostra vita, il fondamento ultimo di ogni suo contributo alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere. Quella che ho appena enunciato è una tesi controversa e audace, una sfida a inoltrarsi per un ispido percorso nel labirinto e una promessa che per tale via procederemo più spediti verso il traguardo. Devo dunque giustificare la tesi, convincere i miei compagni di avventura ad accettare la sfida. Per farlo, torniamo al valore adattativo del gioco. In primo luogo, ho detto, esso funge da polizza di assicurazione: esplora comportamenti alternativi cui rivolgersi quando le equazioni non-lineari che controllano il mondo dovessero impazzire; risponde al caos esterno dando luogo a un microcaos privato, cercando di anticipare le prossime sorprese che l’ambiente ci offrirà con mosse a loro volta imprevedibili e destabilizzanti. In secondo luogo, ci educa a slittare costantemente da una prospettiva all’altra, a non rimanere inchiodati a un singolo modo di percepire la nostra situazione, a «incorniciarla» dagli angoli  più diversi, perché questo slittamento diventi a sua volta un’abitudine e ci aiuti a scegliere in ogni occasione la cornice adeguata in cui inquadrare i nostri problemi e le nostre esigenze. Entrambe le funzioni implicano una medesima conseguenza: il gioco deve avere un oggetto, ci deve essere qualcosa con cui si gioca, quindi qualcosa che inevitabilmente offre resistenza al gioco. I comportamenti alternativi cui mi rivolgerò quando quelli attuali facessero cilecca devono trovar posto in un qualche ambiente specifico: per folle che sia diventato il mondo, devo comunque sperare che ci sia ancora intorno a me un mondo oppure non varrebbe la pena di indulgere in nessun comportamento. Lo stesso vale per le mutazioni prospettiche: una prospettiva è sempre di, o su, qualcosa; una cornice racchiude sempre un quadro. Il gioco dunque potrà (e dovrà) essere sovversivo ma non uniformemente distruttivo; la libertà che in esso si esprime ci porterà a varcare la soglia di quanto finora era stato considerato lecito o vantaggioso ma non ad annullare la legittimità di ogni soglia e di ogni limite e ad azzerare ogni possibile struttura in un’esplosione universale e universalmente catartica. Al di là della soglia che varchiamo ne troveremo un’altra, che definirà la nostra azione ludica; fatta a pezzi una struttura ne appronteremo un’altra, che darà alla nostra azione concretezza e sostanza. La sostanza e la concretezza di un sogno, forse; ma non del nulla. A rendere difficile lo studio e la valutazione della nostra forma di vita è soprattutto il suo mantenersi in precario equilibrio tra fattori e istanze contrastanti, il cui peso opposto va tenuto in debito conto, evitando facili ma deleterie riduzioni a uno dei piatti della bilancia. Questa considerazione cade a proposito con il termine che stiamo esaminando, nella fase in cui siamo dell’esame: che il gioco trasgredisca le aspettative è vero ma non va portato all’estremo, dando luogo a una retorica della trasgressione in quanto tale, aprendo la strada a una trasgressione così generalizzata e globale che alla fine non le rimanga più niente da trasgredire. Sapete bene di che cosa sto parlando: di quegli intellettuali (o artisti, o politici rivoluzionari) che il film C’eravamo tanto amati rappresentava con sapiente ironia nel personaggio interpretato da Stefano Satta Flores, sempre «oltre», sempre terrorizzato dall’eventualità di poter andare d’accordo con qualcuno e infine schiacciato nella più banale e televisiva delle ossessioni. Non è strano che questa retorica copra spesso atteggiamenti conservatori, quando non biecamente reazionari: se la nostra trasgressione equivale semplicemente a far saltare in aria tutte le polveriere, allora nel vuoto che  avremo creato (e sotto la protezione del fumo con cui avremo oscurato la vista) si rifaranno avanti per inerzia le solite mosse e i soliti valori. Negarli è un momento essenziale della costruzione di un’alternativa, ma non può essere l’unico momento perché una negazione, in sé e per sé, non costruisce nulla; e se nessuna nuova costruzione è disponibile ci adatteremo, magari a malincuore (e con la coscienza un po’ sporca), nelle baracche cui siamo abituati, per quanto danneggiate siano dalla nostra azione trasgressiva. L’umile gioco della vite ci offre un antidoto a tanto mal riposto entusiasmo. Ci invita a non trasformare il gioco in una condotta esorbitante, cioè ex orbe, fuori dall’orbe terracqueo; ci ricorda che il gioco avviene sempre in un contesto, ha sempre un orizzonte (vale per l’orizzonte, come per la soglia, che varcatone uno se ne troverà un altro) e consiste nel modulare le nostre reazioni al contesto, nel navigarne con perizia le correnti, nel manipolare con gesti insospettati e inauditi quanto popola il contesto senza però rifiutarlo in blocco, senza chiudere gli occhi davanti alla sua specifica consistenza, alle sue particolari proprietà, che possono essere manipolate in certi modi ma non in altri. È gioco (come quello della vite) approfittare del grado di libertà che mi è lasciato dai miei impegni di lavoro per imparare il russo o andare in palestra; non sarebbe gioco bruciare la casa e tutti i miei averi e allontanarmi senza meta nella notte. Ci sono circostanze in cui può essere giusta una scelta così radicale, ma solo come premessa per un gioco ancora da inventare, in un ambiente ancora da scoprire, non come essenza di un gioco già in atto. Chi risulterà convinto da queste mie argomentazioni sarà ora disposto a seguirmi per la via che ho intrapreso e avrà nel contempo imparato, vedendola all’opera in un caso paradigmatico, un’importante lezione: quanta pazienza occorra per evitare prevaricazioni e assurde semplificazioni, quanta saggezza sia necessario conservare nel mezzo delle pratiche più dissacratorie. Incontreremo altri esempi con la stessa morale; per ora riaffermiamo la conclusione raggiunta con una variazione sulla metafora dell’orizzonte. Il gioco è sempre parzialmente trasgressivo; ci sono sempre per esso una figura che il gioco mette in discussione e uno sfondo che rimane fuori portata. E si badi che questa è una metafora, quindi lo sfondo può benissimo far parte della figura quando «figura» sia presa in senso letterale (e viceversa). Per la bimba che gioca (in un certo modo) con la spillatrice, il normale uso di tale strumento fa parte della figura che viene contestata, ma la sua forma e solidità fanno parte dello sfondo – oppure, tornando alla metafora precedente, fanno parte del foro filettato nel quale balla la vite.  A riprova della pazienza che ho definito indispensabile, quest’ultimo sommario del risultato acquisito ha già bisogno di una correzione, o almeno di una precisazione contro possibili malintesi. Potrebbe sembrare infatti che la forma e la solidità della spillatrice, o di qualunque altro elemento appartenga allo sfondo, vi appartengano in senso oggettivo, siano presupposti del gioco della bimba indipendentemente da come lei agisca; e questa apparenza è errata. Ma, come con molti errori, discuterlo ci aiuterà a capire meglio l’intera faccenda. I bambini non sono soltanto simpatici e allegri scavezzacollo, non passano tutto il loro tempo giocando con fantasia e con profitto. Talvolta fanno i capricci, urlano e strepitano, si divincolano e picchiano i pugni per terra, o su quello che fino a un istante prima era l’oggetto del loro gioco. Quando si abbandonano a simili sfoghi, spesso il motivo è che l’oggetto si rivela un ostacolo ai loro piani, sordo alle loro richieste, impermeabile alle loro sollecitazioni. Il cubo non vuole saperne di rotolare come una palla; la palla continua a scivolare giù dal cubo sul quale si vuole che stia ferma, e neanche il cubo riesce a stare sopra la palla. Allora il bambino, frustrato e irritato, afferrerà cubo e palla e li getterà contro il muro, e manifesterà una disperazione tanto insanabile quanto, per fortuna, solitamente di breve durata. Non sta a me dire quanto durano in media i capricci di un bambino o come risolverli il più in fretta possibile; non sono uno psicologo, dell’età dello sviluppo o di altra età. So però come descrivere e spiegare quel che accade, nella migliore delle ipotesi, quando i capricci si siano risolti; so fornire un’impalcatura concettuale per comprenderlo e servirmene per articolare ulteriormente l’impalcatura concettuale del gioco. Il bambino può perdere interesse per un oggetto così recalcitrante, così poco collaborativo, e rivolgere la sua attenzione altrove. Può farsi distrarre e consolare dalla mamma. Ma può anche – e questa è per noi la migliore delle ipotesi, quella che ci aiuta a proseguire nel nostro cammino – accettare quanto nell’oggetto si è mostrato recalcitrante: accettare che l’oggetto non possa essere contestato in quel modo, a quel livello. Un cubo può passare per mille peripezie, entrare in mille storie, ma non rotola; ed è necessario prenderne atto se si vuole davvero farci qualcosa – qualcosa di diverso dal gettarlo contro il muro. Quando il bambino ne ha preso atto, questa proprietà del cubo recede sullo sfondo, ma ciò non vuol dire che perda importanza. Tutt’altro: ognuna delle figure che il gioco costruisce e sostituisce a quella originaria, a quella che viene violata e trasgredita, è un elemento variabile del gioco, può esserci o non esserci, comparire o sparire,  senza che il gioco cambi, perché esso consiste proprio nel generare figure così variabili. Lo sfondo, al contrario, definisce il gioco: ne detta le condizioni. Accompagneremo il cubo per mille peripezie compatibili con il fatto che non rotola. Chi pensasse che il cubo rotoli starebbe giocando (senza troppo successo, presumo) un altro gioco. Appropriata soggettivamente dal bambino, la resistenza esercitata da un oggetto diventa interna al gioco: ne diventa una regola. «L’attributo essenziale nel gioco», dichiara Lev Vygotskij in Il processo cognitivo, «è una regola che è diventata un desiderio» (p. 146), e continua: è una regola interna, una regola di autorepressione e autodeterminazione, come dice Piaget, e non una regola a cui il bambino obbedisce come a una legge fisica. In breve, il gioco dà al bambino una nuova forma di desideri. Gli insegna a desiderare mettendo in relazione i suoi desideri con un «Io» fittizio, con il suo ruolo nel gioco e con le regole di questo. Inoltre per Vygotskij, a differenza che per Jean Piaget, «si potrebbe [...] proporre che non esiste gioco senza regole» (p. 138), e Huizinga è d’accordo: «L’essenza del gioco [...] sta nel rispetto alle regole» (p. 86). Da un po’ di tempo nel nostro paese si parla una strana lingua, soprattutto in ambienti giovanili, aziendali e in generale «al passo» con la cultura popolare più avanzata. A un italiano rozzo e approssimativo si mescolano termini inglesi, insieme con strafalcioni che vorrebbero essere termini inglesi ma invece non hanno corso (o senso) in nessuna lingua. Chi parli questo gergo (o se preferite lingo) non sarà rimasto particolarmente colpito dal mio giustapporre, nel primo capitolo, il gioco della bimba e il gioco del calcio; si tratta chiaramente, avrà pensato, della differenza tra play e game, quindi non c’è motivo di perplessità. Sarebbe facile obiettare che le due parole, in inglese, sono assai più intimamente legate di quanto questa semplice distinzione faccia supporre: che si dice «to play a game», i partecipanti a un game si dicono players e l’italiano «giocoso» si può tradurre altrettanto bene con «playful» e «gamesome». Io qui intendo, però, fare un altro discorso, che riprende la chiusa di quello stesso primo capitolo: rilevare l’importanza della strategia intellettuale sottesa alla distinzione e chiarire che, per motivi altrettanto importanti, me ne dissocio. Ho detto che la logica aristotelica è analitica perché fondata sull’analisi, sulla divisione; e ho aggiunto che adotterò invece una logica dialettica, hegeliana. Aggiungo ora che le due logiche nascono da due diversi atteggiamenti nei confronti della contraddizione, dell’incoerenza. Nella logica analitica, la contraddizione è il più terribile spauracchio e, ogniqualvolta se ne profili la minaccia, il rimedio universale è appunto il divide et impera: il significato che sembrava contraddittorio consta in realtà di due (o più) significati distinti, che  sarebbe meglio, per evitare confusioni, etichettare con due distinte parole – se è il caso, con termini tecnici introdotti all’uopo. Non c’è vera contraddizione, per esempio, fra l’educazione intesa come formazione di una personalità e come passaggio di contenuti nozionistici (che non forma nessuno): è che la stessa parola è usata in sensi diversi, quindi sarebbe meglio usare parole diverse, diciamo «educazione» e «istruzione». La logica dialettica, invece, si nutre di contraddizioni come se ne nutre una storia e, in generale, ogni struttura vitale: è affrontando e superando il contrasto radicale fra il suo desiderio d’indipendenza emotiva da un lato e quello di stabilire un legame affettivo dall’altro che un adolescente arriva a ridefinirsi non più come membro della sua famiglia di origine ma come partecipe della fondazione di una nuova famiglia; e in questa ridefinizione i due elementi del contrasto che lo lacerava non sono dimenticati – sono anzi la sostanza stessa della nuova fase del suo sviluppo, che è ora quella di una persona tanto indipendente quanto emotivamente legata. È bene per me reiterare qui la mia scelta logica di fondo e specificarla meglio perché siamo arrivati a un punto nodale del nostro percorso, in cui si apre chiaramente un bivio fra le due strategie. Tutto quel che ho detto finora del gioco della bimba, del suo significato adattativo, dei rischi che comporta e dell’opportunità di correre tali rischi può essere considerato appartenente a un singolo significato (analiticamente inteso) della parola «gioco». Un significato complesso e intricato, da svolgere con cura, ma ciò nonostante un unico significato perché non infetto da alcuna contraddizione. Ora però ci troviamo di fronte al fatto, apparentemente innegabile, che il gioco del calcio è identificato da un insieme di regole e il gioco della bimba no; quindi, da un punto di vista analitico, deve trattarsi di «giochi» distinti. In questo spirito Caillois, per fare solo un esempio (ne farò un altro più avanti), divide i giochi in categorie contrapposte, affermando: «I giochi [...] non sono regolati e fittizi. Sono piuttosto o regolati o fittizi» (p. 25). E poi precisa: «[la] classificazione proposta [...] [che distingue giochi di competizione, di fortuna, di travestimento e di vertigine] non avrebbe alcuna validità se non si vedesse con evidenza che le suddivisioni che essa stabilisce corrispondono a degli impulsi essenziali e irriducibili» (p. 30; corsivo aggiunto). Il lavoro svolto in questo capitolo mi consente, nello spirito della logica dialettica, di gestire la contraddizione in altro modo, perché mi consente di riconcettualizzare alcuni aspetti della situazione della bimba come regole del suo gioco e di stabilire così la parentela fra i due tipi di gioco, che in questa luce sarebbero meglio detti due fasi del gioco – di un gioco che, nella sua  evoluzione da una fase all’altra, rimane sempre uguale a sé stesso. Ridefinizioni come quella che incontriamo qui sono possibili solo a uno sguardo retrospettivo. Se le nostre osservazioni e i nostri dati fossero limitati al gioco della bimba, sarebbe peregrino parlare del fatto che la bimba rinuncia a far rotolare il cubo come della sua assunzione di una regola. Per dirne una, questa è una «regola» che nessuno ha formulato e di cui addirittura forse nessuno è cosciente. Ma dal successivo punto di vista di giochi come il calcio, le cui regole sono sancite da istituzioni ufficiali e applicate (si spera) alla lettera da tutti i praticanti, è possibile cogliere l’analogia con quella primitiva forma di adeguamento: vederla come il germe che sarebbe poi fiorito in regole precisamente codificate e trasmesse, come una manifestazione ancora implicita di una caratteristica che si sarebbe successivamente fatta largo con evidenza. Tale è appunto la logica della vita. Il senso dell’essere un bambino subito quietato da una ninna nanna, o affascinato da oggetti di forma semplice e pura, si coglierà solo quando l’adulto che quel bambino sarà diventato si rivelerà un critico musicale o un geometra di prima grandezza; solo allora sarà possibile raccontare la storia che è quel senso. Così, almeno, si procede nella logica dialettica che ho adottato; in logica analitica, si potrebbero solo smembrare le situazioni ed esperienze infantili e definirle in base ad alcuni tratti (essenziali) che risultassero dallo smembramento, e andrebbero nettamente distinti dai tratti che definirebbero le situazioni ed esperienze dell’adulto. Nel caso specifico del gioco, come già accennavo, Piaget nega che quelle del bambino molto piccolo siano regole, e dichiara (aprendo un tema sul quale dovrò ritornare): prima del gioco in comune non potrebbero esistere delle regole vere e proprie: esistono già delle regolarità e degli schemi ritualizzati, ma simili rituali, essendo l’opera di un individuo solo, non possono comportare quella sottomissione a qualcosa di superiore all’io, sottomissione che caratterizza l’apparire di ogni vera regola (Il giudizio morale nel bambino, pp. 29-30). Vygotskij, invece, scopre le sue carte hegeliane (e quelle della sua fonte) quando, nella stessa pagina in cui esprime il suo disaccordo con Piaget, cita il detto di Marx secondo cui «l’anatomia dell’uomo è la chiave dell’anatomia della scimmia» (p. 138). Decenni più tardi, e senza citare nessuno, Steve Jobs avrebbe affermato che si può ricostruire il senso della propria vita – in inglese, connect its dots – solo per il passato, non per il futuro. Ecco allora come la ridefinizione del gioco della bimba si estende alle prossime fasi del nostro itinerario: Se è vero che il gioco è trasgressivo, è anche vero però che la sua trasgressione ha luogo in un ambito che non viene a sua  volta trasgredito. Questo ambito dà al gioco condizioni, cioè regole, precise e ne definisce l’identità – determina che gioco sia: il gioco condotto a quelle regole. Nell’ambito delle sue regole, un gioco rimarrà tale in quanto è trasgressivo e anche esplorativo, piacevole e rischioso; ma, più complesse e articolate sono le sue regole, più complesse e articolate dovranno essere la sua trasgressione, esplorazione eccetera. Un buon giocatore di scacchi conoscerà bene le regole e avrà studiato molte partite dei grandi maestri del passato, ma sarà un buon giocatore non perché ricorda e saprebbe ripetere fedelmente le une e le altre quanto piuttosto perché, sapendo tutto quel che sa, è in grado di sorprendere il suo avversario con una variante inedita o un misterioso sacrificio – anzi, tanto più sarà bravo quanto più saprà sorprendere un avversario che abbia conoscenze pari alle sue, magari usando le conoscenze stesse per elaborare tattiche ancora più originali e sorprese ancora più intense. Nelle parole di Caillois: «Il gioco consiste nella necessità di trovare, d’inventare immediatamente una risposta che è libera nei limiti delle regole» (p. 24). Tutto bene, sembra. O forse no. L’unificazione dialettica che abbiamo così realizzato fra giocare con palle e cubi e giocare a calcio o a scacchi reagisce ora in modo inquietante con la giustificazione provvidenziale che avevo dato del gioco. È straordinariamente utile, dicevo, per un cucciolo umano imparare giocando a controllare il suo corpo e i suoi movimenti, a riconoscere e manipolare oggetti nello spazio, a dialogare ed empatizzare con i suoi simili. Quando però questi straordinari progressi siano già stati effettuati, qual è il senso e il valore del correre dietro un pallone o dello scervellarsi su un’apertura di cavallo? Se il mondo è caotico, sarà una buona idea esercitarsi ad abitare scenari diversi da quello attuale; ma che idea è concentrarsi su attività come quelle appena citate? Ci aspettiamo che il mondo diventi un giorno un gigantesco stadio o una gigantesca scacchiera? O abbiamo invece a che fare, in questi casi, con delle forme di tic, di dipendenza: con circostanze in cui quel che una volta dava piacere per ottimi motivi adesso continua a dare piacere senza nessun motivo, e noi non sappiamo farne a meno?  5. Microcosmi Che un’attività o un’inclinazione originariamente proficue si cristallizzino in un vano manierismo, in un’assurda coazione a ripetere è certo possibile, e nel caso del gioco accade di frequente. In Giocare per forza, dicevo, ho esaminato varie patologie ludiche, varie sembianze posticce in cui si presenta qualcosa che non è più se non lo spettro del gioco, un parassita che ne ha invaso l’area vitale soffocandone l’energia, la scoperta e il piacere; le patologie non insorgerebbero se non si desse la perversa possibilità che ho appena riconosciuto – se il gioco non potesse andare alla deriva, non ci andrebbe così spesso. Per quanto ampiamente diffuso, però, questo esito negativo non ha portata universale per il gioco condotto, soprattutto dagli adulti, in ambienti fittizi e addomesticati come un campo di calcio o una scacchiera. Al contrario, rimane vero in tali casi che l’esito negativo è una perversione e che esistono modi legittimi di abitare quegli ambienti fittizi e ottime ragioni per cui debbano essere fittizi. O forse «fittizi» non è il termine giusto; più oltre dovremo riprendere in esame la questione, con risultati su cui al momento converrà soprassedere. Cominciando con la ragione più semplice, chi non gioca mai finirà per atrofizzare completamente la sua capacità ludica così come chi non si muove mai finisce per atrofizzare i suoi muscoli; una certa quantità di gioia trasgressiva, di istruttiva esplorazione deve trovar posto nella nostra esistenza se non vogliamo trasformarci in automi, morti prima del tempo pur continuando a respirare e a metabolizzare il cibo. Se occupazioni e pratiche quotidiane non ci lasciano molto tempo per il gioco, non avremo alternativa a trovarlo in spazi riservati, in microcosmi di libertà entro i quali sfuggire a obblighi e impegni. (E sarà un destino tanto più atroce e beffardo vedere questi presunti spazi serrarci in nuove forme di schiavitù: vedere la nostra presunta libertà arenarsi nel tetro cerimoniale di una slot machine o del «gioco» del lotto.) L’agilità non si conquista una volta per tutte ma va mantenuta con uno sforzo costante: in ambito fisico, con le corse e le flessioni mattutine; in ambito mentale, con il sudoku e le parole crociate; in ambito ludico, improvvisando una discesa da  centrocampo o un arrocco – se non si dànno altre circostanze in cui ci sia lecito improvvisare. Per addentrarci più a fondo e nelle pieghe più complesse del problema, riprendiamo in considerazione il carattere rischioso del gioco. È necessario tollerarlo, dicevo nel terzo capitolo, perché senza correre rischi non potremmo sostenere il delicato equilibrio, sempre temporaneo e sempre da rinegoziare e reinventare, richiesto da un mondo caotico e costituzionalmente imprevedibile. Elaborare nuove strategie e comportamenti inusuali è a sua volta una strategia preziosa se nessuna strategia sarà efficace per sempre, e il gioco assolve questa indispensabile funzione. C’è però una strada intermedia fra l’arrivare impreparati alla prossima catastrofe (ecologica, finanziaria, sociale) e l’affrontare ogni catastrofe possibile prima che diventi reale: affrontare piccole catastrofi sostitutive e rappresentative di quelle che potrebbero capitare, giocare non direttamente nel mondo, e con il mondo, ma ancora una volta in un microcosmo, una palestra che ci permetta di compiere qualche avventata manovra senza correre gravi pericoli. Non proprio le avventate manovre di cui avremmo bisogno quando si prospettasse un’autentica catastrofe, forse; ma manovre abbastanza simili a quelle da darci una speranza di salvezza. In altra sede ho articolato questa tesi commentando un passo del Principe di Machiavelli; qui riassumerò in breve l’aspetto che ci riguarda. Il principe, dice il Nostro, deve ininterrottamente addestrarsi alla guerra; ma come può farlo quando la guerra non c’è e manca l’opportunità di farne pratica? Risposta: in periodi di pace l’esercizio bellico del principe dovrà essere condotto andando a caccia. Si metteranno così in azione doti che in guerra saranno di grande utilità: la resistenza alla fatica, il compatto e disciplinato lavoro di gruppo, la disinvoltura nel gestire varie configurazioni del terreno. E lo si farà in modo tanto più adeguato allo scopo finale quanto più quello scopo sarà presente al principe e ai suoi compagni: quanto più essi non si lasceranno assorbire inerti dai meccanismi della caccia ma se ne serviranno attivamente come di una scusa per giocare alla guerra. Immaginando nemici appostati su una collina o nascosti nella macchia; ragionando su come sventarne la minaccia e ridurli in proprio potere. Certo sarebbe più realistico, quindi più efficace, inscenare una vera guerra, con vero spargimento di sangue; numerose narrative distopiche molto popolari di questi tempi raccontano un futuro angoscioso in cui un’umanità perduta si diletta con simili trastulli. Chi (come me) ritenga inviolabile il rispetto per l’integrità fisica e psicologica di ogni persona rifuggirà  con orrore da manifestazioni di tale vividezza e preferirà «accontentarsi» della lezione di Machiavelli. Una lezione che dobbiamo generalizzare e dalla quale dobbiamo trarre importanti conseguenze. Prepararsi alle sorprese che il futuro ci riserba esige che abbandoniamo la serena, un po’ soporifera certezza delle abitudini consolidate e ci mettiamo in gioco. Non necessariamente in modo estremo, però, se arrivare all’estremo significa far violenza a noi o ad altri. Possiamo metterci in gioco per procura, compiendo mosse che in parte somigliano a quelle che dovremmo compiere nei momenti effettivi di crisi, e sperare che quando tali momenti verranno ciò che abbiamo imparato, per quanto insoddisfacente rispetto all’originale (quel che in parte somiglia è anche in parte diverso), ci aiuti a sopravvivere e a prosperare. È questo il ruolo del calcio e degli scacchi (oltre al loro contributo, già menzionato, nel tenere il corpo o la mente «in forma»): chi sa sfuggire con destrezza a un marcatore riuscirà forse a farlo davanti a un attacco ben più insidioso; chi sa anticipare dieci mosse del suo avversario saprà forse anticipare il percorso di una meteora o di un tornado. Poco fa ho chiamato questi «giochi per procura»; voglio ora insistere sul termine perché è indice di un cruciale slittamento semantico. Ogni sportivo sa quanto valgano gli allenamenti per far bene in gara o nella partita; e sa che, per quanto preso tremendamente sul serio, un allenamento non è mai la stessa cosa di una gara o di una partita. Troppi fattori emotivi entrano in circolo quando si è alle prese con i cento metri di una finale olimpica o l’ultimo incontro di un torneo: fattori che, per quante volte si siano ripetute le mosse che si eseguiranno allora, rendono quella situazione totalmente diversa – diversa proprio perché in essa non si può ripetere nulla, perché è unica e irripetibile. Propongo di concepire la grandissima maggioranza di quelli che comunemente denominiamo giochi come allenamenti in questo senso. In certi casi noi stessi, o qualcosa o qualcuno che conta molto per noi, siamo letteralmente in gioco; e questo è il gioco che ci definisce, che ci qualifica come animal ludens, come l’animale che non ha una nicchia ecologica ma, forzando costantemente i limiti della sua adattabilità e sopportazione, ha fatto del mondo intero (questo mondo, per ora, e domani, chissà, anche altri) la sua nicchia. Quelli che denominiamo giochi sono spesso forme di allenamento al gioco per antonomasia, in cui si corrono i veri rischi e si ottengono i veri benefici: un gioco che è bene in generale rimandare fino a quando non diventerà inevitabile. Ottenendo in tal modo il doppio vantaggio di assaporare la stabilità degli angoli di cosmo che si annidano in un universo caotico e  coltivare al tempo stesso, senza farsi troppo male, abilità e mosse che potrebbero servirci quando il caos reclamerà il suo dominio. Con una (già menzionata) limitazione, frutto scomodo della relativa comodità dei giochi per procura: un allenamento non è mai la stessa cosa della partita. In quanto puramente rappresentativo della partita, è vittima della logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, da qualcosa di diverso. La mia immagine nello specchio mi rappresenta, ma non posso accarezzarla; i deputati in Parlamento mi rappresentano (o almeno dovrebbero farlo), ma solo in quanto accetto di ridurmi a una particolare costellazione di interessi; la caccia rappresenta la guerra, o il calcio rappresenta un’invasione del terreno avversario e una violazione della sua porta, della sua intimità, o gli scacchi rappresentano una raffinata combinazione di intrighi, trappole e agguati, ma da queste violazioni e da questi agguati nessuno dovrebbe uscire menomato o deflorato. (E forse è questo il motivo per cui eccellono in tali rappresentazioni coloro che ne marginalizzano il più possibile il carattere rappresentativo e in un certo senso lo dimenticano: riescono cioè a disattivare nella loro pratica la consapevolezza che si tratta solo di un gioco – su questo tema di grande importanza ritornerò alla fine del capitolo.) Ernst Gombrich, che citerò ancora in seguito a proposito del rapporto fra gioco e arte, rileva in A cavallo di un manico di scopa (p. 14) che per un bambino un manico di scopa rappresenta un cavallo solo in quanto può essere cavalcato, non perché gli somiglia. E, in Arte e illusione, conferma ed estende il rilievo: L’essenziale dell’immagine non è la sua verosimiglianza, ma la sua efficacia in un certo contesto operativo. Può essere anche verosimile, allorché si ritiene che questo possa contribuire alla sua efficacia (p. 112). Ho detto che i giochi per procura si svolgono in microcosmi: ambienti ristretti e fittizi che simulano condizioni reali. Potrebbe sembrare un paradosso che la bimba da cui è iniziato il nostro percorso giochi nel mondo e i membri di una squadra di calcio, invece, in una copia in miniatura del mondo, considerando quanto è piccola la stanza in cui si muove la bimba in confronto allo stadio affollato e urlante in cui ha luogo la partita; e sarà bene allora sottolineare che la miniatura di cui stiamo parlando si riferisce a dimensioni non spaziali ma esistenziali. Nel suo piccolo spazio la bimba investe tutta sé stessa, e bisogna farle attenzione e proteggerla per evitare che questa sua assoluta dedizione abbia effetti distruttivi; davanti alle folle oceaniche degli stadi si compie invece un rito dalla fisionomia precisa ed esclusiva, in cui solo  alcuni movimenti e atteggiamenti sono legittimi. Le barriere che separano questo microcosmo dal mondo sono assai porose, certo; il gioco vero è sempre sul punto di prendere la mano a quello finto, con effetti talvolta tragici; ma la possibilità che l’uno si trasformi nell’altro non nega la loro distinzione. Fa solo notare che non si tratta di una distinzione neutrale, definita una volta per tutte: come la repressione freudiana, va mantenuta a ogni istante esercitando appropriate resistenze, e nel momento in cui le resistenze vengono meno il microcosmo è inghiottito dal gioco globale, in cui ci si fa male davvero. Quest’ultima osservazione ci costringe a rivisitare le conclusioni del capitolo precedente. (In un labirinto, oltre a girare a vuoto e percorrere sentieri tortuosi, si deve talvolta fare qualche passo indietro.) Lo sfondo, cioè le regole, avevo concluso, definiscono il gioco a cui stiamo giocando; le figure che tracciamo sullo sfondo costituiscono la nostra attività ludica. Le regole determinano la topologia del microcosmo in cui abbiamo deciso di risiedere e a quelle regole noi vi risiederemo con maggiore o minore creatività e godimento, da buoni o cattivi giocatori quali siamo. Occorre però evitare il malinteso che la distinzione tra figura e sfondo, tra regole e creatività, sia, una volta decisa, mai più contestabile, che non sia essa stessa in gioco. In una scena esilarante di Butch Cassidy, Paul Newman viene sfidato a duello da un membro della sua banda, un bruto gigantesco che dà l’impressione di poterlo sbudellare con facilità. Senza scomporsi, Butch/Paul lo avvicina e gli dice che, prima di lottare, devono mettersi d’accordo sulle regole. Il mostro lo guarda allibito; in quell’attimo di sconcerto Butch gli assesta un poderoso calcio al basso ventre e poi, quando si piega in avanti, una robusta mazzata in faccia con i due pugni congiunti. Il duello è finito prima ancora di cominciare, prima ancora di stabilire le regole alle quali doveva essere condotto. Siamo così tornati per altra via alla complessità sancita dalla fisica e quel che sembravamo aver capito quando ne abbiamo parlato la prima volta si trasforma ora in un oscuro dilemma. (In un labirinto, càpita di ripassare per lo stesso punto e di non riconoscerlo.) Il mondo è infinitamente ambiguo, avevamo concluso: non obbedisce a regole univoche ma risulta invece da una sovrapposizione di sistemi di regole fra loro incommensurabili, entro ciascuno dei quali si potranno anche fare previsioni senza però poter prevedere, di volta in volta, in che sistema sceglieremo di vivere. Non c’è, anzi, il mondo ma ci sono questi sistemi molteplici, e nello slittare dall’uno all’altro ci spostiamo da un mondo all’altro. Nel linguaggio che stiamo utilizzando adesso, potremmo dire che ciascun sistema è un microcosmo, un particolare ambiente ludico; ma  qui abbiamo anche detto che ogni microcosmo corre sempre il rischio che i suoi confini non tengano, che il mondo reale (il mondo del gioco reale) che fa pressione su quei confini li sfondi e a un tratto ci si possa far male davvero. Come la mettiamo, allora? Esiste un mondo reale che fa pressione sui microcosmi, sui sistemi di regole, sui giochi; oppure vale quel che si è detto nel terzo capitolo, che esiste un mondo solo dopo che si sia scelto un sistema di regole? Una risposta semplice e lapidaria a questa domanda è: valgono entrambe le cose. Non c’è nulla di semplice, tuttavia, nel significato della risposta. Per cominciare, occorre intendersi: se un «mondo» dev’essere una struttura definita, che contenga oggetti specifici con specifiche proprietà e relazioni, allora non esiste un mondo senza la scelta del vocabolario che lo fonda (in accordo con le spiegazioni date nel terzo capitolo). Possiamo anche dire, però, che «così va il mondo», cioè che esso non va come si pensava un tempo (e come ancora pensano in molti): non è indipendente da una scelta; le cose non stanno in nessun modo finché non si sia deciso come descriverle – e anche questo è, in senso lato, un modo in cui stanno le cose. Da questa banale distinzione terminologica segue una conclusione tutto men che banale: se «al mondo» non ci sono che microcosmi, allora quel che fa «realmente» pressione su un microcosmo, «il mondo» che minaccia di sommergerlo, sono altri microcosmi. Un gioco è sempre e soltanto minacciato da altri giochi (nel senso che è sempre possibile slittare dall’uno agli altri). Giocare con le regole invece che alle regole di un particolare gioco (come faceva Butch Cassidy) non significa situarsi in una dimensione neutrale, fuori da ogni gioco, dalla quale il gioco e le sue regole possano essere contestati; significa sempre e soltanto collocarsi in un altro gioco. Nel percorso compiuto finora abbiamo già provato qualche sconvolgimento prospettico; abbiamo già visto talvolta l’anatra tramutarsi sotto i nostri occhi in un coniglio. Qui siamo arrivati a un nuovo episodio dello stesso tipo. In partenza, sembrava ovvio che la bimba stesse giocando e i suoi genitori no (quando, per esempio, si assicuravano che fossero coperte tutte le prese e chiuse tutte le finestre prima di lasciarla giocare indisturbata); che gli atleti su un campo di calcio giocassero ma gli operai che montavano le porte no; che ci fosse differenza tra giocare alla guerra e fare la guerra (davvero, invece che per finta). Ora questa ovvia differenza non solo non è più ovvia; non è più nemmeno una differenza. O meglio, una differenza c’è ma non è quella tra un gioco e un non-gioco, o tra un ambiente fittizio e uno reale. Se per la bimba  non c’è niente di più serio del suo gioco, e se in generale i giocatori prendono il loro gioco molto sul serio, è perché non c’è distinzione sostanziale fra gioco e attività serie: un’attività seria è un gioco preso sul serio, un’attività definita da uno sfondo di regole in cui una o più persone decidono di immergersi, un microcosmo entro i cui confini una o più persone decidono di abitare. Prendere sul serio qualcosa vuol dire assumere un atteggiamento di completa concentrazione e rifiutarsi di ammettere qualsiasi distrazione, qualsiasi alternativa alla pratica corrente. Succede ai bambini che giocano, agli adulti ossessionati dal poker o dalla roulette e agli altri adulti, molto più maturi e responsabili, che si dedicano anima e corpo al loro lavoro. L’analogia fra tutte queste situazioni è evidente, o almeno dovrebbe esserlo, ma noi di solito riusciamo a non vederla inforcando gli occhiali normativi (o prescrittivi) di cui ho parlato nel secondo capitolo: chi si concentra sul proprio lavoro fa bene perché sul lavoro ci si deve concentrare; chi si concentra sulle avventure di una bambola dimostra il proprio carattere infantile; chi si concentra sul poker è dipendente e malato. Mettiamo da parte queste norme introdotte di straforo, senza valutazione e senza critica, e rimaniamo su un piano descrittivo, là dove l’evidenza dell’analogia è innegabile. Ci apparirà allora con improvvisa chiarezza una nuova prospettiva sull’intera faccenda: la realtà «seria» non è che un gioco senza alternative riconosciute, su cui non si avverte la pressione di altri giochi. Il lavoro è la realtà di chi non vive le sue regole come una scelta; il poker è la realtà del giocatore ossessivo. (Il che non modifica il fatto che alcuni giochi possono [a] essere più ampi e ramificati di altri, meno disponibili alla ripetizione, a provare e riprovare le stesse mosse, e più propensi a esiti dolorosi e devastanti o [b] rappresentarne altri, con tutte le ambiguità connesse alla rappresentazione, quindi che [c] si possono limitare i danni giocando «per procura» a giochi puramente rappresentativi di quelli più rischiosi.) C’è un’importante precisazione da fare su quel che ho appena detto: è necessario correggere subito la rotta per non andare fuori strada. Sembrerebbe, a questo punto, che ci sia qualcosa di intrinsecamente sbagliato nel prendere un’attività sul serio, il che non è vero. Torniamo ancora una volta alla bimba: sbaglia forse, lei, a immergersi in modo assoluto, totale, nelle figure che costruisce? Niente affatto: praticare un gioco con pazienza, con dedizione, nell’oblio di ogni alternativa, è il modo migliore per familiarizzarsi con il suo particolare microcosmo, per esplorare tutta la creatività, tutto il «gioco» consentiti dalle sue regole. Ma domani la bimba sarà in un’altra stanza, o in giardino, o sul sedile posteriore di un’automobile, dove incontrerà altre  resistenze che accetterà come regole di un altro gioco; ed è questa flessibilità che la protegge dall’ossessione, che anzi trasforma la sua momentanea ossessione in un punto di forza. Ogni gioco, mentre è giocato, va preso sul serio; quel che ne conserva anche il carattere di gioco (oltre a quello di serietà), per chi lo pratica, è il fatto che gli siano presenti, magari implicitamente, altri giochi. Nell’Essere e il nulla, Sartre parla di un cameriere che si è trasformato nello stereotipo di un cameriere, e che cerca così di sfuggire alla coscienza di essere un cameriere. Adattando il suo esempio al mio discorso, direi che al cameriere manca ogni senso di alterità e che senza alterità non c’è vera identità: c’è solo un magma indifferenziato nel quale siamo avvolti senza rimedio. Gli manca un lampo di quell’ironia che segnala l’alterità e gli permetterebbe di vedere (da un altro punto di vista) quel che sta facendo come uno dei tanti giochi possibili – come qualcosa che non lo inchioda fatalmente a un ruolo e proprio per questo gli permette di vivere il suo ruolo con serenità. Ho avuto la fortuna, talvolta, di veder affiorare questo lampo d’ironia (che sarebbe come dire, per me, d’intelligenza) in un bambino, di solito intorno ai due anni, e mi sono reso conto allora che avevo davanti un essere umano. In Verso un’ecologia della mente, Gregory Bateson arriva a una conclusione analoga, formulata nei termini logico-matematici che gli sono abituali. Un gioco, dice, è generalmente vissuto in un’atmosfera paradossale: nell’ambito della premessa «Questo è un gioco» e quindi di indicazioni contrastanti a prendere sul serio quel che si fa e anche a non prenderlo sul serio. «È nostra ipotesi che il messaggio “Questo è gioco” stabilisca un quadro paradossale, paragonabile al paradosso di Epimenide [cioè: quel che sto dicendo adesso è falso]» (pp. 225-226). Ma tali paradossi, analoghi a quelli della teoria degli insiemi (come «l’insieme di tutti gli insiemi che non si appartengono si appartiene e non si appartiene») non vanno esorcizzati (come fa Bertrand Russell introducendo la sua teoria dei tipi logici), perché nella loro assurda, irriducibile complicazione sono l’essenza stessa dell’attività e della vita. La nostra tesi principale può essere riassunta in un’affermazione della necessità dei paradossi dell’astrazione. L’ipotesi che gli uomini potrebbero o dovrebbero obbedire alla teoria dei tipi logici nelle loro comunicazioni non sarebbe solo cattiva storia naturale; se non obbediscono alla teoria non è solo per negligenza o per ignoranza. Riteniamo, viceversa, che i paradossi dell’astrazione debbano intervenire in tutte le comunicazioni più complesse di quelle dei segnali di umore, e che senza questi paradossi l’evoluzione della comunicazione si arresterebbe. La vita sarebbe allora uno scambio senza fine di messaggi stilizzati, un gioco con regole rigide e senza la consolazione del cambiamento o dell’umorismo (p. 235).  Alla fine del capitolo precedente mi ero posto un problema: qual è il senso di giochi dai quali non sembriamo imparare nulla d’importante, che sembrano servire solo a passare (ad ammazzare?) il tempo? La «soluzione» del problema ha finito per negarlo, ridisegnando l’intera cartografia che ne tracciava il territorio. Non ci sono giochi utili per conoscere il mondo reale e altri oziosi e gratuiti. Ci sono solo giochi, che rimangono tali finché rimangono al plurale e smettono di esserlo (diventano reali) quando ne perdiamo di vista la molteplicità. Anche in questo caso, la molteplicità non cesserà di esistere e noi dovremo pur sempre difenderci dalla sua intrusione; la nostra difesa però non sarà (per usare ancora una volta metafore freudiane) un consapevole, versatile negoziato fra istanze ugualmente legittime e in grado di scambiarsi le parti, di mescolarle e così rinnovarsi continuamente, ma una rimozione di fissità nevrotica che con l’altro non dialoga e che proprio per questo all’altro prima o poi si arrenderà.  6. Calma e gesso Nel gioco del biliardo, che un mio compagno di liceo definiva «giusto e saggio», càpita di trovarsi davanti a situazioni molto complicate. La palla che dobbiamo colpire è coperta dal pallino o dal castello (sto parlando di un biliardo all’italiana, o eventualmente alla goriziana, con due palle, un pallino e cinque birilli, o eventualmente nove); possiamo prenderla solo di sponda, quindi invece di sparare subito d’istinto conviene esaminare le nostre opzioni con calma, e meglio ancora se nel frattempo ingessiamo la stecca per evitare che dopo tante elucubrazioni scivoli malamente nel tiro (probabilmente a effetto) che decideremo di tentare. Fuor di metafora, quando si percorre un itinerario tortuoso e accidentato come quello attuale è buona idea fermarsi ogni tanto e considerare la nostra posizione, che magari dopo numerose giravolte è cambiata e va rivalutata nella nuova forma che ha assunto e nelle nuove condizioni e opportunità che ci offre. È quanto mi propongo di fare in questo capitolo, prima di riprendere il cammino. Nelle ultime pagine abbiamo compiuto, ho detto, un rivolgimento prospettico. Naturalmente, mi sono affrettato a trarne le conseguenze e a ridisegnare alla sua luce il nostro territorio. Ma qualche minuto di pausa supplementare e qualche riflessione più articolata sono opportuni, per apprezzare la radicale novità della mappa che sta emergendo. Siamo partiti con una distinzione forse talvolta (in casi limite) vaga ma di solito, apparentemente, piuttosto chiara. A nascondino e a pallacanestro si gioca; quando si prende il tram per andare in ufficio o si prepara la cena non si gioca – e chi lo facesse non starebbe davvero preparando la cena o andando in ufficio; starebbe facendo chissà che cosa, con l’alibi di preparare la cena o andare in ufficio. Ora però abbiamo detto che ci sono solo giochi. Vogliamo dire che quella distinzione apparentemente chiara (ma, ho affermato, non «sostanziale») va abbandonata? E che senso ha parlare di gioco, di attività ludica, se non esiste nessun altro tipo di attività: se il fatto che un’attività sia un gioco non la pone in contrasto con nient’altro di quel che possiamo fare? Non abbiamo così inopinatamente perso per strada il concetto stesso di cui  volevamo rendere conto, alla cui comprensione abbiamo dedicato tanti sforzi? Ho detto che un gioco è definito da uno sfondo su cui il gioco elabora le sue figure; ho detto che c’è concorrenza, e lotta, sulla natura di questo sfondo, che si gioca non solo alle regole ma anche con le regole. E ho detto che quello che stiamo conducendo qui è un gioco, di carattere trasformativo (o dialettico): che esso ci porta (per esempio) a vedere il gioco di una bimba trasformarsi nel gioco del calcio. Stiamo ora arrivando a capire meglio che gioco è. Parte di quel che questo gioco fa è trasformare il rapporto tra figura e sfondo nell’essere umano (dove «essere» è inteso come verbo; alla fine del viaggio suggerirò che la qualifica «umano» potremmo lasciarla cadere e che la trasformazione riguarda tutto l’essere). Normalmente (e ricordiamo la norma sempre implicita in simili espressioni) si pensa che il gioco sia una figura un po’ strana e misteriosa tracciata sullo sfondo delle comuni, serie occupazioni quotidiane. Il suo posto è marginale, letteralmente ai margini della vita ordinaria: pertiene all’infanzia, ai giorni di festa, alla vita di scioperati e nullafacenti («Chi ha fame non gioca», dice Caillois a p. 14). E c’è da chiedersi se serva a qualcosa. Il rivolgimento prospettico che abbiamo attuato ci mostra un quadro completamente diverso: una condizione umana in cui lo sfondo, la normalità, la norma sono attività ludiche, condotte per il puro gusto e il puro piacere che dànno, e le attività strumentali, tese a uno scopo esterno a sé stesse, al conseguimento di un risultato, sono un mistero da spiegare. Nell’Educazione estetica Friedrich Schiller arriva a una conclusione analoga quando afferma: «l’uomo gioca soltanto quando è uomo nel senso pieno del termine, ed è interamente uomo solo laddove gioca» (p. 56). E la spiega, anche, in modo simile all’articolazione che ho fornito qui, come il risultato di una costante tensione fra esigenze opposte: «deve esservi un elemento comune tra impulso formale e impulso materiale, cioè un impulso al gioco, perché solo l’unità della realtà con la forma, della contingenza con la necessità, della passività con la libertà porta alla perfezione il concetto di umanità» (p. 54). In una famosa scena di 2001: Odissea nello spazio un nostro antenato ominide solleva da terra un lungo, robusto osso e lo agita senza senso e senza intenzione di qua e di là. Per gioco, potremmo dire. Finché, casualmente, l’osso urta un cranio che giace lì vicino e lo frantuma, e così lo scimmione scopre (con enorme eccitazione) di avere in mano un’arma e nella prossima scaramuccia con un gruppo di avversari la usa per commettere un omicidio. Kubrick vuole raccontarci la storia di una specie (la nostra) feroce e sanguinaria; ma storie simili e meno cruente si potrebbero raccontare su un’altra scimmia che con la  medesima casualità scopra come far cadere un cespo di banane da un albero, o come adagiare un tronco per traverso su un ruscello e usarlo da ponte. Jerome Bruner, in Natura e usi dell’immaturità, riassume storie analoghe in questo modo: Sarei tentato di avanzare l’ipotesi poco ortodossa secondo la quale nello sviluppo dell’uso degli strumenti è stato necessario un lungo periodo di attività combinatoria opzionale e libera da qualsiasi pressione. Per sua natura l’uso di strumenti (o l’incorporazione di oggetti in attività qualificante) ha richiesto la preliminare possibilità di un’ampia varietà di esperienze sulla quale potesse poi operare la selezione (p. 37). Una caratteristica fondamentale dell’uso di strumenti negli scimpanzé come nell’uomo è la tendenza a sperimentare varianti del nuovo pattern di attività in differenti contesti [...]. Probabilmente è proprio questa «spinta alla variazione» (piuttosto che la fissazione per rinforzo positivo) che rende tanto efficace la manipolazione nello scimpanzé (p. 41). Il gioco, data la sua concomitante libertà da rinforzi e il suo collocarsi in un ambiente relativamente libero da pressioni, può produrre la flessibilità che rende possibile l’uso di strumenti (p. 43). La libertà espressa nel gioco sarebbe dunque il serbatoio inesauribile da cui sfociano tutte le attività serie: cristallizzazioni perlopiù temporanee e locali cui ci affezioniamo e che ripetiamo con fedeltà perché si sono rivelate inaspettatamente preziose, mentre il gioco continua. (Ritroviamo così, come cifra del gioco, l’investimento nell’eccessivo e nel puramente possibile, da cui viene distillato con pazienza ciò che finisce per apparire utile o anche necessario.) L’immagine che stiamo disegnando è quella di uno spettro di comportamenti (analogo allo spettro dei colori), a un’estremità del quale c’è pura libertà (comportamenti del tutto caotici e imprevedibili) e all’altra pura costrizione (comportamenti del tutto fissi e stereotipi). In modo analogo, Caillois sovrappone alla sua già citata categorizzazione analitica di vari tipi di gioco un’ulteriore tassonomia organizzata in modo graduale: [Si possono] ordinare [i giochi] fra due poli antagonisti. A un’estremità regna, quasi incondizionatamente, un principio comune di divertimento, di turbolenza, di libera improvvisazione e spensierata pienezza vitale, attraverso cui si manifesta una fantasia di tipo incontrollato che si può designare con il nome di paidia. All’estremità opposta, questa esuberanza irrequieta e spontanea è quasi totalmente assorbita, e comunque disciplinata, da una tendenza complementare, opposta sotto certi aspetti, ma non tutti, alla sua natura anarchica e capricciosa: un’esigenza crescente di piegarla a delle convenzioni arbitrarie, imperative e di proposito ostacolanti, di contrastarla sempre di più drizzandole davanti ostacoli via via più ingombranti allo scopo di renderle più arduo il pervenire al risultato ambìto [...]. A questa seconda componente do il nome di ludus (p. 29). E anche Piaget parla di polarità: il gioco non costituisce una condotta a parte o un tipo particolare di attività tra le altre: esso si definisce soltanto mediante un certo orientamento della condotta o in virtù di un «polo» generale verso cui  converge quest’attività nel suo complesso restando caratterizzata così ogni azione particolare dall’essere più o meno vicina a questo polo e dal tipo di equilibrio che c’è tra le tendenze polarizzate (La formazione del simbolo nel bambino, pp. 213-214). il gioco si riconosce da una modificazione, variabile di grado, dei rapporti di equilibrio tra il reale e l’io. Si può sostenere dunque che, se l’attività ed il pensiero adattati costituiscono un equilibrio tra l’assimilazione [del reale all’io] e l’accomodamento [dell’io al reale], il gioco comincia quando la prima predomina sul secondo [...]. Ora, per il fatto stesso che l’assimilazione interviene in ogni pensiero e che l’assimilazione ludica ha per solo segno distintivo il fatto di subordinarsi l’accomodamento invece di realizzare un equilibrio con esso, il gioco si deve considerare collegato al pensiero adattato da una gamma di stati intermedi, e solidale con tutto il pensiero, di cui esso non costituisce che un polo più o meno differenziato (pp. 218-219). Io però intendo proporre qui un’operazione più radicale. Invece di trovare il gioco in una parte dello spettro e il non-gioco in un’altra (o, come fa Caillois, giochi diversi da una parte e dall’altra), intendo rivoluzionare il senso della parola «gioco», decidendo che il gioco sia non un’attività specifica («questo è un gioco e quello non lo è») ma un aspetto di ogni attività, un suo parametro: il parametro che misura quanta libertà l’attività esprima. Che ci siano solo giochi vorrà dire allora che tutte le attività possono essere misurate relativamente a questo parametro, anche se per alcune la misurazione darà un valore assai vicino allo zero. In modo inversamente proporzionale alla libertà di un comportamento cresce, nello spettro, la presenza e l’importanza delle regole; quindi, se ammettiamo che gli estremi dello spettro (il grado zero di libertà e il grado zero di regole) siano astrazioni puramente ideali, confermeremo quanto si è detto nel quarto capitolo, che cioè ogni gioco si svolge a determinate regole – intendendo la frase nel nuovo senso che ha ora acquisito: ogni attività ha insieme un aspetto regolamentato e uno ludico. Mentre varchiamo una soglia per affrancarci dalle strettoie che al suo interno ci opprimono, troveremo un’altra soglia; e sarà nell’interazione tra il nostro desiderio di affrancamento e i limiti con cui quel desiderio si deve confrontare che la nostra libertà guadagnerà contenuto e sostanza, e realizzerà strutture sempre più articolate, complesse e funzionali. Quando siamo d’accordo che così stanno (così vediamo) le cose, nulla ci impedisce di ammettere un uso informale e colloquiale della parola «gioco» in riferimento a specifiche attività. Un gioco, potremmo dire, è un’attività il cui parametro ludico è elevato, o almeno significativo; un non-gioco è un’attività il cui parametro ludico è trascurabile. In modo analogo, gli esseri umani potrebbero essere disposti su uno spettro in base alla loro altezza, e da un certo punto in avanti (impossibile da determinare con esattezza) le persone con un’altezza elevata, o almeno significativa, verrebberro dette, semplicemente,  alte. Rimarrebbe vero, con questa convenzione, che in generale (il senso della precisazione sarà chiaro tra breve) il nascondino e la pallacanestro sono giochi ma il preparare la cena e l’andare in ufficio no; e sarebbe anche vero che le slot machines e il «gioco» del lotto, avendo un parametro ludico praticamente nullo, non sono giochi ma imposture. Che all’indomani del rivolgimento prospettico si possano dire le stesse cose di prima non equivale però ad averne moderato l’impatto, ad avergli spuntato le unghie. Categorizzare le attività umane in termini di uno spettro come quello che ho descritto non è un’operazione innocente, perché implica che ogni attività, per quanto scontata e ripetitiva, abbia almeno implicito, almeno potenziale, un certo grado di libertà, e che dunque in essa ci sia spazio (ci sia gioco, come quello della vite) per esplorare e apprendere, per rischiare e trasgredire. (Così come ogni attività ludica può venir soffocata da un eccesso di regole.) Nel mondo ordinato degli antichi greci, ogni cosa aveva il suo posto e lo stato naturale era la quiete – lo stato, cioè, in cui era ogni cosa quando aveva raggiunto il suo posto. (Questo valeva sulla Terra. Nei cieli, i corpi si muovevano con il moto più simile alla quiete: il moto circolare uniforme, che ritorna sempre su sé stesso.) E capire quel mondo voleva dire «tagliarlo seguendone le nervature»: riflettere nelle nostre classificazioni concettuali la precisa e definitiva articolazione delle sue differenze. In base a questa logica, fra gioco e non-gioco esisterebbe uno scarto qualitativo: si tratterebbe di qualità diverse, anzi opposte, e nulla potrebbe essere l’uno e l’altro insieme. Che il nostro mondo sia caotico implica che in esso sia naturale non la quiete ma un movimento costante e irregolare, e non solo il movimento di una cosa da un posto all’altro ma anche un movimento che riguarda l’essere di quella cosa, che costantemente e irregolarmente ne cambia la definizione e le caratteristiche più intime. La nostra nuova prospettiva sul gioco s’inquadra in un mondo siffatto, in cui l’essere gioco non è un destino degli scacchi o del tennis e l’essere non-gioco un destino dell’avvitare un bullone o dello spolverare il mobilio. Gioco e non-gioco sono invece opportunità sempre aperte; e può essere sufficiente, a volte, il battito d’ali di una farfalla perché la più ottusa delle routine si accenda d’improvvisa follia (manifestando il pizzico di follia che già conteneva) o perché la più audace delle avventure s’incagli su un binario morto.  7. Illusioni Nel quarto capitolo ho detto che quella di figura e sfondo è una metafora: che le «figure» non hanno necessariamente nulla di visivo. Una metafora estende l’uso di una parola al di là dei suoi contesti abituali, dandole un senso traslato, inappropriato e incongruo ma spesso suggestivo (in quanto suggerisce associazioni, emozioni, ricordi). È anch’essa un gioco, di parole appunto; e come tale ce ne dovremo occupare a tempo debito. Per ora mi limito a osservare che se una metafora può traslare, trasferire il senso di una parola allora quel senso, si presume, ha un’origine da cui essere trasferito: che si diano sensi metaforici presuppone che ne esista uno letterale. Giulietta non è, letteralmente, il sole; ma quel che ci permette di capire che cosa il poeta intenda con questa frase è la nostra familiarità quotidiana con un astro che è il sole nel senso più proprio del termine. Anche questa distinzione verrà in seguito contestata; ma qui prendiamola per buona perché ha molto da insegnarci. Un cambiamento di prospettiva, di punto di vista, può essere un evento di natura astratta, che ci coinvolge solo a livello concettuale. Abbiamo sempre pensato a noi stessi come a fedeli esecutori di istruzioni ricevute dall’esterno, da una guida o un capo più o meno benevoli, e tutt’a un tratto comprendiamo («ci salta agli occhi», metaforicamente parlando) di quante microdecisioni sia intessuta la nostra esecuzione di un compito, e quanto siano quelle decisioni, quelle scelte forse inconsapevoli ma importanti, a determinarne il successo, invece della pedestre acquiescenza a modelli alieni. Se pure adoperiamo un vocabolario percettivo per descriverla (dicendo per esempio che abbiamo imparato a «vederci» in modo diverso), questa trasformazione è di carattere intellettuale, logico; riguarda una «prospettiva» che è un’interpretazione, non una direzione nello spazio. Esistono però anche casi come il seguente (ne parla fra gli altri Jacques Lacan). Il famoso quadro Gli ambasciatori di Hans Holbein, se guardato di fronte, presenta una strana forma in basso (Lacan la paragona a uova fritte); ma se, mentre ce ne allontaniamo, ci giriamo ancora una volta a guardarlo (forse perché quella forma misteriosa ci ha inquietato) ecco che da quel punto, letteralmente, di vista scorgiamo infine l’immagine che il pittore  voleva mostrarci (e capiamo il messaggio che voleva lanciarci – ogni trasformazione percettiva ha una ricaduta intellettuale, ma non vale l’inverso). Le uova fritte sono diventate un teschio. Nell’universo infantile, cambiamenti letterali di prospettiva (su un corpo, un oggetto, una situazione) sono tra le fonti più intense di gioia. È un mondo popolato di smorfie, guizzi, voltafaccia, nel quale nulla diverte di più del vedere personaggi di dimensioni gigantesche, che normalmente costringono a guardarli dal basso in alto, rotolarsi per terra, camminare a quattro zampe, magari con un bambino in groppa per fargli vedere dall’alto spettacoli di solito inaccessibili: una nuca, del cuoio capelluto, delle stanghette di occhiali. Nella vita adulta, occasioni del genere sono più rare, limitate come sempre accade con il gioco a ricorrenze catartiche (il carnevale, le vacanze, il sesso) e occupazioni specifiche (l’attore, il clown). Quel che conserva una frequenza più costante sono non tanto occasioni quanto particolari oggetti multiformi, insieme artistici e illusori, anzi artistici perché illusori (come ben aveva capito Gombrich, che al tema dedicò il suo capolavoro Arte e illusione). A questi loro aspetti mi rivolgerò adesso, cominciando dal secondo. Abbiamo già incontrato il paradosso della rappresentazione: di una cosa, cioè, che ne rappresenta un’altra, diversa da sé stessa. Una rappresentazione, aggiungo ora, è in certa misura un’illusione; in particolare, una rappresentazione percettiva come quelle su cui mi concentrerò qui è (in certa misura) un’illusione percettiva. Nel linguaggio ordinario, «illusione» non è un termine neutrale: accenna a qualcosa di falso, di ingannevole; è legato a giudizi di valore negativi, usato con intento critico. Dobbiamo evitare di rimanere vittime di illusioni; dobbiamo conoscere la realtà che le illusioni ci nascondono. Voglio prendere le distanze da tali giudizi e dalle norme che essi sottintendono: norme che favoriscono stabilità e conformismo nella visione del mondo. Osservo invece che dentro «illusione» c’è la radice del gioco e il prefisso «in» annuncia (se solo stessimo a sentire quel che diciamo) che un’illusione (ci) mette in gioco. Questo è il senso in cui voglio usare la parola, respingendo ogni ipotesi di inganno o di frode e sostituendola con un richiamo positivo alla sfera ludica. È in questo senso, per esempio, che nubi di una certa forma possono illuderci che un destriero stia galoppando per il cielo: rimettendo in discussione il fatto che quelle siano nubi, che il cielo abbia una sua determinata, fissa configurazione, che certe cose (certi animali) non vi abbiano corso. L’epigrafe del capitolo L’immagine nelle nubi, in Arte e illusione, è tratta da Antonio e Cleopatra di Shakespeare, e recita:  Talvolta noi vediamo una nuvola prendere forma di drago; talvolta un cirro la forma di leone o d’orso o di turrita cittadella o d’un aereo picco; di forcuta montagna, di azzurri promontori vestiti d’alberi, che fanno cenno colle chiome al mondo giù e ci illudono gli occhi con un gioco d’aria (p. 172). A mente fredda diremo poi, forse, che le nubi hanno rappresentato un cavallo, sigillando il gioco in un’espressione paradossale che lo esorcizza invece di spiegarlo (e, se viene ripetuta abbastanza spesso, darà probabilmente l’illusione di aver capito – metterà in gioco che cosa voglia dire «capire»); quando invece il gioco ci catturerà, ci accoglierà in sé, vedremo davvero – e nessuno potrà dirci che non lo vediamo – il cocchio di Fetonte scalpitare a precipizio verso il suo infelice destino. L’«in» di «illusione» è una particella, una preposizione, ambigua (ha un significato che è a sua volta in gioco). Può introdurre un complemento di moto a luogo («vado in piazza») e allora indicherà oggetti che ci attirano, ci seducono a entrare in un gioco; ma il complemento può anche essere di stato in luogo e allora s’insinuerà che il gioco ci ha avvolto, che abitiamo al suo interno. L’ambiguità, e la tensione che l’accompagna, traspaiono nel nostro rapporto con le nubi, se oscilliamo fra il notarne (dall’esterno) una semplice ma affascinante analogia con la criniera di Pegaso e l’abbandonarci all’altalena cui l’analogia allude, senza riposare nell’una o nell’altra condizione. Sono anche attivate da oggetti creati proprio a tale scopo, creati ad arte; e così slittiamo da una delle nostre parole all’altra. «Artificiale» si oppone a «naturale», ed è un contrasto da prendere con beneficio d’inventario. Molto ci sarebbe da dire su quanto sia naturale per gli esseri umani costruire oggetti diversi da quelli che trovano già fatti. Ma non è il discorso che m’interessa qui; accetterò l’idea che un albero è un oggetto naturale e la casetta che gli è stata costruita sopra è artificiale, e dirò quindi che gli oggetti che ci imprigionano in un gioco perpetuo, o almeno di una certa durata (ci imprigionano in un comportamento libero? poco fa ho detto che il gioco può catturarci; c’è una guerra condotta su queste parole, su che cosa vogliano dire «libertà» e «schiavitù», ed espressioni del genere fanno ampie concessioni all’avversario), sono in gran parte artificiali e, quando acquisiscono una buona reputazione sociale, vengono qualificati come artistici. L’anatra/coniglio cui ho fatto riferimento in precedenza appartiene a questa classe di oggetti: basta continuare a guardarlo, senza fare altro, per veder apparire alternativamente l’una e l’altra figura. E si noti a che livello l’oggetto agisce: quel che stiamo guardando non sono nubi che diventano un cavallo, stelle che diventano un leone e nemmeno un’anatra che diventa un coniglio –  è un disegno di un’anatra che diventa il disegno di un coniglio. L’anatra/coniglio è un giocattolo: non una parte dell’ambiente che noi sottoponiamo a pressioni e rivoluzioni ludiche, ma un oggetto deputato precisamente a consentirci e facilitarci tali pressioni e rivoluzioni – un oggetto nato per essere elemento di un gioco. E per questa via siamo arrivati una prima volta a dama; abbiamo raggiunto nel nostro percorso una prima sublime manifestazione dell’ingegno e della perizia umani. Abbiamo raggiunto l’arte, che possiamo ora definire come la costruzione di oggetti che consentano e facilitino il gioco percettivo, il sovrapporsi e lo scambiarsi di immagini multiple, l’illusione percettiva. Torniamo al quadro di Holbein e trascuriamo la sorpresa con cui saprà accomiatarci. Rimane il fatto che questo oggetto artificiale ci dà l’impressione di essere al cospetto di due distinti gentiluomini, riccamente vestiti e circondati da svariati simboli di potere, cultura e intrattenimento; ma, anche mantenendo la nostra posizione frontale rispetto alla scena, scorrendo gli occhi è facile vedere al loro posto una tavola bidimensionale ricoperta di colori a olio, e poi tornare a vedere i gentiluomini, e poi ancora la tavola, e magari, se il gioco ci appassiona, sforzarci di svelare il segreto di tale sortilegio – avvicinarci e allontanarci dal dipinto per cogliere il punto esatto in cui un’immagine dà luogo all’altra, in cui i gentiluomini si fanno avanti, robusti e vitali, dal legno e dal pigmento che ne evocano la presenza. Lo stesso vale per i sobri tratti che in uno schizzo o in un fumetto dànno vita a un personaggio e al suo umore, per le trombe e i timpani che nella Sesta di Beethoven ci immergono in un temporale, per le volte e le vetrate che da una cattedrale gotica ci trasportano in una selva oscura, attraversata da lampi di luce divina. Ogni oggetto artistico sa illuderci, invitarci a un gioco aperto fra le sue molteplici incarnazioni, ispirarci a un’oscillazione gestaltica che ne costituisce, in quanto appartiene all’arte, la ragion d’essere. Lo stimolo [...] è infinitamente ambiguo, e l’ambiguità in sé [...] non può esser vista: può solo essere indotta dal confronto di diverse letture che tutte si adattano a una stessa configurazione. Credo [...] che il dono dell’artista sia di questo genere. Egli è un uomo che ha imparato a guardare criticamente, a saggiare le sue percezioni provando interpretazioni diverse o opposte, sia per gioco che seriamente (p. 282). Il piacere che proviamo davanti a un quadro, affermava il grande critico neoclassico Quatremère de Quincy citato da Gombrich, dipende esattamente dallo sforzo che la mente fa per creare un ponte tra arte e realtà. È proprio questo piacere che viene distrutto allorché l’illusione è troppo completa. «Allorché un pittore costringe una grande estensione in uno spazio ristretto, quando mi porta attraverso gli abissi dell’infinito su una  superficie piatta e fa sì che l’aria circoli [...] mi piace abbandonarmi alle sue illusioni; ma voglio che ci sia la cornice, voglio essere certo che ciò che vedo in realtà non è altro che una tela o un semplice piano» (p. 254). Se questo gioco viene a mancare, se l’illusione diventa inganno, allora in modo solo apparentemente paradossale per chi abbia seguito la parola nella deriva semantica che ho proposto, l’illusione scompare: «la perfezione dell’illusione ne ha segnato anche la fine» (p. 253; traduzione modificata). E talvolta l’artista gioca anche con l’illusione (gioca con il gioco stesso) e con le aspettative culturali che le sono associate: l’orinatoio di Duchamp ci riporta indietro, al bambino per cui i migliori oggetti con cui giocare sono quelli d’uso comune, e insieme ci ricorda che un oggetto non è mai solo, è sempre vissuto in un ambiente che ne determina il ruolo; quindi un orinatoio in un museo è qualcosa di più (e di meno) di un orinatoio in un bagno e ci racconta qualcosa non solo di sé ma anche di noi stessi. Siamo noi a illuderci (a giocare con il fatto) che visitare un museo sia un’operazione equivalente a guardare dal buco della serratura, lasciando tutto – tutta l’arte – com’è; mentre invece è proprio quella nostra visita a costituire l’arte. In molti punti del labirinto in cui ci siamo inoltrati si aprono altri labirinti: la struttura tortuosa dell’insieme si riflette nella struttura di molte delle sue parti (simile in ciò agli strani attrattori della teoria del caos, in cui ogni dettaglio ha complessità tanto infinita quanto il tutto). Qui siamo arrivati a un punto siffatto: sull’arte si potrebbe scrivere un altro libro, o una biblioteca. Ma resisterò anche a questa tentazione e mi rimetterò in marcia, dopo aver fatto tre precisazioni. In primo luogo, devo insistere che non ho collegato gioco e arte in modo analitico, scoprendo delle loro caratteristiche comuni. L’attività artistica è attività ludica, più precisamente un gioco percettivo che ci porta a vedere oggetti in prospettive e con risultati diversi da quelli abituali; dunque è la stessa attività praticata da un bambino che rigira un cubo fra le mani per vederlo da ogni lato. Se il cubo è una scatola che ha trovato in cucina, il caso è identico a quello delle immagini nelle nubi; se invece è un oggetto (un giocattolo) che gli è stato comprato apposta perché lui esegua tali rotazioni, corrisponde al quadro di Holbein (e chi ha costruito il giocattolo corrisponde al pittore). Gli oggetti ufficialmente giudicati artistici sono più raffinati di quelli con cui si diletta un bambino (anche se ciò non vale sempre per l’arte contemporanea, da Duchamp in poi); ma ciò vuol dire solo che un’attività (ludica, in questo caso) può essere praticata con maggiore o minore maestria, non che si tratta di  attività diverse. Chiunque abbia partecipato a una settimana bianca ha sciato, pur non danzando sulla neve con la grazia di Ingemar Stenmark. E non lasciamoci turbare, nell’enunciare questa tesi, dalle inevitabili proteste di chi sostiene che l’arte ha valore solo per sé stessa (l’art pour l’art) e non va assoggettata alla funzione quasi-evolutiva che le ho conferito. Nessuno meno di un appassionato giocatore, totalmente immerso nella sua partita, è in grado di apprezzarne il contributo a un più vasto ambito d’interessi. Al limite, questo genere di passione acceca, come osserva Gombrich in A cavallo di un manico di scopa: gli scrittori di estetica ci dicono da tempo che cosa l’arte non è, e si sono tanto preoccupati di liberare l’arte da valori eteronomi, che hanno finito con il creare al centro di essa un vuoto, alquanto impressionante (p. 25). In secondo luogo, l’arte è solitamente concepita come prodotta da certe persone (gli artisti) e fruita da altre (il pubblico); le prime sono considerate attive e le seconde ricettive, passive. Nel modello freudiano del motto di spirito, nucleo di una generale teoria estetica, il piacere provato da chi ascolta una barzelletta e il riso che ne segue sono causati proprio dal suo essere inerte e trovarsi a un tratto libere energie psichiche che prima servivano a reprimere dei contenuti inaccettabili, in seguito all’azione di un altro (chi racconta la barzelletta, usando a tale scopo le stesse energie e quindi provando meno piacere e non ridendo affatto). È un modello che potrà andar bene per le oscene vicissitudini dell’industria artistica contemporanea: per opere teatrali e liriche davanti alle quali beatamente assopirsi dopo una lauta cena o per croste e installazioni rifilate da furbi mercanti a ricchi e incolti borghesi. È anche un modello, però, che viola e stravolge la comunità d’intenti e d’impegno che esiste fra un pittore, un architetto, un musicista e il suo pubblico. Chi guarda un quadro, ammira un edificio o ascolta una sonata non saprebbe, perlopiù, dipingere, progettare o comporre con la stessa abilità, ma può godere dell’esperienza solo in quanto è coinvolto nelle stesse scoperte e sorprese dell’artista: solo in quanto l’artista (come l’animatore di un gioco di società) sa coinvolgerlo in quelle attive scoperte e sorprese. Si può essere autentici spettatori di un’opera d’arte solo nella misura in cui si è a propria volta artisti: solo in quanto si è in grado di far riecheggiare in sé la stessa esplosione gestaltica che l’autore ha provato. Ancora Arte e illusione di Gombrich e ancora una sua citazione, questa volta da Filostrato, biografo del filosofo pitagorico (contemporaneo di Cristo) Apollonio di Tiana:  «Ma questo non significa forse – propone Apollonio – che l’arte dell’imitazione ha un duplice aspetto? Uno è quello che porta ad usare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altro quello che realizza la somiglianza unicamente con la mente?». Anche la mente dell’osservatore ha la sua parte nell’imitazione. Anche una pittura a monocromo, o un rilievo in bronzo ci colpiscono come qualcosa di somigliante: li vediamo come forma ed espressione. «Perfino se disegnassimo uno di questi indiani con del gesso bianco, – conclude Apollonio, – apparirebbe nero perché ci sarebbero sempre il suo naso schiacciato, i suoi spessi capelli ricciuti e la sua mascella sporgente [...] a rendere nera l’immagine per chi sa usare gli occhi. Per questo dico che coloro che osservano opere di pittura e disegno devono possedere la facoltà imitativa» (p. 173). In terzo luogo, chi propone una «naturalizzazione» di un aspetto della nostra vita caratterizzato da pesanti risvolti normativi è spesso accusato di farne evaporare ogni norma e lasciarci privi di ogni criterio o giudizio di valore. Tale è il caso, per esempio, dell’etica, disciplina normativa per eccellenza, quando la si riduca alla teoria della scelta «razionale»: d’accordo che mi converrà accettare e rispettare certi patti, ma che cosa resta allora dell’intuizione che, indipendentemente dalla convenienza, sia giusto accettarli e rispettarli? La mia posizione complessiva non ha simili conseguenze; l’etica (normativa) ha in essa un ruolo sostanziale, anche se diverso dalla ricognizione e dal chiarimento concettuale che competono alla metafisica. In questo libro, destinato alla ricognizione del territorio ludico e al chiarimento dei concetti che lo popolano, di etica non mi occuperò; ma non voglio congedarmi dall’argomento che stiamo trattando senza notare che definire l’arte un gioco percettivo ci offre un coerente e plausibile sistema di valori interno per oggetti artistici. C’è chi gioca a scacchi e chi a filetto; chi a bridge e chi a briscola. Tutti quanti possono divertirsi; ma è indubbio che, in quanto giochi, gli scacchi siano meglio del filetto e il bridge meglio della briscola. Il filetto è decidibile: esiste una strategia sicura per chiudere in parità ogni partita. A briscola (quella comune, tralasciando le sue infinite e complicate varianti) di solito vince chi pesca i carichi (soprattutto quelli di briscola). Dopo un po’, ci si annoia. Gli scacchi e il bridge, invece, non stancano mai: con un repertorio limitato a trentadue pezzi o cinquantadue carte sanno proporci una messe inesauribile di combinazioni diverse e richiedere usi sempre nuovi del nostro talento e della nostra ingegnosità. Si può capire come per molti diventino un’ossessione; è difficile immaginare persone altrettanto ossessionate dal filetto o dalla briscola. Con l’arte è lo stesso. Ogni oggetto artistico ci mette in gioco, ma talvolta il gioco è esile e di scarso respiro. L’orinatoio di Duchamp ha rivoluzionato la nostra prospettiva su pratiche sociali consolidate (e ne ha irrimediabilmente scosso la solidità); ma dubito che l’ennesimo esempio di arte «trovata» solleciti  più di una scrollata di spalle o di uno sbadiglio (in chiunque non sia un critico che su queste cose ci vive o uno sciocco in cerca di «investimenti»). Guardiamo invece al viso della Gioconda: le labbra atteggiate a un sorriso, gli occhi tristi e pensosi, e il conflitto fra questi due poli della condizione umana proposto (ma non risolto) in un’espressione di incomprensibile, miracoloso, fragile equilibrio. Se anche avessimo un tempo infinito, potremmo non smettere mai di oscillare dall’uno all’altro «suggerimento» e di stupirci di un ossimoro presentato con tanto candore e tanta armonia. Il capolavoro di Leonardo è un perfetto oggetto artistico perché in esso potremmo a lungo e ripetutamente perderci (illuderci) e da ogni siffatta avventura emergeremmo con uno sguardo nuovo sul mondo.  8. Il fattore in gioco Una cosa che ho appena detto può dare adito a perplessità, quindi devo affrontarla e risolvere il relativo problema prima di proseguire. Ho detto che chi gioca a filetto o a briscola può divertirsi. Questo magari succede perché non ha grandi doti intellettuali e il filetto e la briscola sono alla sua altezza. Ma che dire di quanti si dilettano di giochi semplici proprio nella loro semplicità, pur cogliendone perfettamente i limiti? Di quanti godono della tombola natalizia con un piacere forse regressivo ma non per questo meno intenso? Una volta a Parma, durante una presentazione di Giocare per forza, uno spettatore mi rivolse una domanda analoga. «Quando ero ragazzo» disse «i miei compagni e io “giocavamo” a guardar le macchine passare per strada, e ci eccitava molto vedere una macchina inconsueta. In che senso un gioco così è innovativo, esplorativo, istruttivo o trasgressivo? È di una banalità assoluta; eppure noi ci divertivamo un sacco». L’osservazione è acuta e pertinente: un buon esempio di quanto ci sia da imparare se, in un’occasione pubblica in cui si parla del proprio lavoro e si dovrebbe avere completo controllo della situazione, invece di reiterare una predica risaputa e inutile si accetta di mettersi in gioco e di raccogliere gli stimoli straordinari che ci vengono dispensati da chi dialoga con noi. Ma veniamo al punto. Supponiamo dunque che una famiglia (allargata) costituita da persone di notevole spessore intellettuale si ritrovi durante le vacanze di Natale per giocare a tombola. Tutti sono consapevoli dell’estrema semplicità del rito; eppure le ore trascorse in questa operazione d’imbarazzante infantilismo sono serene ed eccitanti, gradevoli e ilari. Come spiegarlo? Se interrogati, i protagonisti potrebbero giudicarla una forma di abbrutimento: una provvida parentesi fra occupazioni di rigore e profondità encomiabili ma anche, a lungo andare, insostenibili. Dobbiamo crederci? Dobbiamo ammettere che, in qualche caso, il gioco e il suo piacere vadano cercati proprio nel carattere brutale ed elementare di certi comportamenti? Nel puro sfogo che essi esprimono? Non necessariamente. Basta osservare che, se stiamo giocando e se il  presunto oggetto del nostro agire è un’attività socialmente considerata ludica, non ne segue che questa attività sia il gioco cui stiamo giocando. Forse stiamo giocando ad altro, con la scusa di giocare a quel gioco socialmente riconosciuto. Che cosa succede quando una famiglia (allargata) si ritrova per le vacanze di Natale? Che persone con scarsa dimestichezza reciproca oppure (peggio ancora) con ricordi di una dimestichezza ormai tramontata, alla luce del modo in cui sono cresciute e maturate, si costringono a condividere spazi ristretti per qualche giorno, con l’obbligo supplementare di manifestare ripetutamente reazioni estatiche a tale improvvisa, temporanea, spesso faticosa vicinanza. Non devo dilungarmi in dettagli: drammi di notevole veridicità (e crudeltà) sono stati scritti in proposito. La tombola o la briscola possono allora costituire un’area neutra nella quale sperimentare senza troppi rischi mosse e atteggiamenti che in altri contesti potrebbero far male ma qui, nell’atmosfera lieve di un gioco, hanno «corso legale» e consentono preziosi passi avanti nel difficile compito di trasformare quella che di nome è una famiglia nel senso di una concreta familiarità. Stiamo dunque assistendo a una scena in cui si sovvertono e si rinnovano le proprie competenze e i propri ruoli, si esplorano i propri rapporti con altri che, nonostante il disagio e l’occasionale ostilità, sono pur sempre cari e s’imparano strategie per distillare l’affetto dal disagio, e tutto questo accade mentre si gioca a tombola, ma non riguarda la tombola. La delicatezza e la sottigliezza dei tentativi che vengono condotti in quest’area protetta e la ricchezza di insegnamenti che se ne derivano (senza rifletterci, senza neppure esserne consapevoli, ma in modo estremamente utile per il prosieguo e il successo dell’effimera convivenza) sono lontane toto coelo dall’insulsaggine degli ambi e delle cinquine. Considerazioni analoghe valgono per i ragazzi che «giocano» a veder passare le macchine, o a chi scorreggia più forte o dice più parolacce. Se pensiamo che il fattore in gioco, in casi del genere, siano le scorregge o le parolacce, dovremo modificare radicalmente la nozione di gioco che abbiamo elaborato. Ma non bisogna pensarla così; e per capirne le ragioni dobbiamo distanziarci dalle etichette correnti e anche da quelle che gli stessi giocatori (si) attribuiscono. Le competizioni di cui sopra sono giochi, ma non è detto che chi gioca partecipando a tali competizioni stia giocando a scorreggiare, e si stia divertendo perché scorreggia. Forse sta giocando, esattamente nel senso in cui ho definito il gioco, a qualcos’altro di ben più complesso (a socializzare con dei coetanei, a mettere sotto pressione la sua fisicità ed emotività), mentre tutti i presenti (e lui stesso) sono distratti dalle scorregge; ed è anzi importante che  ne siano distratti, perché altrimenti il gioco cui stanno davvero giocando non sarebbe altrettanto trasgressivo e innovativo, esplorativo e istruttivo, e piacevole. Questa osservazione mi consente di precisare il punto con cui ho chiuso il capitolo precedente e di prendere posizione rispetto a un tema che per molti autori ha grande importanza nel definire il gioco ma nella mia trattazione, finora, è stato oggetto di commenti piuttosto negativi. Cominciamo con la precisazione. Ho detto che la Gioconda è un oggetto artistico di sublime efficacia e ho liquidato quanti salutano con entusiasmo un po’ di sassi dispersi «ad arte» in un museo come stupidi o conniventi. Devo ammettere che non è sempre così (per quanto riguarda i sassi). Talvolta l’entusiasmo è genuino, e genuinamente ludico. Se è vero che la fruizione di un’opera d’arte è un gioco che coinvolge insieme i sapienti indizi lasciati dall’autore e l’attivo contributo dello spettatore nel trasformare quegli indizi in un gioco percettivo, è anche vero che i due elementi coinvolti in questa interazione possono esserlo in misura molto diversa: esiste anche qui uno spettro di opzioni, che va da uno spettatore inerte, sedotto suo malgrado, a uno invece iperdisponibile a raccogliere ogni più remoto, implicito invito – perfino ciò che non potrebbe essere vissuto come un invito senza tale sua immensa disponibilità. Socialmente, molte delle persone che si collocano all’estremità benevola dello spettro sono vittime di una posa, di una moda, di chiacchiere senza sostanza e senza costrutto. Per noi però, qui, non importa: non stiamo facendo sociologia ma disegnando uno spazio logico, una struttura concettuale, quindi è sufficiente che sia possibile un’alternativa meno funesta per doverne rendere conto. E il conto è presto reso: così come si può giocare con passione e con gioia, da bambini, con gli oggetti più banali, e impararne fondamentali lezioni di vita, lo si può fare da grandi con le molte banalità che popolano i musei d’arte contemporanea. In entrambi i casi, gli oggetti con cui si gioca sono solo minimamente responsabili dell’emozione e del piacere provati e dell’apprendimento che ne segue. Non sono essi il principale fattore in gioco: è lo spettatore (o il bambino) a sobbarcarsi la maggior parte del lavoro. All’estremo opposto dello spettro, oggetti come la Gioconda hanno un valore universale in quanto sanno parlare anche a chi non è disposto a impegnarsi personalmente per dar vita a un dialogo – sanno parlargli anche se resiste, anche se fa di tutto per convincersi che non gli si stia dicendo nulla. Il tema che finora è stato trascurato (o peggio) e su cui è bene spendere qualche parola è il gioco d’azzardo. Un autore che gli attribuisce sovrana  importanza è Caillois, che se ne serve per porre un’ulteriore radicale distinzione in campo ludico – tra il gioco infantile (e animale) e quello adulto: I giochi d’azzardo appaiono giochi umani per antonomasia. Gli animali conoscono i giochi di competizione, d’immaginazione e di vertigine [...]. In cambio, gli animali, esclusivamente immersi nell’immediato e troppo schiavi dei loro impulsi, non sono in grado di immaginare una potenza astratta e insensibile al cui verdetto sottomettersi anticipatamente per gioco e senza reagire. Attendere passivamente e deliberatamente un pronunciamento del fato, rischiare su questo una somma per moltiplicarla proporzionalmente al rischio di perderla, è atteggiamento che esige una possibilità di previsione, di rappresentazione e di speculazione, di cui può essere capace solo un pensiero oggettivo e calcolatore. Ed è forse nella misura in cui il bambino è vicino all’animale che i giochi d’azzardo non hanno per lui l’importanza che ricoprono per l’adulto. Per il bambino, giocare è agire (p. 35). Buona parte dei giochi comunemente detti d’azzardo può già essere inclusa nella rete concettuale che ho esposto. Nel poker, per esempio, sia le carte che mi vengono di volta in volta offerte dal caso sia gli avversari che affronto (e su cui amplieremo il discorso nel prossimo capitolo) possono essere visti come condizioni oggettive del gioco, sue regole né più né meno della particolare natura geometrica di un cubo o di una palla; e a queste condizioni io esprimerò la mia capacità e creatività né più né meno che se giocassi a scacchi o a calcio. Sembra rimanere totalmente esclusa da questo ambito, però, una classe di giochi in cui non si può manifestare nessuna capacità o creatività, in cui non si può mai migliorare, mai diventare buoni giocatori, in cui si può solo assistere imbelli al modo in cui la sorte gioca con noi: il lotto, la roulette, le slots... Nella maggior parte dei casi chi «partecipa» a tali giochi, ho sostenuto in Giocare per forza e ripetuto qui, è vittima di un imbroglio, di un asservimento truffaldino delle sue legittime aspirazioni liberatorie a rituali il cui unico scopo è l’estorsione di (suo) denaro; il che contrasta con l’esaltazione prometeica, nobile, perfino mistica dell’azzardo in Caillois e altri. Hanno semplicemente torto, questi autori? Sarebbe un errore affermarlo, e l’osservazione fatta sopra ci permette di capire perché. Il gioco del lotto, ho detto nel sesto capitolo, è molto vicino al grado zero di ludicità; se mantenuto a livelli moderati, ha l’unico effetto (e senso) di causare una periodica emorragia pecuniaria e magari saldare alcuni debiti psicologici che una persona ha con sé stessa (o con altri). Può anche essere praticato, però, a livelli eccessivi, e allora il suo senso cambia. Allora, su basi del tutto inconsistenti ma con esiti non per questo meno fatali, una persona può trovarsi alle prese con un gioco che non accetta di farsi rinchiudere entro limiti precisi, il cui ambito invade tutti i microcosmi limitrofi e attenta a quella che è considerata la sua vita vera – la sua sopravvivenza e il suo benessere.  Depurato di ogni altro aspetto, qui il gioco compare nella pura forma di rischio; ed è innegabile che in esistenze ordinate e ripetitive, consuetudinarie e noiose l’affiorare del rischio sia vissuto come il richiamo a una vocazione dimenticata, a un impegno tradito con sé stessi. Chi sperpera le proprie risorse puntando sui numeri del lotto, o della roulette, o sulle combinazioni di una slot, sta dunque talvolta giocando – o meglio, direi, formulando una solenne promessa di un gioco a venire. Ma tutto ciò non riguarda il lotto: il lotto, in quanto tale, non ha un parametro ludico di valore abbastanza cospicuo da poter essere considerato un gioco, così come non si può considerare alto un nano. Con la scusa del lotto, il giocatore sta mettendosi alla prova, rinunciando alla sua sicurezza economica, emotiva e anche familiare e personale, chiamando in causa tutto quanto per lui appariva già deciso, già stabilito, in attesa di un rispettoso necrologio. Siccome questo mettersi alla prova è l’essenza stessa della vita, il fascino di un simile azzardo è comprensibile; purtuttavia voglio insistere che, senza negare il fascino, non siamo in presenza di un vero gioco ma (ripeto) della promessa di un gioco. Ho detto nel quarto capitolo che la semplice trasgressione non costruisce nulla e che far saltare in aria la propria dimora e incamminarsi nella notte può essere il preambolo di un nuovo gioco ma non ne costituisce lo svolgimento. Il puro azzardo va spiegato allo stesso modo: è il ripido crinale su un precipizio che minaccia di inghiottire tutto quel che siamo e suggerisce che potremmo essere altro, radicalmente altro. Ma non sarebbe gioco buttarsi giù per il precipizio e non lo sarebbe rimanere immobili e attoniti sul crinale, nonostante l’intenso brivido che entrambe le esperienze ci darebbero. Sarebbe gioco, invece, familiarizzarsi con il crinale o il precipizio e realizzarvi un inaspettato insediamento, o percorrere con destrezza crescente il crinale fino alla prossima valle. Non compiacersi del brivido e del rischio, insomma, o lasciarsene sopraffare, ma integrarli in quell’equilibrio con atti educativi e costruttivi che Schiller giudicava manifestazione del vero impulso ludico e della vera umanità. (Un discorso analogo, ma che poco ha a che vedere con l’azzardo, si potrebbe fare per molti di quanti giocano al lotto con moderazione; anche loro non giocano al lotto, ma facendo finta di giocare al lotto partecipano a un gioco sociale costituito da messaggi onirici, numerologia superstiziosa e magia metropolitana. Un gioco che diventa un linguaggio per una comunità, e talvolta una sfida per quella comunità «ufficiale» che è basata su rigorose procedure scientifiche, leggi comprovate e soprattutto «autorità competenti»  sentite come estranee e predatrici. Un ulteriore esempio, questo, di come sia necessario chiedersi, per ogni caso di esperienza [presunta] ludica, «A che gioco giochiamo?».) Il fascino e l’esaltazione mistica dell’azzardo sono spesso legati, in autori quali Caillois e Huizinga, all’attribuzione al gioco di una natura sacrale; è opportuno quindi chiarire la mia posizione al riguardo. Sono d’accordo che esista un’analogia formale tra il gioco e il sacro, in quanto entrambi sono definiti da precise barriere (regole): «Formalmente la nozione di delimitazione è assolutamente una e identica per un fine sacro o per un puro gioco» (Homo ludens). E sono d’accordo che ci sia un’altra analogia fra la presenza dell’azzardo (del rischio) nel gioco e nel sacro: L’esito del gioco d’azzardo è di natura una sacra decisione. Lo è ancora laddove un regolamento dice: a parità di voti decide la sorte. Solo in una fase progredita dell’espressione religiosa, sorge la nozione che verità e giustizia si manifestano perché un dio guida la caduta dei dadi o la vittoria nella lotta. Giurisdizione e ordalìe sono radicate insieme in una pratica di decisione propriamente agonale, ottenuta sia con un sorteggio sia con una lotta. La lotta per vittoria o perdita è sacra per se stessa. Quando è animata da concetti formulati di giustizia e di ingiustizia, allora si eleva nella sfera giuridica, e quando è dominata da concetti positivi d’una forza divina, allora si eleva nella sfera della fede. Qualità primaria di tutto questo è però la forma ludica (p. 125). La mia coscienza laica si rifiuta di andare oltre. Uomini e donne giocano in ogni sfera della loro esistenza; in particolare, esistono sacerdoti scherzosi e autori come Gilbert Chesterton che parlano della religione come di una forma suprema di umorismo. Ma esiste anche un sacro che è oppressione e nevrosi, gerarchia e cieca obbedienza, nel quale vedo ben poco di ludico; e c’è un gioco che è sberleffo fatto a Dio (pensate alla morte del Perozzi/Philippe Noiret in Amici miei) e violazione della barriera o del recinto che ci rinchiudono – sacri o meno che siano. Perché il legame fra gioco e sacro possa apparire convincente bisogna appunto insistere sull’azzardo come elemento più autentico del gioco e quindi spingerlo all’estremo, finché diventi l’Azzardo con la A maiuscola di Abramo o di Pascal. E l’azzardo così concepito e vissuto ha un effetto paralizzante, che può essere riscattato solo da un intervento esterno: da un’entità trascendente che ci conferisca arbitrariamente una grazia. Non voglio negare che la grazia e l’abbandono a essa ci salvino (anche se, per me laico, è la grazia che l’un l’altro ci facciamo); ma in questa rarefatta atmosfera oracolare non trovo più nulla della serena intraprendenza, dello sforzo ingegnoso, del piacere insolente e, sì, del brivido presto dominato e a sua volta goduto che tessono per me la trama del gioco.  9. Compagni di gioco Torniamo ancora una volta alla bimba che gioca in una stanza. Il suo gioco incontra resistenze, ho detto, che ne definiscono lo sfondo e ne articolano le regole. Nel modo in cui ho descritto la situazione finora, le resistenze sono offerte da quelli che comunemente denominiamo oggetti: le pareti, la palla, la spillatrice. Immaginiamo però ora di introdurvi un altro essere umano: affianchiamo alla bimba Sara un coetaneo di nome Tommaso e osserviamoli mentre giocano insieme. In un certo senso, Tommaso e la palla presentano gli stessi problemi. Anche di Tommaso bisogna tener conto, come della palla. La palla non vuol saperne di rimanere in equilibrio sul cubo e Tommaso non vuol saperne di dare la palla a Sara, quando l’ha afferrata dopo l’ennesimo scivolone dal cubo. In entrambi i casi, questi inconvenienti possono causare violente frustrazioni (nel caso della palla, come abbiamo visto, Sara potrebbe fare i capricci; con Tommaso potrebbe litigare) oppure con entrambi si può arrivare (magari dopo una successione di capricci e litigi) a una pacifica convivenza. Se e quando ci si arriverà, Tommaso incarnerà un ulteriore insieme di regole cui il gioco deve adeguarsi, un ulteriore insieme di spigoli esistenziali da scansare con abilità, manipolandoli come si fa con gli spigoli fisici di una scatola o con la rotondità della palla. Il comportamento di Tommaso diventerà parte della struttura che Sara imparerà a riconoscere e sulla quale il suo gioco eserciterà pressione, traendone lezioni di grande influsso su giochi futuri. (I maschi sono prepotenti, concluderà per esempio Sara, ma facilmente distratti. Tommaso stringe tanto forte la palla proprio perché io mostro di volerla per me. Basta non farci caso, dedicarmi interamente a qualcos’altro, e la lascerà andare.) Nel quarto capitolo ho citato un passo in cui Piaget giudica impossibile che un bambino si dia regole da solo. Per il tramite di Émile Durkheim, secondo cui la religione nasce dalla pressione del gruppo sull’individuo («Il gruppo [...] non potrebbe imporsi all’individuo senza rivestire l’aureola del sacro e senza provocare il sentimento dell’obbligo morale», Il giudizio morale nel bambino, p. 98), questo giudizio lo porta a collegare una volta di più il gioco e il sacro:  La regola collettiva è dapprima qualche cosa di esterno all’individuo e per conseguenza di sacro, poi a poco a poco si interiorizza ed appare come il libero prodotto del consenso reciproco e della coscienza autonoma. Ora, per ciò che riguarda la pratica, è naturale che al rispetto mistico della legge corrisponda una conoscenza ed un’applicazione ancora rudimentali del loro contenuto, mentre al rispetto razionale e motivato corrisponda una conoscenza ed una pratica dettagliate di ogni regola (pp. 22-23). Una volta di più, non sono d’accordo: il bambino, come ho spiegato, può darsi regole da solo purché queste siano viste come regole con il senno di poi di chi ricostruisce retrospettivamente il suo sviluppo. Eppure, per una via che Piaget non approverebbe, anch’io arriverò a concepire una forma di comunità come condizione, se non proprio necessaria, almeno predominante di ogni gioco, che per me è quanto dire di ogni gioco regolamentato: non tanto la comunità di cui parla lui, costituita spesso da figure autoritarie che decretano le regole («Dal momento in cui un rituale viene imposto ad un bambino da adulti o da ragazzi maggiori per i quali egli ha del rispetto [...] oppure [...] da quando un rituale risulta dalla collaborazione di due bambini, esso acquista per la coscienza del soggetto un carattere nuovo, che è precisamente quello della regola», pp. 27-28), quanto piuttosto la comunità del suo teatro interiore. L’itinerario cui ho appena accennato includerà questo capitolo e il successivo, e il suo primo passo consiste nel notare che le situazioni descritte finora non equivalgono a un giocare insieme. L’espressione «Sara gioca con Tommaso», e in generale «X gioca con Y», può infatti essere intesa in due sensi piuttosto diversi. Quello che ho descritto è il senso in cui Sara gioca con Tommaso come gioca con la palla, o un adulto che disponesse di grande potere (e si compiacesse di averlo, e di darne prova) potrebbe giocare con i suoi simili come se fossero pedine della dama o birilli del bowling: il «con» in tali casi introduce un complemento di mezzo. È anche possibile, e auspicabile (vedremo perché), che il «con» introduca un complemento di compagnia: che Sara giochi con Tommaso, o un adulto meno squallido di quello immaginato prima giochi con i suoi simili, nel senso che Tommaso o gli altri adulti siano non elementi o pezzi ma compagni del gioco. Che cosa succede quando si manifesta questa seconda possibilità? Per capirlo, stabiliamo che un gioco sia costituito da una serie di sfide rivolte all’ambiente (inteso sempre come ambiente esistenziale, non soltanto fisico, quindi inclusivo di abitudini e aspettative), ciascuna produttrice di una figura possibile ma di solito non realizzata in quell’ambiente. Il letto è fatto per dormirci sopra e io (con grande fatica) mi ci infilo sotto; l’interruttore è fatto per tenere la luce accesa o spenta e io lo manovro in continuazione causando un costante lampeggiare (e, a lungo andare, fulminando la lampadina); il  tavolinetto è fatto per appoggiarci bicchieri e tazzine e io lo uso come scalino per arrampicarmi sulla credenza. Quando un gioco è praticato insieme da due o più compagni, quando cioè due o più persone presenti al gioco vi sono presenti come giocatori, non come pezzi del gioco (o come spettatori), ciascuno contribuisce ad accrescere il repertorio di sfide di cui il gioco è costituito. Le sfide anzi si accavallano le une sulle altre: se Tommaso usa il tavolinetto per arrampicarsi sulla credenza, Sara ci metterà sopra un paio di grossi libri perché si riesca a salire più in alto; se Sara s’infila sotto il letto, Tommaso vi trascinerà anche palle e cubi, e tenterà di replicarvi tutte le evoluzioni che riuscivano più facili all’aperto. Con tanta inventiva a disposizione, capiterà che qualche sfida sconvolga le resistenze accettate come regole dai giocatori e cambi la natura del gioco. D’accordo che la porta è chiusa e le pareti non retrocedono; ma, guarda un po’, se spingi questa levetta la finestra si apre e tuffandosi oltre il davanzale si esce in giardino! Ho detto che «costruire figure» è un’espressione metaforica; talvolta però il gioco costruisce in senso letterale. Seguiamo uno di questi episodi per un attimo, perché si tratta di un tipo di costruzione che in seguito acquisterà notevole importanza. Spostiamo Sara e Tommaso (più grandicelli) su una spiaggia e osserviamoli mentre edificano un castello di sabbia. L’idea generale è semplice: si scava, con le mani o con la paletta, e si usa il secchiello pieno di sabbia umida per innalzare torri o il rastrello per raccogliere sabbia a forma di mura. Se un solo bambino fosse responsabile dell’operazione, lavorerebbe eccitato per un po’ e quindi forse rimarrebbe a corto di idee e si fermerebbe, contento di rimirare il risultato; in due, invece... Uno pensa che con il secchiello si può raccogliere acqua dal mare e circondare il castello con un fossato; l’altra s’industria immediatamente a metterci sopra un rametto a mo’ di ponte, e il primo allora va in cerca di una corda perché il ponte diventi levatoio. Una si serve di una pietra per rappresentare il portone e l’altro ricopre il palazzo e le mura di finestre e feritoie, e allora la prima fa sporgere armi dalle feritoie, puntandole contro il nemico. Ogni nuova idea che l’uno offre cambia il contesto in cui il gioco si muove, e nel contesto così mutato «viene naturale» all’altra un’altra idea, che a sua volta cambia il contesto aprendosi a ulteriori avventure, in una rincorsa ininterrotta di coraggio e creatività. Un gioco coinvolge un certo numero di oggetti (talvolta puramente mentali, o ideali), che il gioco usa entro limiti accettati come sue regole, e ha almeno un soggetto che conduce la manipolazione: ha almeno un giocatore. Gli oggetti possono essere inanimati, animati o anche umani; il soggetto sembra  dover essere animato (cani e gatti giocano, con gomitoli di filo, con topi o con i loro padroni; al termine del libro suggerirò – già vi avevo accennato – che la restrizione a soggetti animati, e forse la distinzione stessa fra enti animati e non, sia da mettere in discussione). Un gioco che abbia un solo soggetto sarebbe un solitario, e nel prossimo capitolo mostrerò come gli autentici solitari siano rarissime eccezioni; ora m’interessa elaborare un altro punto, illustrato dalla discussione condotta qui sopra. Un gioco che non sia un solitario risponde infinitamente meglio alla sua natura di gioco, così come due specchi paralleli dànno luogo a infinite riflessioni, perché moltiplica le opportunità di trasgressione ed esplorazione, di apprendimento e relativo piacere, permettendo a ognuno dei partecipanti di trarre spunto dal contributo degli altri per mosse più libere e devianti di quanto lui mai sarebbe riuscito a scoprire da solo. C’è però un risvolto meno edificante della faccenda: se è vero che un gioco giocato insieme è più un gioco di uno giocato in solitudine allora è anche vero che un gioco giocato insieme è più pericoloso di un solitario. Quando prima ho parlato dei due bimbi che, riunendo le loro forze, riescono a spalancare la finestra, molti avranno rabbrividito e io mi sono affrettato a rassicurarli facendo capire che si trattava di una finestra al pianterreno. Ma il problema era solo rimandato, non risolto, perché è chiaro che i bambini di un altro esempio (come alcuni bambini reali, diciamo il figlio di Eric Clapton) potrebbero fare la stessa scoperta ai piani alti di un grattacielo, con esiti disastrosi. Il rischio continua, e anzi si accentua, fra gli adulti, soprattutto fra i giovani adulti, che sovente si trovano spronati dall’essere in gruppo a mosse devianti che ne mettono a repentaglio l’incolumità (o la salute altrui) – e che non compirebbero isolati. Ogni genitore avrà considerato eventualità del genere e molti, purtroppo, hanno dovuto affrontare non il timore di un’astratta considerazione ma il dolore di una concreta tragedia, non potendo capacitarsi di come il loro «bravo ragazzo» (o brava ragazza) avesse potuto lasciarsi trascinare dalle «cattive compagnie» a comportamenti distruttivi o criminali, e per lui (o lei) del tutto anomali, addirittura irriconoscibili come suoi. Non intendo certo negare l’intensità o la validità di tali preoccupazioni e sofferenze (sono un genitore anch’io), ma insisto sulle tre tesi seguenti: (a) Le varie caratteristiche del gioco ne sono componenti organiche e vitali, quindi il gioco va preso (o rifiutato) in blocco, tutto insieme. Esplorazione e apprendimento non possono essere disgiunti da violazione e rischio (per quanto il rischio possa essere ridotto giocando «per procura»). (b) Il gioco è prezioso per la nostra forma di vita (direi anzi per la vita in quanto tale), ne è una componente irrinunciabile: meno gioco vuol dire meno umanità.  (c) Il gioco è tanto più gioco se giocato insieme, quindi (in ossequio alla formula aristotelica che fa dell’uomo un animale sociale) siamo tanto più umani quanto più giochiamo con altri (dove il «con» introduce un complemento di compagnia). Come gestire allora i pericoli e i timori di cui ho detto? La mia risposta si applica in generale a tutti i rischi in cui il gioco (anche solitario) incorre e a tutti i mali che può causare: per proteggersene è opportuno non meno ma più gioco, e non meno ma più gioco fatto insieme. Un ragazzo che sia stato troppo a lungo «bravo» e poco avvezzo alla compagnia e all’esempio di altri sarà facilmente travolto dalla prima circostanza in cui si ritrovi in un gruppo che agisca in modo trasgressivo ed eccitante: per prepararlo a vivere questa circostanza con un minimo di ragionevolezza nulla funziona meglio di una socializzazione ludica precoce e continua, che lo metta in grado di riconoscere gli straordinari vantaggi ma anche le trappole di una reazione a catena che può tanto riscaldare le nostre emozioni e il nostro ingegno quanto bruciarli. L’unica cosa che mi ha dato fiducia, quando ho pensato ai miei figli in tali circostanze (e in mia assenza) è stato il fatto di sapere che in circostanze analoghe (pur se meno estreme) c’erano già stati, in tempi in cui potevo ancora evitarne le conseguenze più gravi. Il gioco dunque, e in particolare il gioco in compagnia, è, direbbe Huizinga, «innegabile» (p. 20). Stabilita questa tesi, è il momento di affrontare un aspetto del gioco che finora ho tralasciato e che per molti ne è invece (come per altri l’azzardo) caratteristica essenziale: il fatto che esso si presenti come competizione, come scontro, come lotta. In Giocare per forza ho parlato di teoria dei giochi, come uno dei vari modi in cui il gioco è violato e la sua natura distorta. La teoria dei giochi ha avuto origine definendo «gioco» un’attività competitiva in cui si affrontano avversari con l’obiettivo di batterli – di vincere quel che loro perdono (la teoria lo chiama un «gioco a somma zero») – e su questa base ha conosciuto fortunate (e sciagurate) applicazioni in politica e in economia. (Solo più recentemente ha cominciato a studiare anche i giochi cooperativi, in cui i giocatori vincono insieme.) In modo analogo, Piaget afferma che i giochi regolamentati (i quali, come abbiamo visto, non esauriscono per lui tutti i giochi) sono necessariamente competitivi e hanno necessariamente come obiettivo la sconfitta di uno o più avversari: i giochi di regole sono giochi di combinazioni sensorio-motrici [...] o intellettuali [...] con competizione degli individui (senza di che la regola sarebbe inutile) e regolati sia da un codice trasmesso di generazione in generazione sia da accordi momentanei (La formazione del simbolo nel bambino, p. 209; corsivo aggiunto). il gioco di regole [...] è ancora soddisfazione sensorio-motrice o intellettuale e, inoltre, tende alla vittoria  dell’individuo sugli altri (p. 247). È un sintomo rivelatore del diverso atteggiamento espresso dalla mia teoria che le nozioni di avversario, di competizione (o combattimento) e di vittoria non vi abbiano una dignità autonoma o un senso unitario: in esse s’incontra ambiguamente una pluralità di esperienze distinte, fra cui è bene non fare confusione. Per capirci, supponiamo che io giochi a tennis con qualcuno. Posso giocarci come con uno spigolo o una parete: dopo un certo numero di tentativi ed errori, capirò come avere la meglio e ripeterò religiosamente (a proposito del sacro, e di quanto spesso non sia ludico) le stesse mosse – quelle che hanno dimostrato di «funzionare». Smetterò di esplorare, di trasgredire, di correre rischi e quindi di imparare; il mio non sarà più un gioco. Posso anche, però, entrare in un dialogo con l’altro giocatore in cui ciascuno inciti l’altro a mosse ignote e avventate, per vedere che cosa càpita, e prima o poi l’ignoto diventerà familiare e ciò che era avventato verrà eseguito con maestria; starò allora giocando con un compagno e traendone tutta la ricchezza di stimoli, l’inventiva e la soddisfazione che sempre derivano dal giocare insieme. Oppure posso fare l’una o l’altra cosa per ottenere poi (c’è di solito uno scarto temporale, in tal caso: il gioco è stato piegato alla logica di una prudente e oculata gestione delle proprie risorse) un premio in denaro o una fama di ottimo tennista; di conseguenza, se pure esploro e mi metto alla prova, corro rischi e imparo, quello non è un gioco perché ha un fine strumentale ed esterno (oppure è un gioco solo in quanto riesce ad affrancarsi da questo fine esterno e a liberarsi, magari inconsapevolmente, dalla logica della prudenza). La percezione del mio «avversario», in questi diversi casi, sarà molto diversa, e sarà molto diverso che cosa voglia dire «combattere» o «vincere». Nel primo caso si combatterà e si vincerà letteralmente: si affronterà un altro e lo si ridurrà in proprio potere, perpetuando i sinistri riti della violenza (più o meno simbolica). Nel secondo caso si combatterà per fare un passo avanti nel gioco e si vincerà se si riuscirà a farlo; potrei dire che si combatterà con (e si vincerà su) sé stessi, salvo che, come appunto spiegherò nel prossimo capitolo, si è raramente soli quando si gioca, quindi preferisco dire che i due giocatori combatteranno e vinceranno insieme superando lo stadio che il gioco aveva prima raggiunto per ciascuno di loro. Nel terzo caso questa opportunità di crescita, e il contributo che le dànno la presenza e l’azione del compagno, saranno a loro volta asserviti alla volgarità e alla miseria dell’esercizio del potere sull’altro – che può non essere il compagno stesso, il quale può fungere  invece da complice (da allenatore, per esempio). Non c’è nulla di oggettivo o di neutrale, in conclusione, nel chiedersi chi sia il mio avversario in un gioco o chi alla fine abbia vinto. Se queste domande sono intese nel modo più comune, e sancito dalla più tradizionale teoria dei giochi, ciò che ne traspare è un’istanza maligna che nega al gioco la sua libertà, il suo abbandono e anche il suo specifico piacere (che non è quello di abbattere e umiliare un altro giocatore). Dobbiamo cogliere l’ambiguità e – qui davvero, e nel senso più ovvio – combattere perché il gioco non ne esca con le ossa rotte.  10. Azione! Il gioco che più appassiona i bambini è quello di impersonare chi li circonda, soprattutto chi li incuriosisce o li attrae (in senso positivo o negativo). Talvolta mimano attività in cui hanno visto occupati i protagonisti del loro universo familiare – genitori, zii, fratelli maggiori. Li vediamo allora affaccendarsi intorno a finti fornelli, sgridare una bambola che fa le bizze, distendersi su una sedia abbandonati alle cure di un «parrucchiere»; la mia figlia più piccola, quando aveva da poco imparato a parlare, riempiva quaderni di geroglifici incomprensibili e, a chi le chiedesse che cosa stava facendo, rispondeva con sussiego «Faccio i compiti». Talaltra ricalcano con imbarazzante fedeltà gli atteggiamenti, le espressioni, i manierismi di un altro: li vedi corrugare la fronte, spingere avanti il petto, usare parole e frasi idiosincratiche in un modo così sfacciato ed estremo (proprio per la sua innocenza) che non può non sembrare caricaturale e invitare al sorriso (ma vedi più avanti). Il tutto culmina in manifestazioni molto appariscenti: le mascherate con lenzuola e tovaglie davanti allo specchio, le facce dipinte con colori di guerra, le vite alternative vissute con amici, parenti e spesso figli immaginari. Le feste commerciali rivolte a pratiche analoghe e destinate a rinvigorire periodi di stanca del mercato – il vecchio carnevale, il più recente Halloween – non sono che citazioni esauste di tanta passione, sensibilità e allegria. Gli adulti non sono da meno. L’umanità, ho sostenuto altrove, non è che una forma superiore (cioè più raffinata, più articolata) di scimmiottamento: tutti riceviamo frammenti di personalità da amici del cuore, sconosciuti intravisti una volta sul tram, artisti di successo o anche individui odiosi e ributtanti ma tali da imporsi alla nostra attenzione, sia pure per un minuto. E niente ci dà più piacere dell’inscenarli in una pantomima: complici una buona bevuta o una situazione di alto tenore emotivo, imitiamo con gusto, con abilità, con estrema attenzione ai dettagli. Il momento migliore di Novak Djokovic, secondo me, non è stato uno dei suoi servizi fulminanti o dei suoi incredibili recuperi difensivi, e neppure uno dei tanti trionfi nello Slam o nella Coppa Davis: si è verificato in uno dei primi turni di Flushing Meadows, qualche  anno fa, quando ancora aveva vinto poco e a un tratto, prima di una partita, dilettò il pubblico copiando con sorprendente precisione i tic in fase di battuta di Rafael Nadal e Maria Sharapova. Il piacere che ne provarono gli spettatori era analogo a quello di cui ho parlato nel settimo capitolo, esaminando il rapporto fra un artista e il suo pubblico: l’artista crea e noi ne riconosciamo l’azione perché abbiamo in noi la capacità (magari latente) di vedere o ascoltare quel che lui vede o ascolta (e quindi mostra); l’attore «entra» in un personaggio e noi ne godiamo perché comprendiamo che cosa voglia dire entrarci. Nell’antica Atene la naturale teatralità dell’essere umano era non solo praticata e apprezzata: in un mondo privo di scritture sacre in cui sentenze e parabole erano raccolte dai testi poetici, drammaturghi e commediografi dominavano la vita culturale. Da ciò Platone si dissocia con severità nella Repubblica, bandendo ogni rappresentazione teatrale dal suo Stato perfetto. Anzi, non proprio ogni rappresentazione: il filosofo ha una sua teoria in proposito, e ragionarne ci aiuterà a proseguire nel nostro cammino. La teoria si compone di due tesi principali, una descrittiva e una normativa. In primo luogo, Platone sostiene che ogni recita ha delle conseguenze sul carattere di un individuo: assumere un ruolo significa identificarsi, per quanto parzialmente e temporaneamente, con quel ruolo, e l’identificazione lascerà tracce nella nostra identità – la contaminerà con le caratteristiche del personaggio di cui ci siamo presi carico. Da allora in avanti, volenti o nolenti, non saremo più soltanto noi stessi: avremo incorporato un estraneo che continuerà ad abitarci, anche se forse in sordina e in disparte. Questo estraneo potrebbe essere un criminale o un mostro: pensiamo a Bruno Ganz che recita la parte di Adolf Hitler nel film La caduta, oppure a Medea o Riccardo III. Ma potrebbe essere Gandhi interpretato da Ben Kingsley, o Atticus Finch interpretato da Gregory Peck, o semplicemente una brava persona come il Mr. Smith di James Stewart che va a Washington a dire la sua. Qualcuno vorrebbe fare delle differenze fra questi casi: può essere pericoloso imitare un malvagio, direbbe, ma non c’è nulla di preoccupante nel farlo con individui normali, o addirittura encomiabili. Qui interviene la seconda tesi di Platone, quella normativa, che stigmatizza non solo la cattiveria ma ogni forma di diversità: ciascuno dei cittadini della repubblica è «tagliato» per uno specifico compito, cui deve assolvere con la pazienza di una formichina, e qualunque attività possa distrarlo da tanta devozione va rifuggita come la peste. Bando a ogni passione estranea, dunque; bando a ogni musica ritmata e suggestiva; e bando soprattutto all’infezione che il contatto con ogni altra  indole, con ogni altro repertorio di mosse e di abitudini potrebbe causare in un individuo così letteralmente «tutto d’un pezzo». Se pure si trovasse su un palco, davanti a un pubblico, il nostro eroe non dovrebbe che recitare monologicamente, monodicamente e (diciamolo!) monotonamente sé stesso, per confermare e rafforzare quella coerenza inesorabile del suo io che sarebbe invece attenuata e imbastardita dall’affiorare di impulsi e gesti alieni (e queste sono le uniche rappresentazioni teatrali ammesse da Platone nella sua repubblica). Ho già detto che in questo libro eviterò perlopiù i discorsi normativi. Sono in totale disaccordo con i valori enunciati da Platone, ma caliamoci sopra un velo e limitiamoci a una considerazione. La repubblica ideale sarà forse di casa nel mondo della realtà più autentica, quella illuminata dal sole che i prigionieri della caverna non vedono; nella caverna, però (dove i prigionieri, varrà la pena di notare, sono continuamente testimoni di uno spettacolo, anzi di uno spettacolo fatto di ombre, un vero e proprio antesignano del cinema), domina non quella realtà, con tanto di noiosa conformità alle proprie tendenze e funzioni e «sano» orrore per ogni tentazione ad allargarne l’ambito, ma invece l’«apparenza» difettosa e biasimevole di cui Platone ci ha appena dato una brillante descrizione. Ciascuno di noi (nel mondo terreno) non fa che scimmiottare e scopiazzare il suo prossimo, e l’operazione (Platone insegna) non è innocua: nel compierla, ciascuno di noi diventa un po’ il suo prossimo, lo incarna, fa del suo corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo. È una delicata questione metafisica se, quando un attore recita un personaggio, faccia appello a qualcosa che gli appartiene o si adegui a un modello esterno; anche a tale riguardo ho le mie idee e le passerò qui sotto silenzio. Perché in ogni caso la pratica di un attore e di tutti noi in quanto attori, in quanto osservatori e imitatori della molteplicità, umana e non, che abbiamo intorno, è sempre la stessa: che il germe di un personaggio ci ingravidi a sorpresa con una sua forma che possiamo solo accogliere passivamente, come avrebbe detto Pirandello, o giaccia invece sepolto negli abissi della nostra psiche, come avrebbe detto Stanislavskij, l’unico modo per far crescere tale germe, per attualizzarne la possibilità, per farlo venire al mondo, consiste nel prestare attenzione a come si è sviluppato ed è maturato in altri, nell’emulare questi altri passo passo, nel rifletterne movenze ed espressioni – forse inconsapevolmente ma efficacemente. E magari facendo loro violenza, perché riduciamo la loro complessità a un ritratto in filigrana, a una singola voce che arricchisce il nostro coro, o perché perdiamo di vista il  loro significato schiacciandolo su uno schema puramente motorio. Come farebbe un bambino: il bambino che rimane dentro di noi e lì non cessa di godere del suo gioco più intenso e appassionante. (Un gioco che, sia detto fra parentesi, spesso finisce per indispettire quel che c’è di più platonico negli adulti: quando un bambino fa il verso a qualcuno, è facile passare dal divertimento e dalla tenerezza all’irritazione e al rimprovero.) La recente scoperta dei neuroni specchio ha dato dignità scientifica a questa intuizione: gli esseri umani si riflettono l’uno nell’altro e si capiscono perché vivono sia pur vicariamente, sia pure in modo traslato le medesime esperienze. Io so quel che fai perché mentre lo fai in certa misura (come preparazione all’atto, non come atto vero e proprio, e comunque in senso appunto solo motorio) lo faccio anch’io: mi atteggio e mi dispongo come vedo fare a te, e con tali atteggiamenti e disposizioni sono in grado di seguirti nel tuo percorso. La prossima volta forse, in tua assenza, saprò inoltrarmici da solo. Incontriamo così di nuovo la biologia e di nuovo stupiamo dell’avvedutezza con cui un piacere tanto vivo è associato a una qualità di grande importanza evolutiva. L’essere umano (ci ricorda ancora Aristotele) è un animale sociale: non si realizza, non diventa quel che dovrebbe essere se non in comunità con altri esseri umani, traendone esempio e stimolo per foggiare il suo comportamento. La microfisica dell’umanità, dunque, l’atto elementare che, costantemente ripetuto e ricombinato in mille forme con sé stesso, ci rende umani, è il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Di alcuni di questi atti saremo intimamente consapevoli: guarderemo ai loro archetipi con venerazione e sentiremo un profondo impegno nei loro confronti; ne riceveremo ispirazione e indimenticabili modelli di vita e di saggezza. Ma casi tanto sublimi non avrebbero luogo (né lo avrebbero le mode che con stanca regolarità uniformano un’intera generazione a uno stereotipo) senza l’umile sottobosco del rispecchiamento quotidiano: di quegli impercettibili aggrottamenti di sopracciglia, torsioni del naso, accenti peregrini con cui ci riscopriamo bambini impertinenti. Quel nostro aspetto così serio e edificante ci è possibile perché da piccoli abbiamo giocato e da grandi abbiamo continuato, spesso nostro malgrado, a giocare, a impersonarci l’un l’altro. A impersonare anche i malvagi, perché anche da loro c’è da apprendere, fosse solo per rimanerne alla larga: nel dramma della vita, insegna Plotino, servono anche i cattivi caratteri, per dare la massima completezza all’insieme. C’è di più. Quello dell’imitazione non è solo uno dei tanti giochi che, inaugurati con aspetto dimesso nell’infanzia, sanno crescere con l’età fino a  raggiungere splendide vette. È la base che sottende tutti i giochi, il materiale di cui ogni altro gioco si nutre. Per capirlo, torniamo sui nostri passi e riprendiamo in esame un contrasto che avevo segnalato nel capitolo precedente (suggerendo che potesse risultare poco significativo): quello tra giochi solitari e giochi fatti in compagnia. Chiediamoci: esistono davvero, i solitari? Tanto per cominciare, un bambino non giocherebbe affatto se non fosse coinvolto in un ambiente emotivo in cui si sente (comunque stiano concretamente le cose) in compagnia di qualcuno, sotto gli occhi (benevoli) di qualcuno. «Il “bambino in carenza”» dice Winnicott «è notoriamente irrequieto ed incapace di giocare» (p. 162). Questo perché «il gioco implica fiducia e appartiene allo spazio potenziale tra (quelli che erano in origine) il bambino e la figura materna, con il bambino in uno stato di dipendenza quasi assoluta e la funzione adattativa della figura materna presa dal bambino per scontata» (p. 90; traduzione modificata). In termini epigrammatici, «il bambino è solo soltanto in presenza di qualcuno» (p. 154). Che dire allora dell’adulto? Osserviamo una situazione in cui io stesso sono occupato in un gioco senza altri partecipanti o testimoni, magari in uno di quei giochi di carte che si chiamano proprio «solitari», e poniamoci riguardo a questo particolare episodio la stessa domanda formulata sopra: sono davvero solo, mentre gioco? Posso immaginare circostanze in cui la risposta sia «Sì», ma si tratta di circostanze aberranti, eccezionali. Se giocassi automaticamente, pensando ad altro, potrebbe capitarmi di fare una mossa a caso e poi, ritornato improvvisamente in me stesso, rendermi conto che la mossa è vantaggiosa e acquisirla come strategia consapevole, perfino abituale. Oppure la casualità potrebbe essere frutto di disperazione: le ho provate tutte e niente funziona, quindi provo una mossa assurda, che assurdamente funziona. Circostanze del genere non sono da escludere: anche un comportamento individuale obbedisce alle leggi dell’evoluzione, dunque non è escluso che in esso si verifichino mutazioni stocastiche. Ma non è così che il mio comportamento si evolve nella maggior parte dei casi. Quasi sempre mentre gioco «da solo», prima di fare una mossa, io esploro più o meno sistematicamente e consciamente una serie di alternative, e ne traccio almeno per un po’ le conseguenze, cioè mi colloco, colloco svariati «me stesso», in un certo numero di mondi possibili – ciascuno contraddistinto da una particolare mossa – e confrontando fra loro queste diverse eventualità decido infine quale sia la mossa da fare, o il mondo possibile da abitare davvero. I vari me stesso coinvolti nel processo di deliberazione appena descritto avranno caratteri diversi: qualcuno sarà più  audace e qualcun altro più cauto, ci sarà chi ama le carte rosse e chi le nere, chi non si dà pace se non saltano fuori presto i re e chi è disposto a lasciarli nel mazzo fino all’ultimo; e a loro volta tutti questi diversi caratteri li avrò mutuati, in generale, da persone che ho incontrato, da cui ho tratto lezioni e le cui lezioni adatto alla situazione in cui mi trovo, selezionando quelle che mi sembrano più opportune. Insomma, se conduco il gioco in quel modo specifico è perché altri, le cui mosse e strategie ho incorporato, stanno giocando con me (complemento di compagnia) e aiutandomi a vedere la situazione in tanti modi diversi – a metterla appunto in gioco. La morale di questo discorso è che gli autentici solitari sono, come già accennavo, rarissimi. Succede assai raramente che quello spostamento di prospettiva, quell’esplorazione di terreni non altrimenti battuti, quella violazione di quanto è noto e consueto che costituiscono il gioco mi arrivino dal nulla, non abbiano a fondamento che un mio cieco arbitrio. Quel che succede più di frequente, invece, è che gli apparenti solitari (e le apparenti «idee originali» con cui dò un contributo «creativo» a un gioco fatto con altri) siano giochi fatti in compagnia di persone fisicamente assenti ma ben presenti nella mia pratica. E come ottengono la loro presenza tali persone assenti? Ho usato la parola «incorporato» poco fa, applicando la stessa metafora di quando prima ho parlato del fare del nostro «corpo un palcoscenico su cui l’altro può giocare il suo ruolo» (e prima ancora ho espresso il rifiuto platonico di questa forma di metabolizzazione del nostro prossimo): la presenza degli assenti si ottiene imitandoli – scimmiottandoli oppure atteggiandosi e disponendosi come loro secondo il modello dei neuroni specchio. Fatta salva la sporadica occorrenza di mosse devianti e ludiche che emergano dal puro caso, l’imitazione è la madre di tutti i giochi: ogni altro gioco si svolge su una scena che il gioco dell’imitazione ha popolato di personaggi e storie. Ho sempre trovato affascinante il fatto che la battuta che dà inizio a ogni ripresa cinematografica sia «Azione!». A prima vista, la battuta non ha senso: quel che la segue non è un’azione; al massimo la rappresenta; coloro che vi «agiscono» non stanno facendo quel che pretendono di fare, e tutti lo sanno – loro stessi, il regista, il pubblico. Perché «Azione!», allora? Ci saranno senz’altro motivi contingenti che hanno dato origine alla battuta, ma non m’interessano; m’interessa invece che sia rimasta, perché se è rimasta il motivo è, ritengo, che c’è in essa una profonda, illuminante giustizia. Nella rivoluzione concettuale proposta nel quinto e sesto capitolo la vita umana era intesa come un insieme di giochi più o meno regolamentati, più o meno  vincolati a parametri fissi, e per converso più o meno espressione di libertà; il gioco era la norma e le attività solitamente giudicate serie erano giochi ristretti e limitati. Qui possiamo arrivare alla medesima radicale costellazione di idee per una strada diversa (in un labirinto, strade diverse ci portano spesso a un’identica meta). Che cos’è un’azione? È corsa sul posto, routine, acquiescenza a ogni abitudine e aspettativa? È ripetizione del già agito? Forse, ma solo nel senso della straordinaria intuizione kierkegaardiana per cui l’unica vera ripetizione sarebbe una novità, e le stesse cose non sono mai le stesse cose. Nel comune senso della parola, invece, nella comune ideologia che informa il senso della parola, una ripetizione non è un’azione. Il mio computer non agisce quando applica alla lettera (ripetutamente) le istruzioni che gli ho dato: tutto quel che c’era da fare l’hanno fatto le istruzioni, il computer non «fa» che confermarle. Solo una mossa che cambia qualcosa, che stupisce, che scombina le carte è un’azione, solo allora siamo attivi. Quindi solo il parametro ludico del nostro comportamento lo costituisce come azione, nella misura in cui si manifesta. Solo il gioco è azione. Ma è nella teatralità, ho detto, che il gioco trova il suo humus, il terreno fertile sul quale crescere, e una produzione cinematografica ha il pregio di mostrarci questa teatralità ridotta a scene elementari, a quella che ho chiamato la microfisica dell’umanità, il modesto miracolo dell’imitazione di un esempio. Niente più di tale costante e ripetuto (!) miracolo merita di essere annunciato con «Azione!».  11. Giochi di parole A questo punto del nostro percorso ci troviamo davanti a un abisso, non meno impervio e minaccioso di quello che nel canto XVII dell’Inferno separa Dante da Malebolge, e che il poeta e la sua guida riescono a superare solo aggrappandosi a Gerione, mostruosa e malevola bestia. Abbiamo compiuto un’accurata perlustrazione di tutta l’ampia e variegata area dei giochi fisici, quelli che coinvolgono i nostri organi e sensi corporei e ci permettono di percepire altri oggetti nello spazio e di interagire con essi. Abbiamo scoperto nel gioco di una bimba elementi con un ruolo identico a quello delle regole del calcio; abbiamo esplorato il gioco fatto insieme, nello stesso modo, da bambini e da adulti; abbiamo perfino catturato nella nostra rete le arti figurative, plastiche e musicali come giochi sensoriali. Rimane però il fatto, sembra, che il nostro corpo non esaurisce il nostro essere: che quest’ultimo contiene anche, molti direbbero, componenti spirituali che non occupano spazio, che palesano anzi una radicale alterità nei confronti di tutto ciò che occupa spazio. A una di tali componenti ho accennato nel secondo capitolo, quando ho paragonato il modo in cui la bimba apprende qualcosa dal suo gioco al procedere della scienza. Chiaramente quello della scienza è un procedere metaforico, un metaforico «inoltrarsi in un terreno ignoto»: la scienza non si muove (per quanto gli scienziati lo facciano) e non può letteralmente procedere o inoltrarsi. Lo stesso vale per la poesia, la filosofia e tutte le altre discipline di natura verbale o mentale; se pure riuscissimo a dimostrare che queste discipline hanno un carattere ludico, come potrebbe esserci più di un’analogia fra il loro carattere ludico e quello, diciamo, del tennis? Come potrei continuare a insistere che il tennis e il «gioco» dell’Etica spinoziana sono (sia pur dialetticamente) la stessa cosa? Qui sono in ballo (in gioco) due cose diverse, ci ha insegnato Cartesio: la nostra anima è una cosa distinta dal nostro corpo, dunque gioca ad altri giochi. Il meglio che io possa fare, si concluderà, è trascurare questa differenza ed evidenziare alcuni tratti che tali diversi giochi hanno in comune: tornare cioè precipitosamente a una visione analitica del gioco che lo riduca a un’essenza astratta e abbandoni al suo destino tutta la  zavorra – in particolare la zavorra fisica – che finora mi sono trascinato dietro. Non sono d’accordo. Ai giochi verbali e mentali voglio arrivare come Dante arriva in Malebolge, con tutto il mio corpo e ancora vivo (cioè giocoso), non facendomi sostituire da un ectoplasma. E, se ciò cui intendo aggrapparmi per eseguire questo salto mortale non è una bestia mostruosa, è però un’inversione che qualcuno giudicherà altrettanto mostruosa nell’ordine logico in cui solitamente (e ingannevolmente) vengono disposti i termini della questione. Qui sopra ho accennato un po’ di corsa a «discipline di natura verbale o mentale»; ora però è bene rendersi conto che verbale non è lo stesso che mentale – uno si riferisce a parole e l’altro a idee o concetti – quindi se verbale viene associato a mentale si tratta d’intendersi su come funziona l’associazione. Più precisamente, si tratta di decidere se verbale vada spiegato partendo da mentale, cioè mentale sia la base, il fondamento e verbale quel che gli si associa, che su tale fondamento si regge, o se invece valga l’inverso. Chi accetti la radicale distinzione fra anima e corpo sceglierà il primo corno del dilemma. Per esempio, un filosofo del linguaggio come Geach (che, non a caso, ha scritto anche su Cartesio) ci dirà che, se pure una scimmia o il vento nel deserto emettessero un suono del tutto indistinguibile dalla parola «albero», quella non sarebbe un’occorrenza della parola «albero» perché ciò che rende «albero» una parola non è il suo suono ma il suo significato, e solo una mente (che, presumibilmente, né la scimmia né il vento hanno) ha accesso a quelle cose astratte, ideali, non spaziali, spirituali insomma, che sono i significati. Quasi un secolo prima di Geach, il fondatore della linguistica contemporanea Ferdinand de Saussure aveva addirittura stabilito che il rapporto di significazione valesse fra due oggetti mentali – la rappresentazione mentale del suono «albero» (non il suono stesso) e la rappresentazione mentale di un albero – trasformando di fatto la linguistica in una branca della psicologia e il linguaggio in qualcosa che compete solo a enti che abbiano una psiche (un’anima, appunto) e solo in quanto tali enti esercitino le loro funzioni psichiche (non in quanto abbiano un corpo). La drastica scissione che cartesianamente attraversa ciascuno di noi viene così esaltata a livello cosmico: tutto l’essere, non solo il mio, è radicalmente diviso fra uno spirito che parla perché è consapevole del significato di quel che dice e una natura che è irreparabilmente muta – anche se emette suoni, e quale che sia la ricchezza e complessità di tali suoni, non vuole dire nulla. Se in principio era il Verbo, non si trattava del Verbo in quanto lo sentono le mie orecchie, ma in quanto lo capisce la mia mente. Io scelgo la direzione inversa: è la mente a reggersi sul linguaggio e non c’è differenza sostanziale, sebbene certo ci siano molte differenze specifiche, tra il linguaggio di un essere umano e quello di una scimmia o del vento. Ci vorrà una buona dose di testardaggine per rimanere attaccati a questa mostruosità, ma confido che facendolo sarò in grado di superare il baratro che incombe e traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità. Nel resto di questo capitolo mi occuperò dunque di giochi verbali e nel prossimo di quelli mentali. Cominciamo definendo con esattezza il problema. La teoria tradizionale del linguaggio, cui io mi oppongo e di cui Geach e de Saussure sono autorevoli rappresentanti, afferma quanto segue: Il linguaggio è un mezzo di comunicazione fra menti. Quando io parlo con un interlocutore A, ho un certo contenuto B (un’idea, un desiderio, un giudizio) nella mia mente, lo codifico in un linguaggio che suppongo A conosca ed emetto dei suoni che in quel linguaggio significano B; A recepisce i suoni, li decodifica e acquisisce il contenuto B, che d’ora in poi avremo in comune. La comunicazione ha avuto successo e il linguaggio ne è stato prezioso ma in fondo inessenziale strumento. Se io so che sono le cinque meno un quarto e ti dico «Sono le cinque meno un quarto», anche tu verrai a sapere che sono le cinque meno un quarto; ma è un peccato che per informarti di che ora sia io debba scegliere un percorso così tortuoso. Sarebbe tanto più semplice se tu potessi leggere nella mia mente, se la comunicazione potesse avvenire per via telepatica. C’è da stupirsi che per una volta l’evoluzione si sia impegolata in un rituale maldestro e aperto a ogni sorta di inconvenienti (cattiva pronuncia da parte mia, cattiva ricezione da parte tua, insufficiente competenza linguistica, rumori di fondo...). Come combatterò questa teoria? Dimostrandola sbagliata? Solo un ingenuo si porrebbe un simile obiettivo: introducendo opportune complicazioni, una teoria può essere protetta da dati empirici «recalcitranti» o sue inerenti assurdità. Il modello geocentrico afferma che Mercurio e Venere girano intorno alla Terra ma noi li vediamo sempre molto vicini al Sole? Niente paura: basta aggiungere un certo numero di epicicli e i conti tornano. Il mondo è sovrappopolato e io rifiuto categoricamente ogni forma di controllo delle nascite? Perché dovrei preoccuparmi? Forse che un Dio onnipotente, dopo averci detto «Crescete e moltiplicatevi», non saprà salvare capra e cavoli? Una teoria avversa non si affronta cercando di confutarla ma costruendole accanto un’altra teoria più plausibile, più potente, più elegante e lasciando che sia il pubblico a decidere. Nella peggiore delle ipotesi, se il pubblico rimanesse fedele alla concorrenza, avremmo almeno ampliato il numero delle opzioni disponibili: avremmo allargato il gioco. Albert Mehrabian, professore di psicologia alla Ucla, afferma che, quando una persona ci comunica i suoi sentimenti o stati d’animo, solo il 7% della fiducia che ci ispira, quindi dell’efficacia della comunicazione, dipende dalle parole che usa, mentre il 38% dipende dal suo tono e il 55% dal suo comportamento non verbale, o body language – il che spiegherebbe fra l’altro perché veicoli eterei e immateriali come la posta elettronica diano origine a tanti malintesi e corti circuiti emotivi. A riprova della capacità di resistenza delle teorie, un fautore della posizione tradizionale non si lascerebbe turbare da fatti del genere. Categorizzerebbe malintesi e corti circuiti come incidenti di percorso (privilegiando così la norma sui dati, per quanto frequenti) e aggiungerebbe al modello un epiciclo: la mente non codifica il suo significato in un messaggio soltanto verbale ma in una performance inclusiva di gesti, atteggiamenti del viso e del corpo, ritmi e inflessioni di voce. (Già il fatto che il relativo comportamento venga qualificato come body language segnala il tentativo di asservire il corpo a ulteriore elemento di trasmissione di un contenuto che non gli appartiene.) Io invece prendo questi fatti molto sul serio e ne traggo la morale opposta: noi comunichiamo, cioè ci capiamo reciprocamente e mettiamo in comune non solo sentimenti e stati d’animo ma anche idee e opinioni, perché siamo innanzitutto corpi e una lunga consuetudine a vivere in mezzo ad altri corpi (e a rispecchiarne le mosse) ci ha educato a coglierne ogni variazione, ogni indugio, ogni forzatura come significativi, né più né meno di quanto un esperto marinaio sappia trarre le conseguenze di ogni minimo trasalimento della massa d’acqua al cospetto della quale vive e opera (o una scimmia sappia fare con un’altra scimmia, con il mare o con i visitatori dello zoo – per il vento occorrerà attendere la fine del libro) Una piccola parte delle mosse fisiche che comprendiamo e mediante le quali comunichiamo è costituita dall’emissione di suoni, e anche qui capiremo di più e comunicheremo meglio quanta più familiarità avremo con il corpo che ci funge da interlocutore – con il tipo di suoni che ce ne possiamo aspettare. Con uno sconosciuto adotteremo comportamenti guardinghi e stilizzati, sintomo dell’incertezza e apprensione che proviamo; chiederemo per esempio nel tono più neutro possibile che ore siano, ed è paradossale che la tradizione che qui sto contestando assuma casi di natura così marginale e deviante come modelli ideali di comunicazione. Per me l’ideale sono invece i casi in cui varie persone sono immerse in un progetto o in un impegno comune, e le parole che si scambiano sono perlopiù ridondanti, echi di quel che si è già comunicato in modo non verbale: un’asserzione diffonde e ufficializza quanto tutti hanno già riconosciuto, un’espressione d’incoraggiamento conferma il sostegno emotivo che tutti già avvertono. (E, invece di suggerire parlando di body language che il comportamento sia una specie del genere linguaggio, preferisco suggerire che il linguaggio sia una specie del genere comportamento usando termini come linguistic behavior.) Ma, si dirà, il linguaggio non è usato solo in situazioni come quelle che ho descritto, in cui l’ascoltatore è in presenza di quel che gli viene comunicato: in cui un sentimento, un’intenzione o un’idea sono espressi da un parlante che gli è direttamente accessibile, con tutto il suo essere, e quel che il parlante dice è in buona parte superfluo, considerando in quanti altri modi «dice» la stessa cosa. Il linguaggio è un prezioso mezzo di comunicazione perché ci permette di comunicare anche significati che ci sono assenti. Il parlante può raccontarci che cosa gli è capitato ieri in ufficio, o che disastro ferroviario sia avvenuto in India, e non solo: può essere lui stesso assente e raccontarci queste cose al telefono, o scrivercene in una lettera o per posta elettronica; e noi acquisiremo comunque tali informazioni, ne sapremo di più alla fine dello scambio di quanto ne sapessimo all’inizio. Non è comunicazione, questa? E non è suo strumento un linguaggio distaccato dal corpo? Non intendo negare simili ovvietà. Teorie alternative devono spiegare gli stessi fatti, non scegliersi i fatti più convenienti, ma li spiegheranno stabilendo diverse relazioni di dipendenza, collocando diversamente gli accenti; dunque mi prenderò la libertà di rimandare a più tardi la spiegazione del linguaggio come racconto e formulerò invece una domanda che sembrerà, a chi sostenga la priorità del mentale, mettere il carro davanti ai buoi. Mi chiederò: se la funzione fondamentale del linguaggio non è quella comunicativa, quale potrebbe essere? Ai miei avversari sembrerà che io possa porre tale domanda solo dopo aver fornito un’interpretazione convincente, dal mio punto di vista, del carattere narrativo del linguaggio; ma cambiare teoria (ripeto) vuol dire anche cambiare priorità, e in particolare ritengo che il racconto linguistico diventi perfettamente comprensibile se prima rispondo alla mia domanda. Nel quinto capitolo ho detto che un gioco come il calcio o gli scacchi è un microcosmo nel quale rappresentare mosse ludiche che sarebbe in generale troppo rischioso praticare «dal vivo» e ho discusso la logica della rappresentazione: qualcosa è sempre rappresentato da qualcos’altro, quindi gli è simile per certi aspetti ma se ne differenzia per altri. Se mai si verificasse una situazione in cui il gioco vicario che abbiamo condotto dovesse rivelare la sua utilità (in cui l’elaborazione di piani intricati per guadagnare un alfiere dovesse aiutarci in una manovra di aggiramento diretta a conseguire una promozione), c’è da sperare che a risultare decisivi siano gli aspetti in cui i due contesti sono simili, non l’infinità di aspetti in cui non lo sono. Stando così le cose, una rappresentazione che somigli di più all’originale sarà più utile di una che gli somigli di meno: più riuscirà a seguirlo nei suoi dettagli, nelle sue modulazioni, nella sua incalcolabile architettura frattale, più sarà probabile che, quando si abbia a che fare con l’originale, si sappia come muoversi con i dettagli che allora risulteranno pertinenti. Nessun mezzo rappresentativo disponibile agli esseri umani può rivaleggiare su questo terreno con il linguaggio (sebbene il computer, affermavo in Giocare per forza, stia emergendo come un pericoloso candidato): l’eccezionale quantità e qualità di suoni che riusciamo a produrre ci permette di costruire rappresentazioni estremamente particolareggiate di oggetti, situazioni ed eventi, e di esplorare ludicamente queste rappresentazioni con vantaggi potenziali molto maggiori di quelli consentiti da un gioco sportivo o da un gioco di carte. Il linguaggio è, in primo luogo, uno spazio di gioco.nGuardate al modo in cui un bambino vive il linguaggio. Spezza le parole, le stiracchia, le unisce in aggregati inconsueti e scorretti, è attratto dalle loro risonanze, dal rumore che fanno, e spesso combina quei rumori con altri che noi giudicheremmo «inarticolati»; per lui le parole sono oggetti da manipolare, mettere sotto pressione e violare tanto quanto palle e cubi. Questa, per me, è la scena primaria del linguaggio, il prototipo che ne chiarisce il ruolo e il senso. In età adulta, a rimanere più vicini all’intimità e al calore della scena primaria sono i poeti; sono loro più di chiunque altro a giocare con le parole e a trattarle, giocandovi, come cose. Ancora una volta reinterpretando il passato alla luce del suo futuro, dunque, vedendo il bambino alla luce del poeta che promette di diventare, potremmo dire che l’uso primario del linguaggio è quello poetico. Il che equivarrebbe a riascoltare bene questa parola: poieo è fare, in greco, quindi il poeta è creatore, e lo è proprio in quanto gioca, perché solo chi gioca inventa, supera l’esistente nel nome di un processo innovativo che solo il gioco consente di realizzare. Se le parole sono (trattate come) cose le si potrà associare ad altre cose, e mediante tali associazioni costituire quelle corrispondenze fra parole e cose che sono alla base del significato delle parole. Quando ero piccolo a casa dei miei nonni, d’estate, raccoglievo tappi di bottiglia (di birra, di Coca-Cola) e poi li usavo per rappresentare eserciti e battaglie. Ogni tappo era un soldato, e quando il tappo era rovesciato il soldato era morto. Detta altrimenti: ogni tappo significava un soldato, e che il tappo fosse rovesciato significava che il soldato era morto. Nel linguaggio, invece di tappi, pedine o gettoni, e invece delle configurazioni in cui possono comparire tappi e pedine, usiamo nomi e verbi e loro configurazioni, di cui abbiamo imparato il significato (le associazioni) osservando e scimmiottando padri e madri, cugini e amici di famiglia, e acquistando attraverso i nostri errori una dimestichezza sempre più sottile con le mille sfumature, cadenze e intonazioni che organizzano quei significati, in modi mille volte più complessi di tappi e pedine, mille volte più disponibili a scatenare la fantasia ludica. Ogni gioco ha delle regole, abbiamo visto: va a sbattere contro spigoli e pareti. Nel caso di un gioco linguistico, del linguaggio in quanto gioco, le regole non sono ostacoli o limiti fisici ma sociali. Ho usato il termine «scorretto» per spiegare come un bambino opera con le parole; un atto è scorretto (o corretto) in relazione a una norma, ed è la società a imporre le norme linguistiche e a designare quello del bambino come un comportamento linguistico scorretto. Lasciato a sé stesso, il linguaggio non fa che seguire un’inarrestabile deriva metaforica e metonimica, trasformato costantemente dai poeti che lo abitano (cioè da tutti coloro che lo parlano) e che tendono a volgerlo in un gergo familiare o di gruppo e infine in un idioletto, comprensibile solo a chi lo parla. Ma la libertà – lo sappiamo – è rischiosa; bisogna limitarne l’ambito e il potere. Intervengono allora discipline (ascoltiamo anche questa parola: anche le sue associazioni ci dicono qualcosa) normative: grammatica, logica, semantica, retorica, stilistica, che sanciscono quali combinazioni di parole siano accettabili, quali associazioni fra parole e (altre) cose siano significanti, a quali fra le molteplici tappe della deriva linguistica si possa attribuire l’etichetta di un significato letterale (cercando così di fermare la deriva: un significato letterale è una metafora o metonimia su cui ci siamo arenati), quali ritmi e cadenze abbiano valore estetico. L’uso comune del linguaggio si colloca su uno spettro analogo a quello discusso nel sesto capitolo (anzi, è proprio lo stesso spettro). A un estremo c’è l’assoluta licenza di una vocalizzazione esasperata; all’altro gli anodini enunciati della filosofia del linguaggio anglosassone – «The fat cat sat on the mat; he saw a big rat», «Il gatto è sulla stuoia»: perfettamente grammaticali, costruiti con termini assolutamente privi di ambiguità, ciascuno indissolubilmente legato a una singola associazione, e proprio per questo, direi, incapaci di esprimere un qualsiasi significato o dar vita ad alcuna comunicazione. Né l’uno né l’altro degli estremi (per quanto citato nei testi di filosofia del linguaggio) è mai effettivamente realizzato; quel che incontriamo nelle nostre quotidiane vicissitudini è un universo multiforme di mediazioni fra gli estremi. Incontriamo parole e frasi che in certa misura fanno ossequio alle norme (tanto maggior ossequio quanto minor fiducia abbiamo nell’ambiente) e in certa misura le trascendono colorandole di esperienze personali, immettendovi il gusto saporito, talvolta un po’ nauseante, di una sceneggiata che coinvolge tutto il corpo, non solo le labbra e la lingua. Come in ogni altro caso, regole rigorose diventano l’occasione per una creatività più raffinata, per un gioco più sagace anche se indubbiamente più difficile, come il bridge è più difficile della briscola. Pensate a quanto è costrittiva la forma di un sonetto: quattordici endecasillabi divisi in due quartine e due terzine, rimati secondo pochi e precisi schemi. Come ci sarebbe da aspettarsi, la grandissima maggioranza dei sonetti è mediocre e noiosa – adiacente all’estremo regolamentato dello spettro linguistico. Quando però recitiamo (la poesia va recitata ad alta voce, per motivi che ora dovrebbero essere ovvi!) un capolavoro di Dante, Petrarca o Foscolo, ci rendiamo conto che senza quelle costrizioni non avremmo potuto scoprire tanta ingegnosa libertà, e goderne. E la medesima libertà è espressa, non sempre a questi livelli, da ogni parlante/poeta in ogni linguaggio: quando inventa una battuta, adatta a nuovo uso una parola, raccoglie e concentra le sue emozioni in una frase a effetto, improvvisa una cantilena per un figlio che non vuol saperne di dormire. In ciascuna di queste occasioni la vocazione ludica del linguaggio si riattiva: le regole diventano un trampolino per un tuffo ancor più avvitato e carpiato, invece che una camicia di forza. È arrivato il momento di affrontare il linguaggio dell’assenza e, nel farlo, di distinguerne con cura le due modalità che prima avevo indicato. Il linguaggio, dicevo, può essere usato da un parlante per descrivere qualcosa di cui il suo interlocutore non è e non è stato testimone; in tal caso, è il significato del linguaggio a essere assente (a chi ascolta). Ma, aggiungevo, anche il parlante può essere assente: l’interlocutore può essere fisicamente solo e il linguaggio apparirgli come testo scritto. Questa seconda modalità sembra ora la più inquietante, per la mia posizione. Che cosa ne è in essa della corporeità della comunicazione, delle parole trattate come cose, della libertà di giocarvi e di creare? Quando leggo un resoconto scritto di una seduta parlamentare o di una sparatoria, di solito non ne conosco l’autore (il suo è per me «un mero nome»): capisco quel che c’è scritto perché le parole hanno il loro significato abituale e le frasi sono composte in modo grammaticalmente corretto. Sarà vero che molti testi di filosofia del linguaggio mi restituiscono un’immagine stantia e retriva del loro argomento; ma anche questi testi sono scritti in un linguaggio, e io li leggo e li capisco. Capisco «The cat is on the mat» e capisco il senso di questo esempio. Non è vero dunque che i testi scritti suggeriscono una visione del linguaggio del tutto opposta alla mia, e affine a quella tradizionale? Andiamo per gradi. Consideriamo prima il caso in cui il contenuto di un racconto ci sia assente (non ne siamo stati testimoni) ma la persona che lo racconta ci sia presente, e immaginiamo che più persone ci facciano un racconto con lo stesso contenuto, descrivano per esempio lo stesso disastro ferroviario in India. Ne segue che tutti ci comunicano la stessa cosa? Che, pur assumendo che controllino al massimo i loro movimenti e mantengano un volto impassibile, ne riceviamo le medesime informazioni? Forse sì, se intendiamo «informazione» nel senso più comune, e profondamente legato al modello mentalistico del linguaggio: un pacchetto di enti immateriali (chissà come faranno degli enti immateriali a entrare in un pacchetto!) che va trasferito da una mente all’altra. No, invece, se ascoltiamo quel che «informazione» ci sta dicendo: se a contare per noi è quanto una comunicazione ci forma, ci cambia, ha un influsso temporaneo o permanente su di noi. Se prendiamo il termine in questa seconda accezione (che io preferisco), dovremo ammettere che le parole scelte da ciascuno dei narratori fanno un’enorme differenza per l’efficacia del suo discorso: che il loro suono, il tono e il ritmo con il quale sono pronunciate, le loro associazioni, le risonanze o dissonanze che hanno con altre parole dello stesso discorso, la forza con cui tutte queste parole sono concatenate l’una con l’altra suggerendo un’immagine unitaria e l’inventiva con cui questa immagine si rinnova senza sosta, illuminando angoli oscuri e chiamando in causa prospettive balzane, possono coinvolgerci in un gioco vivido ed eccitante, in cui costantemente elaboriamo aspettative sul prossimo passo e le vediamo confermate o contraddette, e proviamo sorpresa e frustrazione e incanto e disgusto, e alla fine sentiamo di aver percorso noi stessi quel territorio e di conoscerlo bene anche se ciò non è vero – anche se il territorio non somiglia affatto a quel che ci è stato comunicato e ci ha informato. Oppure le parole possono essere spente e banali, sfilacciate e risapute, e dovremo fare un grosso sforzo per mantenere desta l’attenzione su quel che vogliono dire perché sembra che non vogliano dire niente, e alla fine ci sarà difficile ricordarle e capire che cosa è successo, in India. Un logico sentenzierebbe che entrambi i discorsi esprimono lo stesso pensiero e hanno lo stesso valore di verità, e magari sarà così, quando «pensiero» e «valore di verità» siano stati definiti in modo opportuno; ma allora si dovrà concludere che pensieri e valori di verità hanno poco a che fare con quel che succede quando ci raccontiamo qualcosa. Il linguaggio non è mai dell’assenza. L’assenza esiste, non ci sono dubbi: cose e persone ci mancano, spesso per sempre. Ma il racconto non ha altra funzione che evocare queste cose o persone: la parola è innanzitutto magica. Con le sue limitate risorse – qualche nota, qualche alterazione di timbro o volume – richiama quel che non c’è e lo fa essere, anzi fa essere qualcosa che s’ispira a quel che non c’è, e che forse ne è molto diverso ma adesso con questa scusa ci è diventato presente. E la magia del linguaggio non è mai disgiunta dal suo carattere ludico: la seconda volta che ascoltassi lo stesso racconto, formulato con le stesse parole, non evocherebbe più nulla e io mi troverei a pensare ad altro. Solo un linguaggio che esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, solo un linguaggio giocoso, può raccontare. Anzi, meglio: solo un linguaggio in quanto giocoso, in quanto esplora e sovverte, inquieta e soddisfa, perché come al solito i nostri racconti quotidiani sono compromessi fra trasgressione e conformismo, scoperta e stereotipo, quindi sono racconti fino a un certo punto. Al limite, se il linguaggio fosse usato in modo puramente rituale e prefissato, non lo staremmo nemmeno a sentire. Veniamo ora alla scrittura. Anche qui c’è uno spettro di possibilità, e anche qui la mia posizione e quella avversa assumono come paradigmatici i due diversi estremi dello spettro. Per i miei avversari il modello di comunicazione scritta, cui ogni altra si deve uniformare, è il dispaccio d’agenzia: «Ieri alle ore 18.05 la Corea del Nord ha lanciato un missile verso Seoul». Io parto dall’estremo opposto: così come l’archetipo del linguaggio è per me la poesia, l’archetipo del linguaggio scritto è la prosa letteraria. In un dispaccio d’agenzia – anzi, per la precisione, secondo il modo ideologico in cui la posizione avversa interpreta un dispaccio d’agenzia – le parole non contano: basta esprimere il significato giusto, inteso come entità astratta e mentale. In un testo letterario, invece, è chiaro che le parole contano, e noi le sentiamo anche se leggiamo «a mente»; e sono parole scelte con creatività e maestria (con la maestria di un grande giocatore) a far nascere per noi dalla pagina dei personaggi, delle avventure, delle passioni, un mondo. Parole diverse, se pure dicessero «la stessa cosa» (quella che la posizione avversa concepirebbe come la stessa cosa) non avrebbero lo stesso effetto, o non avrebbero alcun effetto. E, se un dispaccio d’agenzia mi colpisce, se entra davvero in circolo nella mia persona, se non si perde fra i rumori di fondo, è perché sa trasmettermi tutt’altro che un resoconto neutrale e oggettivo di un semplice fatto (come vorrebbe l’ideologia cui mi oppongo): perché il suo linguaggio economico ed essenziale conferisce invece maggiore urgenza ai timori e alle ansie che si sono immediatamente scatenati in me appena ho visto queste parole insieme – «Corea del Nord», «missile», «Seoul», «ieri». A suo modo, questo dispaccio (fittizio) è un riuscito aforisma. Riassumiamo. Ho forse dimostrato che non esistono i significati come entità astratte e accessibili solo a delle menti, e che non è il rapporto con significati astratti a qualificare il linguaggio come tale? a fare di un suono o di uno scarabocchio una parola o una frase? No di certo. Dopo tutto quel che ho detto, anche chi volesse accettarlo potrebbe credere che, in aggiunta a tutto quel che ho detto, ci sono i significati astratti ed è la loro presenza a conferire dignità linguistica a suoni e scarabocchi. Ma non era mia intenzione dimostrare niente del genere. Quel che ho cercato di fare è stato difendere una tesi più debole ma per me d’importanza cruciale: dei suddetti significati non abbiamo bisogno, possiamo farne a meno. Il nostro linguaggio, anzi il nostro comportamento linguistico, è parte del flusso continuo di tutto il nostro comportamento, che noi siamo in grado di interpretare nei nostri simili o in noi stessi (perché ho detto quel che ho detto?) così come interpretiamo l’annuvolarsi del cielo o il latrato di un cane. Come con ogni altro aspetto del nostro comportamento, anche con il linguaggio possiamo giocare; ed è qui che esso rivela la sua unicità, perché nessun altro mezzo a nostra disposizione è tanto duttile, tanto articolato, ricco di tanti dettagli e aperto a tante variazioni, quindi tanto generoso nell’offrirci giochi d’insondabile profondità e complessità – microcosmi infinitamente interessanti e istruttivi. Questa essenziale natura ludica del linguaggio si combina con le sue altre caratteristiche dando luogo a ogni sorta di mediazioni. Capiamo un altro che parla come capiamo un altro che cammina; ma, parlando, quell’altro può esplorare e trasgredire e farci piacere e farci paura molto meglio che camminando, e possiamo capire anche questo, e lasciarci coinvolgere in questo gioco, e farcene trasportare in posti dove non siamo mai stati, in compagnia di persone che non abbiamo mai visto. E possiamo creare lo stesso miraggio senza nemmeno parlare, scrivendo parole in un libro come questo; e le parole scritte evocheranno un significato se sono scelte con cura, la stessa cura con cui uno scacchista prepara la sua prossima mossa – cura di rassicurare e stupire al tempo stesso, di confermare e destabilizzare. Ho chiarito come si possa arrivare, partendo da questa visione, a spiegare l’uso del linguaggio per chiedere che ora sia, ma sono convinto che, se questo fosse l’uso principale del linguaggio, esso sarebbe da tempo diventato non meno vestigiale dei denti del giudizio. Temo che possa diventarlo, ho detto, che all’orizzonte si profili minaccioso un terribile concorrente. Ma so che se non lo è ancora diventato è perché nel linguaggio, più e meglio che altrove, si gioca. All’inizio di questo capitolo mi ero assegnato il compito di «traghettare il gioco verso sublimi creazioni spirituali senza perderne per strada la fisicità». Che il lettore sia o meno d’accordo con le idee che sono venuto sviluppando, avrà capito in che senso io intenda riconoscere un importante elemento di fisicità in sublimi creazioni come sono spesso quelle poetiche o letterarie. È ancora lecito, però, potrebbe chiedere, che io qualifichi tali creazioni come spirituali? Non ho lasciato cadere lo spirito, o anima o mente che dir si voglia, rifiutando la dualità cartesiana? Non sono rimasto, quindi, in un universo che non ha più nulla di spirituale – un universo fatto solo di corpi, eventualmente poetici o letterari? Non è, lo stesso obiettivo che mi sono posto, prova evidente di una mia confusione, come se volessi ammettere oggetti, o attività, che appartengono contemporaneamente all’ambito fisico e spirituale? In realtà sono queste domande a provare qualcosa: quanto sia difficile liberarsi di un pregiudizio. Per loro tramite il cartesianesimo, scacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Detta nel modo più semplice e chiaro possibile, lo spirito (o la mente, o l’anima) può solo essere un modo di vivere il corpo: non esiste uno spirito indipendente dal corpo. Un corpo si anima quando i suoi atteggiamenti e le sue mosse si colorano di spirito ludico: è spirito (o mente, o anima) in quanto gioca. (Potrei dire «in quanto danza», purché per danza s’intenda una pratica creativa, non puramente rituale e aperta ai movimenti della parola e del pensiero: una danza nello spazio esistenziale.) La visione cartesiana ci fornisce uno spirito a buon mercato: anche se giaccio del tutto inerte, o la mia vita è inchiodata senza speranza di salvezza alla routine più inflessibile, sono comunque una mente, una sostanza pensante; all’ottusità del mio corpo è comunque offerto questo riscatto. Per me invece lo spirito compare quando il corpo si accende di vitalità; il suo fiato è quello che avverto quando qualcosa mi stimola, mi provoca e mi risveglia; e occuparsi di libri o concetti non dà nessuna garanzia che lo spirito sia presente – basta guardare al mondo accademico per rendersene conto. Siccome anche gli estremi di questo spettro sono astrazioni teoriche e ogni nostra vicenda ha luogo come mediazione fra di essi, tutti noi siamo in ogni momento corpi/spiriti, in parte animati e in parte inerti. Lo siamo, però, non come convivenza di due entità radicalmente distinte ma come coesistenza di due distinte modalità di comportamento di una medesima entità. E, in conclusione, posso approvare Huizinga quando dice che «il gioco, qualunque sia l’essenza sua, non è materia» (p. 21) ma non perché si riveli in esso un carattere soprannaturale. Il gioco non è materia perché è spirito, cioè materia che si reinventa incessantemente, così come il non-gioco (cioè la materia) è spirito in coma. I Pensieri stupendi dell'Aosta sono stupendi. L’aspetto fondamentale della tradizione cartesiana è stato denominato in tempi recenti (posteriori a Cartesio) «accesso privilegiato». Consiste nella tesi seguente: la mia vita mentale, privata, mi è del tutto trasparente; io ne colgo con assoluta limpidezza ogni particolare; in proposito non posso sbagliarmi. Posso sbagliarmi sul fatto che ci sia un elefante in questa stanza, ma non sul fatto che io lo veda e sia sicuro di vederlo. E sono l’unico detentore di tale certezza: chiunque voglia sapere che cosa provo, penso o voglio, non può far altro che chiederlo a me – io sono l’unica autorità al riguardo.Ci sono voci molto accreditate che si oppongono a questa tesi. La psicoanalisi stabilisce quali siano le mie intenzioni o i miei desideri in base a un’osservazione del mio comportamento ed eventualmente in contrasto con le intenzioni e i desideri che io mi attribuisco. La neurofisiologia ritiene di poter determinare se ho un’emozione consultando immagini del mio cervello. Ma, per quanto in difficoltà fra gli specialisti, l’idea cartesiana che io sia padrone a casa mia (cioè nella mia mente) continua ad aver fortuna nella cultura popolare, sostenuta da potenti alleati: la responsabilità religiosa che ognuno deve assumersi per i suoi peccati, la responsabilità legale che deve assumersi per i suoi crimini, la responsabilità politica che deve assumersi per il suo voto. In tutti questi casi, il fattore decisivo è quel che l’individuo ha voluto fare, e solo lui (e magari il suo Dio) sa che cosa sia. Gli altri, al massimo, potranno fare congetture sulle sue intime motivazioni ed emettere un verdetto al di là di ogni ragionevole dubbio. Ciò che è comunque al di là di ogni dubbio, ragionevole o irragionevole, è il cogito: il rapporto che il soggetto ha con sé stesso come sostanza pensante. A giustificare questa convinzione c’è il modo in cui viene concepito il rapporto: lo amministrerebbe la funzione nota come coscienza, un flusso continuo di attenzione rivolto alla nostra vita interiore, incapace di errore, custode della verità del nostro essere. Io so che cosa provo, penso e voglio perché la mia coscienza me ne dà un responso infallibile; nessun altro ha la mia coscienza, dunque nessun altro ha diretto accesso ai miei dati. Ho affermato altrove che la coscienza così concepita è un mito: non esiste un flusso continuo di attenzione a sé stessi che abbia il compito di farci appurare tutto quel che accade in noi, ma una serie di episodi indipendenti e frammentari in ciascuno dei quali dalla molteplicità che noi siamo (che ciascuno di noi è) emerge un giudizio negativo, un’obiezione, verso l’istanza che in quel momento occupa il proscenio e sta dirigendo i lavori. La coscienza come flusso continuo e coerente è il risultato di un’azione politica (reazionaria): di uno stravolgimento di tale episodico esercizio critico che ha come scopo la conservazione dell’ordine sociale – ritenendoci costantemente osservati, si spera che ci comporteremo bene. Qui non intendo sviluppare ulteriormente l’argomento, se non per notare un punto in cui questo discorso interseca i nostri temi attuali. La visione mentalistica del significato sostiene che siano le mie esperienze mentali, le stesse che Cartesio giudicava infallibili, a determinare la dignità linguistica delle parole e frasi che pronuncio o scrivo, dicevo nel capitolo precedente, e io sostengo l’inverso (e sostengo che quelle esperienze siano tutt’altro che infallibili). La mia posizione richiede così che si contesti il presunto carattere originario del mentale, caratterizzandolo invece come dipendente dal non-mentale, e per raggiungere questo obiettivo comincerò ascoltando ancora una volta una parola. «Privato», che nella tradizione cui mi oppongo è sinonimo di «mentale», è un termine negativo, perché ciò che è privato lo è in quanto privato di qualcosa, come un bimbo è privato d’affetto o un operaio del suo lavoro. Qual è dunque la privazione che costituisce il dominio privato del soggetto e della sua mente? Il gioco è rischioso, e abbiamo visto quante barriere si erigano per evitare che faccia troppo male. Un adulto proteggerà lo spazio in cui giocano i bambini: chiuderà porte e finestre, toglierà di mezzo gli oggetti che possano essere ingoiati, nasconderà i fiammiferi. Quando sarà lui stesso a giocare, troverà più conveniente scagliarsi contro un avversario su un campo di calcio o tessere trame su una scacchiera piuttosto che nel quartiere o in fabbrica. E spesso parlerà soltanto di quel che potrebbe fare invece di farlo: si accontenterà di esplorare microcosmi linguistici in cui ogni mossa è lecita invece di coinvolgere in analoghi movimenti il (resto del) suo corpo. Ma non si è mai abbastanza cauti: una parola avventata, detta con sovversivo spirito ludico, può ferire l’interlocutore, suscitare i sospetti del principale, essere presa troppo sul serio da una «testa calda». Allora la nostra specie (e forse non solo, ma è arduo decidere la questione) ha introdotto un’ulteriore misura cautelare: molte parole sovversive, molte associazioni inappropriate, molti racconti fantastici che attentano alle norme del vivere civile li enunciamo solo a noi stessi, li vocalizziamo senza emettere alcun suono, senza neanche muovere le labbra – li priviamo di ogni contatto con l’esterno. Ecco in che senso il mentale dipende dal verbale: i pensieri sono parole non dette – immagini mnestiche di tali parole, secondo l’espressione freudiana – perché l’interlocutore giusto, che potrebbe capirle e apprezzarle, non c’è o forse non c’è mai stato, e noi abbiamo imparato, dopo molti sforzi e qualche delusione, a farle risuonare in un pubblico silenzio, unici testimoni della loro presenza. Lo spazio abitato dai pensieri è l’esatto opposto di quello cartesiano. Quello era popolato di infinite idee, acuto e perspicace nel cogliere quanto sfuggisse ai sensi del corpo, solidamente risolto in sé stesso e pronto a sollevare dubbi su tutto ciò che non gli appartenesse. Questo è parassitario, anaclitico, povero di contenuto e di struttura, in costante pericolo di venire assorbito nel pubblico chiacchiericcio. Non voglio negare che esistano persone con straordinarie capacità di concentrazione; la realtà di noi comuni mortali, però, è che ci risulta estremamente difficile seguire un’idea senza perdere il filo, o cogliere il rapporto che questa idea ha con quell’altra che abbiamo avuto ieri; e intanto il mondo incombe e disturba il fragile equilibrio che siamo penosamente riusciti a costruire, e dopo un attimo tutto crolla e non ricordiamo più nemmeno che cosa stavamo pensando, o perché ci sembrava così importante. Se uno di noi comuni mortali vuole far chiaro «dentro sé stesso» e capire che cosa sta pensando, deve fare un passo indietro in questo percorso e abbozzare un testo, un diagramma, un disegno su un pezzo di carta. Si chiama «pensare attraverso la scrittura» ed è un luogo comune per chiunque si occupi di processi creativi; ma l’ipoteca cartesiana ci impedisce di comprendere la lezione che ci sta impartendo. Il pensiero è fondato sul linguaggio; i singoli pensieri non sono che parole o frasi private dell’audio; la mente non è altro che la capacità di parlare un linguaggio silenzioso (e si noti che sto parlando della mente, non del cervello, cioè dell’organo di enorme complessità ed efficienza che presiede, perlopiù inconsciamente, a tutte le nostre funzioni). Quando questa capacità mostra i suoi limiti, si ritorna alla base: talvolta ci si racconta ad alta voce quel che si stava cercando di seguire nel pensiero, più spesso lo si scrive. Con buona pace di Cartesio, non è proprio vero che la mente ci fornisca idee più chiare e distinte di quanto faccia il corpo: nella mente regna di solito una grande oscurità e confusione, che si può dissipare solo eseguendo movimenti fisici – scrivendo, per esempio. Fra le cose che potremo scrivere ci sono novelle e romanzi, e ho già suggerito come sia da intendere questo gioco; qui aggiungerò solo qualche dettaglio. Buona parte dell’esperienza ludica dei bambini consiste nel raccontarsi storie; se sono fortunati, incontreranno anche degli adulti che ne racconteranno a loro, trascinandoli fra misteri e sorprese, spaventi e salvataggi, facendo loro saltare il cuore in gola e tirare sospiri di sollievo. Uno scrittore compie la stessa benefica azione con i suoi lettori: si sceglie un bambino ideale (i critici letterari direbbero: un lettore ideale) di cui conosce gusti e passioni, sogni e desideri, e lo asseconda e lo scoraggia e lo deprime e lo esalta evocando con parole incisive e frasi seducenti un mondo fittizio che starà al bambino (al lettore) completare a suo modo, partendo dalle tracce che le parole e le frasi dello scrittore avranno sparso, come molliche di pane, per le pagine del libro. L’azione è benefica perché il bambino ne trae godimento: non sono molti i giochi che offrano tanto piacere quanto una simile altalena di vicende, scenari e affetti. Ed è benefica anche perché il bambino per suo tramite impara a conoscere i personaggi e gli eventi del mondo fittizio, come s’impara qualsiasi cosa – partecipandone attivamente: anticipando la prossima mossa e verificando le sue ipotesi, piangendo insieme con le vittime e delirando insieme con gli amanti, immaginandosi a sua volta martire o raddrizzatorti – e così amplia il repertorio di atteggiamenti e strategie a sua disposizione correndo rischi minimi: il rischio di una crisi emotiva o di un estraniamento dalle urgenze quotidiane, il rischio di cercare invano un’Anna Karenina, il rischio di scambiare per Anna Karenina una persona molto diversa; certo non il rischio di finire sotto un treno. Anche la filosofia nasce come racconto, ma con un accento diverso, più insolente. Nel testo che la inaugura, i dialoghi di Platone, si comincia narrando aneddoti su un discolo che si rifiuta di crescere, di trovarsi un lavoro, di badare alla sua famiglia, perfino di cambiarsi d’abito, perché è troppo impegnato a contestare ogni forma di autorità, a prenderla in giro, a insistere con i suoi infantili «Perché?», a giocare con le parole degli esperti in modo che, qualunque definizione propongano, «ci gira sempre dattorno e non c’è verso che voglia star ferma nel punto dove la mettiamo» (Eutifrone, p. 21). Sembra di leggere Pinocchio, solo che qui non c’è nessuna fata turchina che salvi il discolo dall’esecuzione. Più avanti il racconto si complica: il discolo prende ancora la parola, ma non solo per far esplodere l’arroganza e la presunzione dei grandi. Ora, invece di distruggere i castelli in aria degli altri, ne costruisce di propri, con acume, scrupolo e pazienza (gli stessi con cui si costruiscono bei castelli di sabbia), e li presenta con atteggiamento di sfida a quanti ritengono di vivere in un castello e invece abitano in una stamberga, convinto che questa sia la forma più efficace di critica: invece di perder tempo rivelando le stamberghe per quel che sono, edifichiamo loro accanto una reggia e tutti vorranno abbandonarle. (Così infatti ho trattato la posizione cartesiana in questo capitolo e nel precedente; ho avuto buoni compagni di gioco.) Alcuni elementi della repubblica platonica provocano la nostra indignazione: che si debba mentire al popolo per il suo bene; che le unioni fra uomini e donne debbano essere decise dal governo per motivi eugenetici. Altri ci sembrano di grande ragionevolezza: che i governanti debbano essere educati con cura e il loro carattere messo alla prova prima di affidar loro lo Stato; che le donne non meno degli uomini possano governare, perché la loro differenza biologica non implica una differenza di abilità. Quel che è comune a entrambi è il coraggio, la sfacciataggine quasi, con cui vengono proposti, la risolutezza con cui s’insiste sulla loro inevitabilità, sulla loro consequenzialità logica, la noncuranza con cui vengono trattate le proteste del «senso comune», l’ambizione e la genialità con cui tutti gli elementi vengono combinati in un colossale affresco, nell’immagine di un mondo, di esseri umani, di una società totalmente nuovi. Se un bambino vero (sotto i dieci anni d’età) mai avesse le risorse intellettuali per compiere un’opera del genere, certo non gli mancherebbero queste altre doti; certo non avrebbe ancora imparato il conformismo, la soggezione, la viltà. Platone come Socrate è un bambino che si rifiuta di crescere, che a risorse intellettuali mature accompagna le qualità innocenti e sfrontate dell’infanzia: il maestro a settant’anni scherza con i suoi accusatori e con la giuria; il discepolo a quasi ottanta non smette di aggiungere dettagli al suo racconto. All’inizio del nostro itinerario ho citato un passo della Critica del giudizio; ora, vicini al termine del viaggio, occorre riprenderlo in esame e renderne conto. Che cosa sta facendo Kant? Sta esponendo uno degli elementi del suo castello, da lui opposto a una tradizione che considera derelitta. La stamberga da cui vuole che gli altri fuggano è la concezione realista della conoscenza: Da una parte ci sono io (anzi, la mia mente) e dall’altra c’è un tavolo. Nella mia mente si forma un’idea del tavolo che gli corrisponde fedelmente; quindi io conosco bene il tavolo, al punto di poter prevedere con certezza le sue risposte a varie sollecitazioni. Come sia possibile che fra due oggetti distinti e tanto diversi fra loro (la mia mente e il tavolo) si stabilisca una così perfetta corrispondenza, la tradizione non sa spiegare; Leibniz in proposito invocava il miracolo divino di un’armonia prestabilita. Kant non si occupa di questa scalcinata tradizione; la liquida con una battuta pesante (essa dà «il comico spettacolo [...] di uno che munge il becco [cioè il montone] mentre l’altro tiene lo staccio [cioè il setaccio]», Critica della ragion pura, p. 96) e suggerisce invece di fare un nuovo «tentativo» (p. 10), un «rivolgimento» di prospettiva analogo a quello di Copernico. Supponiamo, dice, che un oggetto sia proprio ciò di cui possiamo prevedere il comportamento, per cui se quello che sembra un tavolo avesse un comportamento imprevedibile non sarebbe un oggetto (ma, diciamo, un’allucinazione); allora non sembrerà più strano che riusciamo a prevedere il comportamento degli oggetti. Il principio di cui ci serviamo per siffatte previsioni, che cioè a ogni causa seguano precisi effetti, non è da noi imposto dall’esterno alla natura; è ciò che costituisce internamente la natura – non sarebbe una natura, ma un sogno, se non esibisse tale regolarità. Perseguendo il suo tentativo Kant, come Platone, costruisce un mondo nel quale non solo la conoscenza ma anche i valori morali, l’apprezzamento estetico, Dio e l’immortalità assumono ruoli diversi che nella tradizione. E, nel farlo, come tanti altri giocatori alle prese con le loro costruzioni originali e bizzarre, usa parole magiche: termini antiquati, imponenti ed enigmatici che colloca in contesti e in reti associative devianti rispetto a quelli già noti, talvolta devianti fra loro, gettando i lettori nello sbalordimento e nello scompiglio – lo stato d’animo giusto per chi voglia aprirli a un punto di vista radicalmente nuovo. Qui, per esempio, compaiono due di queste parole formidabili: il principio in base al quale il tavolo non sarebbe un oggetto se il suo comportamento non fosse regolare e prevedibile viene detto «trascendentale» e l’altro principio per cui niente sarebbe un oggetto se non fosse nello spazio viene detto «metafisico», violando gli usi comuni di entrambi i termini e quelli cui lo stesso Kant li adatta in altri passi. Mentre gioca con la nostra visione dell’universo, il filosofo sta giocando anche con il linguaggio. Giocando s’impara, quindi il gioco della filosofia può essere istruttivo, nello stesso modo caotico e imponderabile di ogni altro gioco. Per caso, una delle elaborate, ambiziose costruzioni filosofiche di mondi, esseri umani o Stati alternativi a quelli esistenti entra in contatto, talvolta, con la realtà quotidiana (con il gioco che è diventato abitudine) e la cambia in modi che vengono giudicati vantaggiosi; può anche capitare che in una di queste costruzioni decidiamo di traslocare e quella diventi, per un po’, la nostra realtà quotidiana (il nuovo gioco diventi una nuova abitudine). Quando ciò càpita, riteniamo di aver imparato qualcosa e pensiamo che la costruzione filosofica abbia dato un contributo alla nostra conoscenza – un contributo che viene detto scientifico. Giocando abilmente con le lenti, Galileo riuscì a trasformare il nostro senso di che cosa significhi osservare: ora, se vogliamo osservare un pianeta, guardiamo uno schermo invece di sollevare la testa e aguzzare la vista. Ma il mondo fisico di Galileo non esiste più, come non esiste più quello di Aristotele (noi non ci viviamo più); altre costruzioni filosofiche ne hanno preso il posto e sono oggi al cutting edge della scienza. Nel frattempo, i nostri giorni continuano a essere popolati di pratiche e oggetti che sono il lascito di giochi «scientifici» a lungo accantonati – di ciò che quei giochi sono stati in grado d’insegnarci. La macchina a vapore fu inventata in base alla teoria del flogisto, l’esempio più tipico di teoria screditata; molte persone colpite da tubercolosi sono state curate dallo pneumotorace, anche se la teoria «meccanica» su cui lo pneumotorace aveva basato il suo successo, avanzata da Carlo Forlanini, si è volta presto in una simpatica curiosità. Nel prossimo (e ultimo) capitolo tirerò le fila dei nostri sforzi. Qui voglio chiudere con una storia: un esempio di come funzioni il gioco filosofico/scientifico, di come possa cambiare – forse in meglio, forse orribilmente in peggio – le nostre condizioni di vita. (I fatti che riferisco sono tratti da un articolo di Michael Specter intitolato The Mosquito Solution e pubblicato sul «New Yorker» del 9 e 16 luglio 2012.) Le zanzare sono state responsabili del 50% delle morti umane nella storia. La malaria, la febbre gialla, varie forme di encefalite e numerose altre piaghe le vedono come protagoniste. Fra le zanzare più letali c’è Aedes aegypti, che fa strage in Africa e in Brasile ed è da poco rientrata negli Stati Uniti (vi aveva già prosperato fino agli anni Sessanta del secolo scorso). Uno dei metodi con cui si cercava di combattere Aedes era sterilizzando milioni di insetti con dosi massicce di radiazioni e impedendo così loro di riprodursi. Ma, per quanto efficaci con altri agenti patogeni, le radiazioni funzionavano male con animali piccoli come le zanzare. Intorno al 1990, un genetista di nome Luke Alphey incontrò per caso un collega che gli parlò della tecnica di sterilizzazione e delle sue difficoltà. Immediatamente, vista la sua formazione professionale, pensò che, invece di sterilizzare le zanzare, si potesse cambiarne il codice genetico in modo che si autodistruggessero. C’erano due problemi, però. In primo luogo, bisognava intervenire solo sui maschi, perché le femmine mordono gli esseri umani e avrebbero potuto infettarli con chissà quale variazione genetica. In secondo luogo, bisognava che i maschi rimanessero in vita abbastanza a lungo, e fossero abbastanza vigorosi, per trasmettere i geni mortiferi ai loro discendenti. Vuole il caso che, nella specie Aedes aegypti, le femmine siano molto più grandi dei maschi, quindi facilmente identificabili; il primo problema poteva essere risolto. E presto anche il secondo lo fu, ugualmente per caso. Alphey infatti capitò in un seminario in cui si parlava di come la tetraciclina funga da antidoto contro l’azione di un gene. Il piano era pronto: si sarebbero creati milioni, miliardi di maschi Aedes con il gene autodistruttivo proteggendoli in laboratorio con la tetraciclina; una volta immessi nell’ambiente, avrebbero avuto il tempo e la forza di accoppiarsi prima di soccombere (ormai privi dell’antidoto) insieme con tutta la loro progenie. Detto fatto, il piano è già in fase di realizzazione in Brasile e in altri paesi. Negli Stati Uniti, però, vari gruppi ambientalisti sono insorti protestando: Possiamo prevedere tutto ciò che accadrà quando avremo scatenato questo nuovo Frankenstein? Certo allora non potremo più rimettere il genio nella bottiglia. Per esempio, che cosa succederà se anche solo poche femmine sopravviveranno dopo il contatto con il gene e morderanno un essere umano? Oppure, che conseguenze avrà la scomparsa di Aedes aegypti per la nicchia ecologica che adesso occupa e per l’intera ecologia del sistema? Sullo sfondo, intanto, si agitano domande filosofiche di grande profondità (cioè domande globali sul tipo di vita che vogliamo vivere): È meglio sbarazzarsi di un pericolo o imparare a conviverci? Può essere desiderabile un mondo in cui una specie sia stata distrutta? È lecito considerare il bene degli esseri umani come decisivo? È lecito per gli esseri umani giocare il ruolo di Dio? È un esempio paradigmatico della natura ludica della ricerca più avanzata e prestigiosa. Si procede (quando si procede e non si corre sul posto) non con un disciplinato esame della questione e un lavoro certosino teso a scoprire che cosa sia necessario per dirimerla (come vorrebbe la più comune ideologia) ma invece ascoltando discorsi che non c’entrano, combinando contributi eterogenei, mutando radicalmente prospettiva e contando molto sulla fortuna (se volete giocare bene a briscola, o anche a bridge, fatevi venire delle carte). E, una volta che, in questo modo macchinoso e fortuito, abbiamo eventualmente trovato qualcosa che sembra risolvere la questione, dobbiamo confrontarci con il fatto che ci sono rischi forse tragici nello scegliere una strada così inedita. Potremmo illuminare la stanza o bruciare la casa, e, per quanto a lungo abbiamo giocato per procura con una rappresentazione verbale o mentale delle conseguenze della nostra scelta, girare l’interruttore è un’altra cosa. Prima che ci si decidesse a esplodere una bomba atomica, c’erano fisici nucleari che, sulla base della stessa teoria dei loro colleghi «interventisti», prevedevano che l’atmosfera ne sarebbe stata consumata e la vita sulla Terra si sarebbe estinta. È facile dire che avessero torto, dopo aver girato l’interruttore. E dobbiamo confrontarci con il fatto che una questione non è mai davvero risolta: che ogni risposta suscita nuove domande, che il gioco che ha prodotto quella soluzione la supererà, come supererà ogni altra soluzione, perché il gioco non ha mai fine. Sono i Labirinti dell’essere. Abbiamo compiuto il viaggio promesso. Partendo dal gioco di una bimba di due anni abbiamo raggiunto giochi fisici come il calcio e il tennis, intellettuali come gli scacchi e il bridge, giochi in compagnia e solitari; abbiamo catturato nella nostra rete ludica l’arte, la letteratura e la filosofia. E lo abbiamo fatto, converrà ripetere, non riducendo il gioco a un’eterea silhouette, non facendo del «gioco» filosofico o letterario una metafora che mostra presto la corda – perché se è vero che ci sono analogie fra l’etica e il tressette, si sarebbe pronti a obiettare, è anche vero che ci sono molte differenze. La bimba che ha inaugurato la nostra avventura non ci ha mai lasciato; ha acquisito per strada competenze e capacità che nessuno può avere a due anni, ma il suo universo ludico è rimasto lo stesso, una versione adulta del medesimo gioco infantile. Ha incorporato le pareti contro cui andava a sbattere come regole; collabora con maggiore efficacia con i suoi compagni o li manipola con maggiore destrezza; le sue vocalizzazioni hanno preso la forma di un linguaggio articolato; ha imparato, quando è il caso, a parlare senza farsi sentire. Ma l’acqua che scorre fra questi meandri (creati, è importante notarlo e ci ritornerò fra breve, dall’acqua stessa) è ancora quella della sorgente: a dispetto delle complicazioni, per la bimba cresciuta giocare (a calcio, a scacchi, all’arte, alla filosofia, alla letteratura...) è pur sempre immergersi senza alcun fine esterno in un’attività trasgressiva ed esplorativa, piacevole e istruttiva, appassionata e rischiosa. Ogniqualvolta entro le regole che si è imposta o le hanno imposto, o contro le regole, una persona riesce a ritrovare lo spirito che l’animava a due anni, la bimba ritorna e riprende il controllo delle operazioni: seria, intenta, un po’ inquieta, audace, intimamente soddisfatta. Ancora Huizinga: «Il gioco del bambino possiede la qualità ludica qua talis e nella sua forma più pura» (p. 40). La peculiarità di questo atteggiamento risulta più chiara quando se ne considerino le conseguenze sul piano dei valori. Se la filosofia avesse una sua definizione indipendente, diciamo di essere tesa alla scoperta della realtà o della verità o della saggezza, e fosse un gioco solo in senso metaforico, perché praticata con creatività e passione, ne seguirebbe che una buona filosofia è quella che meglio approssima la scoperta della realtà o della verità o della saggezza, senza riguardo alla creatività o passione con cui è condotta. Chi eventualmente potesse pervenire alle stesse scoperte senza creatività o passione avrebbe, in ambito filosofico, gli stessi meriti (e dimostrerebbe che la metafora ha fatto il suo corso: Giulietta non brilla più come il sole). Se invece la filosofia è definita come un gioco, sia pure il gioco di cercare la realtà, la verità o la saggezza, non ci può essere buona filosofia senza creatività e passione – e trasgressione, e apprendimento, e rischio. Quali che siano le sue pretese di verità e saggezza, una filosofia è degna della nostra attenzione e partecipazione se ci spiazza e ci avvince, ci irrita e ci lusinga, ci fa vivere ripetute Ah-ha experiences e ci suscita obiezioni e disaccordo a non finire. Nello stesso modo, se il linguaggio è innanzitutto uno spazio di gioco, avremo scritto una bella lettera, un bel racconto o una bella comunicazione d’ufficio se le nostre parole sapranno riscuotere il lettore e implicarlo in un progetto comune, il che tanto meglio faranno quanto più porteranno le tracce del respiro e della saliva in cui sono nate, dell’eco che ci hanno fatto risuonare dentro, dell’entusiasmo o dello sconforto, delle lacrime di gioia o di dolore che ne hanno accompagnato l’accesso alla pagina. Ciò corrisponde esattamente, peraltro, ai nostri giudizi empirici ordinari su testi filosofici e comunicazioni d’ufficio, salvo che le nostre concezioni di tali oggetti non fanno giustizia alle nostre intuizioni, e così rimaniamo perplessi davanti a un testo filosofico o una comunicazione d’ufficio «che non hanno niente di sbagliato» perché dicono quel che devono dire e contengono solo enunciati veri, eppure ci sembrano, chissà perché, da buttare. Il discorso sarebbe terminato, dunque: avremmo percorso il labirinto e saremmo arrivati nella stanza dove si ritirano i premi. Ma mi piace pensare che la stanza non sia chiusa e che anzi il premio consista in una porta aperta su un altro sentiero tortuoso da percorrere, in un bosco stavolta anziché in una claustrofobica caverna. Non mi lancerò qui nel nuovo viaggio cui il sentiero invita, ma getterò lo sguardo in quella direzione per stimolare la mia e forse l’altrui curiosità. In questo libro ho parlato del gioco come di un’attività esclusivamente animale, e perlopiù umana. L’ambiente inanimato è stato visto come strumento del gioco (palle, cubi, carta e penna) o come suo ostacolo (pareti, spigoli), non come suo soggetto. La cosa sembra ragionevole: se il gioco, come ho detto, è vita, allora è riservato agli organismi viventi; se consiste in una serie di mosse – devianti, istruttive, pericolose, ma pur sempre mosse – allora per praticarlo occorre potersi muovere, il che fra gli organismi viventi sembrerebbe escludere le piante. Ma è poi tanto certo che così stiano le cose? Proviamo a giocare con le apparenti tautologie che ho enunciato. Se la vita richiede funzioni che noi siamo in grado di riconoscere come respiratorie, metaboliche e riproduttive, allora è chiaro che un orso, un pappagallo e una quercia sono vivi ma una pietra no; se il movimento richiede che un ente con una sua precisa struttura si stacchi (almeno in parte) dalla sua posizione spaziale e ne assuma un’altra, allora formiche ed elefanti si muovono ma un geranio o un cipresso no. Supponiamo però di invertire l’equazione che ho appena citato: se il gioco è vita, la vita è gioco. E ricordiamo che il movimento che conta per il gioco/vita si svolge in uno spazio esistenziale, non sempre fisico. Con tali premesse, non è forse gioco/vita quello di un cielo che non appare mai due volte nella stessa configurazione, di un corso d’acqua che costruisce i suoi meandri o della sabbia che costruisce un lido, di cristalli di neve di forme delicate e idiosincratiche (ciascuno, sembra, un esperimento a sé stante), di una foresta che alterna grovigli e radure, tronchi giganteschi e canne flessuose? E non è forse vero allora che al mondo non esiste nulla di inanimato? Nel nono capitolo ho parlato dei diversi modi in cui possiamo giocare con un altro: trattandolo da strumento o da compagno. Vorrei aggiungere ora che trattare un altro da strumento significa trattarlo come un oggetto inanimato: anche se l’altro è un essere umano, il mio rapporto con lui (o lei) sarà basato sul controllo che esercito, schiacciando i suoi tasti per ottenere l’effetto voluto. Il limite di questo controllo sarà percepito come un’oscura minaccia e sarà causa di disagio o di terrore; sentimenti così penosi hanno però un ruolo significativo – segnalano la possibilità ancora indistinta di passare da un’utilizzazione a un incontro, quando si riescano a dominare l’ansia e la paura. La medesima pluralità di atteggiamenti ci è disponibile nei confronti di tutto l’essere. Possiamo giocare con la natura come con una risorsa, e oscillare dalla boria sprezzante di averla ridotta al nostro servizio all’inquietudine che quando meno ce lo aspettiamo ci si apra la terra sotto i piedi (dal bruciare allegramente carbone e petrolio al preoccuparci per il buco d’ozono e il riscaldamento globale), oppure come con un compagno, raccogliendone i suggerimenti, facendole delle proposte, cercando di costruire insieme un bel castello. Chi vive il rapporto in questo secondo modo (molti lo fanno, pur se spesso non hanno parole per dirlo) sente che una montagna lo sfida ma anche lo assiste premurosa nel trovare una via per scalarla, che il mare ti avverte quando vuole lottare con te, che la macchina ha piacere a distendersi veloce fra curve e dislivelli con sapienti cambi di marcia, che il caffè mattutino parla di energia, di fiducia, di piani ambiziosi per la giornata. Sarà bene che la smetta, prima che qualcuno pensi che il gioco mi ha preso la mano – che poi sarebbe il suo, e il nostro, destino. Ma non posso che congedarmi con una provocazione. Ho percorso un labirinto per dipanare il senso di un’attività che è a sua volta labirintica, ferocemente intricata. A quello che sembrava il termine del labirinto ho trovato un’indicazione, ancora in buona parte misteriosa: che non si tratti di un labirinto qualsiasi, che la sua natura labirintica sia la natura dell’essere in quanto tale. Perché solo chi gioca, nelle mille disparate manifestazioni in cui il gioco si realizza, è: è vivo, esiste. I labirinti ludici dell’essere sono l’essere; il resto è uno zombie, un fantasma, uno spettro. Basta una risata divertita per farlo scomparire.Ermanno Bencivenga. Keywords: il piacere, teoria del linguaggio, logica libre, metodo della logica, calcolo di predicati di primo ordine, logica di termini singolari, piacere, bello, logica dialettica, implicatura, Hegel, Kant, gioco. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bencivenga” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bene – Tancredi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Maruggio). Filosofo italiano. Grice: “Molto bene”. Figlio da Lupo e da Perna Longo, entra nell'ordine dei Teatini e fu professore. Lascia importanti opere come l'Apologia del Tancredi e la Summa Theologica. A Maruggio, in sua memoria è stato intitolato l'istituto comprensivo e una via cittadina.  Opere: “Apologia del Tancredi”, “Summa Theologica” “De officio S. inquisitionis circa haeresim” “De immunitate, et iurisdictione ecclesiastica”, “Theologiae moralis Tractatus”. Tommaso del Bene. Nacque in Maruggio -- luogo nella diocesì, non già della diocesì di Taranto, come li è scritto da molti; perchè è nullius come Tuoi dirli, ed è Commenda della Religione di Malta -- e dopo di aver apprese le latine lettere, e le greche, la matematica, e l’astronomia, entra fra’ Teatini, e ne professa l’instituto in SS. Apolidi di Napoli. Sostenne l’ impiego di lettore di filosofia. Ma avendo poi pubblicato il "De comitiis" per cui ebbe in Napoli qualche disgusto, gli convenne di trasferii in Roma. Quivi pensando e scrivendo in modo da piacere a quella corte, incontra miglior sorte, e fu predo decorato delle cariche di esaminator del clero, di qualificator del S. Uffìzio, e di confaitore di più congregazioni (a). Fu incaricato inficine co’Tea- tini Vincenzio Riccardi, ed Aeoftino de Bellis della revifione ed y emendazione dell’ Eucologio de Greci: e da Papa Alessandro VII. fu messo nella congregazione indituita per l'esame delle proposizioni di Gianfenio. In premio de’ fuoi fermisi furongli offerti alcuni Vcfcovadi ch’egli Rimò meglio di modedamente rifiutare. On-? de terminò di vivere da semplice religioso in Roma. (b). Le sue opere sono molte. Brieve Apologia del Tancredi, Poema di Ascanio Grande. Si trova dietro l'Apologia dell’ iftefio poema fatta dall'arcidiacono Palma, e Rampata in Lecce i Ò35. in 8. Niuno ha fatta menzione di quell'opuscolo del P. Del Bene, dell’ Ab. de Angelis in fuori, il quale ne ha parlato con lode nc’ Letterati Salentini Par. z. nella Vita del Grande pag. i$z. a. De Comitiis yfeu Parlamenti! •, ac inciijfnter (T corollarie de aliis moralibas marerii!, precipue de ecclefinQica immunitate, Dubitationes morale!. Lugduni fttmpt. Nemejìi Trichet i6\g in 4. con dedicatoria dell’autore a Papa Urbano Vili, e poi, da lui deffo ri- veduto ed ampliato, Avemonefumpt. Guill. Halli inf. cor. dedicatoria al Card. Francesco Albizi. Quedo su il libro, per cui dovette partir di Napoli il P. Del Bene. Prese in elfo a trattare della morale, che nfguarda i tribunali regi, e gli delfi sovrani. Materia assai di!icata,e che vuole altri lumi di quelli, che aver fuole il volgo de’ moralidi 3. De immunitate jurifdittione eccleftajlìca Opus abfolutìjfimum in z. parte! di/lributttm. Ivi Jumpt. Phil. Borie, Laur. Arnaud, <5* Claud. Rigaud 1650. in f. (c) 4. Summa theologica. Ivi fumpt. Jo. Ant. Huguetan, O* Mar. Ant. Ravaud in f. 5. Trattarui morale!: videlicet de Conscientia; de radice re/litu- rioni1 aliarumque obligationum <2Tpcenarum,ut eucommunicatio- nii & irregularitatt! eu delitto de Comieiii seu Parlamenti!, ubi etiam da alagiti (5“ contrattibus; de donativi! tributis (T fubjìdio Caritativo. Avtnione Guill. Halli ió%8. in f. (d) ó.De (a) Di tatti cotefli titoli fi fregia in virj suoi libri. (b) Cosi il Vezzoli Senti. Titt. che cita i reijitlri di S.Ao'* ea della Val- le; e perciò debboao correggerli il SavanaroU Gtrarth. Eccl. Tttt. p. 6j. e fegg. il Mazzucch. Striti, $ lui. ed altri (c) E poi Avtniont Jo. Fiat. T.z. in f. Il MazzuecheHi s’è inganna- to r eli attribuire a quell’ Opera le aggiunte fatte dall’Autore al libro dt Offi. ti Y. Inquisitionit.  (d) Il Vezzofi lot. tit, p.i 15. annoi, z. cenfura il Mazzucchelii d’aver det-. t». Digjtized by Google   BENE BENEDETTI.,99 • 6. De Officio S. Inquisitionis circa h<trejim cum Bulli* tam voteti- bus quam recentioribus etc. Lugd. Jumpt. ] A. Huguetan, T. 2. in f. L’ autore poi compose, e vi uni le seguenti: Additiones de loci theologicis ad tomo de Officio S. Inquisitionrs perneceffa• ria in f. Opuscolo di pag. sa il quale fi riftampò in 8. fenz’ alcu- na data, coi titolo di Trattanti in vece di Additiones. 7. De Juramento, in quo de ejus 0" voti rclaxationibus &c. cui Dectftonet S- Rotte Romana accedunt &C- Lugd. fumpt. guetan, 0" G. Barbier. in f, CXI.  da Capoa, ha rime nel Sello libro delle Rime di diverfi eccell. Autori nuovamente raccolte ec. da G. Rufcelli. Vene*. G.M- Bottelli 1553. in 8. (a), CXII. e Canonico Aquilano, diede alla luce: L' Imprefe della Mae/là Cattolica di D. Filippi di Auflria II. Re di Spttgna rapprefentate nel tumolo ptr la Jua, morte eretto dalla fedèlifs. citta de.’f Aquila ec. Aquila Lepido Faci 1599. in 4. Toppi Bibl. Nap. CXIII. BENEDETTI (Giuf. dilettò di Poefia volgare, ed era Paftor A/cade della Colonia Ater- nino, di cui fu Vicecuftode, e vi fi denominò Alcidalgo Spai da- te (b) Nell’ Accademia de’ Velati di fua patria egli era Principe  (r). Fu anche accademico Infenfato di Perugia (d). Di lui fi ha alle {lampe la vita di Biagio Aleffandrò dall’Aquila nel- le Notiss. Iftor. degli Arcadi morti BENEDETTO, Arciv. di Milano. V. Crifpo (Benedetto ), BE-. to, edere (lato il libro de Comìtiis unito dal P. del Bene in un corpo, o to- mo il Trattanti moralts: elfendo quello un libro didimo, comechè in alcuni efemplari fi trovi a quello unito. Ora in primo luogo il Mazzucchelli non dice nè punto nè poco di tutto ciò; e foltanto riferifee 1’ edizione de’ Tra- ttatus moralts, come io pure ho fatto, unendovi deCom'niis etc. La qual co- fa è ben diverta, come ognun vede. Ma poi non fo, fé il Vezzofi nella co- fa (Iella abbiali ragione. Io non’ ho il libro, ma lo trovo riferito nel Cara!. Cafanattenfe alla voce Detiene (sbaglio prefo pure dal Toppi B'bl. Nap. } infieme eoa quello de Comìtiis; e ciò, eh' è più, il Nicodemo Addìi. al Toppi p.i]4. chiaramente dice:,, Io oltre l’ultima edizione del libro de Co-,, mitiis etc. fi regillri nel modo, che fiegue: Tbeologia moralis trattetus fextut. „ I. de Comìtiis etc. II. de Alagiis etc. Un trattato fello ne fuppone cin- que, a’ quali dee unirli. (a) Quadrio, Crefcimbeai, Tafuri. Tommaso Del Bene. Keywords: Tancredi, Monteverdi, Tasso. Moralia, mos, morale, cavalleria. Il santo cavaliere, mendacio, mentire, iuramento, morale, moralia, abiuratio, conscienza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bene” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Benedetto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crema). Flosofo italiano. Insegna a Padova, di cui divenne in seguito rettore. È ritratto in un dipinto di Giovanni Busi detto il Cariani, allievo del Giorgione. Giovanni Benedetto da Caravaggio. Benedetto. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benedetto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Benincasa – il nudo maschile nell statuaria italiana all’aperto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Eboli). Filosofo italiano. Grice: “Benincasa is a good one; my fvaourite is his ‘la svolta dell’interpretatzione,’ for that is what Boezio knew ‘hermeneias’ was! a turning point!” – Studia a Roma. Dopo aver completato tutti i suoi studi iniziò a lavorare come traduttore di testi letterari (tra altri, Hans Urs von Balthasar) per poi organizzare e curare mostre d'arte.  Membro della Commissione Consultiva Arti Visive della Biennale di Venezia e consigliere del Ministro per i Beni Culturali e Ambientali.  Insegna a Macerata, Firenze e Roma. Scrisse saggi storico-critici su vari artisti. Opere: “Chiesa e storia di Suhard e il Concilio Vaticano II, Paoline; “L'interpretazione tra futuro e utopia” (Magma, Roma); “Poetica della negazione e della differenza” Il Giudizio Universale (Magma, Roma); “Sul manierismo: come dentro uno specchio” (La Nuova Foglio); “Babilonia in fiamme: saggi sull'arte contemporanea” (Electa, Milano); “Architettura come dis-identità” (Dedalo, Bari); “L'altra scena: saggi sul pensiero antico, medioevale e contro-rinascimentale” (Dedalo); “Anabasi Architettura e arte” (Dedalo, Bari); “Alle soglie del sapere” Ed. del Tornese” Joan Miró 2C, Roma); Oskar Kokoschka La mia vita” (Marsilio, Venezia); Oriente allo specchio 2C, Roma); Georges Braque” (Marsilio, Venezia); Jackson Pollock: opere” (mostra, Bari, Castello Svevo) Marsilio, Venezia); “Verso l'altrove: Fogli eretici sull'arte contemporanea” Electa, Milano); Alvar Aalto” Leader); Umberto Mastroianni Monumenti” (Ed. Electa, Milano); Il colore e la luce L'arte contemporanea” (Ed. Spirali, Milano); “André Masson “L'universo della pittura” Mondatori, Milano; Spirali/Vel,  "Alfio Mongelli: infinito futuro", Joyce & Company, Il tutto in frammenti: arte Professore: una nuova interpretazione storica” (Giancarlo Politi, Milano). La citta disalerno ricerca repubblica repubblica archivio  repubblica biennale-il- psi-fa-incetta-di-poltrone. html1http://ricerca.repubblica. it repubblica/archivio/ repubblica artisti-rasputin-nel- mondo- dei- telefoni. html2 lacittadisalerno/ cronaca /benincasa-fece-amare-l-arte-all-italia-~:text=È%20morto %20ieri%20a%20 Roma, autore importanti%20opere letterarie Dal Benincasa 20 Beni Culturali%20e%20 Ambientali. La Repubblica_1, su ricerca.repubblica. Errori giudiziari, su errorigiudiziari.com  Carmine Benincasa. Keywords: il nudo maschile nella statuaria italiana all’aperto, implicatura plastica, la svoglia dell’interpretazione, umberto mastroianni, nudo maschile, statuaria, il segno del teatro: rito, mascara, anabasi, arte come dis-identita, futurismo, arte futurista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benincasa”– The Swimming-Pool Library. 

 

Grice e Benvenuti – filosofia italina – Luigi Speranza (Montodine). Filosofo italiano. Grice: “A good thing about Benvenuti’s discussion of Agostino’s semiotics is that Benvenuti has a strictly philosophical background, rather than in grammar or linguistics or belles lettres, or even ‘theory of communication.’ Therefore, he INTERPRETS Augustine as *I* do!” --  Grice: “You gotta love Benvenutti. He dedicated his life to the semiotics of Agostino (who never knew he was a saint), the first Griceian. Benvenutti divides his discussion of Agostino’s semiotics in three: the semiotic triangle, the taxonomy of signs, and inferenza – For Agostino, ‘segno’ contrasts with ‘cosa.’ And a sign can signify ‘naturaliter’ (fumo, orma, volta). Or non-naturaliter – daglia animali including homo – prodotto dall’uomo – a ‘gesture’ that has to be perceived by one of the five senses – or by the senses – auditum (parola detta) – visum (segno scritto).” --. Cesare Benvenuti   Cesare Donato Benvenuti Don Cesare Donato Benvenuti (Montodine) filosofo. A partire dal 1708 ricoprì la carica di Abate Generale Lateranense. Fece stampare un'opera sulla vita di Sant'Agostino e una traduzione in italiano della Città di Dio  Biografia Cesare Benvenuti nacque dal conte Girolamo Benvenuti e dalla contessa Domitilla Scotti di Piacenza. La prima istruzione fu nella casa paterna di Crema, successivamente nelle scuole tenute dai Barnabiti. All'età di 16 anni volle seguire l'esempio dei suoi due fratelli entrando nella vita ecclesiastica prendendo l'abito della Congregazione lateranense a San Leonardo di Verona. Dopo sette anni di studi di filosofia e teologia venne nominato lettore e come tale risiedette in varie città. Nel 1708 a Roma venne dichiarato abate perpetuo privilegiato con l'incarico di presiedere alla Congregazione dei casi di coscienza e di emanare i giudizi relativi. Per questo suo incarico che esercitò per otto anni crebbe la sua fama di teologo tanto che dal cardinale Barberini lo volle accanto a sé come teologo ed esaminatore sinodale. Benvenuti fu anche postulatore della cause dei santi e si adoperò in particolare per la beatificazione del venerabile Pietro Fererio che fu beatificato da papa Benedetto XIII.  Cesare Benvenuti era anche dotato di particolari capacità diplomatiche tanto da ricevere incarichi in tal senso in Germania e a Vienna. Assieme a questi ufficii curiali Benvenuti esercitò anche le pratiche caritative della sua ordinazione sacerdotale visitando e prendendosi cura dei poveri e degli ammalati. Trasferitosi da Roma a Napoli fu colpito da apoplessia e quivi morì.  Altre opere: “Vita del gloriosissimo padre santo Agostino, vescovo e dottore di S.Chiesa” (Stamperia Barberina); “Discorso Storico-Cronologico-Critico della vita comune dei chierici de' primi sei secoli della Chiesa” (Stamperia di Antonio de Rossi); “La città di Dio, opera del gran padre s. Agostino vescovo d'Ippona, tradotta nell'Idioma italiano, Stamperia di Antonio de Rossi). stone lo Stato di Grazia. I. Sono sua eredità, Vita comune deg'apostoli &the sono i primi Sacerdoti di Gesù-Cristo.V.S. Lucanonne parla: la rispondechica vedere la poca forza dell'argomento negativo. Vita comune de primi fedeli. Uti. Vita comune e votiva de Santi Apostoli e de primi Fedeli Passò succesivamen s e la Vita comune ne Ministri dell'A l r a r e. De' terapeuti, che se ne dice. Persecuzione della Chiesa. Comunità di Vergini Sagre nelle decadenze di questo primo secolo, è fa nell'incominciare del secondo Sentimenti d'Origene. Della Comunità Apostolica come parli Cipriano. Del i modo di vivere degli Ecclesiastici Jocto Dionigi. Paolino. SE G10LO 1L Comunità de' beni nello stato dell'innocenza. Sacerdoti istituiti daGesù-Cria Vita comune votiva del clero di Gerusalemme secondo la decretale afsritta a Clemente. Della comunità del clero ďAntiochia. Della Vita, de Fedeli e reSpettivamente degli Eclesiastici cosa scrissero: Giustino martire, Policarpo, Ireneo, Dionigi di Corinta ed Apollonia. Della Vita comin g ne del Clero di Mans SECOLO III.  Clemente Alessandrino come parla della Continenza. Della vita comune votiva, triferita da Urbano Papal. relativamente a quella descritra da Clemente PapaI. III. praticoinse la Povertà Apostolica. Del celebre Pierio Prete della Chiesa diAlessandria. Genulfo Uomo Apostolico promove la Vita Comunono Fedelida lui convertitieconfa. gratialculeo del Signore on    la Cornunità de'Cherici ly Vira Comune nel Clero di Vercelli. Come de Cherici iparla Ilario Pittavienfe. Esortazione del SantoDiaconoEfrem Siro agli Ecclessastici. Comunità de'Cherici della Chiesa Rinocorurese. Basilio come parla a' CanoniciedaleCanonicbese. Basilio che scrise di Ermogene e di Zenon neilPelusota, ed i molti Vescovie Preri Se Epifanig. Che racconta Severo Sulpizio della Povertà d'u n Prece, Tofimonio Postumiano. Del Clero vivente in commune nela Chiesa di Salaming in Cipre. De Clero di Ambrogio di Milano. De Cherici d'Aquileja. Della Chiesa Cartaginesi. Della Comunità di Agostino nelle vicinanze di Tagasta. Sentimenti di Girolamo sopra lot Staro di Chorici. Comunità di Agostino Prete in Ippona. Della Comu nità d'Agostino nel PalazzoVescovile–Ippona. Ii Concilio Cartaginese ci porta la Comunità di Vescovi coloro Cherici. SEGOLO V. La Comunità Chericale Sparsa perl'Africa. Di Mario Arelatenfee del suovina vere Chericale. Del Clero Africano corso à Roma à cagione de'Vandali forto il Papa LeoIne. Cheg indižio possa farlidelaperforiadit. Prospero e delsuo vivere Chericale, Della Vita comunend Clero d'Ibernią foto,S.Rørrizio Vescovo.VI. Della Vita Regolare degli Ecclesiastici della  Chiesa di Calcedonia. Che dice Giuliano Pomerio de Chericie, de Cherici del suo tempo. Del Pontefice Gelafio Primiera mente tratasi delMonte Celio. De Laterani e loro Palazzo, che fù convertito nela Basilica Lateranense, Del vivere comune de ChericiLao "teranefo, Che's.Gelafio è Africano, Dell' antica puncupazione di Canoni, Dell'invasione di Longobardi nel Monte Cassino e venutdai que' Monacià Roma, e loro dimora; e dell'oratorio di Pancrazio, De Priori della Chiesa 1 Lateranense Canonici Regolari SECOLO VI, m. Della Vita Chericale comune secondo quella d'Ippona indicata negl'tti di Lorenzo detta! Illuminatore. Che cosa prescrive il Concilio Ilerdense. Che il Concilio di Toledo, Che i Padri del Concilio d'Orlans. Che ferive di Baudino Gregorio SICOLO:Ivi. Povertà Evangelica sandria. Ill.Zin Canone del Concilio Romano, atribuito à Silvestro vien intejaper Buplio Diacono. Comunità Chericalen e laChiesa d Ales O o. DI 1 1 Turonense. Che fece Leobina Vescovo nella Chiesa Carnotenje. Dalle proibizioni del Concilio Arelaten fededucesi il metodo del vivere Chericale di que' tempi.Vita Regolare ne' Cherici espressa nel Concilio di Tours. De vivere in comune de Chericj in Romaforzo il Pontificato di Gregorio Magno. Note  Fonte: Francesco Sforza Benvenuti, Storia di Crema, p.37Filosofia Filosofo del XVII secoloTeologi italiani 1669 1746 Montodine NapoliTraduttori dal latino. Don Cesare Donato Benvenuti. Cesare Donato Benvenuti. Cesare Benvenuti. Keywords: paganismo, religione romana antica, paganesimo ario in Italia, i romani, i ostrogoti, i longobardi, religione romana, religione ostrogota, religione longobarda, mitologia romana, mitologia ostrogota, mitologia longobarda, cultura romana, cultura ostrogota, cultura longobarda, le fonte pagane della teoria del segno in Agostino – semeion, signum, segno, segnare, segnante, segnato. Antecedenti di una teoria unitaria del segno.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Benvenuto – il grido – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Grice: “Benvenuto is a good one; my fiavoruite is his ‘stupore e grido,’ the functionalist idea that after some sensorial input (stupor) you get the manifestation in behaviour alla Witters – the ‘grido’ – and then there’s one which is J. L. Austin’s favourite: his “a man of words and not of deeds is like a garden full of weeds,” – difficult to translate, but Benvenuto offers, ‘dicieria,’ and ‘dicitura,’ which aptly combines with ‘empiegatura, or in my more Latinate (or learned) terminology, ‘in-plicatura’!” Già Primo Ricercatore presso l'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione (ISTC) del CNR a Roma. Professor Emeritus di Psicoanalisi presso l'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev (gemellata all'Nizza). Ha fondato (nel 1995) e diretto l'European Journal of Psychoanalysis. Ha compiuto gli studi universitari all'Università Paris VIIDenis-Diderot dal 1967 al 1973, dove ha ottenuto la Maîtrise in Psicologia. Nel frattempo, ha seguito i seminari di Roland Barthes e di Jacques Lacan. In seguito ha preparato un dottorato in Psicoanalisi con Jean Laplanche all'Università Parigi 7. A Milano si è formato in psicoanalisi attraverso gli psicoanalisti della S.P.I. Elvio Fachinelli e Diego Napolitani, fondatore della Società Gruppo-Analitica Italiana.  Trasferitosi in seguito a Roma, si divide tra la ricerca in psicologia sociale al CNR, l'attività privata come psicoanalista, e il lavoro di pubblicista. È stato cofondatore e caporedattore della rivista Lettera Internazionale (fondata nel 1984) ed è tuttora assiduo collaboratore del trimestrale Lettre Internationale di Berlino, e Magyar Lettre di Budapest. Nel 1995 ha fondato a New York il semestrale Journal of European Psychoanalysis, divenuto poi EJPsy, European Journal of Psychoanalysis, che tuttora dirige. Dal  insegna psicoanalisi all'Istituto Internazionale di Psicologia del Profondo di Kiev e all'Istituto di Psicoanalisi Moderna di Mosca.  Pensiero Benché Benvenuto si sia occupato di campi in apparenza alquanto diversi tra loropsicologia sociale, filosofia del linguaggio e della politica, psicoanalisi, teoria della politicaa partire dagli anni 90 ha articolato un progetto predominante che tocca i vari campi: sostituire al primato della riflessione sulla Verità (tipico della cultura occidentale) una riflessione che punti al Reale. In questo modo egli cerca una terza via tra le due culture predominanti e in opposizione in Occidente: l'epistemologia positivista (interessata alle condizioni di verità degli enunciati) da una parte, la fenomenologia e l'ermeneutica dall'altra (interessata al disvelamento di una Verità che si dipana nella storia umana).  Egli mutua il concetto di Reale dal pensiero di Jacques Lacan, ma ne allarga il senso, includendovi tutto ciò che resta esterno (origine e resto) a ogni assetto di senso, sia esso scientifico, estetico, o etico-politico. Il Reale è quel fondo attorno a cui gira ogni teoria scientifica, ogni produzione artistica, la psicoanalisi di ciascun soggetto, ogni assetto etico, e che resta sempre in eccesso rispetto a tutti questi “discorsi”. Così, il Reale di ogni teoria scientifica è il Caos che si pone come limite e sfondo di ogni processo causale. Il Reale in psicoanalisi è il fondo pulsionale, corporeo, irriducibilmente individuale, di fronte a cui ogni interpretazione si arresta.  In Dicerie e pettegolezzi (dove articola una teoria delle leggende metropolitane) mostra come quasi tutto il nostro sapere di fatto sia costituito da leggende metropolitane, oltre le quali fa capolino la realtà dell'evento che ogni discorso sociale aggira. In Un cannibale alla nostra mensa affronta la questione del relativismo moderno, a cui oppone un “relativismo relativo”, facendo notare come ogni impostazione relativista rimanda necessariamente a qualcosa di assoluto che resta non tematizzato, presupposto e schivato. Accidia è una storia della malinconia dal Medio Evo fino a oggi: il senso e la natura che ogni epoca dà alla “depressione” rimanda a un vissuto opaco che nella storia viene interpretato diversamente.  In “Sono uno spettro, ma non lo so” analizza la cultura degli spettri e il nostro rapporto con i morti, notando come la morte “viva” tra noi proprio come istanza di Reale inassimilabile a ogni progetto di vita, ma che avvolge la costituzione di questi progetti. In particolare (ad esempio in La strategia freudiana e in Perversioni) si è dedicato a una rilettura originale della teoria di Freud, e della psicoanalisi in generale, come fondata su una metafisica precisa della “carne significante”. Il tessuto interpretativo ed esplicativo di Freud rimanda però a sua volta a qualcosa di non interpretabile né spiegabile: la pulsione come sorgente opaca e non-significante della soggettività.  Altre opere: “La strategia freudiana, Napoli, Liguori);  "Traduzione / Tradizione" in Moderno Postmoderno, Feltrinelli, Milano); La bottega dell' anima, Milano, Franco Angeli); Capire l'America, Genova, Costa & Nolan); Dicerie e pettegolezzi, Bologna, Il Mulino); Un cannibale alla nostra mensa. Gli argomenti del relativismo nell'epoca della globalizzazione, Bari, Dedalo); Perversioni. Sessualità, etica e psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri); “Accidia. La passione dell'indifferenza, Bologna, Il Mulino); “Lo jettatore, Milano, Mimesis); “La gelosia, Bologna, Il Mulino); “Alle origini del relativismo moderno”, Dei cannibali, Mimesis, Milano); “Confini dell'interpretazione. Freud Feyerabend Foucault, Milano, IPOC); “Sono uno spettro, ma non lo so, Milano, Mimesis); “Wittgenstein. Lo stupore e il grido, Milano, meditare; Sette conversazioni per capire Lacan, Milano, MIMESIS, La psicoanalisi e il reale. 'La negazione' di Freud, Orthotes, Napoli-Salerno. Godere senza limiti. Un italiano nel maggio '68 a Parigi, Milano, Mimesis,  Leggere Freud. Dall'isteria alla fine dell'analisi, Orthotes, Napoli-Salerno. Il significante, tra Saussure e Lacan, su journal-psychoanalysis.eu. su psychomedia. Il progetto della psichiatria fenomenologica, su mondodomani.org. Sergio Benvenuto. Keywords: il grido, segnante, segno, segnato, arbitrario, naturale, convenzionale, established, recognised, stabile, stabilito, sistema di communicazione, iconico, non-iconico, convenzionale, assoziativo, artificiale, non-naturale, non-artificiale, procedimento, repertorio di procedimento, idio-lecto, idio-sincrasia, popolazione, interprete, interpretante, mittente, recipiente, nozione di consequenza come nozione comune a segno naturale e segno no naturale, Hobbes sulla consequenza del segno convenzionale, segno naturale, segnare naturalmente, segnare non naturalmente, l’adverbio ‘naturaliter’, ‘ad placitum’, a piacere, natura, convenzione, posizione, natura, phusei, thesei, positio, positione (ablativo di positio) – thesei – ‘natura’ (ablativo di natura), imago Acustica, naturalita dell’imago, segno come imago, Benvenuto su Plato sulla aribtrarieta del segno, Benvenuto su Heidegger sulla arbitrarieta del segno, l’impiegatura della dicitura, segnante, meaner, one-off communication, communicatum, segnaturm, one-off segnatum, iconico, non-iconico, confine dell’interpretazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Benvenuto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Berardi – telepatica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “You gotta love Berardi, but I wonder if his background is in the classics – he has written on ‘il futuro della comunicazione,’ and coined some nice neologisms, like ‘psiconautica,’ – which is like my telementationalism, only different – and dialogued with Guattari --  While Berardi is into ‘il futuro della comunicazione,’ we at Oxford, them with a lit.hum. are usually into the PAST of communication!” -- Franco Berardi (n. Bologna), filosofo. Detto “Bifo” -- Agitatore culturale italiano. All'età di quattordici anni si iscrive alla FGCI, ma ne viene espulso tre anni più tardi per "frazionismo". Partecipa al movimento del '68 nella facoltà di lettere dell'Bologna, ove nel '67 conosce Toni Negri. Si laurea in Estetica con Luciano Anceschi e aderisce a Potere Operaio, gruppo della sinistra extraparlamentare di cui diviene figura di spicco a livello nazionale. Nel 1970 pubblica il suo primo libro, Contro il lavoro (edito da Feltrinelli). Nel 1975 fonda la rivista A/traverso, un foglio che era espressione dell'ala "creativa" del movimento bolognese del 1977; nei suoi scritti mette al centro della propria analisi il rapporto tra movimenti sociali e tecnologie comunicative.  Nel 1976 partecipa alla fondazione dell'emittente libera Radio Alice e subisce l'arresto per l'accusa di partecipazione alle Brigate Rosse, da cui viene assolto un mese dopo. Per richiederne la scarcerazione, Radio Alice organizza una festa in Piazza Maggiore, a cui partecipano oltre diecimila persone. Berardi viene scarcerato poco dopo, e diviene il leader dell'"ala creativa" della protesta studentesca bolognese del 1977. Dopo la chiusura della radio da parte della polizia, contro Berardi viene spiccato un mandato per "istigazione di odio di classe a mezzo radio", per sottrarsi all'arresto fugge da Bologna. Si rifugia a Parigi dove frequenta Félix Guattari e Michel Foucault e pubblica il libro Le Ciel est enfin tombé sur la terre (Éditions du Seuil).  Negli anni ottanta rientra brevemente in Italia e poi si trasferisce a New York dove collabora alle riviste Semiotext(e), Almanacco musica e Musica 80. Viaggia a lungo in Messico, India, Cina e Nepal. In quel periodo inizia ad occuparsi della crescita delle reti telematiche e preconizza la futura esplosione della rete quale vasto fenomeno sociale e culturale[senza fonte]. Alla fine degli anni ottanta si trasferisce in California dove pubblica alcuni saggi sul cyberpunk. Ritorna a Bologna e, in veste di protagonista, partecipa al documentario Il trasloco di Renato De Maria, prodotto dalla RAI nel 1991, incentrato sulla storia del suo appartamento. Collabora poi con varie riviste culturali fra cui Virus mutations, Cyberzone, Millepiani e varie case editrici fra cui la Castelvecchi e DeriveApprodi. Collabora, inoltre, alla stesura di testi per MediaMente, la trasmissione televisiva prodotta da RAI Educational e condotta da Carlo Massarini dedicata al mondo di Internet e delle nuove tecnologie di comunicazione.  Collabora alla rivista DeriveApprodi insieme a Sergio Bianchi e altri. Cura con Pasquinelli l'ambiente di rete Rekombinant. Nel 2002 fonda Orfeo Tv, la prima televisione di strada italiana. Nel 2005 un suo pamphlet che si scaglia contro le politiche sociali del nuovo sindaco di Bologna Sergio Cofferati viene ripreso con enfasi dalle testate giornalistiche nazionali. Lavora come insegnante presso l'istituto tecnico industriale Aldini Valeriani di Bologna. Pubblica regolarmente sul quotidiano Liberazione, sulla rivista alfabeta2 e sul sito Through Europe. Collabora alla rivista canadese Adbusters. Anima la mailing-list Rekombinant con Pasquinelli.  Altre opere: “Contro il lavoro”; “Scrittura e movimento” (Marsilio); “Teoria del valore e rimozione del soggetto: critica dei fondamenti teorici del riformismo” (Verona, Bertani); “Primavera” (Roma, Stampa Alternativa); “Chi ha ucciso Majakovskij” (Milano, Squi/libri); “L'ideologia francese: contro i "nouveaux philosophes"” (Milano, Squi/libri); “Finalmente il cielo è caduto sulla terra. Milano, Squi/libri); “La barca dell'amore s'è spezzata. Milano, SugarCo); “Dell'innocenza” (Bologna, Agalev); “Presagi. L'arte e l'immaginazione visionaria” (Bologna, Agalev); “Terzo dopo guerra” (Bologna, A/traverso); “La pantera e il rizoma” (Bologna, A/traverso); “Una poetica Ariosa” (Milano, ProgettoArio); “Più cyber che punk. Bologna, A/traverso); “Politiche della mutazione. Milano-Bologna, Synergon), “Dalla psichedelia alla telepatica” (Milano-Bologna, Synergon); “Hip Hop rap graph gangs sullo sfondo di Los Angeles che brucia. Milano-Bologna, Synergon); “Cancel & Più cyber che punk. Milano-Bologna, Synergon); “Come si cura il nazi. Castelvecchi); “Mitologie Felici. Milano, Mudima); “Mutazione e cyberpunk. Immaginario e tecnologia negli scenari di fine millennio. Costa & Nolan); “Lavoro zero. Castelvecchi); “Neuromagma. Lavoro cognitivo e infoproduzione. Castelvecchi); “Ciberfilosofia”; “Dell'innocenza”, “Premonizione. Verona, Ombre Corte); “Exit. il nostro contributo all'estinzione della civiltà. Costa & Nolan); “La nefasta utopia di Potere operaio. Castelvecchi); “Alice è il diavolo. storia di una radio sovversiva”; “Shake edizioni. La fabbrica dell'infelicità: new economy e movimento del cognitariato. Roma, DeriveApprodi); “Felix. Narrazione del mio incontro con il pensiero di Guattari, cartografia visionaria del tempo che viene. Luca Sossella Editore), “Quando il futuro incominciò. Fandango Libri); “Un'estate all'inferno”; “Telestreet. Macchina immaginativa non omologata. Baldini Castoldi Dalai); “Il sapiente, il mercante, il guerriero. Dal rifiuto del lavoro all'emergere del cognitariato” (Roma, DeriveApprodi); “Da Bologna (serie A) a Bologna (serie B). DeriveApprodi); “Skizomedia. mediattivismo. Roma, DeriveApprodi); “Europa 2.0 Prospettive ed evoluzioni del sogno europeo, edito da ombre corte, Un'utopia senile per l'Europa. Run. Forma, vita, ricombinazione, Mimesis); L'eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalistica, Manni Editori); “La Sollevazione. Collasso europeo e prospettive del movimento. Manni Editori); “L'anima al lavoro, DeriveApprodi); “After the future AKPress, Oakland); “Dopo il futuro. Dal futurismo al cyberpunk. L'esaurimento della modernità, DeriveApprodi); “La nonna di Schäuble. Come il colonialismo finanziario ha distrutto il progetto europeo, Ombre corte,  Heroes Suicidio e omicidi di massa, Baldini & Castoldi,  Asma, C&P Adver Effigi); “Contro il lavoro, DeriveApprodi); “Il secondo avvento. Astrazione apocalisse comunismo, DeriveApprodi); “Futurabilità, Produzioni Nero); “Respirare. Caos e poesia, Sossella), “Il trasloco”, “Io non sono un moderato”.  Note  Filmato audio Alexandra Weitz, Andreas Pichler, L'eterna rivolta, su YouTube, 2006, a 0 min 47 s. 6 agosto.  Cronologia di Radio Alice, radiomarconi.com. 6 agosto.  E-text s.r.l. (http://e-text/), MediaMente: Franco Berardi, su mediamente.rai.).  Bifo: "Con la Gelmini non insegno" Sospeso dall'insegnamento | Bologna la Repubblica  Cominciamo a parlare del collasso europeo, alfabeta2   rekombinant@liste.rekombinant.org, su rekombinant.liste.rekombinant.narkive.com. 6 aprile.  A/traverso | Casa Editrice Etichetta Discografica | AlterAlter Erebus press & label, su Alter Erebus. Félix Guattari Gilles Deleuze Movimento del '77 Radio Alice Telestreet Internet Movie Database, IMDb.com. //th-rough.eu/Pagina personale di Bifo sul  Through Europe Interregno[collegamento interrotto]Hacer lo imprevisible… después del 68: Entrevista con Franco Berardi Bifo(Español) Rekombinant"Listblog" animato da Franco Berardi e Matteo Pasquinelli radioalice.orgsito web su Radio Alice Il Trasloco (scaricabile) su New Global Vision, su ngvision.org. podcast.fmlatribu.comPodcast en castellanoEntrevista con Bifo en FM La Tribu, Buenos Aires Articoli su arte e sensibilità, European School of Social Imagination San Marino; scepsi.eu. 13 agosto  27 novembre ). Interviste a Franco Beradi di Christian Brogi, su ltmd. Franco Berardi su Bookogs. Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Politica  Politica Categorie: Saggisti italiani del XX secoloFilosofi italiani Professore BolognaMilitanti di Potere OperaioMovimento del '77Studenti dell'BolognaFondatori di riviste italianeAttivisti italiani. Franco Berardi. Keywords: telepatica, implicatura del presagio, poetica ariosa, progetto ario, telepatia, pre-sagio, sagio.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bernardi – il duello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo italiano. Grice: “We discussed Bernardi with Sir Peter – when we were tutoring on ‘Categoriae’ – “Surely this is not propedeutic logic! This is pure metaphysics, and even pure physics!” Bernardi held the same view! On top, I love Bernardi because he does not use ‘logica,’ which he thinks for ‘kids,’ but ‘dialettica,’ which is real philosophy!” Aristotelico, nominato vescovo di Caserta. Duomo di Mirandola. Compiuto gli studi presso Bologna avendo come maestri Boccadiferro (l’autore di un trattato sui luoghi comuni d’Aristotele) e Pomponazzi. Si trasferì poi a Roma presso la corte di Farnese, dove frequenta Bembo, Casa e Giovio, e si conquista una fama di filosofo aristotelico e letterato.  Consacrato vescovo di Caserta. Poi a  Parma nel monastero di San Giovanni dei Cassinesi. Fu tumulato nel Duomo di Mirandola.  In occasione del 5º centenario della sua nascita, il Centro Internazionale Giovanni Pico della Mirandola gli dedicò un convegno.  Lo scrittore Antonio Saltini ha utilizzato la figura di Antonio Bernardi come personaggio del suo romanzo storico L'assedio della Mirandola.  Atre opere: “La Monomachia” -- dove si sostiene che il duello è legittimo secondo la ragione e la filosofia morale ma illecito sotto il punto di vista religioso. Note  Vedi Google Libri.  Duello cavalleresco. , Antonio Bernardi della Mirandola (1502-1565). Un aristotelico umanista alla corte dei Farnese. Atti del convegno "Antonio Bernardi nel V centenario della nascita" (Mirandola, 30 novembre 2002), M. Forlivesi, Firenze, Olschki, Aristotelismo Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Antonio Bernardi  Paola Zambelli, «BERNARDI, Antonio», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 9, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1967. Filosofia Categorie: Vescovi cattolici italiani del XVI secoloFilosofi italiani Professore Mirandola Bologna.  EVERSIONIS SINGVLARIS CERTAMINIS. PROPOSITVM NOBIS EST, SINGVLARE certamen, quantum quidem poterimus, fundamentis ſanctiſsimæ religionisnoſtræinnitentes, euertere, ac pe nitus ex animis hominum extirpare, (utpote quod ab homine qui Chriſti ſeruatoris noftri religionem & pie tatem profitetur, abhorreat.) Sed quia edituseſtliber quidam, infcriptus Contra uſum duelli,in quo multa e tiam diſputanturcontra libros noſtrosDehonore,ubi agitur de ſingulari certamine: qui libri ſub nomine loan nis Baptiſtæ Poſleuinifallò in lucem prodierunt:etlino lateat nos illud Ariſtotelis, to gasto TutóvG-gvarſíce tas Sofaes espolwaulio agorti{ eup vxbés oszy: tamen faciendum nobis primùm uidetur,ut ea refellere conemur, quæ contra libros noſtros De honore fcripta ſunt: ut,qui tantű. modò uerborum faciem intuentes, interius autem non expendentes reconditam rerum ueritatem, putauerunt eius libri quem diximus, auctorem, Ariſtotelis ſenten tiam, ueritatem ipſam omnino affequutum effe, facileintelligant,non folùm no. ftra quæ is refellit Peripateticorum doctrinæ prorſus conſentire, fed etiam tantum abeſleut ille (quiquidem magnum ſeadiumentum fuo hoclibro generi humano at tuliſſe putauit) ex doctrina Ariſtotelis, & ex philoſophiamoralilingulare certamē euerterit,ut id etiam ex ipfiuſmet uerbis dari ac permitti in omnibus fere cauſis per, ſpicuè appareat.At ita plane intelligetur,fierinon poſſe utſingulare certamene, uertatur,niſiex fundamentis ſanctiſsimæ religionis noftræ. Quæ quidem res potiſ fimùm nos impulit,ut ad hæcſcribenda aggrederemur. Hocigitur (niſi fallimur) cum ita futurum ſit contra id quod ſibi iſte propoſuerat,magis probandữmihiqui dem uidetur eius conſilium, uoluntas, quàm eo ipfe laudandus, quòd quæ uel let præſtiterit. Sed primùm loquamur generaliter, ponentes id quod ipfe fatetur totius ſuæ cau fæ fundamétum efle,uidelicet ipſius ſingularis certaminis plura eſſe genera. Verùm antequam ueniamus adipfius uerba, uideamus quam facilè hoc eius fundamentum peruertamus:accipientes ex eis quæ ipfe conceſsit &dixit, arma, quibus eius impe, tus aduerſusnoftrum librum labefactetur atą frangatur. Sed quia nos, qui deopi nione Ariſtotelis diſſerimus, hujus controuerſiæ iudicem Ariſtotelem conſtitui mus: afferemus in omnibus uerba ipſius Ariſtotelis, ponentes ea ante oculos, ucho mines qui non certis quibuſdam, deſtinatis ſententijs addicti confecratiga funt, fed ueritatem amplecti deſiderant, facile intelligant quam iniuſtè, quàm etiam con. tra hominum utilitatem, iſte in me quali grauiſsimum aliquod facinus admiſillem, inuaferit. Sed iam ad rem ueniamus. Omnia ſingularia certamina, quæ ex fundamentis naturæ, non ex fancta noftra religione permitti poffunt, ſuntunius generis,uel fpeciei(utiſte loquitur:)ergo fun damentum eius à ueritate abhorret, quod ſcilicet fint plura genera: & quòd ob hanc caufam unum genus fuerit permiſſum, &aliud nõ permiſſum. Ex quo poftmodum emanat, me in libro Dehonore non eſſe lapſum, quia ignorauerim nomen &no. tionem, uim; & originem fingularis certaminis,cum dixerim eius nomen apud GræcosfuiffeMonomachiam,apud Romanos Singulare certamen: quia non fue runt generalia nomina(ut ipſe dicit )fed folùm nomina unius fpeciei uel generis. Conſequentia perſpicua eft: id uero quod antecedit, probemus in hunc modum. Illa certamina quorum eft idem finis, effe etiam eiuſdem generis uel ſpeciei neceſſe eſt.hoc enim loco pro eodem ſumuntur genus & ſpecies. Propofitio ifta conceſſa eſt ab ipſo, etenim a diltinctione finium ſumpſit diſtin, a ctioncm EVERS. SING CERTA M. ctionem illorum certaminum:ut ex fine,qui erat honor,concluſit unum genus cer, 2. Deanima. taminis. Sed probemus ipfam ex Ariſtotele. etenim ipſe inquit: Quoniam autem à text.49. fineappellariomnia iuſtum eſt. Item inquit: Determinatur enim & definitur u. 3.Ethic.o. numquodą fine. Siquidem &ſuperabundantia ut nominetur ad finem, &excellen " tia uirtutum oporter. Si ergo unumquodq; determinatur &definitur fine: ſingu laria ergo certamina decerminabuntur & definientur fine. Ergo ſi finis erit unus, una erit ſpeciesſingularis certaminis:ſi plures,ergo plures ſpecies. De cælo Item Ariſtoteleshæcſcripta reliquit:Cuius enim cauſa unumquod eſt, &factű mundo,tex.116 eſt ipſum eſt illius ſubſtātia. Quæ ergo certamina habent eundē finē, ut fint etiam 1.Oeconom. eiuſdem ſpeciei neceffe eft: etenim ſunt eiufdé fubftantiæ & formæ,necefTech eſt ut materia tantùm differant. Sed omnia illa ſingularia certamina quæ ipſe conceſsit ex fundamentis naturæ, & illud etiam genus quod nos conceſsimus in libris Deho. nore, ſunt certamina ſingularia, quorum eſt idem finis:ut igitur ſint eiuſdem gene. ris uel ſpeciei,neceſſe eſt. Minor probaturſic:llla quorum honeſtum eſt finis, ſunt eiuſdem finis. Propofi tio iſta perſpicua eſt. Sed omnium illorum quæ ipfe conceſsit (utpugnare pro pa tria,pro coniuge,pro regnis, honeſtum eſt finis:ergo habent eundem finem. Sed oftendanus pofterioris huiusſyllogiſmiminorem. Sienim honeſtum non effet eo. rum finis, non eſſent concedenda a Republica bene inſtituta: quandoquidem Rer publica bene inſtituta nunquã concedicinhoneſta, alioquin nõ eſec bene inſtituta. 1. Rhet... Item inquit Ariſtoteles:Ėc fimpliciter bona ſunt honeſta, & quæcunq pro patria facit,perdens fua. Qui ergo facit pro patria, facit propter honeltatem. " Item, Viri fortis finis eſt honeſtum. Qui pugnant pro patria, pro coniugibus, pro filijs, prore. gno,ſuntuirifortes:ergo eorum quipugnant pro patria, pro coniugibus,pro filijs, pro regnis,eſt finis honeſtum. Maior etli perſpicua ex ſe eſt, declaraturtamen ab Ariſtotele his uerbis, quæ ſư 3. Ethic.io. prà etiam citauimus ad aliud probandum: Finis enim, inquit, omnis actionis eft fe., cundum habitum: &uiro forti fortitudo eft honeſta, &talis eſt finis: determinatur, ' & definitur unumquodq; fine.Honeſtienim gratia fortis ſuſtinet &agit ea quę funt, ' ſecundum fortitudinem Ergo uiri fortis eſt finis honeſtum. Deinde paulo pòſt inquit: Oportet autem non propter neceſsitatem fortem el so ſe,ſed quia honeſtum eſt. Item paulo poſt inquit:Fortes enim agunt propter honeſtā ira aūtadiuuatipſos." 1. Rhet... Item inquit:Quæcunq; funt opera fortitudinis, funt honeſta & iufta: & opera iu. ftè facta,ſupple ſunt honeſta.  Bernardi (Ant., Mirandulani, Episcopi Casertani ). - ANTONII BERNAR / di Mirandulani, epiſcopi Caſertani, Eversionis / Singvlaris Certaminis Libri XL. / In quibvs cvm omnes inivriæ ſpecies declarantur: tum uerò offenſionum, & côtentionum, quæ ex illis nafcuntur, honeſtė atque ex uirtute tol- / lendarum ratio traditur: & præter multos, ac propè in- ! finitos locos Ariſtotelis, qui ſunt difficilimi, obiter explicatos. Animi etiā immor talitas ex ipfius ſententia oſten- / ditur: Aſtrologiæ quoq; diuinatio omni pene autoritate fpoliatur, atque libertas humana ſtabilitur. Ad amplißimum uirum Alexandrrm Farnesium Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere memorabilium, Index. --- Basilea, Per llenricum Petri. [ W - 1 '] In folio, al princ. Di queste: 3 per la dedica e 13 pel Rerum atqve verborum locuple tibimus Index. Nel testo alcune iniziali con vignette. La stessa opera di questo autore, detto da alcuni il Mi randola, dalla patria, e da altri il Caserta dalla dignità, è stata pure pubblicata sotto l'altro titolo: - Mirandulani, epiſco- i pi Caſertani, 1 Dispvtatio / nes. I – In qvibvs primvm ex professo / Monomachia (quam Singulare certamen Latini, recentio- res Duellum uocant) philoſophicis ra tionibus aſtruitur, &  mox. diuina authoritate labefactata penitùs euertitur: omnes quoq: iniuriarum ſpecies declarantur, easq'; conciliandi / & è medio tollendi certiſsimæ rationes traduntur. Deinde uerò omnes utriuſque Phi lofophiæ, tam contemplatiuæ quàm actiuæ, Loci obfcuriores, & ambiguæ Quæſtiones, / (præſertim de Animæ immortalitate, & Aſtrologiæ iudi- / ciariae diuinationibus) Ariſtotelica methodo / luculentiſsimè examinantur & / expli cantur. Ad amplißimum uirum Alexandrem Farnesirm / Cardinalem, S. R. E. Vicecancellarium. Acceſsit locuples rerum & uerborum toto Opere / memorabilium, Basileae, Per Henriccm / Petri, et Nicolarm SCIENZA CAVALLERESCA ANTICA Bryling. |  - (In fine:) Finis Qvadragesimi et vltimi i libri Euerfionis fingularis certaminis. / [ Fer] In folio p. 694 con iniziali con vignette. Al princ. 18 p. 1. n. pel titolo, pella dedica al Cardinale Far nese (nella quale accusa di plagio G. B. Possevino, uditore suo, per essersi appropriata un'opera sull'Onore da esso scritta ) e pell' Index. Il Tiraboschi nel t. 1.o della Bibliot. Modenese a p. 241 erroneamente sem brasa credere, che questa seconda edizione losse la stessa cosa della 1.a edizione, della quale essố aveva trovato il titolo nel Mazzuchelli. – Di quest'opera voluminosa del Bernardi, divisa in 40 libri e scritta col preteso assunto di abbattere il duello, stampa il Maffei (op. cit., 1.a ed., a p. 252), che è stata stesa; « con metodo sco « lastico e coll'argomentazione usata in quegli scrittori, che si chiamano di Filosofia; ma procedendo sempre con « equiroci, e confusion di vocaboli e con perpetui sofismi talvolta intrigatissimi e difficili e talvolta manifesti e palesi » Eppure, narra lo stesso Maffei (a p. 264 ), che dell'opera del Bernardi quattro doppie si stimava modesto prezzo. In quell'epoca i libri di scienza cavalleresca erano tanto ricercati, che, scrive lo stesso Maffei, quattro doppie è pur stata valutata un'edizione dell'Ariosto, quella di Venezia per il Valvassori, « sol per poche righe, che in alcuni luoghi vi si trovano con titolo di Pareri in Ducllo ». - In quanto all'accusa di plagio dita apertamente dal Bernardi a G. B. Possevino, essa è abbastanza giustificata. Il G. B. Posse vino era scolaro del Bernardi e questi ebbe dal maestro il suo lavoro sul duello per copiarlo, ma il Pos sevino non si fece alcuno scrupolo di rafazzonarlo alquanto per poterlo far passare come proprio. È vero peró, che la pubblicazione dello scritto non avvenne per opera del Possevino, ma di suo fratello Antonio, che appartenne alla Compagnia di Gesù, ed anzi vuolsi, che G. B. Possevino morendo raccomandasse al fratello di non pubblicare quell'opera sul duello da esso lasciata, ma Antonio Possevino non avrebbe però tenuto conto di questa raccomandazione, tanto più, che al dire del Tiraboschi, a vincer i suoi scrupoli gli era oppor tanamente giunta all'orecchio la falsa notizia della morte avvenuta a Ferrara del Bernardi, vero autore del trattato sul duello, ed egli a tale notizia aveva prestato fede. Il Tiraboschi, che dapprima aveva difeso G. B. Possevino dall'accusa di plagio doveva finire per persuadersi, che tale accusa era ben fondata. Antonio Bernardi. Keywords: il duello, L’assedio della Mirandola. i duellisti, la legittimita del duello, i duellisti, mono machia, duo machia. Il duello nell’antichita romana, roma antica, il duello, statua di due duellisti antichi, armi bianchi, Boccadiferro, Pomponazzi, aristotelismo Bolognese. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bernardo – la tradizione iniziatica italica -- filosofia italiana --  Luigi Speranza (Benne). Filosofo italiano. Grice: “I like Bernardo: he is a philosophical mason – but then most Italian philosophers are, as a way of NOT being Roman!” Massone. Gran maestro del Grande Oriente d'Italia dal 1990 al 1993, ha poi fondato la Gran Loggia Regolare d'Italia. Diplomato in ragioneria e poi impiegato in banca, si laureò in Sociologia presso l'Università degli Studi di Trento. Nello stesso ateneo seguì la carriera accademica, divenendo docente ordinario di Filosofia della scienza e di Logica, nonché pro-rettore. È inoltre autore di nmerosi saggi e pubblicazioni sul tema della filosofia delle scienze sociali e della logica delle norme.  Fu iniziato alla massoneria nella loggia bolognese "Risorgimento-VIII agosto" divenendo Maestro venerabile della loggia "Zamboni-De Rolandis". Nello stesso anno chiese e ottenne di venire inserito tra i massoni coperti per ragioni di riservatezza legata alla sua professione di docente. Stessi requisiti di riservatezza ebbe la sua appartenenza al Capitolo Nazionale del rito scozzese antico e accettato. Eletto Gran maestro del Grande Oriente d'Italia. Negli anni della sua maestranza tenne posizioni di aperto contrasto con la Chiesa cattolica, dichiarò espressamente il proprio sostegno al Partito Socialista Italiano, e dovette confrontarsi con la cosiddetta "inchiesta Cordova" (dal nome del pubblico ministero di Palmi Agostino Cordova). Al centro di polemiche anche con i vertici del GOI, Di Bernardo decise di dimettersi dalla carica di Gran maestro al termine della Gran Loggia annuale a Roma alla quale si era presentato dopo aver redatto atto costitutivo e statuto di una nuova Obbedienza, la Gran Loggia Regolare d'Italia. Al vertice del GOI gli succedette il reggente Eraldo Ghinoi.  La neonata Obbedienza si regge su uno sparuto gruppo di Logge fuoriuscite dal GOI, caratterizzandosi per l'uso esclusivo del rito inglese Emulation. Otto anni dopo la fondazione, viene espulso dalla GLRI; gli succede alla guida dell'Obbedienza Venzi. Quindi avvia un nuovo progetto di un ordine paramassonico, denominato Dignity Order, che tuttavia non è un'Obbedienza regolare. Pur dichiarando di essere fuoriuscito dalla Massoneria, Di Bernardo da anni si presta a rilasciare interviste e dichiarazioni sull'argomento sia a giornalisti che ad organi inquirenti. Nel  ha polemizzato con il GOI dopo aver reso una dichiarazione alla Commissione Antimafia relativa a presunte rivelazioni di Loizzo (vedi ). Il GOI ha annunciato l'intenzione di denunciare Di Bernardo per diffamazione e calunnia. Il lo stesso Di Bernardo annuncia di voler a sua volta querelare il Gran Maestro del GOI Stefano Bisi per diffamazione. La querela di Di Bernardo a carico di Bisi viene archiviata per insussistenza.  Aldo Alessandro Mola, Gelli e la P2: fra cronaca e storia, Bastogi Editrice Italiana, Giuliano Di Bernardo, unitn.  Il Gran Maestro: chi è Giuliano Di Bernardo. Aldo A. Mola.  Pubblicazioni di Giuliano Di Bernardo, unitn. Fra tradizione e rinnovamento: la lunga traversata del deserto, GOI.   Aldo A. Mola,  801 e ss.  Aldo A. Mola, Di Bernardo fonda la nuova Grande loggia, in Corriere della Sera. Sito ufficiale del Dignity Order, dignityorder.com. Aldo Alessandro Mola, Storia della massoneria italiana, Bompiani, Gran loggia regolare d'Italia Massoneria in Italia Massoneria Citazionio su Giuliano Di Bernardo  Intervista a Giuliano Di Bernardo del, Predecessore Gran maestro del Grande Oriente d'Italia Successore Square compasses.svg Armando Corona. Eraldo Ghinoi (reggente) Predecessore Gran maestro della Gran Loggia Regolare d'Italia SuccessoreSquare compasses.svg Carica inesistente Fabio VenziB Filosofia Università  Università Filosofo del XX secolo Filosofi italiani Professore Penne Gran maestri del Grande Oriente d'Italia. Giuliano Di Bernardo. Keywords. la tradizione iniziatica italica, logica dei sistemi normativi, normativa sociale, l’implicatura del massone, psicologia filosofica, Homo sapiens sapiens. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bernardo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Berneri – filosofia italiana nel ventennio fascista – filosofia italiana (Lodi). Filosofo italiano. Grice: ‘I like Berneri; of course we need to know more about his philosophical background and education – he represents the epitome of what Italian philosophers call ‘filosofia militante,’ but then I fought the Hun – so I was militante, too!” – Figlio di padre originario di Ronco, frazione di Corteno Golgi (nella Val Camonica, in provincia di Brescia) e da madre emiliana, ben presto, si trasferì con la famiglia dapprima a Milano, poi a Palermo, e Forlìdove, a Varallo Sesia (in provincia di Vercelli) e, infine, a Reggio nell'Emilia.  Qui, da una testimonianza di Angelo Tasca risulta che Camillo Berneri militava nella Federazione Giovanile Socialista di Reggio Emilia già dal 1912 (da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Pier Carlo Masini, Milano, 1966, pag 109). Dopo essere stato membro del Comitato Centrale della Federazione Giovanile Socialista reggiana, e dopo aver collaborato all'Avanguardia (organo nazionale della FGS), nel 1915 rassegna le dimissioni dalla FGS, attraverso una lettera ai compagni, avendo maturato convinzioni anarchiche. Sarà colpito dal gesto dei compagni che, nonostante le dimissioni, vorranno che presieda un'ultima riunione della FGS a Reggio, e dal gesto del mentore Camillo Prampolini, che lo convocherà per conoscere le ragioni del suo dissenso. Berneri ricorderà sempre "i dolci ricordi del mio catecumenato socialista". Nel 1916 si trasferisce ad Arezzo dove frequenta il liceo.  Chiamato alle armi ed escluso dall'Accademia Militare di Modena per le sue idee, fu inviato al fronte nel 1918; quindi, ancora in servizio, venne confinato nell'isola di Pianosa in occasione dello sciopero generale del luglio 1919. Iniziava intanto con lo pseudonimo Camillo da Lodi la sua copiosa attività pubblicistica collaborando per anni a vari periodici libertari: da Umanità Nova a Pensiero e Volontà, da L'avvenire anarchico di Pisa a La Rivolta di Firenze e a Volontà di Ancona.  Laureatosi in filosofia, insegnò tale materia per qualche tempo a Camerino. Pronta e decisa si manifestava la sua avversione al fascismo e, dall'Umbria in particolare, egli manteneva i contatti con gli antifascisti fiorentini diffondendo il battagliero giornaletto Non mollare. Molto intensa fu in quegli anni l'attività nell'Unione anarchica italiana. Inaspritasi la dittatura fascista, dovette espatriare clandestinamente in Francia e lo raggiunse poco dopo la moglie con le figlie; sua moglie era Giovanna Caleffi anche lei militante anarchica così come poi le figlie Marie Louise Berneri e Giliana Berneri. Scoppiata la guerra civile spagnola, fu tra i primi ad accorrere in Catalogna, centro dell'attività di massa libertaria esprimentesi nella Confederación Nacional del Trabajo: qui si trovò a fianco di Carlo Rosselli con tanta parte dell'antifascismo italiano e internazionale. Al di là della solidarietà militante, a Carlo Rosselli lo legava anche l'atteggiamento critico, e l'apertura mentale verso le prospettive del socialism. Collabora con l'organo clandestino del movimento socialista-liberale "Giustizia e Libertà", argomentando con Rosselli sull'alternativa secca tra socialismo libertario e socialismo dispotico ("Gli anarchici e G.L.", Camillo Berneri e Carlo Rosselli, Giustizia e Libertà). Furono gli ultimi mesi febbrili della sua vita: inadatto alle fatiche del fronte, si dedicò con entusiasmo all'opera formativa, al dibattito ideale e alle incombenze politiche pubblicando un proprio periodico dal titolo “Guerra di classe” che sintetizza la sua precisa interpretazione del conflitto in corso. In esso infatti Berneri, preoccupato per il crescente isolamento non tanto del legittimo governo repubblicano quanto delle più tipiche realizzazioni rivoluzionarie e libertarie conseguite in Catalogna, Aragona e altre regioni, si batté vigorosamente per la stretta connessione di guerra e rivoluzione ponendo agli antifascisti e ai suoi stessi compagni anarchici il dilemma: vittoria su Franco, grazie alla guerra rivoluzionaria, o disfatta. Tale la sostanza di numerosi suoi articoli e discorsi come della famosa Lettera aperta alla ministra anarchica della Sanità Federica Montseny che con altri tre anarchici era nel governo di Largo Caballero.  Molteplici, seppure inascoltati, furono anche i suoi suggerimenti politici per colpire le basi operative del fascismo proclamando l'indipendenza del Marocco, coordinare gli sforzi militari, potenziare gradualmente la socializzazione. Fu dunque quella di Berneri una funzione singolarmente impegnata che lo espose ben presto alle feroci repressioni condotte dai comunisti ormai prevalsi dopo l'avvento del governo di Juan Negrín: scomparvero così tragicamente, vittime dei massacri di massa, migliaia di combattenti antifascisti non comunisti, anarchici ma anche comunisti non stalinisti, come i miliziani del POUM. L'assassinio di Camillo Berneri, sulle cui esatte circostanze esistono diverse versioni, si colloca precisamente nella sanguinosa resa dei conti tra stalinisti e loro avversari antifascisti conosciuta come le giornate di Maggio. Berneri fu prelevato insieme con l'amico anarchico Francesco Barbieri dall'appartamento che i due condividevano con le rispettive compagne. I cadaveri dei due anarchici italiani furono ritrovati crivellati di proiettili. La moglie allevò i figli di Antonio Cieri, anche lui caduto in Spagna. In morte di Berneri, il leader socialista Pietro Nenni scrisse: "Se l'anarchico Berneri fosse caduto su una barricata di Barcellona, combattendo contro il governo popolare, noi non avremmo niente da dire, e nella severità del suo destino ritroveremmo la severa legge della rivoluzione. Ma Berneri è stato assassinato, e noi dobbiamo dirlo" (Pietro Nenni, Nuovo Avanti, Parigi).  Altre opere: “Lettera aperta ai giovani socialisti di un giovane anarchico” (Orvieto); “I problemi della produzione comunista” (Firenze); “Le tre città” (Firenze); “Un federalista russo. Pietro Kropotkin, Roma); “Mussolini normalizzatore, Zurigo); “Lo spionaggio fascista all'estero, Marsiglia);  “Nozioni di chimica antifascista”; “L'operaiolatria, Brest); “ll lavoro attraente, Ginevra); “Ed ancora:  Mussolini normalizzatore La donna e la garçonne”; “Pensieri e battaglie Il cristianesimo e il lavoro” – “Il Leonardo di Freud”. da "Mussolini-Psicologia di un dittatore", Camillo Berneri, Edizioni Azione Comune, Pier Carlo Masini, Milano, Mirella Serri, I profeti disarmati. 1945-1948, la guerra fra le due sinistre, Milano, Corbaccio, Cfr. Nicola Fedel, Introduzione e criteri di edizione in Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,,  XVII-XIX , Enciclopedia POMBA. Camillo Berneri, Anarchia e società aperta, Pietro Adamo, M&B Publishing, Milano 2006. Stefano D'Errico, Anarchismo e politica. Nel problemismo e nella critica all'anarchismo del Ventesimo Secolo, il "programma minimo" dei libertari del Terzo Millennio. Rilettura antologica e biografica di Camillo Berneri, Mimesis, Milano 2007. Roberto Gremmo, Bombe, soldi e anarchia: l'affare Berneri e la tragedia dei libertari italiani in Spagna, Storia Ribelle, Biella 2008. Mirella Serri, I profeti disarmati. La guerra tra le due sinistre, Milano, Corbaccio, 2008. Flavio Guidi, "Nostra patria è il mondo intero". Camillo Berneri e "Guerra di Classe" a Barcellona (1936-37), pubblicato dall'autore, Milano. Giampietro Berti, Giorgio Sacchetti, Un libertario in Europa. Camillo Berneri: fra totalitarismi e democrazia. Atti del convegno di studi storici, Arezzo, Archivio famiglia Berneri A. Chessa, Reggio Emilia. Camillo Berneri, Lo spionaggio fascista all'estero, Nicola Fedel (e prefazione di Mimmo Franzinelli), Fondazione Comandante Libero, Milano,,  Antifascismo Archivio Famiglia Berneri Guerra civile spagnola Giornate di maggio Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Camillo Berneri.TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Berneri, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Berneri, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Camillo Berneri, su Liber Liber.  Opere di Camillo Berneri, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Camillo Berneri,. Camillo Berneri, su Goodreads.  Altri particolari sul sito dell'ANPI di Roma, su romacivica.net. ). Carlo De MariaUn convegno e una nuova stagione di studi su Camillo Berneri, su storiaefuturo). Socialismo LibertarioProfili biobibliografici libertari, su socialismolibertario. Abolizione ed estinzione dello stato, Anarchismo e federalismo di Camillo Berneri, su magozine. V D M Antifascismo. Anarchia  Anarchia Biografie  Biografie Politica  Politica Storia  Storia Filosofo del XX secoloScrittori italiani del XX secoloAnarchici italiani  Lodi BarcellonaAntifascisti italianiAssassinati con arma da fuocoVittime di dittature comuniste. Camillo Berneri. Keywords: normalizazzione, delirio racista, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berneri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Berti – la morte di Cicerone – filosofia italiana – Luigi Speranza (Valeggio sul Mincio). Filosofo italiano. Grice: “I like Berti; of course he has philosophised on the only two philosophers worth philosophising about Plato and Aristotle – his interest is in the ‘number idea’ in Plato, the unity in Aristotle, and various other things – notably Socratic dialectic as the basis for both!” --  Grice: “I also love his courtesy: cf. Sir Peter, “Introduction to logical theory,” versus the gentle “Un invite alla filosofia,” – for philosophy needs to be invited to, rather than intro- and extro-ducted to and fro’!”  Professore emerito di storia della filosofia, presidente onorario dell'Istituto internazionale di filosofia.  Laureatosi in filosofia all'Padova, è stato allievo di Marino Gentile.  Assistente presso l'Padova. Nel diventa professore di storia della filosofia antica all'Perugia e di storia della filosofia nella stessa Università.  Si trasferisce all'Padova, dove insegna storia della filosofia. È poi docente anche nelle Ginevra, di Bruxelles, di Santa Fé (Argentina) e alla Facoltà di Teologia di Lugano.  Presiede la Società Filosofica Italiana. Vince il premio dell'Associazione internazionale "Federico Nietzsche" per la filosofia, il premio Iannone per la filosofia antica, nel 2007 il premio Santa Marinella e il premio Castiglioncello per la filosofia, il premio "Athene Noctua" e nel  il premio giornalistico Lucio Colletti.  Nel  è nominato "doctor honoris causa" dell'Università nazionale capodistriana di Atene e nel  Honorary Fellow dell'"Interdisciplinary Centre for Aristotle Studies" dell'Salonicco.  Pensiero Interessato particolarmente alla filosofia di Aristotele, Enrico Berti ne ha intravisto le tracce nella metafisica, nell'etica e nella politica contemporanea in particolar modo per il problema della contraddizione e della dialettica.  Berti si è poi inserito nella dibattuta questione del rapporto tra filosofia e scienza, cercando di definire la specificità della filosofia, che si fonda su una razionalità non rapportabile a quella scientifica, ma piuttosto alla dialettica e alla retorica. Su un piano più propriamente teoretico si è interessato alla possibilità di riproporre oggi una filosofia di tipo metafisico, formulando una concezione «umile« o «povera» della metafisica come consapevolezza della problematicità, e quindi dell'insufficienza, del mondo dell'esperienza, considerato nella sua totalità (comprendente scienza, storia, individuo e società).  Altre opere: “L'interpretazione neo-umanistica della filosofia presocratica” (scuola di Crotone,  la porta di Velia); “La filosofia del primo Aristotele” (Padova, Milani); Il "De republica" di Cicerone e il pensiero politico classico”; “L'unità del sapere in Aristotele”; “La contraddizione” (la porta di Velia, la dialettica della struttura originaria, Bontadini); “Studi sulla struttura logica del discorso scientifico”; “Studi aristotelici”; “Aristotele: dalla dialettica alla filosofia prima” (Padova, Milani); “Ragione scientifica e ragione filosofica” (Roma, La Goliardica); “Profilo di Aristotele, Roma, Studium); “Il bene” (Brescia, La Scuola);  “Le vie della ragione” (Bologna, Il Mulino); “Contraddizione e dialettica negli antichi” (Palermo, L'Epos);:Le ragioni di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Storia della filosofia” (Roma-Bari, Laterza); “Aristotele nel Novecento, Roma-Bari, Laterza); “Introduzione alla metafisica, Torino, POMBA); “Il pensiero politico di Aristotele, Roma-Bari, Laterza); “Aristotele e altri autori, Divisioni, con testo greco a fronte, coll. Il pensiero occidentale); “In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, Laterza, Roma-Bari); “Il libro primo della «Metafisica» (Laterza, Roma-Bari);  Sumphilosophein. La vita nell'Accademia di Platone, Roma-Bari, Laterza); “Nuovi studi aristotelici” (Morcelliana); “Invito alla filosofia, Brescia, La Scuola); “La ricerca della verità in filosofia, Roma, Studium. Ha scritto un dialogo satirico, un "falso d'autore" attribuito ad Aristotele, Eubulo o della ricchezza: dialogo perduto contro i governanti ricchi.  Traduzioni Aristotele, Metafisica, traduzione, introduzione e note di E. Berti, Collana Biblioteca Filosofica, Roma-Bari, Laterza. Onorificenze e riconoscimenti Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana  È membro delle seguenti accademie e istituzioni scientifiche:  Accademia nazionale dei Lincei Institut international de philosophie Istituto veneto di scienze, lettere ed arti Société européenne de culture Fédération internationale des sociétés de philosophie Pontificia accademia delle scienze Pontificia accademia di San Tommaso d'Aquino Accademia galileiana di scienze, lettere ed arti Società filosofica italiana Note  festivalfilosofia, su festivalfilosofia).  Enciclopedia multimediale delle Scienze filosofiche, su emsf.rai.).  Biografia Enrico Berti  [collegamento interrotto], su comune.ancona.  Aristotele  Opere di Enrico Berti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Enrico Berti,.  Registrazioni di Enrico Berti, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Intervista a Enrico Berti () Enrico Berti scheda nel sito dell'Padova (con l'elenco delle pubblicazion. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore Valeggio sul MincioProfessori dell'Università degli Studi di PadovaStudenti dell'Università degli Studi di PadovaProfessor dell'Università degli Studi di PerugiaAccademici dei LinceiStorici della filosofia italiani. I pitagorici -- Gli eleati -- Parmenide --  Zenone, Melisso -- Empedocle -- Gorgia --. LA FILOSOFIA A ROMA Lo stoicismo medio il neo-epicureismo e Lucrezio -- L’Accademia nuova e Cicerone -- Il neo-stoicismo romano Seneca, Epitteto, Marc'Aurelio, Enrico Berti. Keywords. la morte di Cicerone, Cicerone res publica – “De republica” – cf. il bene/il buono/il bello, “il bene e il buono”, Cicerone e la filosofia politica classica, il De Republica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bertinaria – l’indole e le vicende della filosofia italiana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice: “I like Bertinaria; he is, like me a philosophical cartographer – in his case, of ‘filosofia italiana’ for which he has identified ‘indole’ e this or that ‘vicenda,’ – now J. L. Austin once remarked that ‘sake’ has no denotatum – but ‘vicem’ does!” -- Francesco Bertinaria (n. Genova), filosofo. Studiò all'Pisa, si trasferì a Torino per collaborare con l'editoria Pomba. Ha curato la traduzione Abriss der Geschichte der Philosophie di Kennegieszer, professore dell'Breslavia. Si occupò anche di filosofia orientale e di filosofia italiana. Nel 1860 Bertinaria ottenne la cattedra di Filosofia della Storia all'Torino. Nel 1865 fu chiamato all'Genova. Morì a Genova nel 1892.   Altre opere: “La filosofia italiana” (Pomba, Torino); “Compendio di storia della filosofia” (Pomba, Torino); “Discorso sull'indole e le vicende della filosofia italiana” (Pomba, Torino). “Concetto della filosofia e delle scienze inchiuse nel dominio di essa, «Antologia italiana»”; “Disegno di una storia delle scienze filosofiche in Italia dal Risorgimento delle lettere sin oggi, Antologia italiana», “Concetto scientifico della storia, Stamp. sociale degli artisti tipografi, Torino); “Saggi filosofici” (Tip. Fory e Dalmazza, Torino); “Prospetto dell'insegnamento della filosofia della storia” (Stamperia dell'unione tipografico editrice, Torino); “Della teoria poetica e dell'epopea latina, Torino); “Dell'importanza della filosofia della storia e sue relazioni con le altre scienze” (Torino); “L'antica filosofia del diritto” (Tip. Cavour, Torino); “Principi di biologia e di sociologia, Negro, Torino); “La storia della filosofia e la filosofia della storia” «Riv. cont.», Estr.: Baglione, Torino); “Sulla formola esprimente il nuovo principio dell'enciclopedia” «Riv. cont.»,Il positivismo e la metafisica” «Riv. cont.»,  Estr.: A. F. Negro, Torino); “Scienza, Arte e Religione, «Gerdil», Estr.: Tip. Torinese, Torino); “Dell'origine, progresso e condizione presente della filosofia civile, «Riv. bol.», “Saggio sulla funzione ontologica della rappresentazione ideale, FSI); “Concetto del mondo civile universale, FSI); “La dottrina dell'evoluzione e la filosofia trascendentale” (Tip. Ferrando, Genova); “Ricerca se la separazione della Chiesa dallo Stato sia dialettica ovvero sofistica, FSI, Estr.: Tip. dell'Opinione, Roma); “Il problema dell'incivilimento, ossia come possano essere conciliate fra loro le dottrine della civiltà nativa di Vico e della civiltà nativa di Romagnosi, FSI); “La psicologia fisica ed iperfisica” (Unione tipografico-editrice, Torino); “Ricerca se l'odierna società civile progredisca ovvero retroceda, FSI); “L'odierno antagonismo sociale. Discorso inaugurale nella Genova” (Tip.Martini, Genova); “Il problema critico esaminato dalla filosofia trascendente, FSI); “Discorso per l'inaugurazione dei corsi filosofici e letterari nella R. Genova, Tip.Martini, Genova); “Idee introduttive alla storia della filosofia, RIF, Estr.: Tip. della R. Accademia dei Lincei, Roma); “Determinazione dell'assoluto. Saggio di filosofia esoterica, «Giornale della Società di letture e conversazioni scientifiche di Genova»,  Estr.: Tip. A. Ciminago, Genova); “Il problema capitale della scolastica risoluto dalla filosofia trascendente. Nota storico-critica, RIF, Estr.: Tip. alle Terme Diocleziane di Giovanni Balbi, Roma); “Scritti Bulgarini, G. B., Recensione dell'articolo del prof. F. Bertinaria apparso sulla «Rivista Italiana»: Idee introduttive alla storia della filosofia, «Rosmini», F. Bertinaria. Studio biografico, «Annuario della R. Genova», Estr.:Martini, Genova, CecchiL., Francesco Bertinaria. Commemorazione, Martini, Genova); D'Ercole, P., Notizie biografiche del prof. F. Bertinaria, «Annuario della R. Università degli studi di Torino», Estr.: Torino; Mamiani, T., Rec. di F. Bertinaria, La dottrina della evoluzione e la filosofia trascendente.Discorso, Genova FSI); “Mamiani T., Intorno alla sintesi ultima del sapere e dell'essere. Lettere al professore Bertinaria, FSI, Estr.: Roma 1882. Tolomio,  249-266.  Note  Bertinaria, su dif.unige.  Piero Di Giovanni, Un secolo di filosofia italiana attraverso le riviste, FrancoAngeli. Opere di Francesco Bertinaria, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Biografie  Biografie Letteratura  Letteratura Filosofo del XIX secoloSaggisti italiani del XIX secoloInsegnanti italiani Professore Genova. TAVOLA GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA  (Secondo la legge di creazione) I. Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi zionalmente un essere razionale, vale a dire un ente creato, soggetto alle condizioni della sua vita presente ossia all'orga namento terrestre. = UOMO MORTALE. A ) Teoria o Autotesia; quello che v’ha di dato nello spirito dell'uomo per istabilirne le facoltà fisiche ossia create. a ) Contenuto, ossia costituzione psicologica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale ossia neutro; facoltà di sapere, = COGNIZIONE (Kenntniss]. (I) 64) Elementi primordiali ossia polari. a5 ) Cognizione del Non - Io. = RAPPRESENTAZIONE (Vorstellung]. (II) (1 ) Per la lettura delle nostre Tavole genetiche noi.dobbiamo far notare alle persone non peranco abituate a siffatta esposizione tabellare, che, a seconda della divisione dicotomica, ch'è la sola rigorosamente logica, le due sottoclassi di ciascuna classe suddivisa sono notate colle lettere a) e b) a destra accompagnate da un numero superiore d'un'unità a quello che ha il medesimo indice della classe così suddivisa. In tal maniera, muo vendo dai due generi primitivi, designati da A) e B), ciascuno di questi due generi ha due classi designate rispettivamente da a) e b); ciascuna di queste classi a) e 6) può avere di nuovo due sottoclassi a2) e 62 ); ciascuna di queste ultime classi a2) e 62) può avere di nuovo due sotto classi, designate rispettivamente da a3) é 73 ); e così di seguito finchè ciascuna di queste diverse sottoclassi ammette divisioni ulteriori. BERTINARIA -3 34 TAVOLA GENETICA 65) Cognizione dell'Io. = COSCIENZA (Bewusztsein ).(III) 63) Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. a4) Elementi derivati immediati ossia distinti. a5) Combinazione della Cognizione colla Rappresen tazione. = SENSIBILITÀ. (IV) Nota. Qui hanno luogo i Sensi esterni ed il Senso interno. 65) Combinazione della Cognizione colla Coscienza. = INTELLETTO. (V) Nota. Qui hanno luogo l'Intelligenza, il Giudizio e la Ragione condizionale (quella che si trova incarnata nel. l'organismo fisico ossia terrestre dell'uomo). 64) Elementi derivati mediati ossia transitivi. = IM MAGINAZIONE, a5) Transizione dalla Sensibilità all'Intelletto. = IM MAGINAZIONE RIPRODUTTIVA. (VI) Nota. —Qui hanno luogo la Memoria e la Previsione. 65) Transizione dall'Intelletto alla Sensibilità. = IM MAGINAZIONE PRODUTTIVA. (VII) Nota. — Qui hanno luogo la Costruzione e la Fantasia. 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza della Rappresentazione nella Coscienza. = SENTIMENTO. (I) 65) Influenza della Coscienza nella Rappresenta zione. = COGNIZIONE. (II) b4) Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra la Rappresentazione e la Coscienza per mezzo del loro concorso teleologico alla generazione delle Cognizioni. = COMPRENSIONE. (III) NOTA. Qui hanno luogo il Giudizio teleologico (per la cognizione dell'ordine ), ed il Gusto estetico (per la cogni zione del bello e del sublime). DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 35 63) Identità finale nella riunione sistematica dei due ele menti distinti, della Sensibilità e dell'Intelletto, per mezzo dell'elemento fondamentale ossia neutro, for mante la Cognizione. = POTENZIALITÀ. (IV) NoTA. - Qui hanno luogo, nell'aspetto speculativo, ch'è quello della cognizione senza causalità, il GENIO, e nel l'aspetto pratico, che è quello della cognizione colla cau salità, la VOLONTÀ. b ) Forma, ossia relazione psicologica. a2) Nella parte elementare della costituzione psicologica. a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; forma della Cogni zione. = ATTENZIONE) Per gli elementi primordiali: a5) Forma della Rappresentazione. = OBJETTIVITÀ. b5) Forma della Coscienza. = SUBJETTIVITÀ. 63 ) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma della Sensibilità. = INTUIZIONE (An schauung). 65) Forma dell'Intelletto. = CONCETTO (Begriff) Mediate o transitive. a5) Forma dell'Immaginazione riproduttiva. = IM MAGINE. 65) Forma dell’Immaginazione produttiva. = SCHEMA. Nella parte sistematica della costituzione psicologica. a3) Nella diversità sistematica. a4 ) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma del Sentimento. = APPRENSIONE. 65) Forma della Cognizione. = APPERCEZIONE. 64) Per la loro influenza reciproca; forma della Com prensione. = RIFLESSIONE. 63) Nell'identità finale degli elementi distinti; forma della Potenzialità. = AZIONE [Thaetigkeit ).TAVOLA GENETICA B) Tecnia o Autogenia; quello che bisogna fare pel compimento delle facoltà fisiche ossia create nell'uomo. a ) Nel contenuto ossia nella costituzione psicologica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione. ' a3) Per gli elementi immediati ossia distinti. al) Compimento della Sensibilità. = PERFEZIONE ESTE TICA. Compimento dell'Intelletto. = PERFEZIONE LOGICA. I caratteri di questa doppia perfezione, estetica e logica, sono: l'estensione, la chiarezza, la varietà, la precisione, il complesso e la certezza. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento dell'Immaginazione riproduttiva, per la legge d'associazione delle immagini. = As SIMILAZIONE (spiritualizzazione delle intuizioni). 64) Compimento dell'Immaginazione produttiva, per la legge di schematizzazione delle idee. = MOSTRA (corporificazione dei concetti ). 62) Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. a3) Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Rappresentazione e nella Coscienza; la quale armonia prestabilita fornisce le ragioni sufficienti per la desi gnazione reciproca (facultas signatrix ) dei concetti per mezzo delle intuizioni, e delle intuizioni per mezzo dei concetti. = LINGUAGGIO (in generale). Per il compimento dell'identità primitiva negli ele menti distinti, nella Sensibilità e nell'Intelletto; la quale identità fornisce il compimento della Potenzialità per via d'indefinita ascensione ai principii, e per mezzo d'indefinita deduzione delle conseguenze, siccome legge suprema delle umane cognizioni. = RAGIONE INCONDI ZIONALE. 6 ) Nella forma ossia nella relazione psicologica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA Nella parte elementare di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella generazione delle cognizioni umane, siccome regola ossia canone psicologico. = METODO. (DESTINO ). 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale negli oggetti delle cognizioni umane, siccome pro blema universale della Psicologia. = IDEE (trascendenti) (RAGIONE ASSOLUTA ). II. Facoltà spirituali ed iperfisiche dell'uomo, le quali ne fanno in condizionatamente un essere razionale, vale a dire un ente assoluto, indipendente da qualsivoglia condizione. = UOMO IMMORTALE. Nota. - Questa seconda parte della vera psicologia, da niuno finora avvertita, appartiene solamente alla filosofia assoluta del Messianismo. Essa non potrebbe in alcun modo venir raggiunta dall'esperienza, perchè le facoltà che ne formano l'oggetto sono, non solamente iperfisiche, ma al tresì creatrici, vale a dire poste fuori del mondo creato, dove si trovano gli oggetti dell'osservazione e dell'espe rienza. Eccone la genesi assoluta. A) Teoria o Autotesia; quello che vha di dato nell'ipostasi dello spirito dell'uomo per poterne ricavare le sue facoltà iper fisiche ossia creatrici. a) Contenuto ossia costituzione eleuterica. a2) Parte elementare. = FACOLTÀ CREATRICI ELEMENTARI (in numero di sette ). a3) Elementi primitivi. = FACOLTÀ PRIMITIVE. a4) Elemento fondamentale o neutro; principio ipo statico nell'uomo. = COSCIENZA POTENZIALE. Elementi primordiali o polari. a5 ) Coscienza potenziale del Non - 10. = ALTERIETÀ. (II) 65) Coscienza potenziale dell’Io. = IPSEITÀ. (III) 38 TAVOLA GENETICA. Elementi derivati. = FACOLTÀ ORGANICHE. Elementi derivati immediati o distinti. a5) Combinazione della Coscienza potenziale coll’Al terietà. = ETERONOMIA. (IV) 65) Combinazione della Coscienza potenziale con l'Ipseità. = AUTONOMIA. (V) 64) Elementi derivati mediati o transitivi. a5) Transizione dall'Eteronomia all'Autonomia. = RELIGIONE RIVELATA. Transizione dall'Autonomia all'Eteronomia. = RELIGIONE ASSOLUTA. (VII) 62) Parte sistematica. = FACOLTÀ SISTEMATICHE (in numero di quattro ). a3) Diversità nella riunione sistematica degli elementi primordiali. a4) Influenza parziale. a5) Influenza parziale dell'Alterietà nell'Ipseità. = ETEROTELIA. (Influenza parziale dell'Ipseità nell’Alterietà. = AUTOTELIA. Influenza reciproca di questi elementi primordiali; armonia sistematica tra l’Alterietà e l'Ipseità, per mezzo del loro concorso teleologico alla creazione propria dell'uomo. = SPIRITO (Geist]. (III) Nota. Questo è il principio più alto della filosofia di Hegel; ma si vede ch'esso non raggiunge il Verbo e nem meno l'Assoluto, del quale secondo riesce, in certa ma niera, solamente peristilio. Identità finale nella riunione sistematica degli ele menti distinti dell'Eteronomia e dell'Autonomia per mezzo dell'elemento fondamentale o neutro, formante la Coscienza potenziale. = ASSOLUTO nella coscienza ossia COSCIENZA ASSOLUTA. Forma o relazione eleuterica. Nella parte elementare della costituzione eleuterica. DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 39 a3) Per le facoltà primitive. a4) Per l'elemento fondamentale; formadella Coscienza potenziale. = GENIALITÀ. Per gli elementi primordiali. a5) Forma dell'Alterietà. = RECETTIVITÀ (nella co scienza ). 65) Forma dell'Ipseità. = PROPRIETIVITÀ (nella co scienza ). 63) Per le facoltà organiche: a4) Immediate o distinte. a5) Forma dell'Eteronomia. = MORALITÀ. 65) Forma dell’Autonomia. = MESSIANITÀ. 64 ) Mediate o transitive. a5) Forma della Religione rivelata. = GRAZIA. 65) Forma della Religione assoluta. = MERITO. Nella parte sistematica della costituzione eleuterica. a3) Nella diversità sistematica. a4) Per l'influenza parziale degli elementi primordiali. a5) Forma dell'Eterotelia. = DIPENDENZA PROVVI DENZIALE. 65 ) Forma dell'Autotelia. = INDIPENDENZA UMANA. 64) Per l'influenza reciproca; forma dello Spirito. = SPONTANEITÀ. Nell'identità finale degli elementi distinti; forma dell'Assoluto nella coscienza. = RAZIONALITÀ CREATRICE) Tecnia o Autogenia; ciò che bisogna fare pel compimento delle facoltà iperfisiche o creatrici nell'uomo. a) Nel contenuto o nella costituzione eleuterica. a2) Nella parte elementare di questa costituzione. a3) Per gli elementi immediati o distinti. a4) Compimento dell’Eteronomia; stabilimento proprio, operato dall'uomo stesso, del suo essere assoluto. = AUTOTESIA. 40 TAVOLA GENETICA DELLA FILOSOFIA DELLA PSICOLOGIA 64) Compimento dell'Autonomia; stabilimento proprio, operato dall'uomo stesso del suo sapere assoluto. = AUTOGENIA. 63) Per gli elementi mediati o transitivi. a4) Compimento della Religione rivelata. = Per mezzo della LEGGE DEL PROGRESSO. Compimento della Religione assoluta. = Per mezzo della LEGGE DI CREAZIONE) Nella parte sistematica di questa stessa costituzione. Per il compimento dell'armonia prestabilita (préfor mation primitive] nei due elementi primordiali, nella Alterietà e nell'Ipseità; armonia che fornisce le ra gioni sufficienti per l'esplicazione della Virtualità creatrice nell'uomo. = VERBO) Per il compimento dell'identità primitiva nei due elementi distinti, nell'Eteronomia e nell'Autonomia; identità che fornisce il compimento dell'Assoluto nella coscienza per mezzo della sua identificazione col Verbo, come legge suprema della creazione propria dell'ờomo. = ARCIASSOLUTO ossia ciò che è INDICIBILE (nell'ipostasi della coscienza umana ). Nella forma o nella relazione eleuterica. Nella parte elementare di questa relazione; compimento delle facoltà organiche in ordine all'uniformità nella pro pria creazione umana, come regola o canone eleuterico per la liberazione dell'uomo dalle sue condizioni fisiche. = RIGENERAZIONE SPIRITUALE DELL'UOMO. 62) Nella parte sistematica di questa stessa relazione; com pimento delle facoltà sistematiche in ordine all'identità finale nel risultamento della propria creazione umana, cioè in ordine all'individualità assoluta dell'uomo, come problema universale di questa parte eleuterica della Psi cologia. = CREAZIONE PROPRIA DELL'UOMO (Immortalità ). COMMENTO ALLA TAVOLA GENETICA DELLA. PSICOLOGIA FISICA ED IPERFISICA DI HOENATO WRONSKI  PARTE PRIMA PSICOLOGIA FISICA Facoltà spirituali e fisiche dell'uomo, le quali ne fanno condi zionatamente un ESSERE RAZIONALE, vale a dire un ente creato, soggetto alle condizioni della sua vita presente, ossia all'organamento terrestre. - UOMO MORTALE. In questa prima parte della Tavola genetica della Filosofia della Psicologia l'Autore tratta solamente delle facoltà spirituali da lui dette fisiche per ciò ch'esse sono date immediatamente dalla natura, e si svolgono per necessità della costituzione naturale dell'uomo, riserbandosi di trattare delle facoltà iperfisiche nella seconda parte della Tavola stessa. L'Autore dice che le facoltà fisiche fanno dell'uomo condizio natamente un essere razionale, e spiega l'avverbio, chiamando l'uomo, in quanto egli è solamente fornito di tali facoltà, un ente creato soggetto alle condizioni della sua vita presente. Chiun que non conosca l'ontologia wronskiana, e si trovi solamente iniziato alla psicologia ancora comunemente coltivata oggidì, avrà motivo d'inarcare le ciglia udendo queste espressioni; ma colui il quale sappia che l'Autore ammette due sorta di creazione, delle quali la prima è opera dell'Ente supremo, e costituisce, rispetto alla mente umana che la contempla, l'ordine eterono mico governato dalla necessità, e la seconda è opera dello Spi ſito creato, e costituisce, rispetto allo spirito stesso, l'ordine autonomico governato dalla libertà di cui egli è dotato, capirà pure facilmente che l'uomo, quale creatura di Dio, è essenzial mente eteronomico, e per conseguenza soggetto alle condizioni dell'organamento terrestre, al quale la sua vita è vincolata in forza delle leggi necessarie del cosmo; e quale autore del proprio svolgimento, egli è essenzialmente autonomico, vale a dire crea tore di se stesso. Posta questa teoria ontologica, si debbono pure ammettere due ordini di umane facoltà, fra loro così distinti che non vadano mai fra loro confusi, sebbene siano fra loro collegati come qualità di un medesimo soggetto, ed il primo si trovi logi camente e cronologicamente anteriore al secondo, che in dignità gli è superiore. Laonde, chiamando naturale o fisica l'entità eteronomica, e soprannaturale od iperfisica l'entità autonomica dell'uomo, si vengono a caratterizzare benissimo i due ordini di facoltà fra loro così diversi, che quelle del primo fanno dell'uomo bensì un ente razionale, ma condizionato, laddove quelle altre del secondo rendono l'uomo stesso ente razionale incondizionato cioè assoluto. A Teoria o Autotesia.  Presso le colonie greche nell'Italia inferiore, le quali erano per lo più composte di Dori ed Achei, ebbe luogo molto svolgimento di vita esteriore ed interna; imperocchè vennero a rinomanza per le legislazioni di Saleuco e Caronda, per l'arte orato ria e la poesia lirica, per un'eccellente scuola me dica stabilita in Crotone, città salita a prospera for tuna, e per molti vincitori ai giuochi olimpici, che quivi ebbero i natali. PITAGORA portossi a Crotone e dimora per lo più nella Magna Grecia. La sua vita è oscura e molto favolosa. Egli fu dotto particolarmente in matematica, musica teoretica, astronomia e ginnastica. Le favole lo dicono tau maturgo e rivelatore di sapienza divina. Egli deve essere figlio d'Apollo e d'Ermete, con una gamba d'oro, e fu veduto in più luoghi nello stesso tempo. Gli animali seguivano la sua chiamata. Da Ermete ebbe il dono della ricordanza della sua vita ante riore, come Euforbio, e seppe ridestare la medesima in altri. Egli sentiva l'armonia delle sfere celesti, e venne considerato come una divinità. Però è che si parla di un culto sacro e di orgie pitagoriche. Egli deve aver conosciuto Ferecide e Talete, ed essere stato educato dai sacerdoti egiziani; ma da se stesso si procacciò la maggior parte di sue cogni zioni. Fondò a Crotone una società segreta in cui si professavano i principii politici dell'aristocrazia: Pri ma che un individuo venisse accettato in quella do veva subire prove. I membrisi distinguevano in eso. terici ed essoterici, cioè più e meno iniziati. In tale società praticavanşi esercizii corporali e spirituali, vita e costumi comuni e regole, parole simboliche, invocazioni al fondatore (aútòs špa ), banchetti (ovo oltia ) e funerali; ma non già comunione di beni. I fini principali della società erano prima la mo rale religiosa, poi la scienza, particolarmente la matematica e la musica. La società pitagorica ebbe influenza diretta sugli interessi politici nelle città di Crotone, Sibari, Metaponto, Locri e Tarento; ma essendo stata cagione di una guerra, molti Pitago rici perirono e fors’anche lo stesso Pitagora mori a Metaponto, e dopo morte fu onoratissimo. I Pita gorici perseguitati e scacciati, conservarono pure influenza politica. A molti di essi, come Timeo, Archita ed Ocello da Lucania, sono attribuiti scritti, e le lettere attribuite a Pitagora ed a sua moglie o figlia Teano, come pure i versi d'oro, sono d'ori gine posteriore. Fra gli ultimi Pitagorici i migliori sono Filolao ed Archita, e dei primi scritti riman gono ancora frammenti. Quantunque la filosofia pitagorica abbia seguito varie direzioni, pure dobbiamo considerarla nella sua unità. L'esporre la medesima riesce difficile sia pella diversità delle vedute de'varii scrittori che le appartengono, sia pei segni simbolici di cui servi vasi quella scuola per significare le idee ed i varii sensi a cui s'impiegavano. -Come Ferecide, miti camente esprimendosi, diceva che Erebo aveva dato forma al Caos e ne venne il Tempo, Pitagora volle la pluralità generata dall'unità, ossia dal numero. Que sto è l'essenza (ovoia) od il principio (apxn) di tutte le cose. Il numero è pensato come uno, però anche quale unità di due antitesi, del pari e dispari. Onde la monade e la diade sono i principii delle cose. La diade è il principio della sostanza informe, ossia il numero indeterminato; la monade è il principio ordinatore. La sostanza informe viene alla pluralità ed alla varietà per mezzo dell'unità; però tutte le cose si fanno ad imitazione del nu mero, possono considerarsiqualinumeri. Il numero. è il principio generale tanto della natura, quanto della cognizione. Cosi l'uno è l'essenza del numero, il numero semplicemente, il fondamento di tutti i numeri, l'unità suprema, la divinità nel mondo. I Pitagorici dissero triade il numero del tutto consi derato nell'integrità di principio, mezzo e fine. La tetrattisi è importante, perchè i primi quattro nu meri formano assieme dieci, ed i primi quattro pari e dispari formano trentasei; parimente im portante è la deca, e vale come l'unità per sim bolo del principio di tutte le cose. Nell'essenza del numero, ossia nell'unità suprema, si contengono tutti i numeri, e per conseguenza gli elementi della natura e dell'universo. Questa teoria si accorda colla divisione dei toni del monocordo inventato da Pitagora. Dividendo in due parti una corda tesa, la metà produce l'ottava; cosi il tono fondamentale della corda intiera sta all'ottava come 2: 1, che è la perfetta proporzione musicale. La corda divisa in tre parti dà 2/3 della corda divisa, la quinta che sta al tono fondamentale come 2: 3; così 3/4 della corda dà la quarta, che sta al tono fondamen tale come 3: 4. Questi tre intervalli formavano l'ar monia degli antichi, onde l'importanza dei segni 1, 2, 3, 4. L'unità suprema è pari- dispari. Gli elementi della natura sono compresi nelle seguenti dieci antitesi: 1. Limitato, illimitato: 2. Dispari, pari: 3. Uno, più: 4. Destro, sinistro: 5. Mascolino, femminino: 6. Quiete, moto: 7. Retto, curvo: 8. Luce, tenebra: 9. Buono, cattivo: 10. Quadrato, rettangolo. Tuttavia non furono escluse altre antitesi. L'uno è solo nella terza antitesi, perchè ha due signifi cati, come principio e come sintesi di tutte le an titesi. Nelle antitesi il primomembro significa sem pre il più perfetto, in quanto che tutto nel mondo risulta dal perfetto e dall'imperfetto. L'uno essendo il fondamento di tutti i numeri, perchè è pari e dispari nello stesso tempo, non solamente è il principio del perfetto, ma anche dell'imperfetto. Il perfetto, ossia il buono, non è dunque primamente, ma coesiste all'imperfetto nell'uno come diade; perciò avviene in prima che l'uno forma il mondo, ossia quanto è possibile; imperocchè l'efficacia di Dio è limitata, ed ogni cosa recà al meglio solamente secondo sua potenza. Ma perchè i Pitagorici non prendono l'antitesi per fondamento delle cose, bensi il numero ossia il pari- dispari come dispari e pari? Nella tavola si presentano il limite, ossia il limitanté, ed il limitato. Il limitante è secondo loro, rispetto ai corpi, una pluralità di punti che formano un numero. L'illimitato significa il mezzo tra il limite, ossia lo spazio di mezzo; la quale espressione aveva grande significato nella musica e geometria loro. Dagli spazii musicali mezzani, ossia intervalli, essi derivavano l'accordo de'varii toni. I punti di limite costituendo il principio e la fine, l'illimitato è nel mezzo e produce l'espansione, e precisamente la geometria secondo le tre misure. Il cubo è pro dotto da tre intervalli, la superficie da due, la linea da un solo; il punto non ha intervallo, è l'u nità. Dal limite e dall'illimitato, ossia dalle unità e dagli intervalli, viene la grandezza dello spazio. Ma d'onde lo spazio mezzano? Il secondo membro delle loro antitesi è il negativo; perciò l'illimitato, o lo spazio mezzano, è il vacuo. La separazione delle unità, ossia numeri, avviene per mezzo del vacuo; questo è dunque principio e solamente un'altra espressione dell'illimitato o pari, perchè tutti i membri posteriori delle antitesi possono es sere mutati, e cosi anche i membri anteriori. Qual fu l'opinione dei Pitagorici intorno l'origine del mondo? Le cose provengono dalle unità in diversi spazii mezzani, esse formano un numero di unità, ed in ciò consiste la loro natura e la loro origine, non 'secondo il tempo, ma secondo la maniera umana di pensare. L'unità suprema come circon data dall'infinito, ossia dal vacuo, si sforza di di vidersi in antitesi e di ricongiungersi di nuovo. L’uno si divide in una pluralità di cose per mezzo dello spazio vacuo, perció l'illimitato si partisce in più parti affinchè entri nel limitante. Il vero essere ha dunque il suo fondamento nel limite. L'entrare dell'illimitato nel limitato vien detto l'alito ossia la vita del mondo. Perciò bisogna prendere il mondo come numero, come unità, le quali sono congiunte in Dio, che è l'unità primitiva, e separate dallo spazio mezzano. Dalla composizione delle unità provengono diverse relazioni, che sono ordinate armonicamente e con simmetria. Il legame di ogni relazione è l'armonia. Ora l'unione delle antitesi trovandosi nell'unità suprema, essa è il principio dell'armonia e l'universo numero ed armonia, ed anche l'armonia è di bel nuovo il principio dell'unità di tutte le cose. Ma nell'armonia è pur anco compreso il concetto di ordine. Avuto riguardo all' importanza della deca, adottavano dieci corpi mondani che si trovano in armoniche distanze. Rispetto ai sette toni, dal tono fondamentale all'ot tava adottavano sette -vocali. La monade è il punto, la diade la linea, la triade la superficie, la tetrat tisi il corpo geometrico, la pentattisi i corpi fisici. In questo modo arbitrario continuavano essi a porre cinque elementi, e dicevano paragonando: Il cubo significa la terra, la piramide il fuoco, l'ottaedro l'aria, l'icosaedro l'acqua, ed il dodecaedro l'etere come quinto elemento. Il migliore di questi ele menti è il fuoco, probabilmente perchè fra le dieci antitesi la luce e l'inerte significano il perfetto. Il fuoco riposa nel mezzo del mondo ed è la guardia ο castello di Giove (Διός φυλακή.Ζηνός πύργος), ha la forma di un cubo, perché questo, essendo consi derato il corpo più perfetto a cagione dei tre inter valli simili, secondo i Pitagorici era l'altare dell'u niverso; il qual fuoco si forma prima da sè e guida poi la formazione del mondo. Dal mezzo il fuoco si spande per tutto l'universoe lo abbraccia. Attorno al fuoco centrale sono ordinati i dieci corpi mon dani, cioè il cielo delle stelle fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e la controterra (artiyJabí), il quale ultimo corpo è invisibile. Essi si vibrano in direzione circolare, ad eccezione della terra im mobile nel mezzo (probabilmente con la contro terra ), e la quale contiene il fuoco; perchè anche il mondo intiero corrispondente alla deca è una palla: onde l'armonia delle sfere, perchè ogni corpo vibrandosi rende un tono. Tuttavia noi non sentiamo quell'armonia, giacchè appartiene alla nostra so stanza, e come ogni tono si può solo sentire pel contrapposto del silenzio, l'armonia delle sfere è senza pausa. I corpi circolanti sono otto solamente, e questi sono ordinati in quattro intervalli e sette toni, talchè la sfera delle stelle fissé ha il tono più basso, quello della luna il più alto. L'imperfezione è particolarınente sulla terra; però la luna e gli altri mondi sono più perfetti e più belli. Sulla terra ba luogo il cangiamento disordinato ed in appa renza molto fortuito; essa stessa è soggetta all'in stabilità. S 67 Si annodano ai numeri anche i concetti di per fezione e d'imperfezione in senso morale. La diade è principalmente il simbolo dell'immorale. L'anima dell'uomo è parimenti un numero od armonia, l'intelletto o pensiero è l'uno, la scienza il due, l'immaginazione il tre, il sentimento il quattro. L'anima è inserita nel corpo pel número e relazione armonica del corpo, perciò non è corporea, ma solo apparente in una relazione corporale. Vi sono anche anime prive di corpo che hanno vita di fan tasma, e le quali non sono mai entrate in alcun corpo o di nuovo ne sono uscite; queste sono i de moni. A questo si riferisce la dottrina esoterica della metempsicosi e la fede nella ricompensa dopo morte, a cui conseguita la personalità e l'immor talità dell'anima. L'unione dell'anima con un corpo è la pena di qualche empietà; la vita terrena è uno stato d'infelicità, ma necessario ed ordinato al buo no per mezzo dell'unione col tutto. L'anima umana possiede l'essenza ragionevole e l'essenza irragio nevole, quella delle bestie solamente la seconda, però ha qualche germe d'intelligenza. La virtù è armonia, la giustizia è detta anche numero uguale. Tutta la vita è sotto la cura divina: il suicidio è da condannarsi. Pare che la morale e la politica dei Pitagorici si appoggiasse a massime separate di ca rattere ascetico; essi inculcavano la moderazione nei desiderii e nelle passioni, la fedeltà, l'amore, l'amicizia, il lavoro, la costanza e l'educazione ri gorosa. – Cosi la dottrina pitagorica è in parte etica, rappresentata dall'armonia e dalla musica, in parte fisica per la matematica, pei fenomeni fisici derivanti dalla forma della sensibilità; la quale si ricava da ciò che l'unità del principio si risolve in una pluralità di cose. La presupposizione della ori ginale imperfezione deve unire ambe queste parti. L'unità suprema è semplice, ma considerata nella sua attività, nello sviluppo mondano della sensibi lità è composta; il soprasensibile ossia l'unità su prema è indeterminato. In ciò sta riposta senza dubbio l'idea di Dio come creatore del mondo, ma è offuscata dal modo forzato con cui si presenta all'uopo di spiegare l'origine del mondo, la natura delle cose singolari e la loro connessione, e dalla nozione simbolica e particolarmente matematica della provvidenza divina. Onde l'applicazione di questa dottrina alla parte spirituale è difficilissima. Pertanto la dottrina pitagorica è nell'etica tanto difettosa, quanto pare siano stati eccellenti i parti giani di essa nell'esercizio della virtù.  I lonii e Pitagorici tentarono spiegare l'origine del mondo; essi ammettendo la produzione delle cose riuscirono realisti. Per l'opposto gli Eleati sono idealisti, tendono alla cognizione del non -sensibile ed affermano: Nulla viene all'essere, tutto esiste. Il nome loro proviene dalla città d'Elea nella Magna Grecia, dov'era la sede principale di questa scuola filosofica. SENOFANE da Colofone, sede della poesia epica e gnomica, contemporaneo di Pitagora, si portò verso il 536 ad Elea nella Magna Grecia, e fu prima poeta epico ed elegiaco. Rimangono solo frammenti delle sue opere. La sua tesi fondamentale è questa: Dio è, e non può divenire; come pure in generale nissuna cosa può cominciare ad esistere; imperocchè il generato dovrebbe essere uguale al generante, epperò ambi non sarebbero fra loro differenti; ma l'ineguaglianza, come per esempio, che il più pic colo nasca dal più grande e vi ritorni, si deve attri buire all'opinione insussistente che alcuna cosa non esistente possa venir prodotta da ciò che esiste. Per ciò vi ha solamente l'uno, e questi è Dio, il quale forma col cielo e la terra un essere solo, unico (in TÒ öv xai tò Tây). Per conseguenza il politeismo o la mitologia parvegli un'empietà, particolarmente i miti immorali. Sostenne contro le scuole jonica e pitagorica che Dio non è mosso e limitato, nè inerte ed illimitato, perchè le prime limitazioni sono pro prie della pluralità, le altre appartengono al non esistente. Dio è perfettamente uguale perchè non ha parti; considerato spiritualmente è pura intelli genza, considerato corporalmente è da paragonarsi ad un globo. Secondo tali principii era impossibile una spiegazione della natura. Cosi egli oppose alla verità l'opinione, ossia l'intuizione sensibile; ep però non seppe trovare il nesso tra l'unità e la pluralità. Per la qual cosa si duole che l'ignoranza sia retaggio dell'umana schiatta. Senofane è pan teista; ma importante il suo pensiero dell'essere assoluto. PARMENIDE da Elea fece con Zeno ne un viaggio ad Atene, dove forse conobbe Socrate. Egli sviluppò il sistema di Senofane; tuttavia non prese le mosse dal concetto di Dio, ma da quello dell'essere e del non -essere, della certezza e dell'o pinione, riconducendosi poi all'idea di Dio siccome quella che è riposta nell'esistente. Secondo lui v'ha un doppio sistema di conoscenza, quello della ra gione ossia del vero, e quello dei sensi ossia del l'apparenza. Il suo poema sulla natura trattava di ambe le maniere, ma dai frammenti che pervennero a noi conosciamo la prima meglio della seconda. Es sere, pensare e conoscere è tutt'uno. Il non-essere è impossibile, tutto l'essere è identico; perciò il reale non lią cominciamento, è invariabile, indivisibile, riempie tutto lo spazio, da se stesso si limita, sussi ste per legge di necessità: onde qualunque cangia mento, qualunque movimento è mera apparenza. Ciò non ostante la stessa apparenza è regolata da una legge, per cui le rappresentazioni delle cose sono costanti (80% a ). A fine di spiegare la natura di tali rappresentazioni ricorre a due principii, il caldo, ossia il fuoco etereo, il freddo ossia la notte della terra; il primo è penetrante, positivo, reale, pensante (Saucoupyós), epperò più vicino alla verità; il secondo è denso, pesante (@an), negativo, sola mente una limitazione del primo. Questa dottrina della natura è meccanica. Da tali due principii de rivò egli tutti i cangiamenti ed anche i fenomeni del senso interno. L'uomo è un composto di fuoco etereo e di notte, per conseguenza partecipa alla cognizione della verità ed all'apparenza. MELISSO da Samo, verso l'anno 444, celebre an che come politico e capitano di flotta contro Pericle, adottò lo stesso idealismo, e prese a combattere particolarmente la filosofia naturale della scuola ionica. Non si deve far parola degli dei, perchè gli uomini non hanno cognizione alcuna di tali enti. Presso Melisso ritorna il concetto di perfezione. Ciò che esiste è infinito, non è prodotto, nè può perire. Non v'ha movimento o trasformazione, perché avvi un essere solo e nissun vacuo; epperò non si danno la porosità e la densità. L'esistente non può essere diviso, cosi non ha parti, non è corporeo. La plu ralità è sola apparenza sensibile. Quello che in ve rità esiste è dotato di vita. ZENONE d'Elea, discepolo ed amico di Parmenide, fece con questo un viaggio ad Atene e si distinse tanto per acume d'intelletto e sottile dialettica, quanto per fortezza d'animo, avendo sacrificata in battaglia la propria vita a difesa della patria. Egli sostene va il sistema di Parmenide in ciò che nega la plu ralità delle cose, il movimento e lo spazio. Data la pluralità delle cose, ne dovrebbe conseguitare che nello stesso tempo fossero infinitamente piccole ed infinitamente grandi; la prima condizione perchè risultano di ultime unità indivisibili, il cui aggregato non può produrre grandezza; la seconda con dizione perchè risultano da una quantità infinita di parti sempre più estese e per conseguenza divisi bili. Qui il sofisma consiste in ciò, che nel primo caso suppone l'indivisibilità, nel secondo la rigetta. In seguito diceva: la pluralità è ad un tempo limitata ed illimitata; limitata perchè più o meno determinata, illimitata perchè ogni distanza da un punto di una grandezza fino all'altro è infinito, avuto riguardo all'infinita quantità di parti di mez Egli contestava il movimento per le contrad dizioni inerenti a questo concetto; imperocchè bi sogna che lo spazio misuratore, il quale consta di parti infinite, venga percorso in un intervallo limi tato. Onde l'argomento detto l'Achille, con cui af fermava che se una testuggine avesse il vantaggio d'un passo avanti, non potrebbe essere raggiunta da Achille, perchè la distanza non cesserebbe mai appieno, quantunque si facesse sempre più breve. Diceva poi che non dovevasi accettare la dottrina del movimento, risultando da semplici momenti di quiete, in quanto ciò che si muove perpetuamente si sviluppa in qualche parte. Lo spazio vacuo è ines cogitabile, appunto perché la pluralità ed il mo vimento non sono pensabili. Che se fosse alcun che reale, esso dovrebbe trovarsi in uno spazio, giac chè ogni realità è compresa in quello, epperò una continuazione senza fine dovrebbe trovare luogo in uno spazio che la contenesse. Queste prove apago giche, appoggiate all'assurdità dell'opinione con traria, sono sofistiche per lo scambio delle forme rappresentative logico -matematiche di valore su biettivo e delle forme razionali di valore obiettivo. Nell'Achille si trova una falsa applicazione della ce lerità all'espansione, ossia del tempo allo spazio. Per mezzo dell'antitesi della ragione e dell'espe rienza Zenone pose le fondamenta della dialettica e dello scetticismo, che ben presto venne continuato dalla scuola di Megara e finalmente corruppe tutta la filosofia greca. $ 75 EMPEDOCLE d'Agrigento in Sicilia, verso l'anno 460, naturalista, medico, celebre come taumaturgo, perfezionò la fisica degli Eleati, siccome Zenone la metafisica. L'unità delle cose è il mondo, simile ad un globo, ragione per cui lo chiama opalpos, opera perfetta dell'amore, da lui governata, a lui iden tica. La materia e la forza non si decompongono. L'amore irradiandosi dal centro penetra tutto ed è ad un tempo necessità: dipende da tutto pel con trasto delle forze. Essendo l'uomo solamente una parte della divinità, la cognizione umana non può essere che imperfetta,''e quantunque conosca gli elementi del tutto, non può penetrarne l'unità, che Dio solo può comprendere. Egli distingue dalla mas sa la forza movente. Le forze solamente movono, ma non variano le cose; però questa dottrina della natura è meccanica. Egli è impossibile che il nulla produca alcuna cosa, e che venga a mancare ciò che esiste. Egli ammette quattro elementi, fra i quali dà preferenza al fuoco, considerandolo come l'essenza divina delle cose; imperocchè tutto si ri cava dal fuoco ed in esso tutto si risolve. La sepa razione avviene per odio, ma senza che riman gano intervalli vacui. L'amore congiunge le cose eterogenee, l'odio le omogenee, operando la sepa razione del composto. Vi sono periodi nella for mazione del mondo. Ma il mondo mosso è sola mente una parte del tutto, il dominio dell'odio solo sottordinato, ed anche solo presente nella rappre sentazione. Prima si formano le cose elementari, il sole, l'aria, il mare, la terra, poi da questi pro vengono le organiche per mezzo dell'amore; le piante e gli animali si formano dal concorso degli elementi, ma in principio le membra esistendo se paratamente hanno prima luogo i mostri. La na tura organica essendo formata dall'amore è il pas. saggio alla vita beata nello sfero. Gli spiriti sono trasmigrati in corpi per delitto, epperò sono neces sarie le purificazioni. Tutto è ripieno di ragione e partecipa alla conoscenza. Gli elementi non godono di vita pacifica, essendo svelti dallo sfero, mossi dall'odio, epperciò ricevono diverse forme senza propria metempsicosi. Tale migrazione per tutte le forme è la miseria delle cose, conseguenza dell’o dio. Rimedio contrario è l'intiero abbandono all'a more. Non v'ha guarentigia d'intelletto se ci diamo alla vita sensuale. La cognizione de' corpi ha per fondamento l'osservazione sensibile, ed è opera dell'unione meccanica de'corpi per mezzo dei tras corrimenti á toppolai) e delle correnti che pene trano in altri corpi per via de'pori (xotha ). L'unione delle impressioni sensibili nella coscienza, spiegasi col congiungersi del sangae nel cuore. Questa co gnizione procura l'opinione, ma non il vero sapere. La cognizione divina è somministrata dalla ragione ed avviene in maniera mistica per mezzo della pu rificazione. — La filosofia di Empedocle è il primo tenue saggio per rettificare le nozioni sensibili coi puri concetti della ragione, e disgiungere dai feno meni fisici la cognizione del vero reale, ossia il fondamento sensibile delle cose. La sua fisica ha tutti i difetti della spiegazione meccanica della na tura. Anch'egli si duole della ristrettezza dell'uma no intendimento. Si racconta che incontrò la morte nel cratere dell'Etna. Empedocle aveva scritto un poena didattico sulla natura, ma non ne perven nero a noi che frammenti. GORGIA da Leonzio, discepolo d’Empedocle, e anche maggior dispregiatore di Protagora di quanto è vero e buono. Egli si portò in Atene in qualità d'ambasciatore, si attirò gli sguardi per una nuova maniera oratoria, viaggið all'intorno, raccolse molto danaro dall'insegna mnento e morì in età avanzata. Le sue orazioni sono meramente pompose, svolte per mezzo di antitesi, epperciò fredde. Egli si vantava di parlare all'im provviso di tutto, sia brevemente sia a lungo, e di sapere a tutto rispondere. Il suo insegnamento nel l'arte oratoria consiste in artifizii, specialmente in paralogismi. Egli sprezzava la virtù, tenendo l'arte di persuadere per la suprema. In luogo dell'esistente degli Eleati pose il non - esistente. Egli sosteneva tre tesi: 1 ° egli v'ha niente, nè l'essere nè il non essere, nè ambi assieme. L'essere non è perchè o non deve aver principio o deve averlo, od ambi assieme. Se non ha principio è eterno, perciò un non - essere, è come eterno anche infinito, ma poi dovrebbe essere od in se stesso od in -un altros ma in se stesso dovrebbe essere ad un tempo contenente e contenuto, in un altro vi sarebbe un infinito in un altro infinito; però ambi i casi sono impossibili. Se ha principio, dev'essere prodotto o dall'esistente o dal non esistente. Nel primo caso sarebbe contro la presupposizione eterno e non avrebbe principio, nel secondo dovrebbe il nulla come non esistente, produrre alcuna cosa. Ma il nulla esistendo, l'es sere dovrebbe essere non esistente, perchè il nulla e l'essere sono contrapposti. L'essere poi non po trebbe avere principio e non averlo nello stesso tempo per essere un'antitesi. Parimenti il non essere non può essere, perchè altrimenti l'essere stesso non potrebbe essere. 2° Quand'anche qual che cosa fosse, tuttavia non si potrebbe conoscere, perchè non si può pensare che il pensabile, non il reale che è fuori del pensiero. Vi ha differenza tra il pensato ed il reale (questa distinzione è vera, maGorgia ne fece un'applicazione falsa ). 3° Quando anche alcuna cosa fosse pensabile, essa pero non sarebbe comunicabile, perchè solamente il concetto ed il discorso si possono comunicare, non già la cosa stessa.- Zenone aveva già adoperato gli ele menti delle nozioni sensibili per mostrare in esse stesse la loronullità a frontedella verità puramente razionale; Gorgia si prevalse degli elementi della dottrina eleatica intorno alla ragione per annullare l'ultima stessa, essendo contraria alla verità delle nozioni sensibili, ed il pensiero potendo solamente produrre apparenze. $ 80 In tal maniera fini il primo periodo della filosofia greca. I lonii partirono dalla natura, ossia dalmondo, gli Eleati da Dio; i primi rifletterono meno alla Di vinità, facendone conto solamente come dellaforza prima della natura o della vita; imperocchè per essa solamente intendevano a spiegare l'origine del mondo o per via dinamica o meccanica, finchè Anassagora separò Dio dalla materia, però ad ambi attribuendo pari originalità e concedendo solo al primo la direzione del mondo. Gli Eleati rigetta rono cotesto dualismo, ritornarono al monismo, ma non poterono accordare la perfezione di Dio coll'im perfezione del mondo, cercando un rifugio col dire che il mondo non è alcuna cosa reale, ma solo ap parente. Fu questo il grave errore, che sempre più ingrandito aboli finalmente Dio, la religione e la moralità. Già la scuola ionica aveva lasciato la mo rale in un canto. Pitagora, il quale trattò l'origine ed il governo del mondo col suo ingegnoso ma farzato e sterile paragone colla matematica, ebbe riguardo al morale, però meno in teorica che in pratica. –La filosofia ebbe poi un nuovo eccita mento della parte morale per - mezzo di Socrate, quantunque egli non abbia seguito la direzione scientifica, ma solo la pratica e religiosa. A ciò conseguitarono i sublimi saggi di Platone e d'Aristo tele per investigare la natura, Dio e la moralità; ma anche questi uomini dovettero soccombere al grande incarico, per quanto inspirato sembrasse il primo e circospetto il secondo. Finalmente la scuola epicurea prese, come gli Atomisti e Sofisti sul finire del primo periodo, a proteggere la sensualità e l'ateismo. Per opera degli Scettici prese a domi nare il dubbio; si cercò invano di risolvere il pro blema dell'unione della materia e dello spirito, dell'intuizione e del pensiero, e bisogno gettarsi nelle braccia del teosofismo: Così terminava la fi losofia greca, avendola dal principio alla fine ac compagnata il dubbio e la tristezza. Il Cristiane simo salvo poiil mondo dalla corruzione intellettuale e morale. I Romani non ebbero mente filosofica. Essi ac colsero la filosofia greca, particolarmente l'epicu rea, che rispondeva al loro lusso, e Tito LUCREZIO TERZO PERIODO -ECLETTICI E SINCREBISTI. ne fece soggetto di un poema didattico, cui diede l'antico titolo: Della natura delle cose; anche più famigliare si resero la dottrina stoica, che accor dandosi all'antico carattere romano, esercitò in fluenza sulla loro legislazione ed amministrazione, e trovò ancora rinomati partigiani al tempo del l'impero, cioè Lucio ANNEO SENECA, maestro di Nerone, autore di molti scritti filosofici, EPITTETO da Terapoli in Frigia, verso lo stesso tempo, schia vo, il cui discepolo FLAVIO ARRIANO da Nicomedia compilò in greco un piccolo manuale (éyxezpidcov) secondo le lezioni del maestro, e MARCO AURELIÓ ANTONINO, imperatore romano dall'anno 164 fino al 180, autore di meditazioni in lingua greca sotto il titolo: Eis éautóv. Seneca fu più eclettico, Epit teto si attenne ai voti della natura e ridusse la dottrina stoica alla formola ανέχον και απέχου, 81 stine et abstine. Lo scritto di Antonino ha carattere di dolcezza e pietà; tutti e tre abbracciarono sola mente la parte etica della filosofia stoica. Che se questi Epicurei e Stoici romani si mantennero fedeli ad un solo sistema, MARCO TULLIO CICERONE diede esempio di un compiuto eclettismo, e tanto egli contribui co'suoi numerosi scritti a rendere acces sibile ai Romani la filosofia greca, quanto gli mancò originalità filosofica. Nella pratica preferi il sistema stoico, nella teoretica l'accademico, accettandovi anche l'epicureo e l'aristotelico. In generale poi le dottrine di Platone ed ancora più quelle di Aristo tele rimasero pei Romani tesori nascosti. Francesco Bertinaria. Keywords: l’indole e le vicende della filosofia italiana. Refs.: determinazione dell’assoluto. Luigi Speranza, “Grice e Bertinaria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Berto – reductio ad absurdum – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “I like Berto, but then, my first unpublication is on negation and privation! Against my tutee, Sir Peter, I always took Aristotle’s tertium non datur pretty seriously, but the consequentia mirabilis I had to re-label implicature; for, as Tertulliano used to say, ‘Just because it is deaf (ab-surdum), I believe it!” --  Grice: “If Peirce (I lectured on him for years, and deem him my friend) is right that ‘dictum,’ in Roman, is cognate with Hellenic ‘deixis,’ Boezio was too hasty to translate ‘anti-phasis’ as ‘contra-dictio,’ for ‘phrasis’ is indeed Hare’s phrastic, while the dictio can be just a signal – as a spoon casting the shadow of a fork, to use Berto’s genial example!” – Grice: “Berto likes to pose the thing as an x-rhetorical question: che cosa e una contradizione, -- implicaturum: ‘if anything AT ALL!” – “He is friends with Priest, so what can you expect!? J). Francesco Berto (Venezia), filosofo. Laureatosi a Venezia con una tesi su Emanuele Severino, ha conseguito il dottorato presso la stessa università con una tesi sulla dialettica hegeliana. Dopo aver conseguito un post-doc in Filosofia teoretica all'Università degli Studi di Padova è stato Chaire d'Excellence Fellow al CNRS di Parigi, dove ha insegnato Ontologia all'École Normale Supérieure ed è stato membro dell'Istituto di Filosofia della Scienza e della Tecnica della Sorbona. È stato Research Fellow all'Institute for Advanced Study della University of Notre Dame (Indiana, USA). Ha insegnato Logica anche all'Università Ca' Foscari di Venezia e all'Università Vita-Salute San Raffaele. È stato Structural Chair of Metaphysics alla Universiteit van Amsterdam e membro del Northern Institute of Philosophy di Crispin Wright alla University of Aberdeen. Attualmente tiene la Chair of Logic and Metaphysics al dipartimento di Filosofia dell'University of St Andrews ed è Research Chair all'Institute for Logic, Language and Computation alla Universiteit van Amsterdam.  Premio Filosofico Castiglioncello, nella sezione giovani, con il libro Teorie dell'assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione.  Nel  l'Università Ca' Foscari di Venezia gli ha assegnato il Premio Ca'Foscari alla Ricerca di 10.000 euro per giovani ricercatori.  Nel  ha ottenuto dall'AHRCResearch Council di Gran Bretagna un finanziamento di 240.000 sterline per il progetto "The Metaphysical Basis of Logic".  Nel  ha ottenuto dall'European Research Council un finanziamento di 2.000.000 di euro per il progetto "The Logic of Conceivability".  Altre opere: “Logica” (Roma, Carocci); “Che cos'è una contraddizione” (Roma, Carocci); “L'esistenza non è logica: dal quadrato rotondo ai mondi impossibili” (Roma-Bari, Laterza); “Tutti pazzi per Gödel. La guida completa al Teorema di Incompletezza” (Roma-Bari, Laterza); “Logica da Zero a Gödel” (Roma-Bari, Laterza); “Teorie dell'Assurdo. I rivali del Principio di Non-Contraddizione” (Roma, Carocci); “Che cos'è la dialettica hegeliana? Un'interpretazione analitica del metodo” (Padova, Il Poligrafo); “La Dialettica della struttura originaria, Padova, Il Poligrafo). “Il Pensiero”; “Sistemi intelligenti”; “Iride”, “Rivista di estetica”, “Divus Thomas” “Il Giornale di metafisica.  Comune RosignanoLivorno, su comune.rosignano.livorno ).  Università Ca'Foscari di Venezia, su unive. Aberdeen  Amsterdam Archiviato il in.  Aberdeen Archiviato il 9 settembre  in.  PhilPapers.org  Stanford Encyclopedia of Philosophy: Dialetheism, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy: Impossible Worlds, su plato.stanford.edu. Stanford Encyclopedia of Philosophy: Cellular Automata, su plato.stanford.edu. 23 aprile  23 aprile ).Filosofia Filosofo del XXI secoloLogici italianiAccademici italiani Professore VeneziaProfessori dell'Università Ca' FoscariProfessori dell'AmsterdamStudenti dell'Università Ca' Foscari Venezia. Francesco Berto. Keywords: reductio ad absurdum, pegaso, il quadrato redondo, incompletezza goedeliana, Grice’s System Q, Myro’s System G, Speranza’s System GHP, R. J. Jones’s System C., dialettica, contradizzione, negazione, quadratto di opposizione, Hegel e l’opposizione, Hegel e la contradizione, che e inompleto secondo Godel? Sistema G incompieto, incopetiezza, Bellorofonte in sistema G, Parmenide, neo-Parmenide, Severino come neo-Parmenidiano, circolo quadrato, la quadratura del circolo, calcolo di predicate di primo ordine con identita, la struttura originaria della dialettica, dialettica, posizione, contraposizione, composizione – Oxonian dialectic, dialettica hegeliana, severino, dialettica oxoniense, dialettica ateniense. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Berto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Betti – la lupa; ovvero, problemi di storia della costitutzione politica e sociale nell’antica Roma – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Camerino). Filosofo italiano. Studia a Parma e Bologna (con una tesi sulla Crisi della repubblica e la genesi del principato in Roma).  Insegna per un anno Lettere al Liceo classico di Camerino e vince il concorso per la libera docenza presso l'Università di Parma. Trascorre lunghi periodi di studio all'estero, grazie a diverse borse di studio, nelle più prestigiose università europee (Marburgo, Friburgo e altre).  Nel 1917 diviene professore ordinario all'Università degli Studi di Camerino. In seguito insegna diritto nelle Università degli Studi di Macerata, Pavia, Messina, dove ha tra i suoi allievi Giorgio La Pira e Tullio Segrè), Parma, Firenze, Milano, Roma. Come Gastprofessor e visiting professor svolge corsi nelle Università di Francoforte sul Meno, Bonn, Gießen, Colonia, Marburgo, Amburgo, Il Cairo, Alessandria d'Egitto, Porto Alegre, Caracas. Betti è stato uno dei più importanti giuristi italiani di tutti i tempi e fu tra i principali artefici del codice civile italiano del 1942 tuttora vigente. Collocato fuori ruolo 1960, emerito dal 1965, è chiamato a insegnare ius romanum alla Pontificia Università Lateranense.  Nel corso della sua attività accademica ha coperto tutti i rami del diritto, in particolare il diritto romano, civile, commerciale e processuale[2]. Nel 1955 ha fondato presso le Università di Roma e di Camerino l'Istituto di Teoria dell'interpretazione. È stato socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei e dottore honoris causa delle Università di Marburgo, Porto Alegre e Caracas.  Per il suo sostegno intellettuale al fascismo fin dal 1919, alla Liberazione fu messo agli arresti nel 1944 a Camerino e imprigionato per circa un mese per decisione del CLN[3]. Nell'agosto del 1945 fu sospeso dall'insegnamento e sottoposto a giudizio di epurazione. Il procedimento lo prosciolse da ogni imputazione.  Produzione scientifica Le sue scelte politiche comunque non hanno compromesso il pregio e l'importanza delle sue opere. Le sue opere principali sono: Teoria generale del negozio giuridico, Teoria generale delle obbligazioni, Teoria generale della interpretazione.  Fa parte delle commissioni ministeriali che hanno redatto il codice civile del 1942. L'influenza di Betti fu determinante nella soluzione, adottata dal guardasigilli Dino Grandi, dell'abbandono del progetto italo-francese delle obbligazioni e dei contratti, che negli intenti originari del piano per la nuova codificazione avrebbe dovuto costituire l'attuale quarto libro del codice civile.  Altre opere: “Sulla opposizione dell'exceptio sull'actio e sulla concorrenza tra loro”; “La vindicatio romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto privato e nel processo”; “L'antitesi storica tra iudicare (pronuntiatio) e damnare (condemnatio) nello svolgimento del processo romano”; “Studii sulla litis aestimatio del processo civile romano”; “Sul valore dogmatico della categoria contahere in giuristi proculiani e sabiniani”; “La restaurazione sullana e il suo esito: contributo allo studio della crisi della costituzione repubblicana in Roma”; “La struttura dell'obbligazione romana e il problema della sua genesi”; “Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista dell'azione”; “Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano”; “La tradizione nel diritto romano classico e giustinianeo”; “Esercitazioni romanistiche su casi pratici”, “Anormalità del negozio giuridico”; “Diritto romano”; “Diritto processuale civile italiano”; “Teoria generale del negozio giuridico”; “Interpretazione della legge e degli atti giuridici: teoria generale e dogmatica”; “Teoria generale delle obbligazioni”; “Teoria generale della interpretazione”; “Teoria delle obbligazioni in diritto romano”; “L'ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito” (Città Nuova, Roma); “Attualità di una teoria generale dell'interpretazione”; “La crisi della repubblica e la genesi del principato in Roma”. Note ^ La sua dottrina ha costituito oggetto di studio approfondito da parte di Tonino Griffero. ^ Crifò Giuliano, Maestri del Novecento: Emilio Betti: il ruolo del giurista, Milano: Franco Angeli, Ritorno al diritto: i valori della convivenza. Fascicolo 7, 2008. ^ Sull'intervento a suo favore di Giuseppe Ferri, v. S. Truzzi, Stefano Rodotà, l’autobiografia in un’intervista: formazione, diritti, giornali, impegno civile e politica, Il Fatto quotidiano, Bibliografia Crifò, Giuliano (1978). Emilio Betti. Note per una ricerca, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, 7Ciocchetti, Mario, Emilio Betti, Giureconsulto e umanista. Belforte del Chienti. Brutti, Massimo (2015). Emilio Betti e l'incontro con il fascismo. Roma Tre-Press. Voci correlate Filosofia del diritto Ermeneutica giuridica Collegamenti esterni Dizionario Biografico, su treccani.it. Portale Biografie Diritto Portale Diritto Categorie: Giuristi italiani del XX secoloStorici italiani del XX secoloAccademici italiani del XX secoloMorti l'11 agostoNati a CamerinoAccademici dei LinceiProfessori della Sapienza - Università di RomaProfessori dell'Università degli Studi di CamerinoProfessori dell'Università degli Studi di FirenzeProfessori dell'Università degli Studi di MacerataProfessori dell'Università degli Studi di MessinaProfessori dell'Università degli Studi di MilanoProfessori dell'Università degli Studi di ParmaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università di MarburgoProfessori dell'Università di ViennaStudiosi di diritto romanoStudenti dell'Università degli Studi di ParmaStudenti dell'Università di BolognaStudenti dell'Università di FriburgoStudenti dell'Università di MarburgoStudiosi di diritto civile del XX secoloStudiosi di diritto commercialeStudiosi di diritto processuale civile del XX secolo[altre] Emilio Betti. Keywords: la lupa; ovvero, problemi di storia della costituzione politica e sociale nell’antica Roma, auslegung, auslegungslehre, storia della repubblica romana, diritto romano, exception, action, vindication, dirittop rivato, iudicare, pronuntiatio, damnare, condemnation, processor omano, litis aestimatio, processo civile, contaheer, giurista proculiano, giurista sabiniano, restauraziones ullana, constitutziane rpeubblicana, obbligazioner omana, cosa giudicata, diritto romanoc lassico, diritto romano guistinaneo, diritto processuale civile, negozio giuridico, interpretazione, genesi del principato, lingua romana, lingua latina, base etnica della antica Roma, i latini, l’eta monarchica, il signficato di ‘rex’ (regere, cf. lex, legare), l’eta repubblicana, res pubica used during l’eta monarchica, Romolo, il primo re, Tarquino, l’ultimo re, l’eta repubblicana, la stirpe dei patrizi, patrizio, cepo aristocratico, Caesar dittatore, assassinio di Caesar, il principato, Augusto, significante ‘consacrato’, ‘Imperator Augusto Ottaviano’, imperio, imperatore, pater familias, paternalism, diritto consuetudinario, il fuhrer, l’hero, autorita carismatica, civilita, ius civile, romanita, diritto romano ostrogotico, diritto romano longobardi, popolo romano, nazione romana, romano e sabini, diritto per romani e diritto per pellegrini, vocabulario del diritto romano, dizionario di diritto romano, lexicon di diritto romano, concetto autenticamente romano di auctoritas, lex, legare, eddictum, decretum, suggestion, agere, diritto processuale, contratto, negozio, diritto penale, diritto civile, crisi della repubblica, Antonio e Ottaviano, stato autoritario, concetto di stato, Ponzio Pilato e la morte di Gesu, pontificex massimo, laicitia del diritto romano, senatus, PSQR, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Betti: Vico ed il circolo dell’implicatura” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bianco – filosofia dello spirito; ovvero, la morte di Patroclo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervinara). Filosofo italiano. Grice: “I like Bianco; he optimistically thinks of ‘morale’ as a ‘scienza’ – but ‘della vita,’ which helps. I have myself explored the topic, and came with a ‘philosophy’ of life, rather!” -- Carlo Bianco (n. Cervinara), filosofo. Ha vissuto per tutta la vita nella città natale, in provincia di Avellino. La sua intensa e appassionata vita di uomo di cultura lo ha portato in giro per tutto il mondo.   Laureato in lettere, filosofia e scienze, docente di filosofia morale all'Trento, fu un seguace del pensiero di Platone e Marcuse. Fondatore della corrente del concretismo, dottrina filosofica che propugna il rispetto di ogni fede religiosa, il credo nell'aldilà e nella vita dopo la morte, ottenne nel 2004 la candidatura al premio Nobel per la letteratura dalle Accademie italiane.  Nel corso della sua carriera ricevette per tre volte il premio della Presidenza del Consiglio dei ministri. Accademico di Francia, membro della Columbia Academy, nella sua lunga attività letteraria conseguì diversi diplomi e riconoscimenti. Premio "Elsa Morante" che gli venne consegnato da Maurizio Costanzo e Dacia Maraini. Il sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino gli conferì la medaglia d'oro quale miglior ambasciatore della Campania nel mondo. Bianco, infatti, era un valente conoscitore di lingue straniere, compresi alcuni dialetti. Conosceva molti dialetti di paesi africani, che aveva avuto modo di apprendere nei suoi frequenti viaggi; aveva conseguito, inoltre, una laurea in scienze coloniali. L'Università Latina di Parigi gli conferì una laurea honoris causa in lettere.  Un saggio biografico del 2001 e una raccolta di poesie curata da Alfredo Marro, direttore del Caudino (mensile cervinarese col quale il filosofo ha a lungo collaborato), si occupano del filosofo cervinarese. Nell'autunno, Franco Martino gli dedicò una poesia dal titolo "A Carlo Bianco" nel suo libro Paese mio carissimo.  Bianco morì il 9 aprile  a 99 anni mentre stava lavorando su un testo di Tommaso d'Aquino. la città di Cervinara gli ha dedicato una piazza nella natia frazione dei Salomoni.  Altre opere:: “Introduzione a Kant” (Edizione La nuova Italia letteraria, Bergamo); “Saggio di filosofia dello spirito” (Editrice La Zagara); “L'Uomo sui confini dell'ignoto” (Edizioni centro ricerche Biopsichiche, Padova); “La morale come scienza della vita” (Edizioni Studi e ricerche, Catania); “Tempi di Sofistica” (Edizioni studi e ricerche, Catania); “Pensieri, Vincenzo Ursini Editore, Catanzaro); “L'uomo, l'inconoscibile” (Edizioni Scientifiche Internazionale, Napoli); “La vita davanti a voi, Casa Editrice Fausto Fiorentino. Vedi Cervinara commemora Carlo Bianco articolo de la Repubblica, 3 settembre, Sezione Napoli, Archivio storico.  Vedi È morto Carlo Bianco avvocato e candidato al Nobel nel articolo de la Repubblica, Sezione Napoli, Archivio storico.  Alfredo Marro, Un gigante del pensiero, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2001. Alfredo Marro, Biografie cervinaresi, Edizioni Il Caudino, Cervinara 2004. Alfredo Marro, Frammenti di un'animapoesie scelte di Carlo Bianco, Edizioni Il Caudino, Cervinara, Filomena Stanzione, Carlo Bianco nella Cultura Caudina, Casa Editrice Fausto Fiorentino, Rotondi 2000.  Carlo Bianco, poeta della fede e del dolore biografia e  nel sito "carlobianco.blogspot". Filosofia Categorie: Avvocati italiani del XX secolo Filosofi italiani del XX secoloLetterati italiani Cervinara Cervinara. Carlo Bianco. Keywords: la filosofia dell spirito; ovvero, la morte di Patroclo, Centro Ricerche Biopsichiche Padova, saggio sulla filosofia dello spirito, kantismo, spiritualismo, morale, vita, liberta, piazza bianco, cervinara. -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bianco” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Blossio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Cumae) Gaio Blossio. Blossio. Alla stoa romana si collega Blossio di Cuma (il nome ha origine osca), che e scolaro dello stoico Antipatro di Tarso. Dopo la morte di Tiberio Gracco, Blossio dove difendersi davanti ai consoli.. Poi, Blossio fugge da Roma, e si reca in Asia presso Aristonico di Pergamo e, quando questo e sconfitto, si da la morte. Blossio was a member of the Porch who is thought to have had an influence on the reformes introduced in Rome by Tiberio Gracco.

 

Grice e Bobbio – il bisogno del bisogno del senso del senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo italiano. Grice: “My favourite Bobbio must be his ‘dialettica’ – he knows all about it, since he is into the Plato/Aristotle models that run most philosophy – some think there is a third model at play – but …” – “Bobbio is a good one; like me, he is a philosophical cartographer – into the longitudinal and latitudinal unity of philosophy – even if he can be picky when it comes to the longitudinal: Italian only, and uncanonical, like Cattaneo, Gramsci, Croce, … -- Especially Cattaneo!” Grice: “Bobbio – this is the philosopher, not the infantry general – is a Griceian in that ‘fiducia reciproca’ becomes an essential meta-goal; he has been involved with the dispute naturalism/positivism, and has come with some interesting points about the ‘regole del gioco’ – and whether ‘custom’ can be a ‘normative fact’!” – “All in all, his philosophy is about trying to look for an answer to what I deem the fundamental question regarding rational co-operation – His appeal to philosophical biology or zoology is interesting – Toby trusts Tibby, the squarrels, as Jack trusts Jill and vice versa – but does a ‘lupus’ trust a ‘lupus’? Hobbes, who didn’t know the first thing about zoology, philosophical or other – thought so!” Essential Italian philosopher, who’s written on Fregeian sense ‘senso,’the need for sensethe search for sense, meaning meaning.  «Il compito degli uomini di cultura è più che mai oggi quello di seminare dei dubbi, non già di raccogliere certezze.»  (Norberto Bobbio, Invito al colloquio, in Politica e cultura, Einaudi, Torino 195515.). Considerato «al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo [italiano] della politica […] nella seconda metà del Novecento», fu «sicuramente quello che ha lasciato il segno più profondo nella cultura filosofico-giuridica e filosofico-politica e che più generazioni di studiosi, anche di formazione assai diversa, hanno considerato come un maestro». Bobbio nacque a Torino il 18 ottobre 1909 da Luigi (medico) e Rosa Caviglia.  Una condizione familiare agiata gli permise un'infanzia serena. Il giovane Norberto scrive versi, ama Bach e la Traviata, ma svilupperà, per causa di una non ben determinata malattia infantile «la sensazione della fatica di vivere, di una permanente e invincibile stanchezza» che si aggravò con l'età, traducendosi in un taedium vitae, in un sentimento malinconico, che si rivelerà essenziale per la sua maturazione intellettuale.  Studiò prima al Ginnasio e poi al Liceo classico Massimo D'Azeglio dove conoscerà Leone Ginzburg, Vittorio Foa e Cesare Pavese, poi divenute figure di primo piano della cultura dell'Italia repubblicana. Dal 1928, come molti giovani dell'epoca, fu infine iscritto al Partito Nazionale Fascista.  La sua giovinezza, come da lui stesso descritto fu: "vissuta tra un convinto fascismo patriottico in famiglia e un altrettanto fermo antifascismo appreso nella scuola, con insegnanti noti antifascisti, come Umberto Cosmo e Zino Zini, e compagni altrettanto intransigenti antifascisti come Leone Ginzburg e Vittorio Foa".  Allievo di Gioele Solari e Luigi Einaudi, si laureò in Giurisprudenza l'11 luglio 1931 con una tesi intitolata Filosofia e dogmatica del Diritto, conseguendo una votazione di 110/110 e lode con dignità di stampa. Nel 1932 seguì un corso estivo all'Marburgo, in Germania, insieme a Renato Treves e Ludovico Geymonat, ove conoscerà le teorie di Jaspers e i valori dell'esistenzialismo. L'anno seguente, nel dicembre 1933, conseguì la laurea in Filosofia sotto la guida di Annibale Pastore con una tesi sulla fenomenologia di Husserl, riportando un voto di 110/110 e lode con dignità di stampa, e nel 1934 ottenne la libera docenza in Filosofia del diritto, che gli aprì le porte nel 1935 all'insegnamento, dapprima all'Camerino, poi all'Siena e a Padova (dal 1940 al 1948). Nel 1934 pubblicò il primo libro, L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica. Le sue frequentazioni sgradite al regime gli valsero, il 15 maggio 1935, un primo arresto a Torino, insieme agli amici del gruppo antifascista Giustizia e Libertà; fu quindi costretto, a seguito di una intimazione a presentarsi davanti alla Commissione provinciale della Prefettura per discolparsi, a inoltrare esposto a Benito Mussolini. La chiara reputazione fascista di cui godeva la famiglia gli permise però una piena riabilitazione, tanto che, pochi mesi dopo, con il richiesto intervento di Mussolini e di Gentile, ottenne la cattedra di filosofia del diritto a Camerino, che era occupata da un altro ordinario ebreo, espulso a seguito delle leggi razziali. Dopo un diniego iniziale a causa dell'arresto di tre anni prima, fu reintegrato grazie all'intervento di Emilio De Bono, amico di famiglia, mentre era presidente di commissione il cattolico e dichiarato antifascista Giuseppe Capograssi.  È in questi anni che Norberto Bobbio delineò parte degli interessi che saranno alla base della sua ricerca e dei suoi studi futuri: la filosofia del diritto, la filosofia contemporanea e gli studi sociali, uno sviluppo culturale che Bobbio vive contemporaneamente al contesto politico temporale. Un anno dopo le leggi razziali, infatti, esattamente il 3 marzo 1939, giurò fedeltà al fascismo per poter ottenere la cattedra all'Siena. E rinnovò il giuramento nel 1940, a guerra dichiarata, per prendere il posto del professor Giuseppe Capograssi, a sua volta insediatosi nel 1938 nella cattedra del professor Adolfo Ravà estromesso dall'Padova perché ebreo. Questo episodio della sua vitaspesso riportato come se Bobbio avesse preso direttamente il posto di Ravàfu poi oggetto di svariate polemiche.  Nel '42, un giovane Bobbio affermò davanti alla Società Italiana di Filosofia del Diritto che Capograssi crebbe in «quel rinascimento idealistico del XX secolo, nel nostro campo di studi iniziato, stimolato, e, quel ch'è di più, criticamente fondato da Giorgio Del Vecchio». Nel 1942 partecipò al movimento liberalsocialista fondato da Guido Calogero e Aldo Capitini e, nell'ottobre dello stesso anno, aderì al Partito d'Azione clandestino.  Nei primi mesi del 1943 respinse l'"invito" del ministro Biggini (che poco dopo redasse, su impulso di Mussolini, la costituzione della Repubblica di Salò) a partecipare a una cerimonia presso l'Padova durante la quale si sarebbe dedicata una lampada votiva da collocare al sacrario dei caduti della rivoluzione fascista nel cimitero della città.  Nel 1943 sposò Valeria Cova: dalla loro unione nacquero i figli Luigi, Andrea e Marco. Arrestato a Padova per attività clandestina e rimase in carcere per tre mesi. Nel 1944 venne pubblicato il saggio La filosofia del decadentismo, nel quale criticò l'esistenzialismo e le correnti irrazionalistiche, rivendicando al contempo le esigenze della ragione illuministica.  Dopo la liberazione collaborò regolarmente con Giustizia e Libertà, quotidiano torinese del Partito d'azione, diretto da Franco Venturi. Collaborò all'attività del Centro di studi metodologici con lo scopo di favorire l'incontro tra cultura scientifica e cultura umanistica, e poi con la Società Europea di Cultura.  Nel 1945 pubblicò un'antologia di scritti di Carlo Cattaneo, col titolo Stati uniti d'Italia, premettendovi uno studio, scritto tra la primavera del 1944 e quella del 1945 dove sosteneva che il federalismo come unione di stati diversi era da considerarsi superato dopo l'avvenuta unificazione nazionale.  Il federalismo a cui pensava Bobbio era quello inteso come "teorica della libertà" con una pluralità di centri di partecipazione che potessero esprimersi in forme di moderna democrazia diretta.  Nel 1948 lasciò l'incarico a Padova e venne chiamato alla cattedra di filosofia del diritto dell'Torino, annoverando corsi di notevole importanza come Teoria della scienza giuridica (1950), Teoria della norma giuridica (1958), Teoria dell'ordinamento giuridico (1960) e Il positivismo giuridico (1961).  Dal 1962 assunse l'incarico di insegnare scienza politica, che ricoprirà sino al 1971; fu tra i fondatori della odierna facoltà di Scienze politiche all'Torino insieme con Alessandro Passerin d'Entrèves, al quale subentrò nella cattedra di filosofia politica nel 1972 mantenendola fino al 1979 anche per l'insegnamento di Filosofia del diritto e Scienza politica. Dal 1973 al 1976 divenne preside della facoltà ritenendo che mentre gli incarichi accademici fossero «onerosi e senza onori» era l'insegnamento l'attività principale della sua vita: «un abito e non solo una professione».  La politica, del resto, divenne via via un tema fondamentale nel suo percorso intellettuale e accademico, e parallelamente alla pubblicazioni di carattere giuridico, aveva avviato un dibattito con gli intellettuali del tempo; nel 1955 aveva scritto Politica e cultura, considerato una delle sue pietre miliari, mentre nel 1969 era uscito il libro Saggi sulla scienza politica in Italia.  Nei venticinque anni accademici all'ombra della Mole Antonelliana, Bobbio svolse anche diversi tra corsi su Kant, Locke, lavori su Hobbes e Marx, Hans Kelsen, Carlo Cattaneo, Hegel, Vilfredo Pareto, Gaetano Mosca, Piero Gobetti, Antonio Gramsci, e contribuì con una pluralità di saggi, scritti, articoli e interventi di grande rilievo che lo portarono, in seguito a diventare socio dell'Accademia dei Lincei e della British Academy. Divenuto condirettore con Nicola Abbagnano della Rivista di filosofia a partire dal '53, fu come questi socio dell'Accademia delle Scienze di Torino, della quale entrò a far parte il 9 marzo dello stesso anno per essere confermato socio nazionale e residente dal 26 aprile 1960.  Significativa la collaborazione, sul tema pacifista, col filosofo e amico antifascista Aldo Capitini, le cui riflessioni comuni sfoceranno nell'opera I problemi della guerra e le vie della pace (1979). Nel 1953 partecipò alla lotta condotta dal movimento di Unità Popolare contro la legge elettorale maggioritaria e nel 1967 alla Costituente del Partito Socialista Unificato. Nel tempo delle contestazioni giovanili, Torino fu la prima città a farsi carico della protesta, e Bobbio, fautore del dialogo, non si sottrasse a un difficile confronto con gli studenti, tra i quali il suo stesso primogenito Luigi che militava all'epoca in Lotta Continua. Nel contempo, venne anche incaricato dal Ministero per la Pubblica Istruzione quale membro della Commissione tecnica per la creazione della facoltà di sociologia di Trento.   Guido Calogero e Norberto Bobbio alla Rencontres internationales de Genève Nel 1971 Bobbio fu tra i firmatari della lettera aperta pubblicata sul settimanale L'Espresso sul caso Pinelli. Nel 1998 Norberto Bobbio in una lettera indirizzata ad Adriano Sofri pubblicata su La Repubblica ripudiò il tono del linguaggio utilizzato nell'appello ma senza ritrattarne l'adesione al contenuto di critica sui fatti legati a Piazza Fontana.  Il 14 febbraio 1972 scrivendo a Guido Fassò intorno al problema democratico, Bobbio si sfogava sostenendo che «questa nostra democrazia è divenuta sempre più un guscio vuoto, o meglio un paravento dietro cui si nasconde un potere sempre più corrotto, sempre più incontrollato, sempre più esorbitante [...] Democrazia di fuori, nella facciata. Ma dietro la tradizionale prepotenza dei potenti che non sono disposti a rinunciare nemmeno a un'oncia del loro potere, e lo mantengono con tutti i mezzi, prima di tutto con la corruzione. La democrazia non è soltanto metodo, ma è anche un ideale: è l'ideale egualitario. Dove questo ideale non ispira i governanti di un regime che si proclama democratico, la democrazia è un nome vano. Io non posso separare la democrazia formale da quella sostanziale. Ho il presentimento che dove c'è soltanto la prima un regime democratico non è destinato a durare. Sono molto amaro, amico mio. Ma vedo questo nostro sistema politico sfasciarsi a poco a poco [...] a causa delle sue interne, profonde, forse inarrestabili degenerazioni».[25]  A metà degli anni settanta, nel solco di un sempre più vivace impegno civile, e alle soglie di uno dei periodi più drammatici in Italia (culminato col rapimento e l'omicidio di Aldo Moro), provocò un vivace dibattito sia negando l'esistenza di una cultura fascista sia trattando estensivamente sui rapporti tra democrazia e socialismo.  L'8 maggio 1981, alla vigilia dei referendum sull'aborto, rilascia un'intervista al Corriere della Sera nella quale afferma la sua contrarietà all'interruzione della gravidanza. Successivamente la sua attenzione si concentrò a favore di una "politica per la pace", con motivati distinguo a sostegno del diritto internazionale in occasione della Guerra del Golfo del 1991.  Delle venticinque lettere inedite che fanno parte della corrispondenza epistolare che Bobbio tenne con Danilo Zolo e che ora sono state rese pubbliche nel volume L'alito della libertà, a cura dello stesso Zolo, interessante quella del 25 febbraio 1991 riguardante la "Guerra del Golfo" che vide protagonisti nel gennaio del 1991 gli Stati Uniti di George Bush senior, le forze dell'ONU e vari paesi arabi alleati contro l'Iraq di Saddam Hussein che aveva invaso il Kuwait. Bobbio definì "giusta" questa guerra non rendendosi conto che quella parola «... poteva essere interpretata in modo diverso da come l'avevo intesa io... come guerra "giustificata" in quanto rispondente a un'aggressione.» Bobbio quindi si lamentò delle polemiche nate al riguardo da parte di "pacifisti da strapazzo". Il fatto che l'ONU, scrisse Bobbio, avesse autorizzato l'intervento in guerra contro l'Iraq, la rendeva "legale", in questo senso, "giusta".  Bobbio però riconobbe che l'ONU fosse stato successivamente, nel corso della guerra, messo da parte e gli "spietati bombardamenti" su Baghdad hanno fatto sì che si possa temere che «...se la pace sarà instaurata con la stessa mancanza di saggezza con cui è stata condotta la guerra, anche questa guerra sarà stata, come tante altre inutile.» Nel 1979 fu nominato professore emerito dell'Torino e nel 1984, ai sensi del secondo comma dell'articolo 59 della Costituzione italiana, avendo «illustrato la Patria per altissimi meriti» in campo sociale e scientifico, fu nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini. In quanto membro del Senato si iscrisse prima come indipendente nel gruppo socialista, poi dal 1991 al gruppo misto ed infine dal 1996 al gruppo parlamentare del Partito Democratico della Sinistra, poi divenuto dei Democratici di Sinistra.[27]   Norberto Bobbio e Natalia Ginzburg a Barolo per festeggiare gli ottant'anni di Vittorio Foa. Dopo la stagione di mani pulite, e la cosiddetta fine della Prima Repubblica, venne pubblicato il saggio Destra e sinistra, i cui contenuti provocarono un notevole dibattito culturale, agitando non poco l'humus della politica italiana. Il libro toccò le cinquecentomila copie vendute in pochi mesi e venne ripubblicato l'anno successivo, riveduto e ampliato, con risposte ai critici.  A riconoscimento di un'intera vita lucidamente dedicata alle scienze del diritto, della politica, della filosofia e della società, tra dubbio e metodo, tra ethos e laicità, Bobbio ricevette lauree honoris causa da molte università, tra le quali quelle di Parigi (Nanterre), Buenos Aires, Madrid (tre, in particolare alla Complutense) e Bologna,[29] e vinse il Premio europeo Charles Veillon per la saggistica nel 1981, il Premio Balzan ed il Premio Agnelli nel 1995.  Nel 1997 pubblicò la sua autobiografia. Nel 1999 uscì una terza edizione aggiornata del suo best seller, ormai tradotto in una ventina di lingue. Nel 2001 morì la moglie Valeria, e Bobbio iniziò un graduale ritiro dalla vita pubblica, pur rimanendo in attività e curando ulteriori pubblicazioni. Fecero rumore le sue osservazioni critiche sia nei confronti di Silvio Berlusconi sia della partitopenia (ossia mancanza di partiti)[31], e le riflessioni sulla crisi della sinistra e della socialdemocrazia europea. Il 18 ottobre 2003, ricevette il "Sigillo Civico" della sua Torino "per l'impegno politico e il contributo alla riflessione storica e culturale".  Dopo avervi trascorso la maggior parte della vita, Norberto Bobbio morì a Torino il 9 gennaio 2004. Secondo le sue volontà, alcuni giorni dopo la morte, la salma venne tumulata, con una cerimonia civile strettamente privata nel cimitero di Rivalta Bormida, comune piemontese in provincia di Alessandria.Il pensiero di Norberto Bobbio si forma nei primi decenni del Novecento in una temperie filosofica dominata dell'idealismo. Tuttavia, come molti studiosi torinesi, non abbraccia mai questa visione del mondo: dopo un primo accostamento alla fenomenologia, significativamente attestato dalle sue opere sulla filosofia di Husserl, si avvicina al filone neorazionalista e neoempirista fiorito in Europa, specialmente oltralpe in Germania ed attorno al Circolo di Vienna.  Negli anni quaranta e cinquanta Bobbio entra in contatto con la filosofia analitica di tradizione anglosassone. Compie studi di analisi del linguaggio, tracciando le prime linee di ricerca della scuola analitica italiana di filosofia del diritto, di cui è ancora oggi riconosciuto figura eminente di riferimento. Al riguardo vanno menzionati perlomeno i due saggi: Scienza del diritto e analisi del linguaggio e Essere e dover essere nella scienza giuridica.  Dedica studi specifici a Hobbes, a Pareto e a molti filosofi e teorici della politica di cui già s'è detto. Vede nell'Illuminismo un modello di rigore e di rifiuto del dogmatismo di cui riprende l'ideale razionalistico, traducendolo anche nell'analisi del sistema democratico e parlamentare. Sino dagli anni cinquanta si occupa di temi quali la guerra e la legittimità del potere, dividendo la sua produzione tra la filosofia giuridica, la storia della filosofia e i temi di attualità politica.  Durante gli ultimi anni del fascismo, Bobbio matura la convinzione della necessità di uno Stato democratico, che sgombri il campo dal pericolo della politica ideologizzata e delle ideologie totalitarie sia di destra che di sinistra; auspica una gestione laica della politica e un approccio filosofico-culturale ad essa, che aiuti a superare la contrapposizione fra capitalismo e comunismo e a promuovere la libertà e la giustizia.  Nel saggio Quale socialismo? (1976), Bobbio critica sia la dialettica marxista sia gli obiettivi dei movimenti rivoluzionari, sostenendo che le conquiste borghesi dovevano estendersi anche alla classe dei proletari. Bobbio ritiene fallimentare solo l'esperienza marxista-leninista, mentre prevede che le istanze di giustizia rivendicate dai marxisti possano, in futuro, riaffiorare nel panorama politico.  Il pensiero di Bobbio diviene così, soprattutto tra gli intellettuali dell'area socialista, un modello esemplare, grazie al suo 'sapere impegnato', certamente «più preoccupato di seminare dubbi che di raccogliere consensi». Egli stesso riprenderà la riflessione su un tema a lui caro, quello del rapporto tra politica e cultura, proponendo, tra le pagine di Mondoperaio, una «autonomia relativa della cultura rispetto alla politica» secondo la quale «la cultura non può né deve essere ridotta integralmente alla sfera del politico».  Nel 1994 esce l'opera Destra e sinistra, nella quale Bobbio focalizza le differenze fra le due ideologie e i due indirizzi politico-sociali; la destra, secondo l'autore, è caratterizzata dalle tendenze alla disuguaglianza, al conservatorismo ed è ispirata da interessi, mentre la sinistra persegue l'uguaglianza, la trasformazione, ed è sospinta da ideali. In quest'opera, Bobbio si esprime anche in favore dei diritti animali[36].  Nell'opera L'età dei diritti (1990), Bobbio individua i diritti fondamentali che consentono lo sviluppo di una democrazia reale e di una pace giusta e duratura. Una partecipazione collettiva e non coercitiva alle decisioni comunitarie, una contrattazione delle parti, l'allargamento del modello democratico a tutto il mondo, la fratellanza fra gli uomini, il rispetto degli avversari, l'alternanza senza l'ausilio della violenza, una serie di condizioni liberali, vengono indicati da Bobbio come capisaldi di una democrazia, che seppur cattiva, è preferibile ad una dittatura.  Per tutta la vita scrittore di numerosissimi articoli, anche tramite interviste, Norberto Bobbio incarna l'ideale della filosofia critica e militante che lo vede protagonista anche del Centro di studi metodologici di Torino e tra i fondatori del Centro studi Piero Gobetti di Torino che conserva la sua biblioteca e il suo archivio, «Mi ritengo un uomo del dubbio e del dialogo. Del dubbio, perché ogni mio ragionamento su una delle grandi domande termina quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda. Del dialogo, perché non presumo di sapere quello che non so, e quello che so metto alla prova continuamente con coloro che presumo ne sappiano più di me.»  (Norberto Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.) Contrario alla figura dell'intellettuale «Profeta»[37], preferendo il ruolo del «Mediatore» impegnato «nella difficile arte del dialogo» (e ciò è anche testimoniato dal colloquio intrattenuto con i marxisti per un riesame critico del loro «dogmatismo e settarismo» che coinvolse anche Togliatti), il suo atteggiamento teoretico fu segnato da una positiva «ambivalenza» fra una posizione realista e una idealista che non rifuggiva le complessità del discorso, ricorrendo sovente al paradosso. Ciò gli valse, in virtù dell'amore per il dibattito che consideri «il pro e il contro» di ogni questione, la qualifica di filosofo «de la indecisión» (Rafael de Asís Roig)[41][42], giacché ogni suo «ragionamento su una delle grandi domande [si concludeva] quasi sempre, o esponendo la gamma delle possibili risposte, o ponendo ancora un'altra grande domanda». Nell'ultimo libro che raccoglie saggi, scritti e testimonianze su maestri, amici ed allievi, Bobbio comincia ricordando i tre maestri Francesco Ruffini, Piero Martinetti e Tommaso Fiore. L'elenco degli amici è lungo e annovera compagni di studio come Antonino Repaci[44][45] come Renato Treves e Ludovico Geymonat e colleghi come Nicola Abbagnano, Bruno Leoni, Alessandro Passerin d'Entrèves e Giovanni Tarello. Bobbio ricorda poi gli allievi Paolo Farneti, Morris Lorenzo Ghezzi, Amedeo Giovanni Conte, Uberto Scarpelli che, come Bobbio stesso scrive, nel 1972 fu naturaliter suo successore a Torino sulla cattedra di Filosofia del diritto.  Traggono ispirazione dal pensiero di Bobbio le "lezioni Bobbio", svoltesi nel 2004, e la manifestazione "Biennale Democrazia" di Torino. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola della cultura e dell'arte — Roma, 2 giugno 1966.[46] Gran Croce del Merito Civilenastrino per uniforme ordinariaGran Croce del Merito Civile — Roma, Laurea honoris causa in Scienze Politichenastrino per uniforme ordinaria Laurea honoris causa in Scienze Politiche — Università degli Studi di Sassari, 5 maggio 1994. Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Aztecanastrino per uniforme ordinaria Onorificenza dell'Ordine Messicano Aquila Azteca — Torino,  Intitolazioni A Norberto Bobbio è stata intitolata la biblioteca dell'Torino, sita in Lungo Dora Siena, 100 A.  Gli è stato inoltre intitolato un istituto di istruzione superiore a Carignano, nella provincia di Torino, denominato appunto "I.I.S Norberto Bobbio".  A lui è intitolata la biblioteca civica di Rivalta Bormida, paese natale della madre Rosa Caviglia. Altre opere: “Saggi” (Roma-Bari, Laterza); “L'indirizzo fenomenologico nella filosofia sociale e giuridica” (Di Lucia, Torino, Giappichelli); “Scienza e tecnica del diritto” (Torino, Istituto giuridico della Regia Università); “L'analogia nella logica del diritto” (Di Lucia, Milano, Giuffrè); “La consuetudine come fatto normative” (Torino, Giappichelli); “La filosofia del decadentismo, Torino, Chiantore); “Stati Uniti d'Italia. Scritti sul federalismo democratico” (Roma, Donzelli); “Teoria della scienza giuridica, Torino, Giappichelli); “Politica e cultura” (Torino, Einaudi); “Studi sulla teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli); “Teoria della norma giuridica” (Torino, Giappichelli); “Teoria dell'ordinamento giuridico, Torino, Giappichelli); “Teoria generale del diritto, Torino, Giappichelli); “Il positivismo giuridico, Lezioni di Filosofia del diritto” (Torino, Giappichelli); “Locke e il diritto naturale” (Torino); “Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia” (Napoli, Morano); “Italia civile. Ritratti e testimonianze” (Firenze, Passigli); “Giusnaturalismo e positivismo giuridico” (Roma-Bari, Laterza); “Profilo ideologico del Novecento italiano” (Milano, Garzanti); “La scienza politica in Italia”  (Roma-Bari, Laterza); “Diritto e Stato in Kant” (Torino, Giappichelli); “Una filosofia militante” (Torino, Einaudi); “La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico” (Torino, Giappichelli); “Quale socialismo? Discussione di un'alternativa” (Torino, Einaudi); “Il problema della guerra e le vie della pace” (Bologna, Il Mulino); “Studi hegeliani. Diritto, società civile, Stato, Torino, Einaudi); “Le ideologie e il potere in crisi. Pluralismo, democrazia, socialismo, comunismo, terza via e terza forza, Firenze, Le Monnier); “Il futuro della democrazia. Una difesa delle regole del gioco, Torino, Einaudi); “Maestri e compagni, 3ª ed., Firenze, Passigli); “Il terzo assente. Saggi e discorsi sulla pace e sulla guerra” (Casale Monferrato, Sonda); “Hobbes, Torino, Einaudi); “L'età dei diritti, Torino, Einaudi,  “Il dubbio e la scelta. Intellettuali e potere nella società contemporanea, Roma, Carocci); “Elogio della mitezza e altri scritti morali, Milano, Il Saggiatore); “Destra e sinistra. Ragioni e significati di una distinzione politica” (Roma, Donzelli); “Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana” (Roma, Donzelli); “Eguaglianza e libertà” (Torino, Einuadi); “De senectute e altri scritti autobiograficiPolito, prefazione di G. Zagrebelsky, Torino, Einaudi); “Né con Marx né contro Marx, C. Violi, Roma, Editori Riuniti); “Autobiografia, A. Papuzzi, 3ª ed., Roma-Bari, Laterza); “Teoria generale della politica, M. Bovero, Torino, Einaudi); “Trent'anni di storia della cultura a Torino” (Torino, Einaudi); “Dialogo intorno alla repubblica, Roma-Bari, Laterza); “Liberalismo e Democrazia” (Milano, Simonelli); Contro i nuovi dispotismi. Scritti sul berlusconismo” (Bari, Dedalo); “Etica e politica. Scritti di impegno civile” (Mondadori). Premio "Artigiano della Pace"giovanipace.sermig.org, su giovanipace.sermig.org. 3 dicembre  (archiviato dall'url originale l'8 dicembre ).  Premi e riconoscimenti a Norberto Bobbiocentenariobobbio, su centenariobobbio. Fondazione Internazionale BalzanPremiati: Norberto Bobbiobalzan.org  Hegel-Preis der Landeshauptstadt StuttgartStadt Stuttgart: Bisherige Preisträgerstuttgart.de  Luigi Ferrajoli, L'itinerario di Norberto Bobbio: dalla teoria generale del diritto alla teoria della democrazia, in Teoria politica, N. Bobbio, seconda tavola fuori testo.  Scrive Bobbio: «[Fui] esonerato, per mia vergogna, dalle ore di ginnastica per una malattia infantile restata, almeno per me, misteriosa». (Norberto Bobbio, De senectute, Einaudi, Torino Fondo Norberto BobbioL'Inventario: Stanza studio Bobbio (SB)centrogobetti, su centrogobetti,   N. Bobbio18.  Cesare Maffi, Massimo Bontempelli: punito da fascisti e antifascisti, in ItaliaOggi, n. 206, 1º settembre 11.  Nello Ajello, Una vita per la democrazia nel secolo delle dittature, su ricerca.repubblica, Anna Pintore, RAVÀ, Adolfo Marco, in Dizionario biografico degli italiani,  86, Torino, Treccani,. 28 aprile.  A puro titolo d'esempio si veda Diego Gabutti, Norberto Bobbio non esitò a occupare la cattedra del professore ebreo Adolfo Ravà, cacciato dall'università per motivi razziali, in ItaliaOggi,  Francesco Gentile, Società italiana di filosofia del diritto (atti del XXV Congresso), La via della guerra e il problema della pace, Vincenzo Ferrari, Filosofia giuridica della guerra e della pace, Milano, Courmayeur, Franco Angeli,  "Laicità e immanentismo nel pensiero di Norberto Bobbio", di Alfonso Di Giovine, in Democrazia e diritto,  Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, volume 9. Il pensiero contemporaneo: il dibattito attuale, POMBA, Torino   Norberto Bobbio, Tra due repubbliche: alle origini della democrazia italiana, Donzelli Editore, Fortini si reca in Cina in visita ufficiale nella Repubblica Popolare Cinese con la prima delegazione italiana formata, tra gli altri, da Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Enrico Treccani e Cesare Musatti. Il viaggio durerà un mese e il diario della visita verrà pubblicato l'anno seguente in Asia Maggiore.  Così Fortini chiama scherzosamente Bobbio assimilandolo a Cartesio (Descartes) e al suo razionalismo  Franco Fortini, Asia Maggiore, Einaudi, Torino  Ricordo di Norberto bobio, in Rivista di Filosofia,  Bologna, Società Editrice Il Mulino, Proiflo biografico di Norberto Bobbio, su accademiadellescienze,  N. Bobbio, decima tavola fuori testo.  "Non dobbiamo chiedere scusa per Piazza Fontana"  Guido Fassò, La democrazia in Grecia, Giuffrè Editore, Milano   «con l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il concepimento non voluto e non gradito; e concludeva, rispondendo a Nascimbeni: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».(in Intervista a Bobbio)  Senato della Repubblica, su senato.  N. Bobbio, ventesima tavola fuori testo.  Centenario Norberto Bobbio, su centenariobobbio 5 aprile 2009).  Premio Balzan [collegamento interrotto], su balzan.com.  I timori di Bobbio Democrazia senza partitiLa Repubblica  Ha lasciato scritto Norberto Bobbio: «Ho compiuto 90 anni il 18 ottobre. La morte dovrebbe essere vicina a dire il vero, l'ho sentita vicina tutta la vita. Non ho mai neppure lontanamente pensato di vivere così a lungo. Mi sento molto stanco, nonostante le affettuose cure di cui sono circondato, di mia moglie e dei miei figli. Mi accade spesso nella conversazione e nelle lettere di usare l'espressione 'stanchezza mortale'. L'unico rimedio alla stanchezza 'mortale' è il riposo della morte. Decido funerali civili in comune accordo con mia moglie e i miei figli. In un appunto del 10 maggio 1968 (più di trent'anni fa) trovo scritto: vorrei funerali civili. Credo di non essermi mai allontanato dalla religione dei padri, ma dalla Chiesa sì. Me ne sono allontanato ormai da troppo tempo per tornarvi di soppiatto all'ultima ora. Non mi considero né ateo né agnostico. Come uomo di ragione e non di fede, so di essere immerso nel mistero che la ragione non riesce a penetrare fino in fondo, e le varie religioni interpretano in vari modi. Alla morte si addice il raccoglimento, la commozione intima di coloro che sono più vicini, il silenzio. Breve cerimonia in casa, o, se sarà il caso, in ospedale. Nessun discorso. Non c'è nulla di più retorico e fastidioso dei discorsi funebri». (Ne La Repubblica la cronaca del funerale di Bobbio.)  Né ateo né agnostico ma lontano dalla Chiesa, in «La Repubblica», 10 gennaio 2004.  Norberto Bobbio, Scienza del diritto e analisi del linguaggio, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, n. 2, giugno 1950,  342-367. 5 luglio.  Norberto Bobbio, Essere e dover essere nella scienza giuridica, in Rivista di filosofia, n. 3, luglio-settembre 1967,  235-262. 5 luglio.  «Mai come nella nostra epoca sono state messe in discussione le tre fonti principali di disuguaglianza: la classe, la razza ed il sesso. La graduale parificazione delle donne agli uomini, prima nella piccola società familiare e poi nella più grande società civile e politica è uno dei segni più certi dell'inarrestabile cammino del genere umano verso l'eguaglianza. E che dire del nuovo atteggiamento verso gli animali? Dibattiti sempre più frequenti ed estesi, riguardanti la liceità della caccia, i limiti della vivisezione, la protezione di specie animali diventate sempre più rare, il vegetarianesimo, che cosa rappresentano se non avvisaglie di una possibile estensione del principio di eguaglianza al di là addirittura dei confini del genere umano, un'estensione fondata sulla consapevolezza che gli animali sono eguali a noi uomini, per lo meno nella capacità di soffrire? Si capisce che per cogliere il senso di questo grandioso movimento storico occorre alzare la testa dalle schermaglie quotidiane e guardare più in alto e più lontano». (da Destra e sinistra, Donzelli, Roma 1994)  N. BobbioLIV, nota 11: «È significativo che nella sua ultima lezione accademica tenuta come titolare della cattedra di Filosofia della politica a Torino ipresente’ come egli stesso ricorderà ‘il collega cui mi sentivo intellettualmente e politicamente più vicino, Alessandro Passerin d'Entrèves’, Bobbio abbia citato ‘con forza la celebre frase che subito dopo la Prima guerra mondiale, di fronte agli allievi, che pretendevano dal celebre professore un orientamento politico, Max Weber pronunciò: «La cattedra non è né per i demagoghi né per i profeti»’. (N. Bobbio, Il mestiere di vivere, il mestiere di insegnare, il mestiere di scrivere, colloquio con Pietro Polito, in “Nuova Antologia”, N. Abbagnano, Storia della filosofia,  IX, POMBA per Gruppo Editoriale L'Espresso S.p.A., Torino ove è detto: «Bobbio, dai primi anni Cinquanta in poi, ha ricorrentemente tallonato la sinistra marxista, provocandola con intenti costruttivi e spingendola ad un esame critico del suo persistente dogmatismo e settarismo. Il documento più importante di tali provocazioni, nel decennio in esame, è la raccolta di saggi Politica e cultura del Alcuni di questi saggi appaiono in origine sulla rivista ‘Nuovi argomenti' che [...] costituisce in quegli anni uno dei più significativi luoghi d'incontro tra area laica e quella marxista. Lì appare, nel 1954, uno dei saggi più provocatori, in senso costruttivo, [...] rivolti a quest'area (dalla quale si risponderà con gli interventi di Della Volpe e di Togliatti): quello dal titolo molto significativo Democrazia e dittatura».  Scrive Bobbio: «Pur non essendo mai stato comunista [...] [e] avendo dedicato la maggior parte degli scritti di critica politica a discutere coi comunisti su temi fondamentali come la libertà e la democrazia [...], [ho] sempre considerato i comunisti, o per lo meno i comunisti italiani, non come nemici da combattere ma come interlocutori di un dialogo sulle ragioni della sinistra». (N. Bobbio, Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 2009618)  Sul pensiero di Bobbio circa il comunismo, si veda anche l'intervista Giancarlo Bosetti, «No, non c'è mai stato il comunismo giusto», in l'Unità, 3 aprile 1998. Segue alla pagina successiva Archiviato N. Bobbio203.  N. BobbioXVII.  N. Bobbio, Elogio della mitezza, Linea d'ombra edizioni, Milano 19948.  Antonino Repaci, magistrato e uomo della Resistenza, nipote di Leonida Repaci  Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea in provincia di Cuneo, su beniculturali.ilc.cnr:8080. 19 febbraio  26 aprile ).  Sito della Presidenza della Repubblica, quirinale  Comune di Rivalta Bormida | La Biblioteca, su comune.rivalta.al. 14 luglio.   Norberto Bobbio, Giuseppe Tamburrano, Carteggio su marxismo, liberalismo, socialismo, Roma, Editori Riuniti,  Pier Paolo Portinaro, Introduzione a Bobbio, Roma-Bari, Laterza, Voce "Norberto Bobbio" in, Biografie e bibliografie degli Accademici Lincei, Accademia dei Lincei, Roma, Enrico Lanfranchi, Un filosofo militante. Politica e cultura nel pensiero di Norberto Bobbio, Bollati Boringhieri, Torino, Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio l'accento sulla democrazia, in "Storia e problemi contemporanei", Angelo Mancarella, Norberto Bobbio e la politica della cultura. Le sfide della ragione, "Ideologia e Scienze sociali", 26, Lacaita Editore, Bari-Roma 1995 Giuseppe Gangemi, Meridione, Nordest, Federalismo. Da Salvemini alla Lega Nord, Rubbettino, Soveria Mannelli 1996 Girolamo Cotroneo, Tra filosofia e politica. Un dialogo con Norberto Bobbio, Soveria Mannelli, Rubbettino, Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino (1940-1979), Pantograf (CNR), Genova Morris Lorenzo Ghezzi, La distinción entre hechos y valores en el pensamento de Norberto Bobbio, Editorial U. Externado de Colombia, Bogotá, Tommaso Greco, Norberto Bobbio. Un itinerario intellettuale tra filosofia e politica, Donzelli, Roma 2000 Costanzo Preve, Le contraddizioni di Norberto Bobbio. Per una critica del bobbianesimo cerimoniale, CRT, Pistoia, Zagrebelsky, Massimo L. Salvadori, Riccardo Guastini, Norberto Bobbio tra diritto e politica, Laterza, Roma-Bari 2005 Marco Revelli, Norberto Bobbio maestro di democrazia e di libertà, Cittadella Editrice, Assisi, Pazé, L'opera di Norberto Bobbio. Itinerari di lettura, Milano, Franco Angeli, Roberto Giannetti, Tra liberaldemocrazia e socialismo. Saggi sul pensiero politico di Norberto Bobbio, Plus, Pisa 2006 Antonio Punzi, Omaggio a Norberto Bobbio, Metodo, linguaggio, Scienza del diritto, Giuffrè, Milano, Agosti, Marco Revelli, Bobbio e il suo mondo. Storie di impegno e di amicizia nel '900, Aragno, Torino, Peyretti, Dialoghi con Norberto Bobbio su politica, fede, nonviolenza, Claudiana, Torino () Nunzio Dell'Erba, Norberto Bobbio, in Id., Intellettuali laici nel '900 italiano", Vincenzo Grasso editore, Padova,  Pier Paolo Portinaro, «Bobbio, Norberto» in Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Ruiz Miguel Alonso, Politica, historia y derecho en Norberto Bobbio [Fontamara ed.],. Mario G. Losano, Norberto Bobbio. Una biografia culturale, Carocci, Roma, Tommaso Greco, Norberto Bobbio e la storia della filosofia del diritto, in Diacronìa. Rivista di storia della filosofia del diritto, Norberto Bobbio; Franco Pierandrei, Introduzione alla costituzione, Roma, Laterza, Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Norberto Bobbio, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Norberto Bobbio, su Find a Grave.  Opere di Norberto Bobbio, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione),. Norberto Bobbio, su Goodreads.  Norberto Bobbio / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione) / Norberto Bobbio (altra versione), su senato, Senato della Repubblica.  Registrazioni di Norberto Bobbio, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Le opere di Norberto Bobbio (Biblioteca e Archivio "Norberto Bobbio" del Centro Studi "Piero Gobetti" di Torino), su erasmo. Commemorazione di Norberto Bobbio, su giornaledifilosofia.net. Epistolario Norberto BobbioDanilo Zolo Norberto Bobbio, dal sito dell'ANPIAssociazione Nazionale Partigiani d'Italia (ultimo accesso del 15 ottobre 2009) I presupposti filosofici nell'opera di Norberto Bobbio di Franco Manni V D M Antifascismo V D M Senatori a vita di nomina presidenziale Filosofia. Norberto Bobbio. Keywords: il bisogno del bisogno del senso del senso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bobbio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Boccadiferro – luogo comune – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “Boccadiferro is a good one; he is what Oxonians call ‘a Renaissance man,’ and all’italiana, he has a beautiful carved grave – He was into ‘physica,’ or physics, what Lord Russell would call ‘stone-age metaphysics,’ but the Italians call ‘fisica medievale,’ and he was surely an Aristotelian – Platonic physics is a florentine, rather than a Bolognese thing – no wonder the first stadium ever in Italy started in Bologna, not Firenze, whose Accademia platonica was the place to see and be seen!” --  Ludovico Boccadiferro   Bologna: la tomba di Boccadiferro nella basilica di San Francesco Ludovico Boccadiferro (Bologna) filosofo e umanista italiano. Il suo nome latino è 'Ludovicus Buccaferrea,  Da una illustre famiglia cittadina, dopo aver seguito le lezioni dei filosofi Alessandro Achillini dal quale derivò il suo orientamento averroistico, e forse Pietro Pomponazzi, presso lo Studio di Bologna, Ludovico Boccadiferro insegnò a sua volta filosofia nella medesima università. Nel 1525 si trasferì alla Sapienza di Roma ove ebbe modo di farsi apprezzare anche da papa Clemente VII. Alla Sapienza rimase sino al 1527 quando, a seguito del rovinoso sacco di Roma dei lanzichenecchi, tornò a Bologna per riprendere l'insegnamento che mantenne fino sua alla morte, avvenuta nella città natale a circa sessantatré anni nel 1545. È sepolto in una tomba monumentale all'interno della basilica di San Francesco a Bologna.  Scrisse diverse opere, in buona parte edite postume o mai pubblicate, sulla filosofia aristotelica. Altre opere: “Explanatio libri I physicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Nova explanatio Topicorum Aristotelis” (Venezia, Academia Veneta); “Lectiones in quartum meteororum Aristotelis librum” (Venezia, Francisci Senensis); “Philosophi praeclarissimi Lectiones super primum librum meteorologicorum Aristotelis, nunc recens in lucem editae, additi etiam sunt duo indices, tum rerum, tum quaestionum copiosissimi” (Venezia, Ioannem Baptistam Somascum Papiensem); “Lectiones super tres libros de anima Arist. Nunc recens in lucem aeditae, cum copiosissimo indice tam rerum notabilium quam quaestionum quae in uniuerso opere continentur” (Venezia, apud Ioan. Baptistam Somascum, & fratres); “Explanatio libri primi physicorum Aristotelis lectionibus excerpta recenti hac nostra editione quam potuit diligentissime expolita atque elaborate” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones in Aristotelis Stagiritae libros, quos vocant Parva naturalia” (Venezia, Hieronymum Scotum); “Lectiones, in secundum, ac tertium meteororum Aristotelis libros” (Venezia, Hieronymum Scotum); “In duos libros Aristotelis de generatione et corruptione doctissima commentaria a Ioanne Carolo Saraceno nunc primùm castigata atque diligentissimè repurgata necnon copiosissimo atque locupletissimo indice ab eodem nunc primùm amplificata atque illustrata” (Venezia, Franciscum de Franciscis Senensem); “Lectiones super primum librum Meteorologicorum Aristotelis, duo additi etiam sunt indices, nempe rerum ac quæstiorum copiosissimi” (Venezia, hæredem Hieronymi Scoti). Vedi Treccani L'Enciclopedia Italiana, riferimenti in.  Fonte Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.  Antonio Rotondò, «BOCCADIFERRO, Ludovico», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 11, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1969. Charles H. Lohr, «The Aristotle commentaries of Ludovicus Buccaferrea», Nouvelles de la république des lettres, 1984, pp. 107-18.  Alessandro Achillini Averroè Aristotelismo Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Ludovico Boccadiferro  Ludovico Boccadiferro, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Ludovico Boccadiferro, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Ludovico Boccadiferro, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Ludovico Boccadiferro,.  Ritratto di Ludovico Boccadiferro Quadreria dell'Bologna, Archivio storico. il 24 marzo. Averroismo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo Professore Bologna Bologna Umanisti italiani. E ex decem illis capitibus, quæ præmittenda esse alias diximus, cetera, ut mi- Quz præmis nus necessaria huic tra & ationi, prætermittentes, hæc potissimú attingemus, tenda sunt an te expolitio quodnam fit philosophi propositum in his libris topicorum, quæ ſit huius nem Topico partis utilitas, quæ inscriptio, qui ordo, & quæ operis diuiſio: quibus abso- rum lutis, ad textus expofitionem accedemus. Propolitum igitur in his libris est, quod fit phi diale & icam methodum trader quare, ut, quid hoc propofitum nobis polli positum in li ceatur, intelligamus, cognoſcendum est quid fit diale & ica. & quoniam tunc bris Topico rem unamquanque optime cognoscimus, fi ipsam à ſui fimilibus sciamus rum. diſtinguere; dialectica autem maxime ſimilis effe uidetur rhetoricæ; ideo ui debimus, quo modo conueniant, differantg; inter ſe dialectica, & rhetorica. Dialecticam Stoici definiunt scientiam bene dicendi. bene dicereautem quidfit diale effe uolunt uera dicere, ac rei conſentanea.cum autem folus philoſophus corum ſente Čtica ex Stoia hoc efficiat, ipfi ad philosophiam solum diale &ticæ nomen referunt, ac ſolus cia. philosophus, ex eorum ſententia, diale&icus est. Plato vero, ut Alexander refert, dialecticam esse existimavit divisiuam me quid iterum fit thodum: cuius opus est, & ex uno plura facere, & plura in unum compone- Placonis fena ex re hanc enim in Phædro dialectica appellat, ubi eam summis laudibus extollit. tentia, vervm alia forte eſt Platonis ſententia: uult enim ipſe, ut patet in dialogo alia, et uera, de iufto, dialecticam esse facultatem, qux conatur ordinecerto, circa unum Platonis fen: quodque, quid ipſum ſit, inuenire. cum autem hæc facultas dupliciter tentia de dia lectica, quid conſiderari poſsit, primout eius regulæ, ac præcepta ſeorſum conſiderantur; lit. fecúdo, ut hæ regulæ rebus ipsis applicantur; dialecticam Plato à rebus non feiunxit, ideo diale & icum metaphysicum appellauit, qui rationem capit cu iuſlibet essentiæ, & non ſolum regulas, & præceptiones callet, quibus inter rogandum reſpondendum ue fit fed, & interrogare fic, & reſpondere, quod eſt diale & ici proprium. cum autem huius fit uel præcipuum inſtrumentum diuifio, ideo eam in Phædro tantopere commendauit. Aristoteles autem dialecticam poſuit ſyllogiſticã methodum ex proba- Aristotelis sé bilibus agentem de quacunque re propofita. methodum appellat fyllogifti- tentia de dia cam ex probabilibus, quoniammultipliciter fyllogiſinidifferunt, uel ſcilicet lectica, quid ſecundum propofitionis ſpecies, uel ſecundum modos, &figuras, uel ſecun dummateriam,in qua ſunt. ſecundum quidem propofitionum ſpecies alii funt categorici, alii hypothetici.ſecundum modos, & figuras, alii ſunt per- quomodo fe fe& i, aliiimperfecti, alii in aliis figura, & modo. fecundum autem materiam cundum mo differunt, quoniamalii ſuntex ueris, & propriis, qui demonſtratiuidicun- dos & figu tur; atque ars, quæ huiuſmodi ſyllogiſmos docer conſtruere, appellaturme ſyllogiſmi,et thodus demonſtratiua. Alexander eam dicit appellari demonstrationem. quomodo fe alii autem ſyllogiſmi ex probabilibus probant, qui diale &tici appellantur; at cundum ma que ars, quæ huiuſmodi fyllogiſmos docet conſtruere, diale & ica methodus teriam. A eſt EXPOSITIO LIB. 1. tedicta declarat. est peripateticis, de qua philoſopho propoſitum eſt agere in his topicorum libris. at uero ſyllogiſmi, qui ex apponentibusprobabilibus procedunt, ſo exemplis an phiſtici ſunt; ac ſophiſtica ars eft, quæ de ipſis agit, horum autem differen tia hinc perſpici poteſt. ſienim dicamus, nullum bonum eſt imperfe & um,uo luptas eſtquid imperfe & um, ergo uòluptas non eſt bona, hic eſt demonſt ra tiuus ſyllogiſmus, quiex uoluptatis diffinitione procedit. at ſi dicamus, om ne bonum bonos efficit poſsidentes, fed uoluptas bonos non efficit, ergo uoluptas non eſt bona: hic erit dialecticus ſyllogiſmus. quod enim bonum bonos efficiat, eſtquidem probabile, non tamen neceſſario uerum. ſcien tia enim bona eſt, quæ tamen bonos poſsidentes non efficit. at ſi quis dicat, quod eft bonum, eſt appetibile, ſed uoluptas eſt appetibilis, ergo uoluptas quare diale- elt bona: ettfyllogiſinus ſophiſticus, quiex apparentibus probabilibus pro ética ex pro- cedit: fallit autem ex loco à conſequenti.quòd fi quis cauſam quærat, cur babilibus,& dialectica ex probabilibus tantú procedat,hæcnimirum eſſe uidetur, quòd, te propolita cum diale&tica interrogare doceat,acreſpondere,(id quod uerbum Sráneye agat. sou, à quo dialectica di& a eft, nobis indicat ) oportet, utdiale & ica de rebus omnibus differat, cum res omnes interrogando, & reſpondendo tractari poſsinc. ſi igitur diale & icus de quacunque re propoſita agit, neceſſe eſt, de rebus etiam fallis quandoque diſſerat. quod li ita fit, impoſsibile eſt, ut ex rebus ueris ſemper probet: neque enim ex ueris falſum colligi aliquo mo: do poteſt. ad probabilia igitur diale&icus conuertitur, quæ élicit à reſpon quare diale- dente, ex illisq; propofitum concludit: neque enim probabilia omnino ue etica lit à phi ra ſunt. ita igitur patet, quid peripateticis dialectica fit. lofopho ap- Quæ cum ita fint, re& e di& um eſt à philosopho, diale &ticã eſſe avtispoçor rhet pellata avtitoricæ. tribus enim modis potiſsimum conueniunt rhetorica, & diale &tica: primo quidem, quia definitum genus non habent circa quod uerſentur, ſicut & modis inter aliæ omnes diſciplinæ. nam & medicina, & mathematica,& naturalis philofo fe conueniát phia, & ciuilis ſcientia, & artes omnes ſubie & um quoddam agnoſcunt, in dialectica & tra cuius ambitum continentur. nihil enim, quod ad humanum corpus non rhetorica. pertineat,medicina conſiderat: neque arithmetica, quod ad numerum.at diale &tica de quacunque re propofita poteſtagere.eodem modo & rhetoris ca proprium ſubieci genus,circa quod uerſetur, non habet. ſecüdo, conue niunt dialectica, & rhetorica, quia utraque non ex propriisrerum princi piis, ſed ex rebus communibus probat. aliter enim deremedica agit diale Žicus, quam medicus. hic ex propriis eius artis principiis diſſerit:diale&ti cus uero ex communibus: eodé modo & orator. Tertio conueniunt, quia circa oppoſita æque uerſantur, id eft, utranque partem contradictionis tuen tur. ſimiliter enim diale & icus tuebitur uoluptatem effe bonam, &non bo,: nam, animam effe mortalem, & immortalem:& orator, aliquid effe iuſtum, & non iuſtum, utile & non utile, laudabile, & uituperabile, eodem modo de fendet. aliæ autem omnes artes, etfi utrunque oppoſitorum cognofcant, non tamen utrunque eorum efficiunt, fed, quod melius eſt, ſemper ſibi pro ponunt.medicus, exempli cauſa, quæ ſanitatem efficiunt,fimul& quæ mor bum, perſpecta habet, non tamen fanitatem, & morbum indifferenter effi cit, ſed ſanitatem ſibi ſemper proponit.eodem modo & aliiomnes artifices. quare diale- ſola diale & ica, ac oratoria ars circa utrunque oppofitæ indifferenter uerſan rica à philo tur.atque hinc eſt, quòd hæ duæ artes à philoſophis poteſtates ſolent appel fophis lint ap lari. poteftas enim proprie oppofitorumeſt: hæ autem artes non unum mat pellatę pote- gis oppofitorum, quam alterum tuentur, licet alii iccirco ipſas appellari po ſtate; idý; teftates dicant, quoniam potentesreddunt eos, qui ipſis inſtructiſunt.quid spopoo rheto ! tici & rheto enim tur. enim non poteſt, qui hominibus probare, ac perſuadere, quod libeat; pofsit? alii uero iccirco eas poteſtates appellari dicunt, quoniã ad bonú æque busci nfirma tribus rationi ad malú uſum his uti poffumus: atque hinc eft, quòd neſcias, bonine an mali plus hominibus hæ artes attulerint: ficut enim,fiad honeſtas rariones dedu cantur, ut ueritatis inuentionem, iuſtitiæ defenfionem, ac commoda pa trix maxime proſunt, ita fiad oppoſita trahantur, maxime obelle ſolent his igitur tribus cóueniunt dialectica, & rhetorica, quòd definitum genus ſub je& um non habent, quod non ex propriis, ſed ex communibus probant, & quòd utranque oppofitorum æque tuentur. TOTIDEM etiã modisinter fe differút.primoenim diale & ica circa quam- quot modis cunque materiam uerſatur. rhetorica autem ciuilem materiam quodammo inter fediffe dofibiappropriat. ſecundo diale &interrogando ica, & reſpondendo de re- rat rhetoria busagic, ac prolixitatem uerborum fugiens quambreuiſsime differit: rhe- lectica: torica uero continuata, ac diffuſa oracione uritur, quod confiderans Zeno reéte admodum rhetoricam manui expanſæ, dialecticam uero eidem in pu gnum contractæ comparauit. tertio differunt, quia diale&ica circa séris: quid ſie 94 sherorica uero circa uzóleous uerſatur. eft autem Siois quæſtio nullis certiş is; & quid finibus temporum locorum, perſonarum concluſa. úzóteous uero quæ defini ta eft uelomnibus, uel pluribus horum, ut fi quæramus, an philoſophiæ ope ra fit danda, siois eſt, fi quæramus, an nobis hoc temporephiloſophiz ſiç uacandum, utóðeris eft. IT A igitur paret, quod ſie philoſophi propoſitum in his Topicorum libris agere, ſcilicet de dialecticamethodo, uidimusý;, quid eſſet diale &tica, & quid cum rhetorica conueniat, quid ue ad ipfa differat. AlterVM, quod diſcutiendum propoſuimus, eft, quænam ſit huius operis diale &icz u. utilitas eftautem eius utilitas ad quatuor præcipue.primo ad diſputationes, tilitas, & ad fecundo ad oratoriam facultatem,tertio ad ueritatis inuentionem, ultimo quot res cöfe ad ſcientiarum principia probanda.ſi quis ea demoliri tentet, ad difputatio- ratpotiſſimú, nes quidem utilis eſt diale&ica, quoniam loca nobis ſubminiſtrat; unde e. quid.confe Tuantur argumenta ad quodlibet problema conſtruendum, uel deftruédum. ad diſputa - præterea docer quomodo interrogare, ac reſpondere debeamus. quare fi ţiones. alios interrogabimus, quodlibet probare poţerimus: fiautem interroganti reſpondebimus, fententiam noſtram egregie ſuſtinebimus, atque ad ircon ueniens non deducemur.quàm autem adrhetoricam conferat,hinc patet', quàm confen quod omnes fere, qui de rhetorica conſcripſerunt, non aliunde, quam ex riam faculta docis, qui hic traduntur, probationes fuas, quæ ſunt quaſi orationis cor, de- cem, ſumi tradunt, neque tamen eo minor eft hæc utilitas, quòd plerique rhe cores ex his Ariſtotelis libris, quod ad rem ſuam faceret, iamdudum mutua cti ſunt.magni enim intereſt, fi quis aquam ex riuulis hauriat potius quam ex fonte, id autem uel hinc patere poteſt, quòd, cum apud Ariſtotelem tradi ti ſint tercentum, atque eo amplius loci, ita diſtincte ſecundum quæſtionum differentias, ut nihilmagisrhetores eos omnes ad uiginti fere deduxerunt, quam ampla facultas in quantascoa&a anguſtias. Ad ueritatis autem inuent quàm confe tionem dialectica confert, quoniã cum in unaquaquere poſsimus ad utran- rat ad uerita quepartem diſputare ex probabilibus. probabilia autem non fint exomni tis inucntio parte falſa, ideo ex ipſis aliquid ueri colligere poterimus, quod Ariftotelis reſtimonio confirmatur, qui plerunque in rebusdifficillimis diale & icos fyl logiſmos pro utraque parte præmittit.deinde fententiam ferens folet often quim confe dere quoquo modo rem ita ſe habere, & quoquomodo non. Confert de rat ad ſciena mum diale & ica ad ſcientiarum principia defendenda: nulla enim ſciétia pro A 2 pria nem. Iteriorum. tiarum prima pria principia poteſtprobare, fed ea pro ueris aſſumens, alia omnia ex illis pendapaa pro probat: at fi huiuſmodi principia negentur, nullus præter dialecticum,& metaphyſicum poterit ipſa probare.maxima igitur, utpatet, eſt diale &ticæ utilitas,atque ideo immerito quidam ipfam damnarunt, & fuftulerunt.fie quòd quidã nim diale &tici quidam pernicioſas opiniones intulerunt, ut Protagoras, dialectica im qui cum in dialecticis excelleret, Deos in dubium reuocauit, unde decreto merito dam- publico Athenienfes eius libros arſerunt,ipſumą; Athenis ablegarunt, tan narint, idq; Protagoræ e quam hominem reipublicæ, ac philoſophicæ ueritati perniciofum, id non xemplo. dialecticæ contigit uitio, ſed eorum potius, qui dialecticam à rerum cogni tione ſepararunt, quod profecto aliud non eft, quàm fi quis corpus ab ani ma ſeparet, aut oculum à uiſua facultate: unde mirum non eft, fi poftea dialectica ad deteriorem partem abufi fuerint. quæ fit hu - SEQUITUR, ut inquiramus,quæ ſit huius operis inſcriptio, et inſcriptionis ius operis in- caula. inſcribuntur autem hi libri Torine, græco nomine, à uerbo Tótosi, infcriptionis. quodlocum nobis ſignificat. eſt autem locus, ut Rodulphus definit,com munis quædam reinota, cuius admonitu, quid in quaque re probabile ſit; poteft inueniri, atq; hinc libri, qui de huiufmodi locis agut, Topica appellati. Iam illuduidendum eſt, qui ſit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui fit ordo facultatis. primoq; inquirendum eſt, an libri Topici ſequi debeant libros huius libri. pofteriorum reſolutoriorum: deinde an etiam ſequi debeant libros priorú, et primo an Primo quidem, quòd pofteriorum libri, qui de demonſtratione agunt, To cedere debe- pica conſequi debeant; ex eo probatur, quoniam demonſtratio eft finis to ant libros Po tius logicæ tractationis, ut Græci atteſtantur, de ea igitur ultimo loco agen dum eſt.præterea cum probabilia uiam nobis aperiant ad ipſam demonſtra tionem, fintq; inuentu, ac cognitu faciliora, dehis igitur priori loco agen huius ratio dum eſt. his itaque rationibus Topica præcedere Poſteriora ſtatuamus. an uero præcedant, an ſequantur Priora, non minor eſt difficultas. Marcus Ci Topica cero, cuius fententiam ſequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili - Lebeidlibros gentem rationem diſſerendi appellat, in duas partes dicit efle diductam, u. Priorum, nam inueniendi,alteram iudicandi:inueniendi artem ordine naturæ priorem idậ; ex fen- dicit. ſi hæcita ſunt, cum inueniendi ars in Topicis libris tradatur, iudican tentia Cice- diuero in Prioribus, ergo Topica procedut Priora.quæ enim priora ſuntin ronis, & Boe doctriva ordinata, prius etiam tradi debent.uerum quoniam plerique ne çit. fciunt qua ratione pars illa appelletur iudicatiua,ideo hoc ipſum nunc:0. ſtendamus. Appellatur hæc pars inuentiua eo quòd locos, utdiximus, con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur.pars uero altera iudicatiua dicitur, altera inuen- quoniam doceſ, quo pacto, probabilia illa, quæ inuenimus, fint conne& en tiua,altera ne da, qua ſcilicet figura, & quomodo, ut aliquid concludamus, non ſolum ma appellentur. teria opuseft, qua id efficiamus, ſed etiam recto, & artificioſo connexu., non aliter, quam qui cercas, autáreasimagines fundunt, non ſolum materia indlgent, fed etiam typis quibuſdam,per quos fuſa materia debitam formam fufcipiat.pars igitur illa, quæ de locis agit, inuentiua, quæ uero de modis,ac figuris ſyllogiſmorum, atque inſuper decautionibuscaptioſarum argumen opinionis fu- tationum, iudicatiua eſt appellata. ſed, ut ad rem propoſitam redeamus, perioris effi - concludebat prior ratio Topica debere præcedere librospriorum, ſed huic cax oppofi - fententia opponitur efficax ratio.in Prioribus enim agitur de ſyllogiſmo in. communi, in Topicis autem de ſyllogiſmo dialectico.cum autem commu niora femper præcedere debeant, ergo priorum libri præcedent Topica, hancq; ſententiam peripateticiomnes, Græci, Latini, & Arabes concordes cui caméopi conſequuntur.Si cui tamen prior ſententia magis arrideat, quòd ſcilicet TO nis confirma tio. an qua ' ratione. I O PICOR VM ARIŞ T. 3 Ctio. $ Topica præcedane, non concedet; quod oppoſita ratio aſſumit, quòd fcili- nioni magis cet in Topicis de diale&ico ſyllogiſmo agatur, ſed dicețibi agi de materia & eiustatio diale & ici fyllogiſmi, quæ ſunt ipſa probabilia.hæc poſtea quomodo ſyllogif- nis confirma mosautalia argumentationis fpecieconnecti debeant,in prioribus traditur. tio. quòd Gi philoſophus Topicoru initio dicit ſe in propoſita tractatione diale &icum fyllogiſmum quærere, hoc propterea dicit, quoniam hæc omnia gra- niobiectio. huic opinio tia diale & ici ſyllogiſmitra & antur: quid enim conferent probabilia, nifi ipfi huius obie– recte componere, ac connectere ſciamus? non tamen ſupponunt do &trinam ctionis diflo de fyllogiſmo, quæ in prioribus traditur: Id neque ex eo oſtendi poteſt, hanc lutio. tračiationem eam fupponere, quæ eſt de fyllogiſmo, quoniam philoſophus alia huius ra obie initio primi Topicorum de ſyllogiſmo, atque eius ſpeciebus agit:non enim ob aliud de his agit, niſi ut dialectici fyllogiſmi materiam inueniat, de qua huius obie hoc loco nou diffiniret, eiusg; ſpecies, cum dehis in reſolutoriis abunde e- ftionis dißio lutio alia, giffet.ita igitur Topica librum de interpretatione conſequentur, Priorum conclufio. autem, ac Pofteriorum libros præcedent. Illvd deniū uidendum ſuperelt, quæ fit huius operis diuiſio.diuiditur au- quæ fic huius tem in tres partes. in primo enim libro oſtendit partes, ex quibus compo- operis diui – nuntur orationes dialecticæ, & partium partes, uſque ad fimpliciſſimas. in fio. fecunda parte oitendit loca, ex quibus fumantur argumenta ad conſtruen dum, & deftruendum omnegenus quæſiti, quod fit in ſex ſequentibus libris. in tertia autem parte; uidelicet in o & auo libro interrogantem inftruit, quo-. modo debeat interrogare, ac reſpondentem, quomodo debeat reſpódere. In hoc primo capite proponitphiloſophus propoſitum ſuum in his Topicis libris. &quoniam hæc omnia,quæ in hoc uolumine tractantur, gratia diale quid in hoc Etici fyllogiſmi tractantur, ideo præmittit, quid ſit fyllogiſmus, & quæ fint agendum pro eius differentiæ.primo igitur definit fyllogiſmum, deinde definit ſyllogiſ- ponac philo mum demonſtratiuum: & quoniam demonltratio conſtat exprimis, & ueris, fophus. oftendit, quænam ſint hæc prima, & uera, definit etiam diale &ticum ſyllogif mum. & quoniam conſtat ex probabilibus,oftendit quænam ſint probabilia. definit deinde litigioſum fyllogiſmum, poftremo definit paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, ac concludens dicit ſe ſummatim dehis egiſſe, admonetą; ſe non effe de rebus his exactam do & rinam traditurum, ſed qualis pro poſitæ methodo conuenit. Propoſitum ) Duæ ſunt apud philoſophos uoces cognatæ, propofitum, & fub- quid inter se iectum. ſubiectum eſt circa quod unaquæque diſciplina uerfatur: propoſitum differantpro uero eſt id, quod artifex ſibiproponit, & quo effe & to ceſſat ab opere, exem- pofitum; & plicauſa,fubie& um in medicina efthumanum corpus, propoſitum uero eſt ſubiectum. fanitatem efficere in humano corpore, & femper propoſitum comprehen dit etiam ſubiectum, quare Græci interpretes, cum ſemper expofitum quæ rant, de ſubiecto nunquam fere uerba faciunt notandum autem eſt, quòd in hoc differre uidentur artes factiuæ à diſciplinis contemplatiuis, quòd in pro- quomodo fa pofito artium faciuarum tria complectuntur, effectio primum, quæ eſt cu- ctiuz artes à juſlibetartis finis, deinde forma, quæ ab artifice introducitur, quæ & ipſa differant. fubie & um artis propinquum appellatur, ſicut eſt in medicina ſanitas: ptäte rea ipſum ſubiectum, atque hæc tria in propoſito artis explicantur, nilicon tingat formæ illi, &fubiecto unum eſſe nomen impofitum. in propofito au tem contemplatiuarum diſciplinarum comprehenditur cognitio, quæ eſt cuiuſlibet fcientiæ contemplatiuæ finis, & ipſum ſubie & um licet fiquis in his etiam diligentius inſpiciat, uidebit formam quandam latere naturalis philoſophi.propofitum eſt res naturales cognoſcere, fed forma latet modus 1 1 торт сок у м ARIST, di, dus, ſcilicet & character quo illas cognofcit, nempe phyſice eodem modo, &arithmetici propoſituni eſt numeros cognoſcere ledlatet illud mathema tice, quod eſt quali forma eius cognitionis. notandum etiam eft aliud effe proris differ. propofitum eius, qui ſcientiam aliquam tradit, &ipſius ſcientiæ, exempli se àpropoſ- cauſa,philoſophipropofitum eſt in hoc uolumine de dialectica agere, ipfius to ſcientiæ, uero diale &ticæ propofitum eſt probabiliter diſputare de quacunque propofi quä ipfe fcri- to problemate. utrunque autem propofitum indicant uerba philoſophi. ptor tradit. quid ſit me Methodum. utcognoſcamus quid methodusſit, quæ res, ſicuti non facilis eſt; thodus. ita digniſsima eft cognitione, notandum eſt,quòd methodus, ficut nomen indicat, elt uia quædam, qua unum poft aliud certo quodam ordine poſitum eft, quare diſciplinæ omnes, quæ certum quendam ordinem obſeruant, me: quæ fint pro- thodi appellantur: ſed inter ipſas diſciplinas aliæ ſunt, quæipſis diſciplinis prie mecho- tradendis deſeruiunt, & iccirco diſciplinarum inſtrumenta dici poflunt, cu juſmodi ſunt definiendiars, & diuidendi, & aliæ quædam. aliæ uero ſunt di ſciplinæ, quibus illæ deferuiunt, proprie quidem methodi nomen diſciplinis deſeruientibus conuenit, quæ omnes ad logicam tractationem pertinent, quæ etiam in cauſa ſunr, cum aliis diſciplinis applicantur,ut niethodi nomé accipiant: unde & medendimethodus, & phylica methodus dicitur, cum ſci licethæ diſciplinæ certo quodam ordine traduntur, quod non aliunde ha bent, quam ex illis logicis mechodis. quod hæc ars Inuenire. dixit hoc philoſophus, quoniam ante ipſum hæc ars nondum erat nondum inué conſtituta: etſi multa apud Platonem, & alios ueteres philoſophos reperi ta erat,ſed ip rentur, illa tamen erant præcepta quædam ſparſa, & difie & a,neque colle ſe primus ea inuenit, & p &a in artem. primus omnium Ariftoteles hæc diligenter perſecutus artem fecit, hanc inſtituit, fimul & perfecit. A quapoterimus etc, cum diale & icainterrogando, & reſpondendo conſiſtat, quid diale & i- oftendit philoſophus, quidnam ipſa conferac tum interroganti, tum reſpon ca cöferat in denti.confert enim interroganti, quoniam docet ipſum diſſerere de qua reſpondenti cunque re, quæ à reſpondente proponi poſsit: confert reſpondenti, quonia inftruit ipſum, ne abinterrogante deducatur ad inconueniens:ſed ſenten tiam ſuam egregie ſuſtinear, De omni, hoc dicens philoſophus quodam modo diale & icam d rhetorica ſe parauit. etſi neutra earum habeatſubie & um limitatum,non æque tamen rhe torica de omni quæſtione diſputat, ſicut dialectica.circa ciuilia enim nego cia magis uerſatur, quod quædā Propoſito problemate. Quid ſit problemainferius oftendet philoſophus. diſpu non ſunt dia- tat diale & icus de rebus ciuilibus, de rebus naturalibus, de rebus medicis lettica pro- aliisg;, in his tamen quædam ſunt, quæ non ſuntdialectica problemata, ne blemata. que enim diſputabit de his, quæ indigentſenſu, aut pæna,utquòd ignis fic callidus, neque de his, quæ propinquam habent demonſtrationem, led de his quæ dubitationem aliquam habent. Ex probabilibus.quare diale & icus ex probabilibus diſſerat, ſuperius diximus. quid philofo. Primum igitur. particula igitur coniungit hanc partem cum eo, quod dixit gat illa parti ſyllogizare.fi enim docet hæc ars fyllogizare ex probabilibus, ergo oppor Cula,Primum tet, utcognoſcamus, quid fit fyllogiſmus; præterea debemus uidere, quæ igitur. ſint ſyllogiſmorum differentiæ, ut manifeſtum fiat, quòd fit hic fyllogiſinus ex probabilibus, quo dialectica methodus utitur. dubitatio an Hunc enim quærimus. dubitant quidam, cum diale&icus ſyllogiſmus ſit huius hisusubiectului operis fubie& um, quomodo dicat philoſophus, hunc enim quærimus, quo fit dialecticus niam fubie & um debet præcognoſci in qualibet ſcientia, cuiuseſt ſubie & um: 1 1 1 quod TOPIC Q R VM. ARIS 1.: 4 tionem. quod autem eft præcognitum, non poteſt eſſe quæſitum: ſed dicendum eft, fyllogiſmus, quòd in hoc uolumine fubie & um eſtnon dialecticus ſyllogiſmus, ſed diale & i- methodus. ca methodus, cuius tamen præcipuum opus eſt ſyllogiſmus diale&icus. ſed li folutio Tupe etiam ſupponamus ſubiectum eſſe ſyllogiſmum diale& icum,nó tamen eſt in- rioris dubita conueniens, quòd quæratur, quoniam ſubie &tum in ſciétia ſupponitur, quod aliaetiam for fit, & quid ſignificet. ſed poteſt poſtea quæri, quid fit, quæ ſint eius partes, lutio. paſsiones, &proprietates.non igitur idem erit ſuppofitum, & quæſitum. Eft itaque ſyllogiſinus. fyllogiſmum interpretatus eft Cicero ratiocinationem, quid nobis fi in eius definitione orationem poſuit philoſophus loco generis (cum enim gnificet fyllo aéros duo fignificet, græci omnesaccipiunthoc loco pro oratione )non folu gulmus: enim ſyllogiſmum, fed & alia plura oratio comprehendit.quæ omnia à fyllo Pelindorecas giſmo ſeparauitphilofophus quatuor adiectisdifferentiis: eam enim oratio fumatphilo nem, in qua poſitis quibuſdam, aliud quid neceſſario accidit, propter po- fophus ora fita ſyllogiſmum appellat. Quibufdampoſitis, per hocſyllogiſmum ſeparauitab his orationibus, in quibus quid ſeparec nihil ponitur, qualis eſt enarratiua oratio. pofitis autem ſignificat fumptis, hac particula & conceſsis: oportet enim, ut quæ ad ſyllogizandum ſumuntur, etiam con atis. quibufdá po cedantur, uel ſcilicet ab alio, fi cum alio quis ratiocinetur, uel faltem à ſe ipſo, ſiſecum ratiocinetur,uelab audiente non expetit reſponſionem. præ utrú illud, po terea illud, poſitis, comprehendit non folum affirmatiuas propoſitiones, ſitis,compre uerum & negatiuas.nam & negatiuæ nihilo fecius ad fyllogizandum ſumun- hendat & af tur, quàm affirmatiuæ.præterea illud, poſitis, proprie reſpicit categoricas negatiuas p propoſitiones. hypotheticæ enim non ponuntur, fed fupponuntur, unde ca politiones: tegorici ſyllogiſmi ſimpliciter, acproprie fyllogiſmi dicuntur. hypothetici utrú illud po ſitis compre non ſimpliciter dicuntur ſyllogiſmi, fed hoc totum ſyllogiſini hypothetici. dixit præterea pofitis, & non pofito, quoniam ex uno pofito nihil poteft fyi ricas, aneuí logiſtice concludi, ſed utminimum ex duobus.argumenta enim illa, quæ ex hypoteticas. uno polito aliquid concludunt, uti ſunt enthymemara, & quæ Antipatri ſe- quomodo co &tatores Moronéquata appellarunt, defectuoſa funt,quod deprehenditur,quiasnofcai qua fi id, quod prætereunt, ſuppleamus, nihil eft in argnmentatione ſuperuaca veum, quod profe & o fieret,fi huiuſmodi argumentationes non eflent defi- etuoſa. cientes, ut in ſyllogiſmis uidere eft.fiuntautem enthymemata, ubi propofi quando pof lint fieri en tio aliqua præteriri poteſt, quoniam euidens eſt, & manifefta, ut reſpirat, thymemata ergo uiuit: at ſi huiuſmodi propoſitio latens ſit, tunc no poſſunt effici enthy- quando non memata, ut fi dicamus,motus eſt,ergo uacuum non eſt, ſed hæ appellantur poſsint fieri illationes, & conſequentiæ, non etiam enthymemata. enthymema Aliud quid à poſitis, oftendit his uerbis philoſophus fyllogiſmi utilitatem.nul fyllogiſmi uci lum enim eft aptius inſtrumentum ad cognoſcendum, quàm fyllogiſmus: cú litas. enim nos fimus cognitionis participes, non tamen fine diſcurſu res cogno- quotuplici - fcamus, ſicuti beatæ métes, quæ intuitiue cognoſcunt, ideo ab uno ad aliud ter abuno ad procedimus.cum autem hoc quadrupliciter fieri pofsit, uel à noto ad notū, datur. uel ab ignoto ad ignotum,uel ab ignoto ad notum, uel à noto ad ignotum; tres primi modi nihil ad cognitionem conferunt, ſed ſolus quartus, quo pro cedimus à noto ad ignotum, hoc autem fit per fyllogiſmum:quare cum im poſsibile fit, ut idem fit notum, & ignotum, ideo oportet, ut in fyllogif mo aliud concludatur ab his, quæ poſita ſunt: quia fialiquid concludaturno aliud à pofitis, ea oratio non erit ſyllogiſmus, quia fyllogiſmi uim nó habet, quinam fyllo ſicut oculumnon dicimus, qui uidendi uſu caret, ut eſt pidus, autlapideus. gifni à toi merito igitur à fyllogiſmi definitione excluduntur, qui ſyllogiſmi siapapouueror pellari Siepo iſtoicis appellantur, in quibus aliud à pofitis non concluditur, ut uel dies pouuevos. eſt, do argu menta defe ta. aliud proce TOPIC OR VM ARI S. T. 1 obie &tio. eſt, uelnox eſt, ſed dies eſt,ergo dies eft.Sed obiiciet quis, liſyllogiſmi funt, qui hoc modo ex diuifione procedunt, uel dies eſt, uel nox eít, ſed dies eſt, non ergo nox eſt: quare non etiam priores illi fyllogiſmi erunt. uidetur e nim quòd idem ſit, nox non eſt, & dies eſt, etſi in uerbis fit differentia.uer borum enim differentia, fi idem ſit ſignificatum, nihil omnino facit. dicen ſolutio obie- dum eſt, quòd illatum illud noxnon eſt, ſignificat quidem diem eſſe, non ta ctionis. men primario, ſed ſecundario. primo enim ſignificat no &is negationem, ſe cundario autem ſignificat diei præſentiam, eo quòd non exiſtente no & te ne cellario dies eſt:quemadmodum & nox eſt, primo ſignificat no &i præſen tiam, ſecundario uero diei priuationem. cum igitur aliqua fit inter hæc dif · ferentia, quoniam non eandem rem primario lignificat, ideo hi ſyllogiſmi quòd fyllogif ſunt. illiuero, in quibus nulla prorſus eſt differentia, inter aſſumptum, et illa mi,quifiunt tum non merentur dici ſyllogiſmi, eadem ratione & fyllogiſmi illi ſunt, qui ex contradi- ex contradi& tione fiunt, ut uel dies eſt, uel dies non eſt, ſed dies eſt, non er merentur di- go non eſt.aſſumptum enim illud primario ponit diem efle, fecundario au ci ſyllogiſmi. temnegat diem non eſſe. quæna fit ha Ex neceſſitate accidit. declarat hac uoce philoſophushabitudinem,quæ eſt in bitudo inter ter concluſionem, & præmiſſas, quas appellauit pofita. oportet enim quòd præmillas, & concluſio à pofitis neceffario inferatur. notandum autem eſt,aliud eſſe con quid differat cluſionem neceſſariam, quàm quæ ex neceſsitate accidit.conclufio enim eſt inter conclu- neceſſaria, quæ eſt in neceſariamateria, uthomoeft mortalis: concluſio ue fioné necella ro ex neceſsitate eſt, quæ à poſitis neceſſario dependet, quod non minus riá, & de ne: uerum eſt in materia neceſſaria, quam in contingenti. ſeparauit autem hoc dentem,& de dicens philoſophus, ſyllogiſmum ab indu & ione, in qua, quoniam non om neceffario, nia ſingularia inducuntur, & fi inducantur, non tamen oportet, quòd eodem ſcilicet é hæc modo fe habeat uniuerfale, ficut unumquodque ſumptorum, ideo conclu conclufio in lio in ea non accidit ex neceſsitate. fiigitur conclufio non accidit ex neceſsi Cario, tate, non erit ſyllogiſmus: atquehinc merito litigioſus ſyllogiſmus in forma peccans nonmereturdiciſyllogiſmus. quot de cau- Propter poſita. quatuor de cauſis hoc adiecit Philoſophus, primout deficien lis philoſo - tes fyllogiſmos ſepararet, in quibus deficit altera propofitio ad ſyllogiſtica il phus poſuerit lationem, ut lac habet, ergopeperit. ſecüdo, ut ſepararet ſyllogiſmos ſuper in definitione ſyllogiſmi uacaneos, in quibus aſſumitur propofitio aliqua ad concluſionem non necef particulă hâc faria, ut fi dicamus, omne iuſtum eſt honeſtum, omne honeftum eft bonum, ſcilicet Pro- omne bonum eſt eligibile, ergo omne honeftum eſt eligibile.tertio,ut ſepa pter poſita raret orationes, in quibus propria conclufio non infertur, fed aliquid alie tuor de cap - num, ut, quod eſt ſecundum naturam, eſt eligibile, uoluptas eſt ſecundum na Gis. turam, ergo uoluptasbona eſt. talis elt Epicuri ratio, de morte diſſolutum non ſentit: quod non ſentit, nihil ad nos pertinet:mors ergo nihil ad nos pertinet. quarto, ut ſepararet eas orationes, in quibus non ponitur aliqua propoſitio uniuerſalis,utſi dicamus, linea a eſt æqualis lineæb, &linea c eſt æqualis eidem lineæb, ergo linea a, & linea c funt æquales inter ſe. hæc enim concluſionon ſequitur expofitis, fed ex uniuerſali prætermiffa, quæ dicit, quæ ſunt æqualia uni tertio,funt æqualia inter ſe. quid differae Demonſtratio igitureſt, quando ex ueris, & primis ſyllogiſinus eft. Aliud eft demon inter demon- ftratio, & demonſtratiua methodus.eſt enim demonſtratiua inethodus ip deinonitrati ſa ars, & diſciplina, quæ demonſtrationes efficit. demonftratio uero eſt uam metho demonſtratiux methodiopus.cum igitur uelit philoſophus fyllogiſmi dif duin. ferentias definire, à demonſtratione incipit, quæ eft omnibus aliis nobiliſſi ma. dicit autem ipſam eſſe fyllogiſmum, qui conſtat exprimis, & ueris, uel. hoc eft qua 1 ex торгсок у м AA 5 R I S T. ex his, quæ pro aliqua prima,& uera ſuæ cognitionis principium ſumpſe runt.oportet igitur, fi definitionem aliquam cognofcere debemus, icire quænam ſint prima, & uera, quod ipſe paulo poſt oftendit, quòd ſcilicet ſunt fcientifica principia diſciplinarum, quæ nonex aliis, ſed ex ſeiplis fidem ha- quòd ſcienti bent. hxc enim quoniam funt principia,non poſſunt ex aliis demonſtrari, exte, non au quia non amplius eflentprincipia, ſi ex aliis poflent demonſtrari. & cum ex tem ex aliis ipfis alia demonftrentur,opus eſt, quòd ex ſeipſis fidem habeant, alioqui o- fidem habét. mnia demonſtrata eſſent incerta. ſunt igitur ipſa principia ſcientiarum cer ta, & euidentia: ex his autem quædam funt nobiſcum innata, & quæ à præce ptore non diſcuntur, ac proinde appellantur communes animi conceptio nes, dignitates, & proloquia, ſeu profata. alia uero ſunt, quæ non poſſunt quidem demonſtrari, nobiſcum tamen non ſunt inſita, ſed admonitione quadam, & declaratione indigent.leui enim declaratione ipfis affentimur, & hæc appellantur poſitiones, quæ duplices ſunt, uel enim dicunt aliquid ef quotuplices lint politio ſe, uel non eſſe, &dicuntur petitiones, uel poftulata, uel quid fit res indi- nes. cant: ſed non dicunt aliquid efle, uel non efle, & appellantur definitiones, quæ omnia apud mathematicos manifefta funt. Quod autem dicit philoſophus, Non enim oportet in diſciplinalibus principijs inquirere propter quid. Videri poſſetali- obie &tio, 9 cui dubium, cum Themiftius primo poſteriorum dicat, prima principia fcilicet prima ſcientiarum habere cauſam, propter quam illis affentimur lumen, ſcilicet fciétifica prin intellectus agentis: præterea principia cognoſcimus per terminos, ſed ter- habent,pro mini ſunt cauſamaterialis principiorum, ergo principia habent cauſam.di- pterquam il cendum eſt, quòd prima principia habent quidem cauſam, quæ affentimur ip nöautem ex ſis, non tamen habent caufam,propterquam poffintdemonſtrari. ad ſecun- fe habentcau dum dicendum eft, quòd ex terminis quidem cognofcuntur priucipia, non fam. tamen ex illis poſſuntdemonftrari,quoniam termini ſunt incomplexi: ne que omnis cauſa dicitur propter quid, ſed ea, ex qua poſſit aliquid demoſtrari. HABEmvs igitur, quæ ſint prima, & uera: addit uel ex his, quæ per aliqua quare philo prima, & uera, &c. niſi enim hoc eſſet additum, primæ ſolum illæ effentde- fophus in de monſtrationes, quæ ex principiis demonſtrantur, cum non minus etiam de- nis definitio monſtrationes ſint, quæ demonſtrantur ex demonſtratis primis, ſed quamuis ne poſuerit ca, ex quibus fit demonſtratio, prima non fint ſemper, tamen ſunt priora etiã hæc uer concluſione. ſemper enim debent eſſe caufæ conclufionis, non folum in in- ba, uel ex his, ſerendo, ſed etiam in eſſendo. propterea dubitat Alexander, fi quis ab effe- quæ penalina &u ad cauſam procedat, utrum debeat dici demonſtratio,andiale& icus ſyl- uera luz co logiſmus, quia enim procedit ex ueris, non uidetur, quòd fit diale & icus; qui gnitionis prin ex probabilibusprocedir: & quoniam ex pofteriori procedit, non uidetur, сіруй fumple quòd fit demonitratio, quæ ex primis procedit. ſoluit Alexander, quòdu trunque tueri poſſumus, & quòd ſit dialecticus fyllogiſmus, quoniam huiuf modi uera ſumuntur pro probabilibus, ut lac habet, ergo peperit. luna de ficit, ergo terra inter ipſam, & folem eſt interpofita. poffumus etiam dice re, quod fit demonſtratio, fed demonſtratio quo ad nos, quia in ea accipi mus ea.quæ nobis notiora ſunt.eſt igitur demonſtratio imperfe & a, & im proprie dicta. Dialecticus autem ſyllogiſmusex probabilibus ſyllogizans.Non poflumus autem hanc quænam fint definitionem intelligere, niſi cognoſcamus,quæ fint probabilia, ideo fubdit probabilia. philoſophus,probabilia ſunt, quæ uidentur uel omnibus, uel pluribus, uel ſapientibus,& his uel omnibus, uel pluribus, uel maxime cognitis, & pro- omnibus pro batis, omnibus quidem probabilia ſunt, ut fanitatem eſſe expetendam,ui- babilia. runt. quænam ſint B tam торт сок у м ARIST.. tam eſe expetendam, fcire pulchrum eſſe, parentes eſſe honorandos: hæc e nini omnibus probantur, quòd fi quialiter affirmant,id aduerſus intrinſeca rationem dicunt. plurimis autem probabilia ſunt, prudentiam effe diuitiis plurimis quænam fint eligibiliorem, & animam corpore præftantiorem. notató; hoc loco Alexan pro babilia. der, quòd fi diale&icus de his ſoluni diſputaret, quæ in communi notione uerfantur, ea ipfi ſufficerent, quæ omnibus, uel pluribus probātur: fed quo niam plerunque etiam de his, quæ à communi notitia remota ſunt, ideo ea quænam fint etiam probabilia aſſumit, quæ ſapientibus uidentur.omnibusautem ſapien pbabilia om- tibus uidentur, quæanimi bona ſcientia, ſcilicet & uirtus fint præftantiora nibusſapien- bonis corporis,quòd ex nihilo nihil fiat. plurimis autem ſapientibus proba bilia ſunt uirtutem effe per ſe expetibilem: & fi aliter Epicurus ſentiat felici tatem à uirtute fieri, quòd non detur aliquod corpus indiuiſibile; & fi aliter ſentiat Democritus, quòd non ſint mundi infiniti; & ſi contra Anaxagoras quænam fint opinatus ſit; celeberrimis autem probabilia ſunt,animam humanam eſſe im probabilia ce mortalē, quæ fuit Platonis opinio, uel effe quoddam quintum corpus,quam leberrimis fa- dicit Alexander fuifle Ariſtotelis ſententiam, quod & M. Tullius eidem at pientibus. quòd etiam tribuit, licet alii omnes aliter ſentiant de Ariſtotelis opinione. ſunt autem,pbabilia ſunt hæc probabilia, & fiuel pauciadmodum, uelunus tantum forteita ſit opina ea, quæ uel tus, quoniam ſicut illi probatiſsimi ſunt, ita eorum opiniones maxime pro unus, uel pau babiles eſſe uidentur. notandum autem eſt differre probabile à uero, non eo fenferint-, quòd probabile falſum ſit,utplurimum enim probabile, neque omnino eft illi probabi- uerum, neque omnino falſum, ſed differunt iudicio.dicitur enim uerum ex les fuerint. ipſa re, quando ſcilicet cum re conſentit. probabile autem dicitur ex audie tium opinione: fi enim ita audientes opinentur, probabile dicitur.probabi lia enim quatenus probabilia ſunt, neque uera, neque falſa ſunt: quædam e nim uera probabilia ſunt, ut Deos eſſe: quædã etiam uera ſunt,quæ non funt probabilia, ut quòd extra cælum nihil ſit: quædam etiam ſunt falſa, & proba bilia, ut quòd Deus omnia pofsit, neque enim mala poteſt, ſicut & pleraque ſunt, &faiſa, & non probabilia: ſed ex his nulla fit argumentatio. notandum etiam eft, pleraque probabilia eſſe inter ſe oppoſita. fæpe enim quod proba turuulgo,non probatur à fapientibus, ut quòd bona animi præſtentcorpo quid fit pro- ris bonis. M. Tulius primode inuétione probabile dicit effe id, quod fere fie babile ex M. ri ſolet, ut matres diligere filios ſuos, & id, quod in opinione pofitú eft, ut Tullii opinio, impiis apud inferospenaseffe paratas:&quòd ad hochabetquandã ſimilitu dinem, ut ſi his, qui imprudenter ceſſeruntignoſci,conuenit: his, qui ne in quot par- ceſſario profuerunt, haberigratiam non oportet. hoc autem probabile in tes diuidatur quatuor partesdiuiditur, in lignum, quod uel negocium præcedit, uel comi probabile. tatur,uel conſequitur. credibile iudicatum, quod eſt uel religioſum, uel commune, uel approbatum: & comparabile, cuius partes tres ſunt, imago, collatio, exemplum, quotuplex ſit Litigioſus autem ſyllogiſmus. duplicem oftendit philoſophus eſſe ſyllogiſmum fyllogiſmus litigiofum, & qui procedit ex apparenter probabilibus, ſed re&am ſeruar litigiofus. connexionem: & quiconnexionem prauam habet, uel fit ex uere probabi libus. ftatuita; philoſophus eum, quiin connexione fyllogiſtica peccat, non eſſe dicendum ſyllogiſmum, fed hoc totum fyllogiſmum contentioſum, quemadmodum homo mortuus non dicitur homo, fed hoc totum homo mortuus. qui uero ſyllogiſticam connexionem ſeruat, ſed procedit ex ap parentibus probabilibus, dici poteſt ſyllogiſmus. ratio autem quare hic ſit fyllogiſmus, hic uero non eſt, quoniam uitiatur fyllogiſtica connexio, pe rit fyllogiſmi natura non aliter, quam homo deſinit elle, quod eſt, li anima priuetur, ne. priuetur, quoniam non poterat hæc definitio intelligi, nifi cognoſceremus quid etient apparenter probabilia, & quid differrenta uere probabilibus, quid fint ap ideo hocipfum declarabit philofophus. dicit enim, quòd nihil eorum, quæ bilia; & quid funt probabilia in ſuperficie idem, funtapparenter probabilia, habet omni differant à ue no fantaſiam idem, funtuero probabilia.id autem eſt apparenter probabi- re probabili le & in ſuperficie, quòd facile redarguitur,quia ſcilicet promptam habet bus. inſtantiam, ut ſi dicamus, quod uidet, oculoshabet.ſi quis enim hoc admit -tat, fateri cogetur oculum habere oculos, ita ſi quis fateatur, quæ loque ris, ex ore exeunt, audire poterit, currũ loqueris ergo: currus ex ore exit. eodem modo qui oculos habet, uidet, fed dormiens habet oculos, ergo uidet.in his fi quis parum infpiciat, mox deprehendet mendacium, quod nonhabeantea, quæ uere probabilia dicuntur:neque enim hoc facile quis redarguet, quod maiori bono contrariuin eſt,maius malum eft: in multis eniin hoc uerum eſt, falſum tamen quandoque deprehenditur.nam morbus, qui eſt maius malum, quàm mala babitudo, contrariatur ſanitati, quæ eſt minus bonum, quàm bona habitudo. Principii litigioſarum orationum. per hoc intelligit philoſophus propoſitiones, ex quibus litigiofi ſyllogiſmi fiunt, non autem horum argumentorum loca. NOTAND v M autem eft differre litigioſum, ſeu contentioſum ſyllogiſmũ quid differat à ſophiſtico ex utentis inſtituto.contencioſus enim eſt,qui ui& oriam aſpi- litigiofus fyl rat:fophifticusautem, qui gloriam. ſophiſtice enim ex fucata fapientia glo logiſmus à ſo phiftico. riam captat, ut inde pecunias acquirat,ut dicitur,primo Elenchorum ca pite decimo. Adhuc autem præter dictos omnes fyllogiſmos. aliam ſyllogiſmidifferentiam affert quidfit para philoſophus, qui eſt paralogiſmus, quifit in ſcientiis expropriis quidéprin- logiſmus. cipiis alicuius fcientiæ procedens, ſed male dedu &is, atque ideo falſis. appel lauit autem philoſophis ſcientiis geometriæ cognatas ſtereometriam,per- fcientiæ geo fpe &tiuam, aſtrologiam, arithmeticam,muficam, archite & uram, chofmo- metriä сo graphiam, mechanicen, & alias quaſdam.quòd autem huiuſmodi ſyllogiſmi gnatæ. à ſuperius di&is differant, patet: non enim ſuntdemonſtratiui, quia falſum concludunt. nam etſi propria principia alicuius fcientiæ aſſumant, quxuera funt, eo tamenmodo intellecta, quo falſus deſcriptor illis utitur, ſunt falla. neque etiam huiuſmodi ſyllogiſmidicipoffunt diale & ici; quoniam ex proba bilibus non ſunt: neque enim quæ omnibus probantur, neque quæ pluribus affumunt, neque quæ omnibus fapientibus, neque quæ plurimis, neque celeberrimis, ſed nequedicipoffunthi ſyllogiſmi litigiofi,quoniam non af fumunt apparenter probabilia. propria enim principia non uulgo, ſed his, qui in ſcientia ſunt uerſati,cognoſcuntur quare probabilia dici non poffunt, & cum ad prauum ſenſum deducuntur, non etiam dici poterunt apparen ter probabilia. Λημμάτων. λήμματα funt apud Αriftoteleim propofitionesfyllogifmorti quas λήμματα. nos præmiffas appellamus, & ſumpta: undelyllogiſinidefe & uofi, qui ex ana qua ſint. tantū propoſitioni conſtabāt,ab Antipatro coronéiuuati ſunt appellati.notan dum eft paralogiſmum, qui in ſcientiis fit, qui pſeudographusappellatur;ita quonam mo fe habere ad demonſtrationem, quemadmodum fe habet contentiofus ad do paralogiſ diale& icum.notandum præterea eſt paralogiſmi nomine, comprehédi utrun- mus habeat que modum ſyllogiſmi contentiofi, fyllogiſmum ſophiſticum pſeudogra- ftrationen phum, & tentatiuum. Species igitur fyllogiſmorum, ut figura quadam complecti licet. Plures affert ratio. rationes qua nes Alexander, quare dixerit philoſophus, ut figura quadam comple & i licet, re philofo B 2 uel phus dixerit, quænam Gnt tiuus. ut figura qua uel quoniam non tradiderit diligentem, & exquiſitam horum definitionem, dam comple Eti licet. nonenim ad hoc inſtitutum pertinebat, uel quia non omnes fyllogiſmorum differentias eſt perſecutus.eas enim prætermiſit, quæ fumuntur pencs dif ferentias propofitionum, & quæ penes earum connexionem, uel quoniam prætermiſit enthymema, quod quamuis non fit fimpliciter fyllogiſmus, eſt tamen ſyllogiſmus rhetoricus, uel quoniam prætermiſit ſyllogiſmum tenta quid fit fyllo tiuum,dequo alibi fa&a eſt mentio.eft autem fyllogiſmus tentatiuus, qui gıſmus tenta procedit ex probabilibus, non ſimpliciter, ſed reſpondenti. eft enim ten tatiuus ſyllogiſinus ad eos refellendos, qui fingunt fe aliquid ſcire, quod ne ſciunt: fed dubitat Alexander,ac fere affirmat idem effe Tyllogiſmum tenta tiuum, ac pſeudographum. philoſophus enim in Elenchorum libro tenta tiuum fyllogiſmum definit, quod fit ex his, quæ reſpondenti probantur: & quæ neceſſario tenere debetis, qui profiteturſe habere ſcientiam. hoc au qua in re ten tem idem eſt, ac fi diceret ex peculiaribus fcientiæ principiis. hæc enim tene tatiuus fyllo- re debet, qui ſcientiam habere profitetur. appellatur autem tentatiuus à Fat a pſeudo propoſito, & inftituto interrogantis, pſeudographema autem ab effe& u. grapho. Vtautem uniuerſaliter dicamus. Admonet philoſophus in his, quæ di &a ſunt, ac quòdnon in in omnibus, quæ ſunt dicenda, non eile expectandam certam, ac demon omnibus re- ftratiuam ſcientiam, quia propoſita tra & atio id non fert, cum de probabili renda demó- bus fit, quorum certa, atque exquiſita fcientia haberi non poteft, ut dicebat ftratiua fcien in ſecundo metaphyſices, certitudo mathematica non eſt in omnibus expe tenda, neque omnium poteſt haberi demonſtratio. dubitatio Q- QVAER VNT quidam, cum philoſophus attulerit duos fyllogiſmos con phus attule- tentiofos,alterum,qui peccat in materia,alterum, qui peccat in forma, fit du os fyllo cur unum tantum pſeudographum, qui in materia peccat, foluunt, quòd giſmos con- peccatum formæ eſt commune omnibus ſyllogiſmis: quoniam igitur ipſum tentiofos, & expoſuit in fyllogiſmo contentioſo: ideo hoc loco ipſum prætermiſit, at pſeudogra- peccatum materix eſt fingulis proprium. Sequitur, ut inquiramus, quæ sit huius operis inscriptio, et inscriptionis ius operis incausa inscribuntur autem hi libri topice, græco nomine, a verbo topos inscriptionis munis quædam rei nota, cuius admonitu, quid in quaque reprobabile sit, potest inueniri, atq hinc libri, quide huiusmodi loci sagut, topica appellati. Iam illud videndum est, quisit horum librorum ordo ad alios libros logicæ qui sit ordo facultatis primo q; inquirendum est, an libri topici se qui debeant libros huius libri ant libros totius logicæ tractationis, ut græci attestantur de eaigitur ultimo loco agen Iteriorum.dumest. prætere a cum probabilia viam nobi saperi anta dipsam demonstrationem, ling inventu, accognitu faciliora, dehi sigitur priori loco agen huius ratio, dumest his itaque rationibus topica præcedere posteriora statuamus: an uero præcedant, ansequantur priora, non minor est difficultas. Marcus Cicero, cuius sententiam sequitur Boetius, logicam facultatem, quam dili-, posteriorum resolutoriorum: deinde an etiam sequi debeant libros priori et primo an Primo quidem, quod posteriorum libri, qui de demonstratione agunt, Topica cedere debe-   consequi debeant, ex eo probatur, quoniam demonstratio est finisto præcedere gentem rationem differendi appellat, in duas partes dicites sedidu &am, unam inveniendi, alteram iudicandi: ioveniendi artem ordine naturæ priorem ida; exfen- dicit si hæc ita sunt, cum inveniendi ars in topicis libris tradatur, iudican tencia Ciceronis diueroin prioribus, ergo topica procedúr priora quæ enim priora sunt in sciunt qua ratione pars illa appelletur iudicativa, ideo hoci p sum nunc o qua ratione stendamus. Appellatur hæc pars inventiva eo quod locos, ut diximus, con partes logicæ tinet, ex quibus probabilia eruuntur. pars vero altera iudicatiua dicitur, altera inven quoniam docer, quo pa & t o probabilia illa. Locus sigitur, ut definit Alexander, est principium, & occasio epicherema- secundumA eo  tis, cum inprimo ea omnia tradiderit, quæ præcognoscenda erant, antequa traderentur loci: merito igitur hic incipit explicare locos sed hic duo sunt secundo libro et si enim de hacrenon nulla dixerimus, minandaante examinanda primoq,uidsit locus nunc est diligentius explicatione libri, hoc ipsum tamen cum agebamus de inscriptione sit de locis, par est, explicandum cum enim omnis futura tractatio d u o efle exatis est autem in ixeípnucdiale & icus syllogismus. Theophrastus autem hoc mo lexandrum. do definivit locum, quod est principium quoddam, u elelementum, a quo principia, quæ circa unum quodque sunt, accipimus, ratione quidem circumscriptionis universalium definitum, ratione vero singularium indefinitum in hac definitione per illud, quæ sunt circa unum quod que principia, intelligere debemus, quæ de uno quoque problemate afferri possunt argumenta per illud autem rationem quidem circumscriptionis universalium definitum, rationeuero singularium indefinitum, intelligeredebemus, quod huius modi principium & elementum universale ipsum definit & determinat singularia autem indefinite comprehendit, neque enim de hoc, aut de illo singulari loquitur, fedde ipso universali, sub quo omnia singularia indefinite comprehenduntur, exempli causa, hic est locus, fia licui contrario aliquod inest contrarium, reliquo quoque contrario reliquum contrarium inerit in hac propositione universale est determinatum, singularia vero indefinite comprehenduntur atque exea argumenta accipimus ad unum quod que eorum, quæ subea comprehenduntur sienim quæ raturutrum bonum pro exemplum, sit, ab eo loco accipiemus propositionem huic proposito problemati convenientem; si enim malum obest, ergo bonum prod est patet autem, quod hæc propositio ex eo loco & est, & probabilitatem nacta est, eodem modo si quæratur, ut rum albus color sit disgregativu suisus ex prædi &o loco conveniens, argumentum proposito problemati accipiemus hoc modo, si nigrum est congregatiuum uisus, ergo album est disgregatiuum eodem modo pro babimus voluptatem esse bonam si enim tristitia mala est, ergo voluptas est bona hæc igitur omnia, & plura alia in eo loco indefinite, & indeterminate comprehenduntur hic etiam est locus, si id, quod magis videtur alicui inef senonin est, tamen neque id, quod minus videtur in esse ipsiinerit, qui sicut & in priori visum est, universale quidem definite, singularia vero indefinite comprehendit neque enim de hoc, aut illo quicquam pronunciat ex definitio loci ANTIQVAM contextum philosophi exponamus, videamus priuseiuspro } H   roncm. quando que ingrediuntur argumentatione, quando queuero extra positæ vim solum ipsi tribuunt. Cicero autem intelligit locum esse terminum, unde hæ maxime propositiones desumuntur cum enim hæ maximæ propositiones plurimæ sint termini autem,unde sumuntur, longe pauciores; ideo universa earum multitudo in paucos illos terminos collecta est, ut aliæ in definitione consistant, aliæ ingenere, aliæ in roto, at que aliæ in aliis, at quehiter mini a Boetio appellantur differentiæ, eo quod maxime proposiciones per ipsos dividantur, sicut igenus per differentias maximæ enim propositiones aliæ sunt ex toto, aliæ ex partibus, aliæ ex genere, &c & sicut maximæ illæ propositiones minorum propositionum copiam intra suum ambitum continent, ita termini ili, in quos maximæ illæ propositiones convenienti ratione re ducuntur, illas continere quodam modo videntur ideoq loci dicuntur ita igitur locum intelligit M. Tullius, deilisý; in suis Topicis agit, cum Aristoteles priori modo locum intelligat, ac de illis agat. Sed incidit hoc loco non indigna contemplatio quis scilicet melius, atque ad usum accomodatius rem hanc tractaverit, an Aristoteles, qui universales, & maximas illas propositiones explicaverit; an M. Tullius, qui maximis propositionibus præter missis eos tantum terminos, in quos illæ colliguntur, exposuerit hoc autem ita investigari psse videtur siquis exterminis ilis uelit in proposita quæstione argumenta sibi consicere, cum ad argumenta conficienda necessariæs intpropositiones id eo oportet, ut exterminis illis propositiones inveniat, ex quibus argumenta construat sed hoc dificilli mum est, & multa indiget prudentia, & longa consideratione quis enim possetstatim inspecto termino propositionum, quæ probabiles sint & indubita txcopiam inuenire; atque ex hiseas, quæ propositæ quæstioni conveniat, eligere si hoc ita est, patet longe consultius, & præstantiu segisse philosophum, qui has propolitiones nobis invenerit, & explicauerit; easq; secundum unum quodque quæstionis genus certo ordine ita digesserit, ut quam vis plurimæ sint, nihil tamen confusionis pariant, sed maximam, accertamin una quaquere argumentorum copiam suppeditant neque tamen prætermit tit philosophus terminos, exquibus maximæ propositiones desumuntur: hoc enim facile ad modum est exeiusdi & iselicere sed noluit ipse terminorum ordinem sequi, quoniam ordo ille problematum ordine minterturbasset, qui longe præstantior est & ad usum accomodatior qai igitur terminorum do &rinam sequitur, primo propositiones ignorat; quarum præcipuus est usus in argumentis & fine quibus nullus est terminorum usus deinde nullum secundum quæstionum genera ordinem habet, quo sit, utinomni qux sionis genere per omnia loca temere vagaricoa & us sit atque ita patet lon dubitatio, TOPICORVM ARIST. cota mende his omnibus possumus argumentari, ut si velimus probare diuitias non esse bonas, ex eo loco hoc modo argumentabimur si sanitas, quæ magis videtur esse bona, quam divitiæ, bona tam en non est, ergo neque divitiæ bonæ sunt si enim deinde probemus sanitatem non esse bonam ex eo forte, quod aliquibus sit causa mali, ex loco proposito ostensumerit divitias non esse bonas. probare uule NOTANDVM autem hoc loco est,alio mod. Ludovicus Buccaferreus. Ludovicus Buccaferrea. Ludovico Boccadiferro. Keywords: luogo comune. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boccadiferro” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Boccanegra – esperienza – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “Boccanegra is a good one; we often laugh at Aquinas because he is a saint – but we have to recall that Aquinas never knew it – for centuries after his death he ain’t one! Boccanegra prefers to call him ‘Aquino,’ or ‘Aquinate,’ --.” Grice: “Boccanegra is like me a systematic philosopher: dalla metafisica alla etica – is that possible? Yes, what is the ‘paraidm,’ in Kuhn’s use of this tricky word? Esperienza, alla Locke! And co-experience in my conversational model!” --  Alberto Boccanegra   (n. Venezia),  filosofo.  Osvaldo Boccanegra nacque a Venezia, figlio primogenito di Antonio e Ida Camerin. Partecipò alla seconda guerra mondiale come sottotenente del Regio esercito, richiamato alle armi nel 1941. Nei giorni successivi all'armistizio di Cassibile riuscì a sottrarsi alle rappresaglie naziste e si ricongiunse all'esercito italiano a Catanzaro, dove spesso prestò servizio presso la Croce rossa.  Formazione Durante gli anni della leva trovò il tempo per dedicarsi allo studio dell'intero Organon di Aristotele. Ottenne il dottorato in filosofia presso l'Università Cattolica di Milano con una tesi dal titolo I primi principi in Duns Scoto. Presupposti e corollari. Nell'ateneo milanese, dove Boccanegra frequentava la cerchia dei neo-tomisti radunatisi attorno a Gustavo Bontadini, gli venne offerta la cattedra di filosofia teoretica che lui, tuttavia, rifiutò. In quegli anni scrisse e divulgò le sue idee alternative sulla rivista filosofica Vita e Pensiero. Entrò a far parte dell'Ordine Domenicano a San Domenico di Fiesole con il nome religioso di frà Alberto, che lo accompagnò di lì in poi anche in occasione della pubblicazione delle sue opere.  Entrò al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma per lo studio delle materie filosofiche e teologiche dove discusse la sua tesi dottorale in filosofia (De dynamismo entis) e ottenne il lettorato in teologia grazie al suo Fundamenta metaphisica, tractatus de Deo secundum S. Thomam. Ordinato sacerdote a San Marco di Firenze non abbandonò più il convento di San Domenico di Fiesole.  Attività filosofica, teologica e critica Boccanegra lasciò per sempre incompiuto il suo trattato dottorale in teologia, ma nel 1969 pubblicò comunque una esauriente sintesi del suo pensiero su vari numeri della rivista filosofica “Sapienza”. Fu per anni vice direttore della Commissione per la traduzione della Somma Teologica di Tommaso d'Aquino in Italiano presieduta da Tito Centi. Gli imponenti schemi riassuntivi sono consultabili nei 35 volumi editi dalle ESD di Bologna. Degne di nota furono le sue corpose introduzioni alla Summa di d'Aquino pubblicate in più edizioni.  Neotomista, è considerato da alcuni filosofo metafisico per altro tra i più rilevanti, mentre altri lo ricordano tra i teologi cattolici di spicco. La sua attività preferita tuttavia, fu l'insegnamento e la divulgazione. Negli anni settanta Professoreè professore di filosofia al Pontificio Ateneo Angelicum di Roma. Di tale corso ci restano le dispense dal titolo: Frammenti di metafisica iniziale. Per più di vent'anni ha insegnato filosofia e teologia nello Studio Teologico Accademico Bolognese e nello Studio Teologico Fiorentino.  Migliaia di pagine manoscritte sono conservate dopo la sua morte nell'archivio conventuale di San Domenico di Fiesole. Fu autore di pubblicazioni ed articoli filosofici comparsi o recensiti su riviste italiane ed internazionali.  Fu confessore ricercato soprattutto dai giovani. Nonostante una malattia che lo ha accompagnato e provato per quasi tutta la vita costringendolo a cure costanti, riusciva quotidianamente a fare escursioni per diversi chilometri. Quando negli ultimi anni le sue forze non gli permisero di continuare la ricerca, si dedicò alla preghiera costante, sia di giorno che di notte.  Saggi e pubblicazioni La beatitudine Gli atti umani, Edizioni Studio Domenicano, 1985 La prova radicale dell'esistenza di Dio e i suoi rapporti con l'antropologia, Osservazioni sul fondamento della moralità, Pluralismo teologico di «tolleranza» o di «diritto»?, Circa la relazione di G. Bontadini, La persona umana centro della metafisica tomistica,  Nome di battesimo.  Angelo Belloni, Biografia di Alberto Boccanegra, Ordine dei frati predicatori Domenicani, Provincia Romana di S. Caterina da Siena, luglio   Relatore Amato Masnovo.  Alberto Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su “Sapienza”,Boccanegra, “La Somma teologica”,  VIII, La Beatitudine; Gli Atti umani, Giuseppe Del Re, The cosmic dance: science discovers the mysterious harmony of the universe, Templeton, Barzaghi, Diario di metafisica. Concetti e digressioni sul senso dell'essere, Volume 3, Studio Domenicano, Giovanni Cavalcoli, Enrico Maria Radaelli, La questione dell'eresia in Rahner. Archiviato in., articolo uscito su «Divinitas», anno LI, n. 3, III quadrimestre 2008.  Alberto Boccanegra, L'uomo in quanto persona centro della metafisica tomista, su "Sapienza", Boccanegra, Il rinnovamento metodologico nell'insegnamento della filosofia, "Revue internationale de philosophie", Edizioni L'homme et la moraleOrigine et sources de la morale thomisteÉlaboration de la théologie comme science dans l'œuvre de saint Thomas, "Revue thomiste", recensione, Saint-Maximin (France), École de théologie pour les missions"Revista nacional de cultura", recensione, Edizioni 173-178, Ministerio de Educación, Instituto Nacional de Cultura y Bellas Artes, Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Filosofo del XX secoloTeologi italiani Venezia FiesoleDomenicani italiani. Alberto Boccanegra. Boccanegra. Keywords: esperienza. The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bocchi – solidarii – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “Bocchi is a good one; and Bocchi is a good one – Gianluca Bocchi is a curator who lives in a Roman palazzo and whose expertise is ‘natura morta.’ Gianluca Bocchi is also a philosopher of science – as he calls it – My favourite piece by Bocchi is about collective thinking, -- solidarieta – Surely when I wrote ‘In defense of a dogma’ with my tutee we were being solidary with each other, and we own each sentence – collective thinking --.” Grice: “I could have called my desideratum the principle of conversational solidarity – I am thinking of course Butler in mind, and the whole bit is to see why (if at all – cf. Stalnaker) an utilitarian justification is insufficient, and we need recourse to Kant!” -- Gianluca Bocchi  «La nostra età non ha soltanto vissuto l'esperienza della relatività da ogni punto di vista. Ha fatto soprattutto l'esperienza dell'incompiutezza di ogni punto di vista. La contingenza, la singolarità e l'irripetibilità di ogni punto di vista sono condizioni indispensabili per avere accesso al mondo, per dialogare con gli altri punti di vista, per creare nuovi mondi»  «Per noi, raccogliere la sfida della complessità significa considerare la scienza una via importante per riannodare i legami con le altre tradizioni, per riscoprire con interesse i loro significati profondi, per esplorare la varietà delle esperienze cognitive, emotive, estetiche, spirituali della specie umana»  «Il nostro continente è sempre stato sede di migrazioni, di interazioni, di contrasti e di conflitti fra popoli e stirpi differenti, e questa diversità di radici è un elemento integrante dei suoi sviluppi passati e presenti.»  Niente fonti! Questa voce o sezione sull'argomento filosofi italiani non cita le fonti necessarie o quelle presenti sono insufficienti. Puoi migliorare questa voce aggiungendo citazioni da fonti attendibili secondo le linee guida sull'uso delle fonti. -- Gianluca Bocchi (n. Milano), filosofo. Gianluca Bocchi È un filosofo della scienza e della storia, esperto di scienze biologiche ed evolutive, di storia globale, di storia urbana, di geopolitica, di storia delle idee, delle culture, delle lingue. Ha fra l'altro introdotto in Italia, con Mauro Ceruti, le tematiche concernenti le scienze dei sistemi complessi e la connessa epistemologia della complessità, contribuendo altresì alla loro diffusione a livello internazionale.  Pubblicazioni Disordine e costruzione. Un'interpretazione epistemologica dell'opera di Jean Piaget (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, Modi di pensare postdarwiniani. Saggio sul pluralismo evolutivo (con Mauro Ceruti), Bari, Dedalo, La sfida della complessità (con Mauro Ceruti), Milano, Feltrinelli, 1985, (nuova edizione con nuova introduzione, Milano, Bruno Mondadori, 2007). Un nouveau commencement (con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Seuil, Paris, L'Europa nell'era planetaria (con Edgar Morin e Mauro Ceruti), Milano, Sperling and Kupfer, 1991. Origini di storie (con Ceruti), Milano, Feltrinelli, The Narrative Universe, NJ, Hampton Press; tr. spagnola El sentido de la historia, Editorial Débate, Madrid; tr. portoghese Origens e Historias, Instituto Piaget, Lisbona). La formazione come costruzione di nuovi mondi, Roma, Formez-Censis, Solidarietà o barbarie. L'Europa delle diversità contro la pulizia etnica (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, Le radici prime dell'Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, Origini della scrittura. Genealogie di un'invenzione (a cura di, con Mauro Ceruti), Milano, Bruno Mondadori, Educazione e globalizzazione (con Mauro Ceruti), Milano, Raffaello Cortina, Una e molteplice. Ripensare l'Europa (con Mauro Ceruti), Milano, Tropea, Le città di Berlino (con Laura Peters), Bologna, Bononia University Press,  Le vie della formazione. Creatività, innovazione, complessità (con Francesco Varanini), Milano, Guerini,. L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Roma, Studium,,  Borderscaping: Imaginations and Practices of Border Making (a cura di, con Chiara Brambilla, Jussi Laine, James W. Scott), Farnham (Surrey, UK), Ashgate,. Note  Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, Origini di storie, Prefazione, Milano, Feltrinelli, Gianluca Bocchi, Mauro Ceruti, La sfida della complessità, Introduzione alla nuova edizione, Milano, Bruno Mondadori, Gianluca Bocchi, L'Europa globale. Epistemologie delle identità, Mille anni d'Europa, fra globale e locale, Roma, Studium, gianlucabocchi. 10 aprile  (archiviato dall'url originale). CE.R.CO, su cercounibg. Filosofia Filosofo Professore Milano. Oddly, my favourite Bocchi philosopher is Francesco Bocchi! Keywords: solidarii, Francesco Bocchi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bocchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Bodei – geometria delle passioni – filosofia sarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cagliari). Filosofo Italiano. Grice: “Bodei is a good one; of course he is sardo -- my favourite of his tracts is one on ‘condivisione’ and ‘beni communi’ – which is what my conversational pragmatics is all about --; he has also philosophised on the tricky Grecian concept of ‘harmony’, and the very charming Roman concept of ‘con-cordia’ – and he has explored the diagogic form of philosophy in his historical analysis of ‘la dialettica,’ – he has explored ‘ragione,’ vis-à-vis what he calls the ‘geometria delle passioni,’ and he has also shed light on the univocity or lack thereof of ‘virtu cardinali” – virtue is unitary, but some virtues are more unitary than others!” Grice: “Bodei has explored ‘coraggio,’ and other virtues.” – “In his geometry of passions, he sheds light on Plato’s convoluted idea that in my head I have the reason of a man; in my heart I have the will of a lion-like warrior, and in my gut I have the love of a multi-headed monster!” --  Essential Italian philosopher. Remo Bodei (n. Cagliari) filosofo e accademico italiano. Laureato all'Pisa, perfezionò la sua preparazione teoretica e storico-filosofica a Tubinga e Friburgo, frequentando le lezioni di Ernst Bloch ed Eugen Fink; a Heidelberg, con Karl Löwith e Dieter Henrich; poi all'Bochum. Conseguì inoltre il diploma di licenza e il diploma di perfezionamento della Scuola Normale Superiore.  Fu visiting professor presso le Cambridge, Ottawa, New York, Toronto, Girona, Città del Messico, UCLA (Los Angeles) e tenne conferenze in molte università europee, americane e australiane.  Comitato redazionale della rivista Laboratorio politico.  Dal 1995 collaborava con Massimo Cacciari, Massimo Donà, Giuseppe Barzaghi, Salvatore Natoli e Stefano Zamagni nell’iniziativa La filosofia nei luoghi del silenzio, un tentativo di coniugare filosofia e contemplazione nella forma del ritiro comunitario.  Docente di ruolo in Filosofia alla UCLA di Los Angeles, dopo aver a lungo insegnato Storia della filosofia ed Estetica alla Scuola Normale Superiore e all'Pisa, dove continuò a tenere, sia pur saltuariamente, qualche corso.  Era anche membro dell'Advisory Board internazionale dello IEDIstituto Europeo di Design.  Dal 13 novembre  Remo Bodei fu socio corrispondente dell'Accademia dei Lincei, per la classe di Scienze Morali, Storiche e Filosofiche. Era marito della storica Gabriella Giglioni.  I suoi libri sono stati tradotti in molte lingue.  Pensiero Si interessò a fondo della filosofia classica tedesca e dell'Idealismo, esordendo con la fondamentale monografia Sistema ed epoca in Hegel, dopo aver già tradotto in italiano l'importante Hegels Leben (Vita di Hegel) di Johann Karl Friedrich Rosenkranz. Appassionato cultore della poesia hölderliniana, all'autore dell'Hyperion dedicò saggi di notevole interesse. Con il volume Geometria delle passioni estese la sua meditazione anche a protagonisti della filosofia moderna come Cartesio, Hobbes e soprattutto Spinoza. Studioso del pensiero utopistico del Novecento, in particolare del marxismo eterodosso di Ernst Bloch e di autori 'francofortesi' come Theodor Adorno e Walter Benjamin, intervenne nella discussione sulla filosofia politica italiana, confrontandosi e dialogando in particolare con Norberto Bobbio, Michelangelo Bovero, Salvatore Veca e Nicola Badaloni. Nei suoi studi sull'estetica curò l'edizione dell'Estetica del brutto di Johann Karl Friedrich Rosenkranz e analizzò in particolare concetti centrali come le categorie del bello e del tragico. Costante la sua attenzione per Sigmund Freud e gli sviluppi della psicoanalisi, per le logiche del delirio e per fenomeni in apparenza quotidiani ma sconvolgenti come l'esperienza del déjà vu. Filosofo di una ragione laica, sulla scia di Ernst Bloch, autore di Ateismo nel cristianesimo, cercò di distillare anche nel teorico del compelle intrare, Agostino d'Ippona, le possibili linee di un "ordo amoris" capace di assicurarci quell'identità in cui, come vuole il Padre della Chiesa, saremmo noi stessi pienamente: dies septimus, nos ipsi erimus ("il settimo giorno saremo noi stessi").  Premio Nazionale Letterario Pisa Sezione Saggistica.  Bodei inoltre curò la traduzione e l'edizione italiana di testi di Hegel, Karl Rosenkranz, Franz Rosenzweig, Ernst Bloch, Theodor Adorno, Siegfried Kracauer, Michel Foucault.  Molti suoi lavori hanno per oggetto lo spessore e la storia delle domande che riguardano la ricerca della felicità da parte del singolo, le indeterminate attese collettive di una vita migliore, i limiti che imprigionano l'esistenza e il sapere entro vincoli politici, domestici e ideali. Già in Scomposizioni, affrontò alcuni temi della genealogia dell'uomo contemporaneo e propose la metafora della geometria variabile per indagare le strutture concettuali ed espositive che, contraendosi o espandendosi sino a noi, orientano la percezione e la formulazione di problemi. La sua analisi dell'interazione di queste configurazioni mobili proseguì in Geometria delle passioni (1e in Destini personali che hanno avuto rilevante successo di pubblico.  Alla divulgazione dell'amore per la filosofia dedicò alcune conferenze e un libro (Una scintilla di fuoco).  Negli ultimi tempi stava lavorando sulla storia e sulle teorie della memoria.  Citazioni «Ciascuno di noi vive nell'immaginazione altre vite, alimentate dai testi letterari e dai media. Per loro tramite tenta di porre rimedio alla limitatezza della propria esistenza. (citato in Corriere della sera, )»  «Malgrado i ripetuti annunci è certo che la filosofia, al pari dell'arte, non è affatto 'morta'. Essa rivive anzi a ogni stagione perché corrisponde a bisogni di senso che vengono continuamentee spesso inconsapevolmenteriformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici su cui poggia il nostro comune pensare e sentire»  (Remo Bodei, La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, Nel passato il progresso delle civiltà umane era relativo, sottoposto a cicli naturali di distruzioni e di rinascite, che ne spezzavano periodicamente il consolidamento e la crescita»  (Remo Bodei, Limite, Il Mulino) Opere Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Bologna, Il Mulino,. Hegel e Weber. Egemonia e legittimazione, (con Franco Cassano), Bari, De Donato, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, Scomposizioni. Forme dell'individuo moderno, Torino, Einaudi, Riedizione ampliata, Bologna, Il Mulino,. Hölderlin: la filosofia y lo trágico, Madrid, Visor, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, Bologna, Il Mulino, Geometria delle passioni. Paura, speranza e felicità: filosofia e uso politico, Milano, Feltrinelli, Le prix de la liberté, Paris, Éditions du Cerf, Le forme del bello, Bologna, Mulino,. La filosofia nel Novecento, Roma, Donzelli, Se la storia ha un senso, Bergamo, Moretti & Vitali, La politica e la felicità (con Luigi Franco Pizzolato), Roma, Edizioni Lavoro, Il noi diviso. Ethos e idee dell'Italia repubblicana, Torino, Einaudi, Le logiche del delirio. Ragione, affetti, follia, Roma-Bari, Laterza, I senza Dio. Figure e momenti dell'ateismo, Brescia, Morcelliana, Il dottor Freud e i nervi dell'anima. Filosofia e società a un secolo dalla nascita della psicoanalisi, Roma, Donzelli, Destini personali. L'età della colonizzazione delle coscienze, Milano, Feltrinelli, Delirio e conoscenza, Remo Bodei, in Il Vaso di Pandora, Dialoghi in psichiatria e scienze umane, Una scintilla di fuoco. Invito alla filosofia, Bologna, Zanichelli, Piramidi di tempo. Storie e teoria del déjà vu, Bologna, Il Mulino, 2006. Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia, Milano, Bompiani, Il sapere della follia, Modena, Fondazione Collegio San Carlo per FestivalFilosofia, 2008. Il dire la verità nella genealogia del soggetto occidentale in A.A. V.V., Foucault oggi, Milano, Feltrinelli, 2008. La vita delle cose, Roma-Bari, Laterza, Ira. La passione furente, Bologna, Il Mulino,. Beati i miti, perché avranno in eredità la terra (con Sergio Givone), Torino, Lindau,. Immaginare altre vite. Realtà, progetti, desideri, Milano, Feltrinelli,. Limite, Bologna, Il Mulino,. Le virtù Cardinali (con Giulio Giorello, Michela Marzano e Salvatore Veca), Roma-Bari, Laterza,. Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, Bologna, Il Mulino,. Onorificenze Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.nastrino per uniforme ordinaria Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana. Di iniziativa del Presidente della Repubblica. Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademichenastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine delle Palme Accademiche immagine del nastrino non ancora presente Cittadino onorario di Siracusa, Modena, Carrara e Roccella Jonica. Note  È morto il filosofo Remo Bodei, su fanpage, 7 novembre.  Repubblica 18/08/  Albo d'oro, su premionazionaleletterariopisa. onweb. 7 novembre.  «Bodei Prof. Remo: Grande Ufficiale Ordine al Merito della Repubblica Italiana», sito della presidenza della repubblica. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Remo Bodei, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Remo Bodei,.   Pubblicazioni di Remo Bodei, su Persée, Ministère de l'Enseignement supérieur, de la Recherche et de l'Innovation.  Registrazioni di Remo Bodei, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Remo Bodei: Spinoza, un filosofo maledetto, sul  RAI Filosofia, su filosofia.rai. Scheda del professor Bodei nel sito del Dipartimento di filosofia dell'Pisa, su fls.unipi. V D M Vincitori del Premio Dessì  Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloAccademici italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1938  3 agosto 7 novembre Cagliari PisaAccademici dei LinceiAccademici italiani negli Stati Uniti d'AmericaProfessori della Scuola Normale SuperioreProfessori dell'Università della California, Los AngelesProfessori dell'PisaStudenti dell'Pisa. Bodei. Keywords: geometria delle passioni, filosofia sarda, I concordati, Concordia, armonia, condivisio. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Bodei," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice e Boezio: -- classico -- Grice: “Boezio is possibly my favourite Italian philosopher, only that he wasn’t really Italian – he found Vittorino’s Latin translation from the Grecian urn of Aristotle ‘rough,’ and provided a ‘newish’ one – but actually Vittorino had better intuitions about the lingo than Boezio did – and that is why Strawson preferred to tutor with the Vittorino translation – we covered all that Boezio wrote – and we never used the Patrologia edition, since we are protestant!” -- Possibly the most important Italian philosopher of all time. Grice loved Boethius“He made Aristotle intelligible at Clifton!” -- Anicius Manlius Severinus, Roman philosopher and Aristotelian translator and commentator. He was born into a wealthy patrician family in Rome and had a distinguished political career under the Ostrogothic king Theodoric before being arrested and executed on charges of treason. His logic and philosophical theology contain important contributions to the philosophy of the late classical and early medieval periods, and his translations of and commentaries on Aristotle profoundly influenced the history of philosophy, particularly in the medieval Latin West. His most famous work, The Consolation of Philosophy, composed during his imprisonment, is a moving reflection on the nature of human happiness and the problem of evil and contains classic discussions of providence, fate, chance, and the apparent incompatibility of divine foreknowledge and human free choice. He was known during his own lifetime, however, as a brilliant scholar whose knowledge of the Grecian language and ancient Grecian philosophy set him apart from his Latin contemporaries. He conceived his scholarly career as devoted to preserving and making accessible to the Latin West the great philosophical achievement of ancient Greece. To this end he announced an ambitious plan to translate into Latin and write commenbodily continuity Boethius, Anicius Manlius Severinus taries on all of Plato and Aristotle, but it seems that he achieved this goal only for Aristotle’s Organon. His extant translations include Porphyry’s Isagoge an introduction to Aristotle’s Categories and Aristotle’s Categories, On Interpretation, Prior Analytics, Topics, and Sophistical Refutations. He wrote two commentaries on the Isagoge and On Interpretation and one on the Categories, and we have what appear to be his notes for a commentary on the Prior Analytics. His translation of the Posterior Analytics and his commentary on the Topics are lost. He also commented on Cicero’s Topica and wrote his own treatises on logic, including De syllogismis hypotheticis, De syllogismis categoricis, Introductio in categoricos syllogismos, De divisione, and De topicis differentiis, in which he elaborates and supplements Aristotelian logic. Boethius shared the common Neoplatonist view that the Platonist and Aristotelian systems could be harmonized by following Aristotle in logic and natural philosophy and Plato in metaphysics and theology. This plan for harmonization rests on a distinction between two kinds of forms: 1 forms that are conjoined with matter to constitute bodies  these, which he calls “images” imagines, correspond to the forms in Aristotle’s hylomorphic account of corporeal substances; and 2 forms that are pure and entirely separate from matter, corresponding to Plato’s ontologically separate Forms. He calls these “true forms” and “the forms themselves.” He holds that the former, “enmattered” forms depend for their being on the latter, pure forms. Boethius takes these three sorts of entities  bodies, enmattered forms, and separate forms  to be the respective objects of three different cognitive activities, which constitute the three branches of speculative philosophy. Natural philosophy is concerned with enmattered forms as enmattered, mathematics with enmattered forms considered apart from their matter though they cannot be separated from matter in actuality, and theology with the pure and separate forms. He thinks that the mental abstraction characteristic of mathematics is important for understanding the Peripatetic account of universals: the enmattered, particular forms found in sensible things can be considered as universal when they are considered apart from the matter in which they inhere though they cannot actually exist apart from matter. But he stops short of endorsing this moderately realist Aristotelian account of universals. His commitment to an ontology that includes not just Aristotelian natural forms but also Platonist Forms existing apart from matter implies a strong realist view of universals. With the exception of De fide catholica, which is a straightforward credal statement, Boethius’s theological treatises De Trinitate, Utrum Pater et Filius, Quomodo substantiae, and Contra Euthychen et Nestorium show his commitment to using logic and metaphysics, particularly the Aristotelian doctrines of the categories and predicables, to clarify and resolve issues in Christian theology. De Trinitate, e.g., includes a historically influential discussion of the Aristotelian categories and the applicability of various kinds of predicates to God. Running through these treatises is his view that predicates in the category of relation are unique by virtue of not always requiring for their applicability an ontological ground in the subjects to which they apply, a doctrine that gave rise to the common medieval distinction between so-called real and non-real relations. Regardless of the intrinsic significance of Boethius’s philosophical ideas, he stands as a monumental figure in the history of medieval philosophy rivaled in importance only by Aristotle and Augustine. Until the recovery of the works of Aristotle in the mid-twelfth century, medieval philosophers depended almost entirely on Boethius’s translations and commentaries for their knowledge of pagan ancient philosophy, and his treatises on logic continued to be influential throughout the Middle Ages. The preoccupation of early medieval philosophers with logic and with the problem of universals in particular is due largely to their having been tutored by Boethius and Boethius’s Aristotle. The theological treatises also received wide attention in the Middle Ages, giving rise to a commentary tradition extending from the ninth century through the Renaissance and shaping discussion of central theological doctrines such as the Trinity and Incarnation.  «Nulla è più fugace della forma esteriore, che appassisce e muta come i fiori di campo all'apparire dell'autunno.»  (Boezio, citato da Umberto Eco ne Il nome della rosa) Severino Boezio Boetius.png Magister officiorum del Regno Ostrogoto Durata mandatosettembre 522 – agosto MonarcaTeodorico il Grande Console del Regno Ostrogoto Durata mandato510 Monarca Teodorico il Grande PredecessoreFlavio Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore romano Durata mandato510 – settembre 524 Dati generali Professionefilosofo San Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da Montefeltro   Padre della Chiesa Martire    NascitaRoma, MortePavia, Venerato da Tutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Ricorrenza23 ottobre Attributipalma Manuale Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (in latino: Anicius Manlius Torquatus Severinus Boethius; Roma, – Pavia, è stato un filosofo e senatore romano.   Inter latinos aristotelis interpretes et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC, biblioteca digitale Noto come Severino Boezio, o anche solo come Boezio, con le sue opere ha avuto una profonda influenza sulla filosofia cristiana del Medioevo, tanto che alcuni lo collocarono tra i fondatori della Scolastica[1]. Fu principale collaboratore del re Teodorico, ricoprendo la carica di magister officiorum. Boezio, nel clima di rilancio della cultura che la pace rese possibile durante il regno del re goto, concepì l'ambizioso progetto di tradurre in latino le opere di Platone e di Aristotele. Teodorico, nei suoi ultimi anni, divenne sospettoso di tradimenti e congiure, e Severino venne imprigionato a Pavia e giustiziato.  Papa Leone XIII ne approvò il culto per la Chiesa in Pavia, che ne custodisce i resti nella basilica di San Pietro in Ciel d'Oro e lo festeggia il 23 ottobre[2].Discendeva da una nobile famiglia, i cui membri avevano avuto carriere prestigiose. Suo padre fu probabilmente Manlio Boezio, prefetto del pretorio d'Italia, due volte prefetto di Roma e console nel 487; probabilmente suo nonno fu il Boezio prefetto del pretorio sotto Valentiniano III, ed è verosimile che fosse imparentato col Severino console nel 461 e col Severino Iunior console nel Boezio era anche imparentato con la nobile e antica gens Anicia (gens a cui apparteneva san Gregorio Magno e san Benedetto da Norcia), oltre che con lo scrittore Magno Felice Ennodio.Alla morte del padre fu affidato ad una nobile famiglia romana, probabilmente quella di Quinto Aurelio Memmio Simmaco, la cui figlia Rusticiana Boezio sposerà intorno al 495; la coppia ebbe due figli, Boezio e Simmaco, che proseguirono la tradizione di famiglia di ricoprire ruoli prestigiosi diventando entrambi consoli nel 522.  L'evento fondante della vita politica di Boezio fu la vittoria (493) del re degli Ostrogoti Teodorico il Grande su Odoacre, re degli Eruli e sovrano d'Italia; fu l'inizio del regno degli Ostrogoti sull'Italia (con Ravenna come capitale e Pavia e Verona come sedi reali) e della difficile convivenza tra questi e la popolazione romana.  Boezio studiò alla scuola di Atene, retta dallo scolarca Isidoro di Alessandria, dove si insegnavano soprattutto Aristotele e Platone insieme con le quattro scienze fondamentali per la comprensione della filosofia platonica, l'aritmetica, la geometria, l'astronomia e la musica; qui conobbe forse il giovane e futuro grande commentatore di Aristotele, Simplicio. S'iniziava con lo studio della logica aristotelica, preceduta dall'introduzione, l'Isagoge, di Porfirio; è il piano che Boezio seguirà nel compito che un giorno vorrà assumersi di tradurre in latino, commentare e accordare i due pensatori greci.  Al periodo intorno al 502 si fa risalire l'inizio della sua attività letteraria e filosofica: scrisse i trattati del quadrivio, le quattro scienze fondamentali del tempo, il De institutione arithmetica, il De institutione musica e i perduti De institutione geometrica e De institutione astronomica. Qualche anno dopo tradusse dal greco in latino e commentò l'Isagoge di Porfirio, un'introduzione alle Categorie di Aristotele, che avrà un'enorme diffusione nei secoli a venire.  La sua erudizione era ben nota e apprezzata: nel 507 Teodorico lo interpellò riguardo alla richiesta ricevuta dal re burgundo Gundobado per un orologio ad acqua, e menzionò la sua conoscenza del greco e la sua opera di traduzione dal greco al latino;[4] quello stesso anno Teodorico consultò Boezio riguardo a un suonatore di lira, richiestogli dal sovrano franco Clodoveo I, in quanto era al corrente della conoscenza della teoria musicale da parte dell'erudito romano. La fama così ottenuta gli procurò il rango di patricius  e la nomina al consolato sine collega da parte della corte imperiale di Costantinopoli, carica biennale che gli dà diritto a un seggio permanente nel Senato romano.  Da questi anni fino al 520 tradusse e commentò le Categorie e il De interpretatione di Aristotele, scrisse il trattato teologico Contra Eutychen et Nestorium, il perduto commento ai Primi Analitici di Aristotele, un De syllogismis categoricis, un De divisione, gli Analytica posteriora, un De hypotheticis syllogismis, la traduzione, perduta, dei Topica di Aristotele e un commento ai Topica di Cicerone. Partecipò ai dibattiti teologici del tempo: compose il De Trinitate, dedicato al nonno Simmaco, l'Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur, il Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint, cum non sint substantialia sint. L'interesse di Boezio e di molta parte del patriziato romano per i problemi teologici che avevano il loro centro soprattutto in Oriente, con i dibattiti sull'arianesimo, misero in allarme Teodorico, che sospettava un'intelligenza politica della classe senatoria romana con l'Impero, la cui ostilità verso i Goti ariani era sempre stata appena malcelata.  Appena terminati i De sophisticis elenchis, perduti, e i De differentiis topicis, Boezio fu chiamato alla corte di Teodorico, per discutere della non facile convivenza fra gli elementi gotici e italici della popolazione. Nel 522 i suoi due figli ebbero l'onore del consolato; in tale occasione Boezio pronunciò un panegirico in onore di Teodorico di fronte al Senato romano.[6] Nel settembre di quello stesso anno fu nominato magister officiorum, carica che tenne fino all'agosto successivo, e Boezio stesso elenca tra gli atti che compì in tale carica, come l'aver impedito ad alcuni militari ostrogoti di vessare i deboli, l'aver osteggiato la pesante tassazione che gravava sulla Campania in periodo di carestia, l'aver salvato le proprietà di Paolino, l'aver difeso da un processo ingiusto l'ex-console Albino;[7] proprio quest'ultima azione causò la caduta in disgrazia di Boezio, e la composizione della sua opera più famosa.  Era infatti accaduto che a Pavia il referendarius Cipriano aveva sequestrato alcune lettere dirette alla corte di Bisanzio, in base alle quali Cipriano accusò il nobile romano Albino di complottare ai danni di Teodorico. Boezio difese Albino, affermando che le accuse di Cipriano erano false, e che se Albino era colpevole, allora lo erano anche Boezio stesso e tutto il Senato.[8] Gli furono avanzate delle nuove accuse fondate su sue lettere, forse falsificate, nelle quali Boezio avrebbe sostenuto la necessità di «restaurare la libertà di Roma»; fu allora sostituito nella sua carica da Cassiodoro e, nel settembre 524, incarcerato a Pavia con l'accusa di praticare arti magiche; qui ebbe inizio la composizione della sua opera più nota, il De consolatione philosophiae.   La tomba di Severino Boezio nella Basilica di San Pietro in Ciel d'Oro a Pavia. Boezio fu giudicato a Roma da un collegio di cinque senatori, estratti a sorte, presieduto dal praefectus urbi Eusebio. Questi, nell'estate del 525, notificò la sentenza di condanna a morte di Boezio, che fu ratificata da Teodorico ed eseguita presso Pavia, nell'Ager Calventianus, una località che non si è potuta identificare con certezza. Secondo alcuni studiosi, l'Ager Calventianus sarebbe da identificare con la scomparsa località di Calvenza, presso Villaregio dove, nel XIX secolo, venne scoperta una grande epigrafe del VI secolo, ora conservata nei Musei Civici di Pavia, che fu forse la lastra tombale di Boezio[9]. Lo storico bizantino Procopio racconta che, poco dopo l'esecuzione di Boezio e Simmaco, a Teodorico fu servito un pesce di sproporzionate dimensioni nella cui testa gli parve di vedere il teschio del secondo che lo fissava minaccioso. Sconvolto da ciò, Teodorico si ammalò e morì poco dopo in preda ad allucinazioni e rimorsi. Un'altra leggenda post mortem di Boezio narra che un cavallo nero si presentò da Teodorico, che volle a forza montarlo. Il cavallo, insensibile alle redini, iniziò a correre con il cavaliere incollato alla sella, finché arrivò al Vesuvio, nel cratere del quale rovesciò Teodorico.  Severino Boezio ebbe due mogli. La prima fu la poetessa siciliana Elpide, morta nel 504. La seconda fu Rusticiana.[10]  Il pensiero di Boezio Le discipline filosofiche  Boezio e l'Aritmetica in un manoscritto tedesco del XV secolo  Boezio insegna agli studenti, miniatura, 1385 Consapevole della crisi della cultura latina del suo tempo, Boezio avvertì la necessità di tramandare e conservare le conoscenze elaborate nel mondo greco. Data alla filosofia la definizione di amore della sapienza, da lui intesa come causa della realtà e perciò sufficiente a sé stessa, la filosofia, come amore di quella, è anche amore e ricerca di Dio, che è la sapienza assoluta. La filosofia è conoscenza di tre tipi di esseri. Gli intellettibili - termine tratto da Mario Vittorino - sono gli esseri immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei sensi, come Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si occupa è propriamente la teologia.  Gli intelligibili sono invece gli esseri presenti nelle realtà materiali, le quali sono percepite dai sensi ma quelli sono concepibili dall'intelletto: gli intelligibili sono dunque gli intellettibili in forma materiale. La natura è infine oggetto della fisica, suddivisa in sette discipline: quelle del quadrivium - aritmetica, geometria, musica e astronomia - e del trivium - grammatica, logica e retorica. Le scienze del quadrivio sono per Boezio i quattro gradi che portano alla sapienza: il quadrivio «deve essere percorso da coloro la cui mente superiore può essere sollevata dalla sensazione naturale agli oggetti più sicuri dell'intelligenza». La prima delle discipline del quadrivio, «il principio e la madre» delle altre è, per Boezio, l'aritmetica; il De institutione arithmetica, scritta intorno al 505 e dedicata al suocero Simmaco, è ripresa dall'Introduzione all'Aritmetica di Nicomaco di Gerasa.  Nel suo De institutione musica, la cui fonte sono gli Elementi armonici di Tolomeo e un'opera perduta di Nicomaco, distingue tre generi di musica: una musica cosmica, mundana, che non è percepibile dall'uomo ma deve derivare dal movimento degli astri, dal momento che l'universo, secondo Platone, è strutturato sul modello degli accordi musicali, la cui armonia è fondata sull'equilibrio dei quattro elementi presenti in natura - acqua, aria, terra e fuoco; una musica humana, espressione della mescolanza, nell'uomo, dell'anima e del corpo e derivante dal rapporto fra l'elemento fisico e l'elemento intellettuale e pertanto percepibile con un'attività di introspezione in noi stessi; la musica ha una profonda influenza sulla vita umana: è l'armonia dell'uomo con sé stesso e di sé con il mondo. Infine, esiste naturalmente la musica pratica, strumentale, musica instrumentis constituta, ottenuta dalle vibrazioni degli strumenti e dalla voce. Le altre due opere di geometria e di astronomia, tratte dagli Elementi di Euclide e dall'Almagesto di Tolomeo, sono andate perdute.  La logica L'acquisizione delle discipline del trivium - grammatica, retorica e logica - è utile per esprimere al meglio la conoscenza che già si possiede. La logica di Boezio è in sostanza un commento della logica di Aristotele, dal momento che egli segue l'Isagoge, il commento alla logica aristotelica del neoplatonico Porfirio, che Boezio conobbe dapprima nella traduzione latina di Vittorino e poi direttamente dal testo greco di Porfirio, oltre a tradurre le Categorie e il De interpretatione di Aristotele. Le categorie, secondo Aristotele, sono i diversi significati che i termini (όροι) usati in una discussione possono assumere; un medesimo vocabolo - per esempio uomo - può significare un uomo reale, l'uomo in generale, un uomo rappresentato in una scultura; per evitare confusioni, al termine "uomo", che è una categoria sostanza, aggiungendo altre nove categorie, ossia colore, quantità, qualità, relazione, luogo, tempo, situazione, stato, azione e passione, un discorso, che ha per soggetto la sostanza "uomo", sarà chiaramente individuato.  Al soggetto sostanza si possono unire dei predicati, distinti da Aristotele in cinque modi diversi: il genere, la specie, la differenza, la proprietà e l'accidente. Il genere è il predicato più generale di un soggetto: al soggetto "Socrate" appartiene allora il genere "animale" e, caratterizzando più in particolare con l'indicare la specie come sottoclasse del genere, si potrà dire che Socrate è un animale di specie "uomo". Le sostanze "prime", quelle che indicano le cose, gli oggetti sensibili, esistono di per sé, secondo Aristotele, mentre il genere e la specie sono indicate da Aristotele come sostanze "seconde", e non è chiaro se esse esistano di per sé. A questo proposito «non dirò», scrive Porfirio, «riguardo ai generi e alle specie, se siano sostanze esistenti per sé, o se siano semplici pensieri; se siano realtà corporee o incorporee; se siano separate dai sensibili ovvero poste in essi. Poiché questa è impresa molto ardua, che ha bisogno di più vaste indagini».   Boezio in un manoscritto medievale. Allo stesso modo Boezio si pone il problema se i generi e le specie siano realtà esistenti di per sé, come esistono realmente i singoli individui, e se, in questo caso, siano realtà spirituali o materiali e, se materiali, esistano in unione con le realtà sensibili o se siano separate; oppure, non esistendo di per sé, se siano semplici categorie dello spirito umano che le abbia concepite per necessità di linguaggio.  La risposta di Boezio è che «Platone ritiene che i generi, le specie e gli altri universali non siano soltanto conosciuti separatamente dai corpi, ma che esistano e sussistano indipendentemente da quelli; invece Aristotele pensa che gli incorporei e gli universali sono sì oggetto di conoscenza, ma che non sussistono che nelle cose sensibili. Quale di queste opinioni sia la vera, io non ho avuto l'intenzione di decidere, perché è compito di più alta filosofia. Noi abbiamo deciso di seguire l'opinione di Aristotele, non perché l'approviamo totalmente ma perché questo libro l'Isagoge di Porfirio è scritto seguendo le Categorie di Aristotele».  Tuttavia Boezio dà una risposta al problema degli universali, prendendola da Alessandro d'Afrodisia: il pensiero umano è in grado di separare dagli oggetti sensibili nozioni astratte, come quelle di "animale" e di "uomo"; anche se il genere e la specie non potessero esistere separati dal corpo, non per questo ci è impedito di pensarli separatamente da esso. I cinque predicabili o universali, se non sono delle sostanze, come vuole Aristotele, sono allora dei concetti (intellectus): «uno stesso soggetto è universale quando lo si pensa ed è singolare quando lo si coglie con i sensi nelle cose»; platonicamente, egli riafferma così l'esistenza di oggetti propri della mente che non possono essere conosciuti sensibilmente. Boezio non riprende la teoria aristotelica dell'intelletto agente, che spiegherebbe come sia possibile al pensiero separare ciò che è unito: nel suo commento all'Isagoge questa operazione di astrazione resta inspiegata ma verrà ripresa, in diversa forma, nel De consolatione philosophiae. Sono quattro gli scritti boeziani che trattano di questioni teologiche: il Contra Eutychen et Nestorium, o De persona et duabus naturis in Christo, dedicato a un diacono Giovanni, che potrebbe essere il futuro papa Giovanni I, fu composto nel 512 come contributo al controverso dibattito sulla persona e sulla natura, umana e divina, di Cristo. Eutiche sosteneva l'esistenza in Cristo di una natura divina in una persona divina, mentre Nestorio, sostenendo l'identità di persona e natura, sosteneva che Cristo avesse avuto due nature, una divina e una umana e perciò anche due persone, una divina e una umana. Boezio si preoccupa innanzi tutto di chiarire i significati delle parole, affinché non si creino contrasti dovuti a semplici fraintendimenti.  Distingue tre diversi significati del termine «natura», natura come «predicato di tutte le cose esistenti», natura come «predicato di tutte le sostanze corporee e incorporee» e natura come «differenza specifica che dà forma a qualsiasi realtà»; definisce poi con "persona" una «sostanza individua di natura razionale» riferibile agli uomini, agli angeli e a Dio. Scrive infatti (Contra Eutychen, 2, 3): «la persona non si può mai applicare agli universali, ma soltanto ai particolari e agli individui: non esiste infatti la persona dell'uomo in genere o dell'uomo in quanto animale. Pertanto se la persona appartiene soltanto alle sostanze e soltanto a quelle razionali, se ogni natura è una sostanza, e se la persona sussiste non negli universali ma soltanto negli individui, essa si può così definire: "la sostanza individua di natura razionale"».  Ma Boezio non pretende di aver dato una parola definitiva sulla controversia: occorre che sia «il linguaggio ecclesiastico a scegliere il nome più adatto»; per quello che lo riguarda, egli dichiara di non essere «tanto vanitoso da anteporre la mia opinione a un giudizio più sicuro. Non è in noi la sorgente del bene e nelle nostre opinioni non vi è nulla che dobbiamo preferire a ogni costo; da Colui che solo è buono derivano tutte le cose veramente buone». Intorno al 518 fu composto il De hebdomadibus, o Ad eundem quomodo substantiae in eo quod sint, bonae sint, cum non sint substantialia sint, ossia In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non essendo beni sostanziali, ove Boezio distingue, nell'ente, l'essere e il «ciò che è» l'id quod est, ciòe il soggetto individuale che possiede l'essere: per Boezio «l'essere non è ancora, ma ciò che ha ricevuto la forma dell'essere, quello è e sussiste».  Stabilito che «tutto ciò che è tende al bene», si pone il problema se possano definirsi buoni gli enti finiti, la cui essenza non è la bontà; distingue allora i beni che sono tali in sé dai «beni secondi», ossia quelli che lo sono in quanto partecipano della bontà, per giungere alla conclusione che anche il «bene secondo» è buono, essendo «scaturito da quello il cui essere stesso è buono», ossia dal primo Essere che è anche e necessariamente il primo Bene. Nel De sancta Trinitate o Quomodo trinitas unus Deus, uno scritto successivo al 520, si pone il problema se a Dio, come a tutte le persone della Trinità, si applichino le categorie della logica, e se dunque siano una sostanza e se sia possibile che abbiano degli attributi; lo stesso tema, in forma sintetica, è espresso nell'Ad Johannem diaconum utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur.  Il De consolatione philosophiae  La consolazione della filosofia, miniatura del 1485.  Boezio in prigione, miniatura, 1385. Scritta durante la carcerazione, i cinque libri del De consolatione si presentano come un dialogo nel quale la Filosofia, personificata da «una donna di aspetto oltremodo venerabile nel volto, con gli occhi sfavillanti e acuti più della normale capacità umana; di colorito vivo e d'inesausto vigore, benché tanto avanti con gli anni da non credere che potesse appartenere alla nostra epoca», dimostra che l'afflizione patita da Boezio per la sventura che lo ha colpito non ha in realtà bisogno di alcuna consolazione, rientrando nell'ordine naturale delle cose, governate dalla Provvidenza divina.  Si può dividere l'opera in due parti, una costituita dai primi due libri e l'altra dagli ultimi tre. È una distinzione che corrisponde a quanto raccomandato dallo stoico Crisippo nella cura delle afflizioni: quando l'intensità della passione è al culmine, prima di ricorrere ai rimedi più efficaci, occorre attendere che essa si attenui. Così infatti si esprime la Filosofia (I, VI, 21): «siccome non è ancora il momento per rimedi più energici, e la natura della mente è tale che, respingendo le vere opinioni, subito si riempie di errori, dai quali nasce la caligine delle perturbazioni che confonde l'intelletto, io cercherò di attenuare a poco a poco questa oscurità in modo che, rimosse le tenebre delle passioni ingannevoli, tu possa conoscere lo splendore della luce vera».  Una medicina leggera, «qualcosa di dolce e di piacevole che, penetrato al tuo interno, apra la strada a rimedi più efficaci», è la comprensione della natura della fortuna, esposta nel II libro utilizzando temi della filosofia stoica ed epicurea. La fortuna (II, I, 10 e segg.) «era sempre la stessa, quando ti lusingava e t'illudeva con le attrattive di una felicità menzognera se l'apprezzi, adeguati ai suoi comportamenti, senza lamentarti. Se aborrisci la sua perfidia, disprezzala [...] ti ha lasciato colei dalla quale nessuno può essere sicuro di non essere abbandonato ti sforzi di trattenere la ruota della fortuna, che gira vorticosamente? Ma, stoltissimo fra tutti i mortali, se si fermasse, non sarebbe più lei». Del resto, quello che la fortuna ci dà, saremo noi stessi a doverlo abbandonare in quell'ultimo giorno della nostra vita che (II, III, 12) «è pur sempre la morte della fortuna, anche della fortuna che dura. Che importanza credi allora che abbia, se sia tu a lasciarla morendo, o se sia lei a lasciarti, fuggendo?».  Se dunque ci rende infelice tanto il suo abbandono durante la nostra vita, quanto il fatto che, morendo, dobbiamo abbandonare i doni che quella ci ha elargito in vita, allora la nostra felicità non può consistere in quei doni effimeri, in cose mortali, e neppure nella gloria, nel potere e nella fama, ma deve essere dentro noi stessi. Si tratta allora di conoscere «l'aspetto della felicità vera», dal momento che ciascuno (III, II, 1) «per vie diverse, cerca pur sempre di giungere a un unico fine, che è quello della felicità. Tale fine consiste nel bene: ognuno, una volta che l'abbia ottenuto, non può più desiderare altro». Dimostrato che (III, IX, 2) «con le ricchezze non si ottiene l'autosufficienza, non la potenza con i regni, non con le cariche il rispetto, non con la gloria la fama, né la gioia con i piaceri», tutti beni imperfetti, occorre determinare la forma del bene perfetto, «questa perfezione della felicità».  Ora, il bene perfetto, il «Sommo Bene», è Dio, dal momento che, secondo Boezio, sviluppando una concezione neoplatonica (III, X, 8) «la ragione dimostra che Dio è buono in modo da poterci convincere che in lui vi è anche il bene perfetto. Se infatti non fosse tale, non potrebbe essere l'origine di ogni cosa; vi sarebbe altro, migliore di lui, in possesso del bene perfetto, a lui precedente e più prezioso; è chiaro che le cose perfette precedono quelle imperfette. Pertanto, per non procedere all'infinito col ragionamento, dobbiamo ammettere che il sommo Dio sia del tutto pieno del bene sommo e perfetto; ma s'era stabilito che il bene perfetto sia la vera felicità: dunque la vera felicità è posta nel sommo Dio».  Nel IV libro (I, 3) Boezio pone il problema di come «pur esistendo il buon reggitore delle cose, i mali esistano comunque ed siano impuniti e non solo la virtù non venga premiata ma sia persino calpestata dai malvagi e punita al posto degli scellerati». La risposta, secondo lo schema platonico, della Filosofia, è che tutti, buoni e malvagi, tendono al bene; i buoni lo raggiungono, i malvagi non riescono a raggiungerlo per loro propria incapacità, mancanza di volonta, debolezza. Perché infatti i malvagi (IV, II, 31 - 32) «abbandonata la virtù, ricercano i vizi? Per ignoranza di ciò che è bene? Ma cosa c'è di più debole della cecità dell'ignoranza? Oppure sanno cosa cercare ma il piacere li allontana dalle retta via? Anche in questo caso si dimostrano deboli, a causa dell'intemperanza che impedisce loro di opporsi al male? oppure abbandonano il bene consapevolmente e si volgono al vizio? Ma anche così cessano di essere potenti e cessano persino di essere del tutto». Infatti il bene è l'essere e chi non raggiunge il bene è privo necessariamente dell'essere: dell'uomo ha solo la parvenza: «tu potresti chiamare cadavere un uomo morto, ma non semplicemente uomo; così, i viziosi sono malvagi ma nego che essi siano in senso assoluto».  Nel quinto e ultimo libro Boezio tratta il problema della prescienza e provvidenza divina e del libero arbitrio. Definito il caso (I, I, 18) «un evento inaspettato prodotto da cause che convergono in cose fatte per uno scopo determinato», per Boezio il concorrere e confluire di quelle cause è «il prodotto di quell'ordine che, procedendo per inevitabile connessione, discende dalla provvidenza disponendo le cose in luoghi e in tempi determinati». Il caso, dunque, non esiste in sé stesso, ma è l'evento di cui gli uomini non riescono a stabilire le cause che lo hanno determinato. È compatibile allora il libero arbitrio dell'uomo con la presenza della prescienza divina e a cosa dovrebbe servire pregare che qualcosa avvenga o meno, se già tutto è stabilito? La risposta della Filosofia è che la previdenza di Dio non dà necessità agli eventi umani: essi restano la conseguenza della libera volontà dell'uomo anche se sono previsti da Dio.  Ma questo stesso problema, così posto dall'uomo, non è nemmeno corretto. Dio è infatti eterno, nel senso che non è soggetto al tempo; per lui non esiste il passato e il futuro, ma un eterno presente; il mondo, invece, anche se non avesse avuto nascita, sarebbe perpetuo, ossia soggetto al mutamento e dunque soggetto al tempo; nel mondo esiste pertanto un passato e un futuro. La conoscenza che Dio ha delle cose non è a rigore un "vedere prima", una pre-videnza, ma una provvidenza, un vedere nell'eterno presente tanto gli eventi necessari, come sono quelli regolati dalle leggi fisiche, che gli eventi determinati dalla libera volontà dell'uomo.  La fortuna della Consolazione fu notevole per tutto il Medioevo, così da fare del suo autore una delle fonti più autorevoli del pensiero cristiano, per quanto l'opera si fondi sulle tradizioni stoiche e soprattutto neoplatoniche; essa tuttavia si manifesta come ultima autorevole affermazione della libertà del pensiero in complementarità con la fede espressa in sue altre opere, come dimostra il fatto che Boezio non abbia mai citato Cristo in un'opera di tale natura e composta a un passo dalla morte - tanto che già nel X secolo il monaco sassone Bovo di Corvey dirà, a questo riguardo, che nella Consolazione sembra che la Filosofia abbia scacciato Cristo. Allievo della scuola neoplatonica di Atene, Boezio trovò negli insegnamenti della classica tradizione neoplatonica esempi di direttiva morale pienamente sufficienti rispetto a quanto poteva trovare nel Cristianesimo, del quale, non a caso, come mostrano i suoi Opuscoli teologici, si occupò soltanto per problemi relativi unicamente alla dogmatica e mai alla morale e al destino dell'uomo.  Lo stile La De Consolatione philosophiae è un esempio di prosimetro, una composizione in cui la poesia si alterna alla prosa, secondo un modello che viene fatto risalire al filosofo cinico Menippo di Gadara nel III secolo a.C. e introdotto a Roma nel I secolo a.C. da Varrone; molto probabilmente Boezio tenne presente il De nuptiis Mercurii et Philologiae di Marziano Capella, opera di struttura analoga, composta circa un secolo prima. Boezio, nelle opere precedenti, frutto di elaborazioni teologiche, di commenti e di traduzioni, non si era preoccupato di dare dignità letteraria ai suoi scritti; nella Consolazione ha voluto affermare la propria appartenenza alla tradizione latina, con una trasparente imitazione del dialogo platonico attraverso i modelli di Cicerone e di Seneca, così da porsi, nel versante sia letterario che filosofico, come l'ultimo classico romano.  Le opere discusse A Boezio furono attribuite altre opere, come la De fide catholica o Brevis fidei christianae complexio, che sembra appartenere a quel suo allievo Giovanni nel quale si è voluto riconoscere Papa Giovanni I. Anche se ancora oggi vi è discussione sull'attribuzione a Boezio, l'impostazione catechistica dell'opera, che tratta delle verità essenziali del Cristianesimo, quali la Trinità, il peccato originale, l'Incarnazione, la Redenzione e la Creazione, porterebbero a escludere una paternità boeziana. Attribuita a Mario Vittorino la De definitione e a Domenico Gundisalvo la De unitate et uno, resta tuttora non definito l'autore della De disciplina scholarium, anch'essa attribuita a suo tempo a Boezio.  Culto La figura di Boezio fu molto stimata nel Medioevo. Le sue vicissitudini avevano molte analogie con la vita di San Paolo, ingiustamente imprigionato e martire.  Il poeta Dante Alighieri nomina Boezio nella Divina Commedia e nel Convivio, dove afferma (II, 12) di averne iniziato gli studi quando, dopo la morte di Beatrice, si era dedicato alla filosofia. Nel Paradiso di Dante, Boezio è uno degli spiriti sapienti del IV Cielo del Sole (Par., X, 124-126), che formano la prima corona di dodici spiriti in cui è presente anche san Tommaso d'Aquino.  Dal Martirologio Romano al 23 ottobre: "A Pavia, commemorazione di san Severino Boezio, martire, che, illustre per la sua cultura e i suoi scritti, mentre era rinchiuso in carcere scrisse un trattato sulla consolazione della filosofia e servì con integrità Dio fino alla morte inflittagli dal re Teodorico".  Opere Le date di composizione sono tratte da Philip Edward Phillips, "Anicius Manlius Severinus Boethius: A Chronology and Selected Annotated Bibliography", in Noel Harold Kaylor Jr., & Philip Edward Phillips, (a cura di), A Companion to Boethius in the Middle Ages, Leiden, Brill, Opere matematiche De institutione arithmetica, adattamento delle Introductionis Arithmeticae di Nicomaco di Gerasa. De Institutione musica -- si basa su un'opera perduta di Nicomaco di Gerasa e sulla Harmonica di Tolomeo. Opere logiche A) Traduzioni dal greco Porphyrii Isagoge (traduzione dell'Isagoge di Porfirio) In Categorias Aristotelis De Interpretatione vel Periermenias Interpretatio priorum Analyticorum (due versioni) Interpretatio Topicorum Aristotelis Interpretatio Elenchorum Sophisticorum Aristotelis B) Commenti a Porfirio, Aristotele e Cicerone In Isagogen Porphyrii commenta (due versioni, la prima basata sulla traduzione di Gaio Mario Vittorino, la seconda sulla sua traduzione. In Aristotelis Categorias, In librum Aristotelis de interpretatione Commentaria minora, In librum Aristotelis de interpretatione Commentaria majora, In Aristotelis Analytica Priora, Commentaria in Topica Ciceronis (incompleta: manca la fine del sesto libro e tutto il settimo) Opere originali De syllogismo cathegorico, De divisione, De hypotheticis syllogismis, In Ciceronis Topica, De topicis differentiis, Introductio ad syllogismos cathegoricos, Opuscola Sacra (trattati teologici), De Trinitate, Utrum Pater et Filius et Spiritus Sanctus de divinitate substantialiter praedicentur (Se "Padre" "Figlio" e "Spirito Santo", siano predicati sostanzialmente della Divinità) Quomodo substantiae in eo quod sint bonae sint cum non sint substantialia bona conosciuto anche col titolo De Hebodmadibus (In che modo le sostanze siano buone in quel che sono, pur non essendo beni sostanziali) De fide Catholica Contra Eutychen et Nestorium De consolatione Philosophiae. Frammenti di un trattato sulla geometria sono pubblicati in: Menso Folkerts (a cura di), Boethius' Geometrie II. Ein mathematisches Lehrbuch des Mittelalters, Wiesbaden, Franz Steiner, Edizioni Severino Boezio, Dialectica, Venetiis, apud Iuntas, Manlii Severini Boethii Opera Omnia, Patrologiae cursus completus, Series latina, Anicii Manlii Severini Boethii Opera, I-II, Turnholt  Anicius Manlius Severinus Boethius Torquatus, De consolatione philosophiae. Opuscula theologica, ed. C. Moreschini, editio altera, Monachii – Lipsiae. Delle consolazione della filosofia, Tradotto dalla Lingua Latina in Volgar Fiorentino -- Varchi, Con Annotazioni a margine e Tavola delle cose più segnalate. Si aggiunge la Vita dell'Autore..., in Venezia, presso Leonardo Bassaglia, Venezia, La consolazione della Filosofia, traduzione di Umberto Moricca, Firenze, Salani, Philosophiae consolatio, testo con introduzione e trad. di Emanuele Rapisarda, Catania, Centro di Studi sull'antico Cristianesimo, La consolazione della filosofia, traduzione di R. Del Re, Roma, Edizioni dell'Ateneo, Trattato sulla divisione, traduzione di traduzione, introduzione e commento di Lorenzo Pozzi, Padova, Liviana Editrice, De hypotheticis syllogismis, testo latino, traduzione, introduzione e commento di Luca Obertello, Brescia, Paideia, La consolazione della filosofia, introduzione di Christine Mohrmann, trad. di Ovidio Dallera, Collana BUR, Milano, Rizzoli, La Consolazione della filosofia. Gli Opuscoli teologici, traduzione di A. Ribet, a cura di Luca Obertello, Collana Classici del pensiero, Milano, Rusconi, De Institutione musica, testo e traduzione di Giovanni Marzi, Roma, La consolazione della filosofia, a cura di Claudio Moreschini, Collezione Classici Latini, Torino, POMBA, La consolazione di Filosofia, A cura di Maria Bettetini. Traduzione di Barbara Chitussi, note di Giovanni Catapano. Testo latino a fronte, Collana NUE, Torino, Einaudi, I valori autentici, a cura di M. Jovolella, Collana Oscar Saggezze, Milano, Mondadori,  La ricerca della felicità (Consolazione della Filosofia III), A cura di M. Zambon, Collana Letteratura universale.Il convivio, Venezia, Marsilio, Il De topicis differentiis di Severino Boezio, a cura di Fiorella Magnano, Palermo, Officina di Studi Medievali, Le differenze topiche. Testo latino a fronte, A cura di Fiorella Magnano, Collana Il pensiero occidentale, Milano, Bompiani, Mondin, La prima Scolastica: Boezio, Cassiodoro, Scoto Eriugena  Martirologio romano, citato in Severino Boezio, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati.  Ennodio, Epistole, Cassiodoro, Variae, Cassiodoro, Variae, De consolatione philosophiae, De consolatione philosophiae, Anonimo Valesiano, Il sepolcro di Boezio, su academia.edu.  Alessio Narbone, Sicola sistematica o apparato metodico alla storia letteraria della Sicilia, Il libro contiene una iniziale dedica a ""Cosimo De' Medici Gran Duca di Toscana"", poi la ""VITA DI ANICIO MANLIO TORQUATO SEVERINO BOEZIO scritta latinamente da Giulio Marziano Rota ed ora nuovamente volgarizzata"", ed infine la traduzione in fiorentino "" volgare fiorentina"" di Benedetto Varchi che traduce in italiano anche le parti non in prosa con versi in rime alternate: ultima cosa curiosa, alla fine ci sono due ''''Inni d'ELPIDE, Matrona Siciliana Consorte di Boezio''''. 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Boezio, Roma, Bulzoni, Micaelli, Dio nel pensiero di Boezio, Napoli, Micaelli, Studi sui trattati teologici di Boezio, Napoli, Milani, Boezio. L'ultimo degli antichi, Milano, 1994 Christine Mohrmann, Introduzione alla Consolazione della filosofia, BUR, Mondin, La prima Scolastica: Boezio, Cassiodoro, Scoto Eriugena, Euntes docete. Commentaria Urbaniana, Roma, Moreschini, Boezio e la tradizione del Neoplatonismo latino, in «Atti del Convegno Internazionale di Studi Boeziani», Roma, Moreschini, Neoplatonismo e Cristianesimo: «partecipare a Dio» secondo Boezio e Agostino, Catania, Moreschini, Varia boethiana, D'Auria M., Obertello, Severino Boezio, 2 voll., Genova, 1Pinzani, La logica di Boezio, Milano, Rapisarda, La crisi spirituale di Boezio, Catania, Troncarelli, Boethiana Aetas. 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PredecessoreConsole romanoSuccessore Flavio Importuno, sine college Flavio Arcadio Placido Magno Felice, Flavio Secondino V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica Severino Boezio Boetius.png Magister officiorum del Regno Ostrogoto MonarcaTeodorico il Grande Console del Regno Ostrogoto Durata mandato510 MonarcaTeodorico il Grande PredecessoreFlavio Importuno SuccessoreMagno Felice Flavio Secondino Senatore romano. Dati generali Professionefilosofo San Severino Boezio Fl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da MontefeltroFl Boetio (Flavio Boezio) - Studiolo di Federico da Montefeltro   Padre della Chiesa Martire    NascitaRoma, 475/477 MortePavia, Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Ricorrenza23 ottobre Attributipalma ManualeInter latinos aristotelis interpretes et aetate primi, et doctrina praecipui dialectica, 1547. Da BEIC, biblioteca digitale. Boezio raffigurato col proprio suocero, Quinto Aurelio Memmio Simmaco, nobile e letterato romano. Filosofia Portale Filosofia Letteratura Portale Letteratura Lingua latina Portale Lingua latina Categorie: Filosofi romaniSenatori romaniNati a RomaMorti a Pavia Anicii Consoli medievali romani Filosofi Cristiani Filosofi giustiziati Martiri cristianiMagistri officiorumPersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Santi romani del VI secoloTeorici della musica italianiTraduttori dal greco al latino[alter. Refs.: Boethiius, in Stanford Encyclopaedia. Luigi Speranza, "Grice e Boezio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Bollettino della Società filosofica italiana. Cum sit necessarium, Chrisaorie, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam nosse quid genus sit et quid differentia quidque species et quid proprium et quid accidens, et ad definitionum assignationem, et omnino ad ea quae in divisione vel demonstratione sunt utilia, hac istarum rerum speculatione compendiosam tibi traditionem faciens temptabo breviter velut introductionis modo ea quae ab antiquis dicta sunt aggredi; altioribus quidem quaestionibus abstinens, simpliciores vero mediocriter coniectans. Mox de generibus et speciebus illud quidem sive subsistunt sive in solis nudis purisque intellectibus posita sunt sive subsistentia corporalia sunt an incorporalia, et utrum separata an in sensibilibus et circa ea constantia, dicere recusabo. Altissimum enim est huiusmodi negotium et maioris egens inquisitionis. Illud vero quemadmodum de his ac de propositis probabiliter antiqui tractaverint, et horum maxime Peripatetici, tibi nunc temptabo monstrare. Videtur autem neque genus neque species simpliciter dici. Genus enim dicitur et aliquorum quodammodo se habentium ad unum aliquid et ad se invicem collectio, secundum quam significationem Romanorum dicitur genus, ab unius scilicet habitudine -- dico autem Romuli -- et multitudinis habentium aliquo modo ad invicem eam quae ab illo est cognationem secundum divisionem ab aliis generibus dictam. Dicitur autem et aliter rursus genus quod est uniuscuiusque generationis principium vel ab eo qui genuit vel a loco in quo quis genitus est. Sic enim Oresten quidem dicimus a Tantalo habere genus, Illum autem ab Hercule, et rursus Pindarum quidem Thebanum esse genere, Platonem vero Atheniensem; et enim patria principium est uniuscuiusque generationis quemadmodum pater. Haec autem videtur promptissima esse significatio; Romani enim qui ex genere descendunt Romuli, et Cecropidae qui ex genere descendunt Cecropis et horum proximi. Et prius quidem appellatum est genus uniuscuiusque generationis principium, dehinc etiam multitudo eorum qui sunt ab uno principio; ut a Romulo, dividentes et ab aliis separantes, dicebamus omnem illam collectionem esse Romanorum genus. Aliter autem rursus dicitur genus, cui supponitur species ad horum fortasse similitudinem dictum. Etenim principium quoddam est huiusmodi genus earum quae sub ipso sunt specierum, videturque et omnem eam multitudinem continere quae sub ipso sunt specierum. Tripliciter igitur cum genus dicatur, de tertio apud philosophos sermo, quod etiam describentes assignaverunt, dicentes, genus esse quod de pluribus et differentibus specie, in eo quod quid sit praedicatur, ut animal. Eorum enim quae praedicantur alia quidem de uno dicuntur solo, sicut individua sicut Socrates et hic et hoc, alia vero de pluribus, quemadmodum genera et species et differentiae et propria, et accidentia communiter sed non proprie alicui. Est autem genus quidem ut animal, species vero ut homo, differentia autem ut rationale, proprium ut risibile, accidens ut album, nigrum, sedere. Ab his ergo quae de uno solo praedicantur differunt genera, eo quod haec de pluribus dicuntur. Ab his autem rursus quae de pluribus, a speciebus quidem, quoniam species etsi de pluribus praedicentur, non tamen de differentibus specie, sed numero: homo enim cum sit species, de Socrate et Platone praedicatur, qui non specie a se invicem differunt, sed numero. Animal vero cum sit genus, de homine, equo, et boue praedicatur, qui differunt a se invicem specie, non numero solum. A proprio quoque differt genus, quoniam proprium de una sola specie, cuius est proprium, praedicatur, et de iis quae sub una specie sunt individuis, quemadmodum risibile de homine solo, et de particularibus hominibus: genus autem non de una solum specie praedicatur, sed de pluribus et differentibus. A differentia vero et ab iis quae communiter sunt accidentia differt genus, quoniam etsi de pluribus et differentibus specie praedicentur differentiae, et communiter accidentia, non tamen in eo quod quid sit praedicantur, sed potius in eo quod quale est, et quomodo se habet. Interrogantibus enim aliquibus quid est illud de quo praedicantur haec? genus respondebimus: differentias autem et communiter et accidentia non respondebimus. Non enim in eo quod quid est praedicantur de subiecto, sed magis in eo quod quale sit. Interrogantibus enim qualis est homo? dicimus rationalis, et qualis est corvus, dicimus niger. Est autem rationale, differentia: nigrum vero, accidens. Quando autem quid est homo interrogamur, animal respondemus: est autem genus hominis animal. Quare genus de pluribus praedicari dividit ipsum ab iis quae de uno solo dicuntur, sicut individua; de differentibus vero specie, separat eumdem ab iis quae sicut species praedicantur, vel sicut propria: in eo autem quod quid sit praedicari, dividit ipsum a differentiis et communiter accidentibus, quae singula non in eo quod quid sit praedicatur, sed in eo quod quale est, vel quomodo se habet. Nihil igitur neque superfluum, neque minus continet generis dicta descriptio. Species autem dicitur quidem, et de uniuscuiusque forma, secundum quam dictum est: primum quidem species digna est imperio: Dicitur autem species, et ea quae est sub assignato genere, secundum quam solemus dicere, hominem quidem speciem animalis, cum sit genus animal; album autem coloris speciem, triangulum vero figurae speciem. Quod si etiam genus assignantes speciei meminimus, dicentes quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid praedicatur, et speciem dicimus id quod sub assignato genere ponitur. Nosse oportet quod quoniam genus alicuius est genus, et species alicuius est species, idcirco necesse est et in utrorumque rationibus utrisque uti. Assignant ergo et sic speciem: Species est quae sub assignato genere ponitur, et de qua genus in eo quod quid sit praedicatur. Amplius autem sic quoque: Species est quae de pluribus et differentibus numero, in eo quod quid sit praedicatur; sed haec quidem assignatio specialissimae est, et eius quae solum species est, non etiam genus: aliae vero et non specialissimarum esse possunt. Planum autem erit quod dicitur hoc modo: In unoquoque praedicamento sunt quaedam generalissima, et rursus alia specialissima, et inter generalissima et specialissima sunt alia quae et genera et species eadem dicuntur. Est autem generalissimum quidem supra quod non est aliud aliquod superveniens genus. Specialissimum autem post quod non est alia aliqua inferior species. Inter generalissimum autem et specialissimum, alia sunt quae et genera et species sunt eadem, ad aliud tamen et aliud sumpta. Sit autem manifestum in uno praedicamento quod dicitur substantia: est quidem et ipsa genus, sub hac autem est corpus, et sub corpore animatum corpus, sub quo animal: sub animali vero, rationale animal, sub quo homo: sub homine vero, Socrates et Plato, et qui sunt particulares homines. Sed horum substantia quidem, generalissimum est, et genus solum: homo vero specialissimum, et solum species; corpus vero, species quidem est substantiae, genus vero corporis animati, sed et animatum corpus, species quidem est corporis, genus vero animalis. Rursus animal species quidem est corporis animati, genus vero animalis rationalis, sed rationale animal, species quidem est animalis, genus autem hominis: homo vero species est rationalis animalis, non autem etiam genus particularium hominum, sed solum species. Ac omne quod est ante individua proximeque de ipsis praedicatur, species erit solum, non etiam genus. Quemadmodum igitur substantia cum suprema sit, eo quod nihil supra eam sit, genus est generalissimum, sic et homo, cum sit species, postquam non est alia species, neque aliquid eorum quae possunt dividi in species, sed solum individua (individuum enim est Socrates et Plato, et hoc album), species erit solum, et ultima species (et ut dictum est) specialissima: quae vero in medio sunt, eorum quidem quae supra se sunt species erunt, eorum vero quae post genera sunt, quare haec quidem duas habent habitudines, illam quae est ad superiora, secundum quam species dicuntur esse ipsorum, et eam quae est ad posteriora, secundum quam genera ipsorum esse dicuntur. Extrema vero habent unam habitudinem, nam et generalissimum ad ea quae posteriora sunt, habet habitudinem, cum genus sit omnium supremum: eam vero quae est ad superiora non habet, cum sit supremum, et primum principium, et (ut diximus) supra quod non est aliud superveniens genus: et specialissimum etiam unam habet habitudinem, ea quae est ad superiora, quorum est species: eam vero quae est ad posteriora non diversam habet sed eandem, nam et individuorum species dicitur. Sed species quidem individuorum, velut ea continens, species vero superiorum, ut quae ab illis contineatur. Determinant ergo generalissimum ita, quod cum genus sit non est species: et rursus, supra quod non est aliud superveniens genus: specialissimum vero, quod cum sit species, non est genus, et quod cum sit species, non amplius in species dividere possumus, et hoc modo quod de pluribus et differentibus numero, in eo quod quid sit, praedicatur. Ea vero quae sunt in medio extremorum, subalterna vocantur genera et species, et unumquodque eorum species esse potest et genus, ad aliud quidem, et ad aliud sumpta. Ea vero quae sunt supra specialissima usque ad generalissimum ascendentia, vicissim genera dicuntur et species, ut Agamemnon, Atrides, Pelopides, Tantalides, et ultimo Iovis. Sed in familiis quidem plerumque reducuntur ad unum principium, verbi gratia ad Iovem. In generibus autem et speciebus non sic se habet; neque enim unum commune genus omnium est ens, nec omnia eiusdem generis sunt secundum unum supremum genus, quemadmodum dicit Aristoteles, sed sint posita, quemadmodum dictum est in praedicamentis, prima decem genera, quasi decem prima principia. Et si omnia quis entia vocet, aequivoce inquit nuncupabit, non univoce: si enim ens unum esset commune omnium genus, univoce omnia entia dicerentur: cum vero sint decem prima, commune est ens secundum nomen solum, non etiam secundum rationem, quae secundum entis nomen est. Decem quidem igitur generalissima sunt, specialissima vero in numero quidem quodam sunt, non tamen infinito. Individua autem quae sunt post specialissima, infinita sunt quapropter usque ad specialissima a generalissimis descendentes iubebat Plato quiescere. Descendere autem per media dividendo specificis differentiis, infinita vero relinquenda suadet, neque enim eorum posse fieri disciplinam. Descendentibus igitur ad specialissima necesse est, dividendo per multitudinem ire, ascendentibus vero ad generalissima necesse est colligere multitudinem in unum: collectivum enim multorum in unam naturam species est, et magis etiam genus. Particularia vero et singularia e contrario, in multitudinem semper dividunt id quod unum est, participatione enim speciei, plures homines, sunt unus homo, in particularibus autem et singularibus, unus et communis, plures, divisivum enim est semper quod singulare est, collectivum autem et adunativum quod commune est. Assignato autem genere, specie quid sit utrumque, et genere quidem uno existente, speciebus vero pluribus: semper enim divisio generis in species plures est, genus quidem semper de speciebus praedicatur, et omnia superiora de inferioribus, species autem neque de proximo sibi genere, neque de superioribus, neque enim convertitur. Oportet enim aut aequa de aequis praedicari, ut hinnibile de equo, aut maiora de minoribus, ut animal de homine, minora vero de maioribus minime: nec enim animal dicis esse hominem, quemadmodum dicis hominem animal. De quibus autem species praedicatur, de his necessario et speciei genus praedicatur et generis genus, usque ad generalissimum. Si enim verum est dicere: Socratem hominem, hominem autem animal, animal vero substantiam, verum est Socratem animal dicere atque substantiam: semper igitur cum superiora de inferioribus praedicentur, species quidem de individuo praedicabitur, genus autem et de specie et de individuo; generalissimum autem et de genere, et de generibus, si plura sunt media et subalterna, et de specie, et de individuo: Dicitur enim generalissimum quidem de omnibus sub se positis generibus et speciebus et individuis; genus autem quod ante specialissimum est, de omnibus specialissimis et de individuis, solum autem species de omnibus individuis, individuum autem praedicatur de uno solo particulari. Individuum autem dicitur Socrates, et hoc album, et hic veniens Sophronisci filius, si solus sit ei Socrates filius). Individua autem dicuntur huiusmodi, quoniam ex proprietatibus consistit unumquodque eorum, quarum collectio numquam in alio quolibet eadem erit. Socratis enim proprietates nunquam in alioquo quolibet erunt particularium eaedem. Hae vero quae sunt hominis proprietates: dico autem eius qui est communis, erunt eaedem pluribus, magis autem in omnibus particularibus hominibus in eo quod homines sunt. Continetur igitur individuum quidem sub specie, species autem sub genere. Totum enim quidem est genus, individuum autem pars, species vero totum et pars: sed pars quidem alterius, totum vero non alterius, sed in aliis. In partibus enim totum est. De genere quidem et specie, et quid sit generalissimum, et quid specialissimum, et quae genera, et species eadem sunt, et quae individua, et quot modis genus et species dicatur, sufficienter dictum est. Differentia vero communiter, proprie, et magis proprie dicitur. Communiter quidem differre alterum ab altero dicitur, quoniam alteritate quadam differt quocunque modo, vel a seipso vel ab alio; differt enim Socrates a Platone alteritate quadam, et ipse a se puero iam vir factus, et a se faciente aliquid cum quiescit, et semper in aliquo modo habendi se alteritatibus spectatur. Proprie autem differre alterum ab altero dicitur, quando inseparabili accidente alterum ab altero differt. Inseparabile vero accidens est, ut nasi curvitas, caesitas oculorum, et cicatrix cum ex vulnere occalluerit. Magis autem proprie alterum differre ab altero dicitur, quando specifica differentia differt, quemadmodum homo ab equo specifica differentia differt rationali qualitate. Universaliter ergo omnis differentia alteratum facit cuilibet adveniens, sed ea quae est communiter et proprie, alteratum facit: illa autem quae est magis proprie, aliud. Differentiarum enim, aliae quidem alteratum faciunt, aliae vero aliud. Illae igitur quae faciunt aliud, specificae uocantur; illae vero quae alteratum, simpliciter differentiae: animali enim rationalis differentia adveniens aliud facit, et speciem animalis facit. Illa vero quae est movendi, alteratum facit a quiescente. Quare haec quidem aliud, illa vero alteratum solum facit. Secundum igitur aliud facientes differentias et divisiones fiunt a generibus in species, et diffinitiones assignantur, quae sunt ex genere, et huiusmodi differentiis: secundum autem eas quae solum alteratum faciunt, alterationes solum consistunt, et aliquo modo se habentis permutationes. A superioribus rursus inchoanti dicendum est, differentiarum alias quidem esse separabiles, alias vero inseparabiles. Moveri enim et quiescere, et sanum esse, et aegrum, et quaecunque his proxima sunt, separabilia sunt. At vero aquilum esse, vel simum, vel rationale, vel irrationale, inseparabilia sunt. Inseparabilium autem, aliae quidem sunt per se, aliae vero per accidens; nam rationale per se inest homini, et mortale, et disciplinae esse susceptibile. At vero aquilum esse vel simum, per accidens et non per se. Illae igitur quae per se sunt, in ratione substantiae accipiuntur, et faciunt aliud: illae vero quae secundum accidens, nec in substantiae ratione accipiuntur, nec faciunt aliud, sed alteratum. Et illae quidem quae per se sunt, non suscipiunt magis et minus: illae vero quae per accidens, et si inseparabiles sint, intentionem accipiunt et remissionem: nam neque genus magis et minus praedicatur de eo cuius est genus, neque generis differentiae, secundum quas dividitur: ipsae enim sunt quae uniuscuiusque rationem complent: esse autem unicuique unum et idem, nec intentionem nec remissionem suscipiens est, aquilum autem vel simum esse, vel coloratum aliquo modo, et intenditur et remittitur. Cum igitur tres species differentiae considerentur, et cum hae quidem sint separabiles, illae vero inseparabiles, et rursus inseparabilium, hae quidem sint per se, illae vero per accidens, et rursus earum quae per se sint differentiarum, aliae quidem sunt, secundum quas dividimus genera in species aliae vero secundum quas haec quae divisa sunt specificantur; ut, cum per se differentiae omnes huiusmodi sint animalis, animati et sensibilis, rationalis et irrationalis, mortalis et immortalis, ea quidem quae est animati et sensibilis differentia, constitutiva est animalis substantiae: est enim animal substantia animata sensibilis, ea vero quae est mortalis et immortalis differentia, itemque rationalis et irrationalis, divisivae sunt animalis differentiae, per eas enim genera in species dividimus. Sed hae quidem quae divisivae sunt differentiae generum, completivae fiunt et constitutivae specierum: dividitur enim animal rationali et irrationali differentia, et rursus mortali et immortali differentia, sed ea quae sunt rationalis differentiae et mortalis, constitutivae sunt hominis, rationalis vero et immortalis, Dei: illae vero quae sunt irrationalis et mortalis, irrationabilium animalium. Sic et suprema substantia, cum divisiva sit animati et inanimati differentia, sensibili et insensibili, animata et sensibilis congregatae ad substantiam, animal perfecerunt, animata vero et insensibilis perfecerunt plantam. Quoniam ergo eaedem aliquo modo acceptae fiunt constitutivae, aliquo modo autem divisivae, omnes specificae dicuntur: et his maxime opus est ad divisiones generum et diffinitiones specierum, sed non his quae secundum accidens inseparabiles, nec magis his, quae sunt separabiles. Quas etiam determinantes dicunt: Differentia est qua abundat species a genere. Homo enim ab animali plus habet rationale et mortale: animal enim ipsum nihil horum est, nam unde haberent species differentias? nec enim omnes oppositas habet, namque idem simul habebit oppositas, sed quemadmodum probant, potestate quidem habet omnes differentias sub se, actu vero nullam. Et sic nec ex his quae non sunt, aliquid fit, nec in eodem simul opposita erunt. Definiunt autem eam et hoc modo: Differentia est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quale sit praedicatur rationale enim et mortale, de homine praedicatum in eo quod quale quiddam est homo dicitur sed non in eo quod quid est; "Quid est" enim "homo?" interrogatis nobis conveniens est dicere "Animal"; quale autem animal inquisiti, quoniam rationale et mortale est convenienter assignabimus. Rebus enim ex materia et forma constantibus vel ad similitudinem materiae specieique constitutionem habentibus (quemadmodum statua ex materia est aeris, forma autem figura), sic et homo communis et specialis ex materia quidem similiter consistit genere, ex forma autem differentia, totum autem hoc animal rationale mortale homo est quemadmodum illic statua. Describunt autem huiusmodi differentiam et hoc modo: Differentia est quod aptum natum est dividere quae sub eodem sunt genere rationale enim et irrationale hominem et equum, quae sub eodem sunt genere quod est animal, dividunt. Assignant autem etiam hoc modo: Differentia est qua differunt a se singula nam secundum genus non differunt; sumus enim mortalia animalia et nos et irrationabilia sed additum rationabile separavit nos ab illis; rationabiles sumus et nos et dii sed mortale appositum disiunxit nos ab illis. Interius autem perscrutantes et speculantes differentiam, dicunt non quodlibet eorum quae sub eodem sunt genere dividentium esse differentiam sed quod ad esse conducit et quod eius quod est esse rei pars est; neque enim quod aptum natum est nauigare erit hominis differentia, etsi proprium sit hominis. Dicimus enim: animalium haec quidem apta nata sunt ad nauigandum, illa vero minime dividentes ab aliis, sed aptum natum esse ad nauigandum non erat completiuum substantiae nec eius pars sed aptitudo quaedam eius est (idcirco quoniam non est talis quales sunt quae specificae dicuntur differentiae). Erunt igitur specificae differentiae quaecumque alteram faciunt speciem et quaecumque in eo quod quale est accipiuntur. Et de differentiis quidem ista sufficiunt. Proprium vero quadrifariam dividunt. Nam et id quod soli alicui speciei accidit, etsi non omni (ut homini medicum esse vel geometrem), et quod omni accidit, etsi non soli (quemadmodum homini esse bipedem), et quod soli et omni et aliquando (ut homini in senectute canescere), quartum vero in quo concurrit et soli et omni et semper (quemadmodum homini esse risibile; nam, etsi non ridet, tamen risibile dicitur, non quod iam rideat sed quod aptus natus sit; hoc autem ei semper est naturale; et equo hinnibile). Haec autem proprie propria perhibent, quoniam etiam convertuntur; quicquid enim equus, et hinnibile, et quicquid hinnibile, equus. Accidens vero est quod adest et abest praeter subiecti corruptionem. Dividitur autem in duo, in separabile et in inseparabile; namque dormire est separabile accidens, nigrum vero esse inseparabiliter coruo et Aethiopi accidit (potest autem subintellegi et corvus albus et Aethiops amittens colorem praeter subiecti corruptionem). Definitur autem sic quoque: Accidens est quod contingit eidem esse et non esse uel: Quod neque genus neque differentia neque species neque proprium, semper autem est in subiecto subsistens. Omnibus igitur determinatis quae proposita sunt, dico autem genere, specie, differentia, proprio, accidenti, dicendum est quae eis communia adsunt et quae propria. Commune quidem omnibus est de pluribus praedicari; sed genus quidem de speciebus et de individuis, et differentia similiter, species autem de his quae sub ipsa sunt individuis, at vero proprium et de specie et cuius est proprium et de his quae sub specie sunt individuis, accidens autem et de speciebus et de individuis. Namque animal de equis et bubus et canibus praedicatur quae sunt species, et de hoc equo et de hoc boue quae sunt individua; irrationale vero et de equis et de bubus praedicatur et de his qui sunt particulares; species autem, ut homo, solum de his qui sunt particulares praedicatur; proprium autem, quod est risibile, de homine et de his qui sunt particulares; nigrum autem et de specie coruorum et de his qui sunt particulares, quod est accidens inseparabile; et moueri de homine et de equo, quod est accidens separabile sed principaliter quidem de individuis, secundum posteriorem vero rationem de his quae continent individua. Commune est autem generi et differentiae continentia specierum; continet enim et differentia species, etsi non omnes quot genera; rationale enim, etiam si non continet ea quae sunt irrationabilia ut genus quemadmodum animal sed continet hominem et deum quae sunt species. Et quaecumque praedicantur de genere ut genus, et de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur; quaeque de differentia praedicantur ut differentiae, et de ea quae ex ipsa est specie praedicabuntur. Nam, cum sit genus animal, non solum de eo praedicantur ut genus substantia et animatum sed etiam de his quae sunt sub animali speciebus omnibus praedicantur haec usque ad individua; cumque sit differentia rationalis, praedicatur de ea ut differentia id quod est ratione uti, non solum de eo quod est rationale sed etiam de his quae sunt sub rationali speciebus praedicabitur ratione uti. Commune autem est et perempto genere vel differentia simul perimi quae sub ipsis sunt; quemadmodum, si non sit animal, non est equus neque homo, sic, si non sit rationale, nullum erit animal quod utatur ratione. Proprium autem generis est de pluribus praedicari quam differentia et species et proprium et accidens; animal enim de homine et equo et aue et serpente, quadrupes vero de solis quattuor pedes habentibus, homo vero videtur de solis individuis, et hinnibile de equo et de his qui sunt particulares; et accidens similiter de paucioribus. Oportet autem differentias accipere quibus dividitur genus, non eas quae complent substantiam generis. Amplius genus continet differentiam potestate; animalis enim hoc quidem rationale est, illud vero irrationale. Amplius genera quidem priora sunt his quae sunt sub se positis differentiis propter quod simul quidem eas aufert, non autem simul aufertur (sublato enim animali aufertur rationale et irrationale), differentiae vero non auferunt genus (nam, si omnes interimantur, tamen substantia animata sensibilis subintellegi potest quae est animal). Amplius genus quidem in eo quod quid est, differentia vero in eo quod quale quiddam est, quemadmodum dictum est, praedicatur. Amplius genus quidem unum est secundum unamquamque speciem (ut hominis id quod est animal), differentiae vero plurimae (ut rationale, mortale, mentis et disciplinae perceptibile) quibus ab aliis differt. Et genus quidem consimile est materiae, formae vero differentia. Cum autem sint et alia communia et propria generis et differentiae, nunc ista sufficiant. Genus autem et species commune quidem habent de pluribus (quemadmodum dictum est) praedicari; sumatur autem species ut species et non etiam ut genus, si fuerit idem species et genus. Commune autem his est et priora esse eorum de quibus praedicantur et totum quiddam esse utrumque. Differt autem eo quod genus quidem continet species sub se, species vero continentur et non continent genera; in pluribus enim genus quam species est (genera enim praeiacere oportet et formata specificis differentiis perficere species, unde et priora sunt naturaliter genera et simul interimentia sed quae non simul interimantur). Et species quidem cum sit, est et genus, genus vero cum sit non omnino erit et species. Et genera quidem univoce de speciebus praedicantur, species vero de generibus minime. Amplius quidem genera abundant earum quae sub ipsis sunt specierum continentia, species vero generibus abundant propriis differentiis. Amplius neque species fiet umquam generalissimum neque genus specialissimum. Generis autem et proprii commune quidem est sequi species (nam, si homo est, animal est, et, si homo est, risibile est), et aequaliter praedicari genus de speciebus et proprium de his quae illo participant (aequaliter enim et homo et bos animal, et Cato et Cicero risibile). Commune autem et univoce praedicari genus de propriis speciebus et proprium quorum est proprium. Differt autem quoniam genus quidem prius est, posterius vero proprium (oportet enim esse animal, dehinc dividi differentiis et propriis). Et genus quidem de pluribus speciebus praedicari, proprium vero de una sola specie cuius est proprium. Et proprium quidem conversim praedicatur cuius est proprium, genus vero de nullo conversim praedicatur (nam neque si animal est, homo est, neque si animal est, risibile est; sin vero homo, et risibile est, et e converso). Amplius proprium omni speciei inest cuius est proprium et uni et semper, genus vero omni quidem speciei cuius fuerit genus et semper, non autem soli. Amplius species quidem interemptae non simul interimunt genera, propria vero interempta simul interimunt quorum sunt propria, et his quorum sunt propria interemptis et ipsa simul interimuntur. Generis vero et accidentis commune est de pluribus (quemadmodum dictum est) praedicari sive separabilium sit sive inseparabilium; et enim moueri de pluribus, et nigrum de coruis et hominibus et Aethiopibus et aliquibus inanimatis. Differt autem genus accidente quoniam genus ante species est, accidentia vero speciebus inferiora sunt; nam si etiam inseparabile sumatur accidens sed tamen prius est illud cui accidit quam accidens. Et genere quidem quae participant aequaliter participant, accidente vero non aequaliter; intentionem enim et remissionem suscipit accidentium participatio, generum vero minime. Et accidentia quidem in individuis principaliter subsistunt, genera vero et species naturaliter priora sunt individuis substantiis. Et genera quidem in eo quod quid est praedicantur de his quae sub ipsis sunt, accidentia vero in eo quod quale aliquid est vel quomodo se habeat unumquodque; "Qualis est" enim "Aethiops?" interrogatus dicis "Niger", et quemadmodum se Socrates habeat, dicis quoniam sedet vel ambulat. Genus vero quo aliis quattuor differat dictum est. Contingit autem etiam unumquodque aliorum differre ab aliis quattuor, ut, cum quinque quidem sint, unum autem ab aliis quattuor differat, quater quinque uiginti fiant omnes differentiae; sed, semper posterioribus enumeratis et secundis quidem una differentia superatis (propterea quoniam iam sumpta est), tertiis vero, duabus, quartis vero tribus, quintis vero quattuor, decem omnes fiunt (quattuor, tres, duae, una). Genus enim differt differentia et specie et proprio et accidenti; quattuor igitur sunt omnes differentiae. Differentia vero quo differt genere dictum est quando quo differret genus ab ea dicebatur; relinquitur igitur quo differat specie et proprio et accidente dicere, et fiunt tres. Rursus species quo quidem differat a differentia dictum est quando quo differret specie differentia dicebatur, quo autem differt species genere dictum est quando quo differret genus specie dicebatur; reliquum est igitur ut quo differat proprio et accidente dicatur; duae igitur etiam istae sunt differentiae. Proprium autem quo differat accidente relinquitur, nam quo specie et differentia et genere differt praedictum est in illorum ad ipsum differentia. Quattuor igitur sumptis generis ad alia differentiis, tribus vero differentiae, duabus autem speciei, una autem proprii ad accidens, decem erunt omnes; quarum quattuor quae erant generis ad reliqua superius demonstravimus. Commune ergo differentiae et speciei est aequaliter participari; homine enim aequaliter participant particulares homines et rationali differentia. Commune vero est et semper adesse his quae participant; semper enim Socrates rationalis et semper Socrates homo. Proprium autem differentiae quidem est in eo quod quale sit praedicari, speciei vero in eo quod quid est; nam, et si homo velut qualitas accipiatur, non simpliciter erit qualitas sed secundum id quod generi aduenientes differentiae eam constituerunt. Amplius differentia quidem in pluribus saepe speciebus consideratur (quemadmodum quadrupes in pluribus animalibus specie differentibus), species vero in solis his quae sub specie sunt individuis est. Amplius differentia prima est ab ea specie quae est secundum ipsam; simul enim ablatum rationale interimit hominem, homo vero interemptus non aufert rationale, cum sit deus. Amplius differentia quidem componitur cum alia differentia (rationale enim et mortale compositum est in substantia hominis), species vero speciei non componitur ut gignat aliquam aliam speciem (quidam enim equus cuidam asino permiscetur ad muli generationem, equus autem simpliciter asino numquam conveniens perficiet mulum). Differentia vero et proprium commune quidem habent aequaliter participari ab his quae eorum participant; aequaliter enim rationalia rationalia sunt et risibilia risibilia sunt. Et semper et omni adesse commune utrisque est; sive enim curtetur qui est bipes, non substantiam perimit sed ad quod natum est semper dicitur; nam et risibile, eo quod natum est habet id quod est semper sed non eo quod semper rideat. Proprium autem differentiae est quoniam haec quidem de pluribus speciebus dicitur saepe ut rationale de homine et deo, proprium vero in una sola specie cuius est proprium. Et differentia quidem illis est consequens quorum est differentia sed non convertitur, propria vero conversim praedicantur quorum sunt propria idcirco quoniam convertuntur. Differentiae autem et accidenti commune quidem est de pluribus dici, commune vero ad ea quae sunt inseparabilia accidentia semper et omnibus adesse; bipes enim semper adest omnibus coruis, et nigrum esse similiter. Differunt autem quoniam differentia quidem continet et non continetur (continet enim rationalitas hominem), accidentia vero quodam quidem modo continent eo quod in pluribus sint, quodam vero modo continentur eo quod non unius accidentis susceptibilia sunt subiecta sed plurimorum. Et differentia quidem inintendibilis est et inremissibilis, accidentia vero magis et minus recipiunt. Et impermixtae quidem sunt contrariae differentiae, mista vero contraria accidentia. Huiusmodi quidem communiones et proprietates differentiae et caeterorum sunt. Species vero quo quidem differat a genere et differentia dictum est in eo quod dicebamus quo genus differt caeteris et quo differentia differret caeteris. Speciei autem et proprii commune est de se invicem praedicari; nam, si homo, risibile est, et si risibile, homo est (risibile vero quoniam secundum id quod natum est dicitur, saepe iam dictum est); aequaliter enim sunt species his quae eorum participant et propria quorum sunt propria. Differt autem species proprio quoniam species quidem potest et aliis genus esse, proprium vero et aliarum specierum esse impossibile est. Et species quidem ante subsistit quam proprium, proprium vero postea fit in specie; oportet enim hominem esse ut sit risibile. Amplius species quidem semper actu adest subiecto, proprium vero aliquando potestate; homo enim semper actu est Socrates, non vero semper ridet quamuis sit natus semper risibilis. Amplius quorum termini differentes, et ipsa sunt differentia; est autem speciei quidem sub genere esse et de pluribus et differentibus numero in eo quod quid est praedicari et caetera huiusmodi, proprii vero quod est soli et semper et omni adesse. Speciei vero et accidentis commune quidem est de pluribus praedicari; rarae vero aliae sunt communitates propterea quoniam plurimum a se distant accidens et cui accidit. Propria vero utriusque sunt, speciei quidem in eo quod quid est praedicari de his quorum est species, accidentis autem in eo quod quale quiddam est vel aliquo modo se habens. Et unamquamque substantiam una quidem specie participare, pluribus autem accidentibus et separabilibus et inseparabilibus. Et species quidem ante subintellegi quam accidentia vel si sint inseparabilia (oportet enim esse subiectum ut illi aliquid accidat), accidentia vero posterioris generis sunt et aduenticiae naturae. Et speciei quidem participatio aequaliter est, accidentis vero, vel si inseparabile sit, non aequaliter; Aethiops enim alio Aethiope habebit colorem vel intentum amplius vel remissum secundum nigritudinem. Restat igitur de proprio et accidenti dicere; quo enim proprium specie et differentia et genere differt, dictum est. Commune autem proprii et inseparabilis accidentis est quod praeter ea numquam consistant illa in quibus considerantur; quemadmodum enim praeter risibile non subsistit homo, ita nec praeter nigredinem subsistit Aethiops. Et quemadmodum semper et omni adest proprium, sic et inseparabile accidens. Differunt autem quoniam proprium uni soli speciei adest (quemadmodum risibile homini), inseparabile vero accidens, ut nigrum, non solum Aethiopi sed etiam coruo adest et carboni et ebeno et quibusdam aliis. Quare proprium conversim praedicatur de eo cuius est proprium et est aequaliter, inseparabile vero accidens conversim non praedicatur. Et propriorum quidem aequalis est participatio, accidentium vero haec quidem magis, illa vero minus. Sunt quidem etiam aliae communitates vel proprietates eorum quae dicta sunt sed sufficiunt etiam haec ad discretionem eorum communitatisque traditionem.  Hiemantis anni tempore in Aureliae montibus concesseramus atque ibi tunc, cum violentior auster eiecisset noctis placidam atque exturbasset quietem, recensere libitum est ea ƿ quae doctissimi viri ad illuminandas quodammodo res intellectus densitate caliginantissimas quibusdam quasi introductoriis commentariis ediderunt. Eius vero rei Fabius initium fecit, qui cum me lectulo recumbentem et quaedam super eisdem rebus cogitantem meditantemque vidisset, hortatus est, ut, quod saepe eram pollicitus, aliquam illi eius rei traderem disciplinatu. Complacitum est igitur, quoniam tunc et familiarium salutationes et domestica negotia cessabant. Interrogatus ergo a me super quibus vellet rebus enodare atque expedire, tunc Fabius: Quoniam, inquit, tempus ad studia uacat et hoc otium in honestum negotium converti licet, rogo ut mihi explices id quod Victorinus orator sui temporis ferme doctissimus Porphyrii per Isagogen, id est per introductionem in Aristotelis Categorias dicitur transtulisse. Et primum didascalicis quibusdam me imbue, quibus expositores vel etiam commentatores, ut discipulorum animos docibilitate quadam assuescant, utuntur. Tunc ego: Sex omnino, inquam, Magistri in omni expositione praelibant. Praedocent enim quae sit cuiuscumque operis intentio, quod apud illos skopou" vocatur; secundum, quae utilitas, quod a Graecis crhusimon appellatur; tertium, qui ordo, quod tauxin vocant; quartum, si eius cuius esse opus dicitur, germanus propriusque liber est, quod gnhusion interpretari solent; quintum, quae sit eius operis inscriptio, quod eipigrafhun Graeci nominant. In hoc etiam quod intentionem cuiusque libri insollerter interpretarentur, de inscriptione quoque operis apud quosdam minus callentes haesitatum est. Sextum est id dicere, ad quam partem philosophiae cuiuscumque libri ducatur intentio quod Graeca oratione dicitur eii" poi~on meuro" filosofiva" ainaugetai. Haec ergo omnia in quolibet philosophiae libro quaeri convenit atque expediri. Tunc Fabius quae esset introductionis intentio interrogavit. Et ego inquam: Aristoteles, cui factus est introductionis pons, non aliter intellegi potest, nisi ipsas res de quibus disputaturus est ad intellegentiam praeparemus. Videns enim Porphyrius quod in rebus omnibus essent quaedam prima natura, ex quibus omnia velut ex aliquo fonte manarent, et illa quae prima essent, et substantia esse et generis vocabulo nuncupari; porro autem numquam esse genus posse, nisi ei quaedam aliau subderentur, et quae essent subdita, species appellari; porro autem numquam genus uni speciei genus esse posse sed pluribus; plures autem species non posse esse multiplices, nisi eas aliqua discretio separaret -- si enim nihil sibi dissimiles forent, una species, non multiplices viderentur; illa igitur divisio et dissimilitudo specierum ƿ differentiae nomine vocitatur, omnia vero quae aliqua re differunt, fieri aliter non potest, nisi quibusdam propriis solitariisque naturis insignita sint. Atque haec hactenus -- videns ergo quod omnis omnium disparilitas in gemina rerum principia secaretur, in substantiam atque accidens, ita ut neque accidens sine substantia neque sine accidenti substantia esse posset -- accidens quippe sine aliquo substantiae fundamento esse non potest, substantia vero ipsa sine superiecto accidenti videli nullo modo potest. Ut enim color sit, quod est accidens, in corpore erit, quod est substantia. Porro autem cum corpus, id est substantiam videris, insignitam eam accidenti, id est aliquo colore respicies. Itaque fit ut neque substantia praeter accidens sit neque accidens a substantia relinquatur; ubi enim substantia fait, mox accidens consecutum est -- speculatus igitur Porphyrius in his duabus rebus, id est accidenti et substantia, genera, species, propria differentiasque versari et quod ipsa per se sint genera subiectis et subiacentibus speciebus, quae differentiis et propriis insignitae sunt, statuit principaliter de genere, specie, differentia propriisque tractare. Et quoniam tractatus hic in definitionibus, ut post docebimus, proderit, si quis autem in definitione generali ponat accidens, eum non recte definire manifestum est, quod suo loco tractabitur, statuit pauca de accidentibus praelibare. Ita enim nos prudentissimus doctor instituit, ut tunc in definitionibus quibuslibet plenam scientiam queamus accipere, cum quod prosit, dictum sit et quod non sit utile, segregetur. Haec igitur huius operis est intentio, de genere, specie, differentiis, propriis accidentibusque tractare. Hic Fabius: Expedisti, inquit, de intentione, nunc utilitatem explica. ÐVaria, inquam, et multiplex in hoc corpore commoditas utilitasque versatur. Primum enim in Aristotelis Categorias perquam uberrime prodest. Quid autem prosit, dicemus, cum de eius libri inscriptione tractabimus sed in quibus aliis prosit, paucis philosophiae ipsius divisione facta perstringam. Et prius quid sit ipsa philosophia considerandum est. Est enim philosophia amor et studium et amicitia quodammodo sapientiae, sapientiae vero non huius, quae in artibus quibusdam et in aliqua fabrili scientia notitiaque versatur sed illius sapientiae, quae nullius indigens, vivax mens et sola rerum primaeua ratio est. Est autem hic amor sapientiae intellegentis animi ab illa pura sapientia illuminatio et quodammodo ad se ipsam retractio atque aduocatio, ut videatur studium sapientiae studium divinitatis et purae mentis illius amicitia. Haec igitur sapientia cuncto equidem animarum generi meritum suae divinitatis imponit et ad propriam naturae vim puritatemque reducit. Hinc nascitur speculationum cogitationumque veritas et sancta puraque actuum castimonia. Quae res in ipsius philosophiae divisionem sectionemque convertitur. ƿ Est enim philosophia genus, species vero duae, una quae theoretica dicitur, altera quae practica, id est speculativa et activa. Erunt autem et tot speculativae philosophiae species, quot sunt res in quibus iustae speculatio considerationis habetur, quotque actuum diversitates, tot species varietatesque virtutum. Est igitur theoretices, id est contemplativae vel speculativae, triplex diversitas atque ipsa pars philosophiae in tres species dividitur. Est enim una theoretices pars de intellectibilibus, alia de intellegibilibus, alia de naturalibus. Tunc interpellavit Fabius miratusque est, quid hoc novi sermonis esset, quod unam speculativae partem intellectibilem nominassem. Nohtau, inquam, quoniam Latino sermone numquam dictum repperi, intellectibilia egomet mea verbi compositione vocavi. Est enim intellectibile quod unum atque idem per se in propria semper divinitate consistens nullis umquam sensibus sed sola tantum mente intellectuque capitur. Quae res ad speculationem dei atque ad animi incorporalitatem considerationemque verae philosophiae indagatione componitur: quam partem Graeci qeologivan nominant. Secunda vero est pars intellegibilis, quae primam intellectibilem cogitatione atque intellegentia comprehendit. Quae est omnium caelestium supernae divinitatis operum et quicquid sub lunari globo beatiore animo atque ƿ puriore substantia valet et postremo humanarum animarum quae omnia cum prioris illius intellectibilis substantiae fuissent corporum tactu ab intellectibilibus ad intellegibilia degenerarunt ut non magis ipsa intellegantur quam intellegant et intellegentiae puritate tunc beatiora sint, quotiens sese intellectibilibus applicarint. Tertia theoretices species est quae circa corpora atque eorum scientiam cognitionemqtle versatur: quae est physiologia, quae naturas corporum passionesque declarat secunda vero, intellegibilium substantia, merito medio collocata est, quod habeat et corporum animationem et quodammodo vivificationem et intellectibilium considerationem cognitionemque. Practicae vero philosophiae, quam activam superius dici demonstratum est, huius quoque triplex est divisio. Est enim prima quae sui curam gerens cunctis sese erigit, exornat augetque virtutibus, nihil in vita admittens quo non gaudeat, nihil faciens paenitendum. Secunda vero est quae rei publicae curam suscipiens cunctorum saluti suae providentiae sollertia et iustitiae libra et fortitudinis stabilitate et temperantiae patientia medetur; tertia vero, quae familiaris rei officium mediocri componens dispositione distribuit. Sunt harum etiam aliae subdivisiones, quas nunc persequi supersedendum est. Ad haec igitur ut fieri possint et ut superiora intellegi queant, necessarius maxime uberrimusque fructus est artis eius quam Graeci logikhun, nos rationalem possumus dicere. Quod ƿ recta orationis ratione quid verum quidque decens sit, nullo erroris flexu diverticulove fallatur. Quam quidem artem quidam partem philosophiae, quidam non partem sed ferramentum et quodammodo supellectilem iudicarunt. Qua autem id utrique impulsi ratione crediderint, alio erit in opere commemorandum. Haec autem generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis disputatio in omni nobis philosophiae cognitione quas quandam viam parat. Nam cum quid genus sit docemur, quid species, intellegimus genus esse philosophiam, species vero indubitanter theoreticen et practicen. De logica vero, utrum sit species, eadem hac possumus ratione perpendere. Prodest nobis differentiae cognitio ad ipsarum philosophiae specierum differentias cognoscendas. Prodest proprii scientia ad cognoscendum quid unicuique philosophiae differentiae solitaria natura videatur substantia innatum. Prodest accidentis cognitio quid principaliter in rebus sit cernere et quid secundo contingentique loco veniat, discernere. Ita nobis harum quinque rerum scientia ramosa quadam et multifida vi in omnes sese philosophiae partes infundit. Ad grammaticam vero non minor huius rei usus est, quando per orationem genus, octo vero partes orationis per genera, species, differentias propriaque metimur. Est vero huius rei perquam rhetoricae amica coniunctaque cognitio. Ita enim rhetoricam in tribus causarum possumus separare generibus et eas in subiectis constitutionibus dissecare. Definitionum quoque, quod ad logicam pertinet, magna ƿ atque utilis uberrimaque cognitio est; quas definitiones nisi per genera, species, differentias proprietatesque tractaveris mlllus umquam definitionibus terminus imponetur. Nam si quid definies, ex quo sit genere primum tibi dicendum est, atque in hoc genus speciesque consummata sit. Nam cuiuscumque rei genus dixeris, ad quam rem illud dixeris, speciem facis, ut si quid sit homo definias, dicas hominem esse animal igitur quoniam ad hominem aptasti animal, genus esse animal et hominem speciem a te declaratum est. Sed non sufficit sola generis in definitione monstratio. Si enim solum animal hominem esse dixeris, non potius hominem quam bovem aut equum definitione depinxeris. Prodest igitur etiam differentias adhibere, per quas id quod definies ab speciebus aliis seiungatur, ut dicas hominem esse animal rationale. Et quoniam sub eadem differentia plures frequenter species inveniuntur, ut sub rationali deus atque homo, utilissimus proprietatis usus est, ut id dicas quod sola quam definis species suum propriumque retineat. Fit ergo huiuscemodi hominis definitio: homo est animal, id est genus, homo vero species; rationale, quod differentia est; risus capax, quod proprium est. Accidentium vero in definitionibus nullus usus est. Prodest ergo in definitionibus harum quinque rerum cognitio; ut nec ea quae sunt utilia praetermittas nec ea quae nihil praestant commoditatis adiungas. In divisione vero tantum prodest, ut nisi per horum scientiam nulla res recte distribui secarique possit. Nam quae generum vel specierum recta distributio divisiove erit, ubi ipsarum per quas dividitur rerum nulla scientiae cognitione dirigimur? ƿ Probationum vero veritas in his maxime constituta est, quod per ea quae dividis, id quod dividis vel quid aliud probas. Nam Marcus Tullius in Rhetoricorum primo, quoniam divisionem generum causarum rite atque ordinate faciebat, eius rei probationem ita esse debere per species generaque disposuit, cum ait easdem res aliis superponi, aliis supponi posse, eisdem et subiectas et superpositas esse non posse. Haec fere de utilitate ad tempus dicenda credidimus. Tunc Fabius: Demiror, inquit, cur inchoanti mihi tam subtilius inventas exercitatasque res edideris. Sed dic, quaeso, quodnam hoc tuum fuit consilium? Ego dicam tibi: quod assuescendus animus auditoris et mediocri subtilitate imbuendus est, ut cum sese hic primum exercuerit palaestra ingenii, quasi quodammodo prius luctatus ea quae sequentur sine ullo labore conficiat. Sed 'quid restat?' dicas licebit. Et Fabius: Ordinem, inquit, restare arbitror, si bene commemini. ÑAtqui, inquam, hic ordo valde cum inscriptione coniunctus est. Si enim alterutrum noris, ambo noveris. Ordo tamen est quod omnes post Porphyrium ingredientes ad logicam huius primum libelli traditores fuerunt, quod primus hic ad simplicitatem tenuitatis usque progressus, quo procedentibus viandum sit, praeparat. Aristoteles enim quoniam dialecticae ƿ atque apodicticae disciplinae volebat posteris ordinem scientiamque contradere, vidit apodicticam dialecticamque vim uno syllogismi ordine contineri. Scribit itaque priores Resolutorios, quos Graeci iAnalutikouu" vocant, qui legendi essent antequam aliquid dialecticae vel apodicticae artis attingerent. In primis enim Resolutoriis de syllogismorum ordine, complexione figurisque tractatur. Et quoniam syllogismus genus est apodictici et dialectici syllogismi, dialecticam vero in Topicis suis exercuit, aipoudeixin in secundis Resolutoriis ordinavit, horum disciplina, quam ille in monstrandis syllogismis ante collegerat, prius etiam in studiis lectitatur. Itaque prius primi Resolutorii, qui de syllogismi sunt, quam secundi Resolutorii, qui de apodictico syllogismo, vel Topica, quae de dialectico syllogismo sunt, accipiuntur. Traxit igitur Aristoteles dialecticam atque apodicticam scientiam adunavitque in syllogismorum resolutoria disputatione. Sed quoniam syllogismum ex propositionibus constare necesse est, librum Peri; eIrmhneiva" qui inscribitur, 'de propositionibus' adnotavit. Omnes vero propositiones ex sermonibus aliguid significantibus componuntur. ƿ Itaque liber quem de decem praedicamentis scripsit, quae apud Graecos kathgorivai dicuntur, de primis rerum nominibus significationibusque est. Vidit enim Aristoteles infinitam miscellamque esse rerum omnium verborumque disparilitatem et, ut eorum ordinem reperiret, in decem primis sermonibus prima rerum genera significantibus omne quicquid illud vel rerum vel sermonum poterat esse, collegit. Sed Aristoteles hactenus. Speculatus autem Porphyrius si categoriae genera sunt rerum, rerum vero sermonumque diversitas speciebus, differentiis propriisque insigniretur, videns etiam quod accidentium in categoriis magna vis esset -- omnes enim res Aristoteles in duas primum dividit partes, in accidens atque substantiam, et accidens in novem membra dispersit dicens aut substantiam esse quamcumque illam rem aut si accidens esset, quoniam aut qualitas aut quantitas aut ad aliquid aut ubi aut quando aut iacere aut habere aut facere esset aut pati -- praelibat igitur nobis Porphyrius ad horum verissimam cognitionem hoc de generibus, speciebus, differentiis, propriis accidentibusque tractatu. Sic igitur cum ante apodicticam dialecticamque rem syllogistica praelegatur, ante syllogisticam in propositionibus primus labor sit, ante propositiones in categoriis pauca desudent, ante categorias quae generibus, speciebus, differentiis, propriis accidentibusque censentur, ordo est de his ipsis rebus pauca praelibare. Recte igitur et filo lineae quodam hic Porphyrii liber primus legentibus studiorum praegustator et quodammodo initiator occurrit. Quodsi in hac re quod dictum est sat est, rem etiam de inscriptione confecimus. Quo enim alio melius quam introductionis nomine nuncuparetur hic liber? Est namque ad Categorias Aristotelis introitus et quaedam quasi ianua venientes admittet. Tunc Fabius: Perge, quaeso te, et si eius hoc proprium germanumque opus est collige. ÑHoc, inquam, indubitatum est, omnibus enim Porphyrii libris stilus hic convenit. Et mos hic Porphyrio est, ut in his rebus quae sunt obscurissimae, introducenda quaedam et praegustanda praecurrat, ut alio quodam libro de categoricis syllogismis fecit et de multis item aliis quae in philosophia gravia illustriaque versantur. Et hoc apud superiores indubitatum est, quibus nos nolle credere inscitia est. ÑTunc Fabius: Restat, inquit, ut ad quam partem philosophiae ducatur, edisseras. Ego dicam tibi. Quoniam categoriae ad propositiones aptantur, syllogismi de propositionibus componuntur, apodictici vero vel dialectici syllogismi in logicae artis disciplina vertuntur, constat quoque categorias, quae ad propositiones syllogismosque pertinent, logicae scientiae esse conexas. Quare introductio quoque in categorias ad logicam scientiam convenienter aptabitur. Quoniam ea quae praedicuntur explicui, nunc textus ipsius ratio atque ordo videatur. Tunc Fahius: Priusquam explanatio sensus procedat, id scire desidero, cur cum posset dicere 'cum necessarium sit', praeposterato ordine cum sit necessarium dixit. Et ego: Quoniam, inquam, nullum accidens est, quod non substantiae fundamento nitatur. Porro autem quicquid ad cuiuslibet superiecti firmitatem est, id antequam ipsum esset, fuisse necesse est. Ut enim in domibus, nisi prius fundamenta subicias, nulla umquam fabrica, sic, nisi prius substantiae fundamenta sint, nulla umquam accidentia superponentur. oportet enim prius esse aliquid, ut formam qualitatis arripiat, nam 'necessarium' qualitas est. Non absurde igitur prius 'esse' posuit, post etiam 'necessarium', id est post substantiam qualitatis nomen aptavit. Hic Fabius: Subtilissime, inquit, et lucide sed nunc ordo ipse operis testusque videatur. CUM SIT NECESSARIUM, MENANTI, SIVE AD ARISTOTELIS CATEGORIAS SIVE AD DEFINITIONIS DISCIPLINAM, NOSSE QUID GENUS SIT QUIDVE SPECIES, QUID DIFFERENTIA, QUID PROPRIUM, QUID ACCIDENS, OMNINO ENIM AD EA QUAE SUNT DIVISIONIS VEL QUAE PROBATIONIS, QUORUM UTILITATIS EST MAGNAE COGNITIO, BREVITER TIBI EXPLICARE TEMPTABO. QUAE APUD ANTIQUOS QUIDEM ALTE ET MAGNIFICE QUAESTIONUM GENERA PROPOSITA SUNT, EGO SIMPLICI SERMONE CUM QUADAM CONIECTURA IN RES ALIAS ISTA EXPLICABO MEDIOCRITER. Nunc ego: Praediximus quidem pauca superius sed vel his quaedam addere vel haec eadem rursus commemorare absurdum esse non arbitror. Totus autem sensus talis est. Scribens ad Menantium de utilitate libri summatim pauca praedixit, quo elucubratior animus auditoris exercitatiorque ad haec capienda perveniat. Prodesse autem ad Aristotelis Categorias dicit, quod, cum omnem sermonum significantium varietatem diversa rerum summa divideret et in substantiam atque accidens omnes res secaret atque dispergeret, accidens in novem secuit partes, quod superius demonstravi, et haec genera generalissima nominavit, id est genikwutata, quod super ista alia genera inveniri non possint. Igitur si sunt genera, sine speciebus esse non possunt. Si sub his species supponuntur, differentiis non uacabunt. Quodsi differentias retinent, propriis indigebunt. Accidentis vero novem praedicamenta sunt. Quocirca non absurdum fuit hinc introductionem in Praedicamenta componi, ut de generibus, speciebus, differentiis propriisque tractaret, quae in ipsis Praedicamentis inseparabiliter videntur inserta. Amplius, quod Aristotelica subtilitas, priusquam ad praedicamentorum ordinem veniretur, de aequivocis univocisque tractavit, definit vero aequivoca sic: AEQUIVOCA SUNT QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO ALIA ut si qua sunt quae nomine tantum communicent, substantia vero dissimilent, univoca vero, quae sub eodem nomine et sub eadem substantia continentur. omne igitur genus ad species quae sunt sub ipso positae, univoce praedicari potest. Porro autem quicquid ad quaslibet res aequivoce praedicatur, in his sola differentia est, genus vero speciesque non convertitur. Animal enim et homo univocum est. Animal enim animalis nomine dicitur, porro autem nomini nomen etiam convenit animalis, ut dicatur animal: uno ergo nomine animalis homo et animal appellatur. Animalis vero definitio est 'substantia animata sensibilis': quam si ad hominem vertas, nihil absurdum feceris; potest enim esse homo substantia animata sensibilis sed animal genus, homo vero species. Univoce igitur genus et species praedicantur. Aequivoca vero quae fuerint, quoniam definitionibus differunt et eorum quorum definitiones aliae sunt, alia est etiam et substantia, quorum alia substantia est, alia sunt etiam omnino genera, in his, id est aequivocis, constat quod neque genus neque species possit aptari. Ut enim si quis hominem marmoreum et hominem vivum hominis nomine appellet, idem nomen fecerit substantiae, differentia vero definitioneque dissimili. Porro autem hominis et statuae non unum genus est sed statuae inanimatum, hominis animatum. Quare constat quoniam numquam sub eisdem generibus continentur quaecumque aequivoce praedicantur. Quam vim, nisi prius de generibus, speciebus, propriis et differentiis notitiam scientiamque perceperis, nullo umquam tempore discernes. Idem Aristoteles ait quid sint primae substantiae, quid secundae. Et primas substantias dicit esse individuorum corporum et singulorum, ut est Cicero aut Plato aut Socrates, secundas vero substantiis species appellavit, ut est homo, vel genera, in quibus ipsae species continentur, ut est animal. Haec igitur nisi praelibata generis specieique cognitione sciri non possunt. Idem ait substantiam ad aliam substantiam in eo quod substantia sit, nulla differentia disgregari. Idem substantiae proprietates requirit, ut quasi inpresso aliquo signo, sic proprietate nota facilius quid substantia sit invenire atque expedire possimus. Atque hoc idem in accidentibus fecit. Nam et quantitatis et qualitatis et ad aliquid relationis propria collegit, et idem magna apud Aristotelem cura diligentiaque conspicitur. Videsne ut sese quinque harum rerum vis in categorias interserat et praedicamentorum virtutibus inseparabiliter colligetor? non mendax igitur Porphyrius de hac quinque harum rerum nobis in Categorias utilitate promisit. Definitionis vero disciplinam superius diximus praeter genela, species, differentias et propria non posse tractari. Sed quoniam sunt quaedam genera quae genus habere non possunt, ut est substantia vel alia quae Aristoteles in praedicamentis constituit. Dicat quis ad haec horum cognitionem nihil omnino prodesse. Quod non sit in his a genere trahenda definitio in quibus genus inveniri non possit, quod, si qua res genus non ƿ haberet, species non esset; hoc ita posito ad generalissimarum generum definitionem nihil genera et species utilitatis habere. Ridicula mehercule atque absurda propositio! Praeter scientiam enim generum specierumque magis genera illa generalissima cognoscere qui potis est, cum, haec sola generum specierumque cognitio si amissa sit, nihil de generibus speciebusque noscatur? In illis igitur in quibus genus aliud superius inveniri non potest, nullus umquam terminus definitionis aptabitur et in ipsius definitione genera speciesque cessabunt et solae differentiae propriaque illius terminum definitionis informant. Cum enim id quod dicis, ab aliis rebus omnibus adiunctis differentiis segregaveris et propriis inpressis formam eius figuramque monstraveris, genus quod invenire non poteris. Perquirere non labores. Sed in his species et genera non requiruntur in quibus, quod ipsa generalissima sint genera, genus inveniri non queat. Porro autem in his quorum genus est aliquid, nisi a genere definitio ducatur, finis eius definitionis vitiosa conclusione colligitur. Accidens vero ad definitiones nihil prodesse non dubium est. Definitio enim substantiam informare desiderat, accidens vero substantiam non designat. Accidens igitur in definitione nihil prodest. Est itaque necessaria generis specieique cognitio, ut si generalissima non sint quae quisque definiturus est, a genere definitionem trahat, si vero generalissima sint, ut genus quaerere, quod inveniri non potest, non laboret. Aeque enim vitiosum est vel in generalissimis genera quaerere vel subalternis generibus a generibus definitionem ducere supersedere. Differentiae vero et propria, vel si magis genera sunt vel si subalterna, maximam retinent utilitatem. Et quoniam ad definitiones quae pertinent quaedam dicta sunt, pauca etiam de his ipsis rationabilius subtiliusque colligemus. Sit genus animal, sit species homo, sit differentia rationale vel mortale, sit proprium risibile; accidens vero quoniam ad definitiones in commodum est, praetermittamus. Quisquis ergo speciem definit, ita genere ab aliis eam generibus separat, ut si quis dicat 'quid est homo?' 'animal' dicat. Dicens enim animal separavit hominem ab omnibus generibus quaecumque animalia non sunt. Si quis vero differentiam dicat et eam ad speciem accommodet, res sub eisdem generibus per differentias disgregavit. Nam cum dicis hominem esse animal rationale, eum etiam et bos et equus species animalis sint, additum tamen rationale homini ab aliis sub eodem genere speciebus hominis speciem segregavit atque distinxit propria vero cum dederis, res quae sunt sub eisdem differentlis segregabis. Nam cum dixeris hinnibile vel risibile, illud est equi proprium, illud hominis. Et cum equus cum bove atque cane sub eadem differentia sit, quod irrationabilia sunt omnia, adiectum hinnibile a caeteris equum sub eadem differentia speciebus dividit. Homo vero et deus sub eadem differentia, id est rationali, quod utrique rationales sunt, quamvis homo et deus adiuncta mortali differentia separentur, proprio tamen, id est risibili, quod solus habet homo, naturalius ƿ substantialiusque disiungitur. Quod in aliis rebus in quibus nullas species talis differentia separat, melius cognosci potest. Nam cum sub eadem differentia sint irrationabilia, equus, bos, canis, nec sit ulla alia quae eos separet differentia substalltialis -- possunt enim accidentis differentiae esse quae eos separent, quales sunt formarum -- additum proprium hinnibile equum ab aliis sub eadem differentia speciebus proprietatis ipsius separatione disiunxit. Repetendum est igitur a primordio quod genera in definitionibus ab aliis generibus separant, differentiae ab ipsis speciebus quae sub eisdem generibus positae sunt, propria ab speciebus quae sub eisdem differentiis supponuntur. Sed quoniam plenede definitione tractatum est, probationis vel divisionis vim subtilitatemque tractemus. Sed omnis divisio duplex est, aut cum totum corpus in diversa disiungis aut cum genera per species distribuis. Si quis igitur harum quinque rerum minus sollers divisiones rerum facere voluerit, non est dubium quin eas per inscientiam saepe ab speciebus in genera solvat, quod est factu foedissimum. Quod Hermagorae in prima Rhetoricorum disputatione usu venit. In tales enim erroris nebulas incidit, ut duo genera sub aequalis generis parte supponeret. Quodsi divisionum vim veritatemque vidisset et disciplinam generum, specierum, propriorum et ƿ differentiarum suscepisset, numquam tam insulsae divisionis errore tam vivacissime a Marco Tullio culparetur. In probationibus vero tantus est huius operis fructus, ut praeter hoc nullius umquam rei possit provenire probatio. Quid enim digne monstrare queas, cuius si differentias nescias, id ipsum quale sit scire non possis? Quid autem digne exequeris, cuius si genus nescias, ex quo id ipsum fonte manet ignores? vel quid in probationibus ratione possis ostendere, cuius si speciem nescias, id ipsum de quo aliquid probare vis, quid sit non possis agnoscere? Quodsi propria praetermittas, nullas umquam res valebis propriae termino probationis includere. At vero si non vim accidentium naturamque perspicias, cum de cuiusque substantia tractes, inane accidentis nomen aeque in definitionibus probationibusque miscebis. Ita his rebus cognitis integra stabilisque divisio et definitio permanebit, incognitis debilis lababit et trunca probatio. Haec se igitur Porphyrius, non enim Victorinus, breviter mediocriterque promittit exponere. Nec enim introductionis vice fungeretur, si ea nobis a primordio fundaret ad quae nobis haec tam clara introductio praeparatur. Servat igitur introductionis modum doctissima parcitas disputandi, ut ingredientium viam ad obscurissimas rerum caligines aliquo quasi doctrinae lumine temperaret. Dicit enim apud antiquos alta et magnifica quaestione disserta quae ipse nunc parce breviterque ƿ composuit. Quid autem de his a priscis philosophiae tractatoribus dissertum sit, breviter ipse tangit et praeterit. Tunc Fabius: Quid illud, inquit, est? Et ego: Hoc, inquam, quod ait se omnino praetermittere genera ipsa et species, utrum vere subsistant an intellectu solo et mente teneantur, an corporalia ista sint an incorporalia, et utrum separata an ipsis sensibilirbus iuncta. De his sese, quoniam altior esset disputatio, tacere promisit, nos autem adhibito moderationis freno mediocriter unumquodque tangamus. Eorum ergo quae se transire et praetermittere pollicetur, prima est quaestio, utrum genera ipsa et species vere sint an in solis intellectibus nuda inaniaque fingantur. Quae quaestio huiusmodi est. Quoniam hominum multiformis est animus, per sensuum qualitatem res sensibus subiectas intellegit et ex his quadam speculatione concepta viam sibi ad incorporalia intellegenda praemunit, ut cum singulos homines videam, eos quoque me vidisse cognoscam et quia homines sint, me intellexisse profitear. Hinc igitur ducta intellegentia velut iam sensibilium cognitione roborata sublimiori sese intellectu considerationis extollit et iam speciem ipsam hominis, quae sub animali est posita, et singulos homines continere suspicatur et illud incorporeum intellegit cuius aote particulas corporales in singulis hominibus sentiendis et intellegendis assumpserat. Nam hominem quidem illum specialem, qui nos ƿ omnes intra sui nominis ambitum cohercet, non est dicere corporalem, quippe quem sola mente intellegentiaque concipimus. Sic igitur mens rerum nixa primordiis altiori atque incomparabili intellegentia sublimatur. Hinc ergo animus non solum per sensibilia res incorporales intellegendi est artifex sed etiam fingendi sibi atque etiam mentiendi. Inde enim ex forma equi vel hominis falsam Centaurorum speciem sibi ipsa intellegentia comparavit. Has igitur mentis considerationes quae a rerum sensu ad intellegentiam profectae vel illtelleguntur vel certe finguntur, fantasiva" Graeci dicunt, a nobis visa poterunt nominari. Ita ergo nunc de generibus, speciebus et caeteris quaerunt, utrum haec vere subsistentia et quodammodo essentia constantiaque intellegantur, ut a corporalibus singulis vere atque integre ductam hominis speciem intellegamus, an certe quadam animi imaginatione fingantur, ut ille Horatii versus est: HUMANO CAPITI CERUICEM PICTOR EQUINAM IUNGERE SI VELIT  quod neque est neque esse poterit sed sola falsa mentis consideratione pingitur. Nimis acute subtilis inquisitio atque ad rem maxime profutura! Scienda enim sunt utrum vere sint nec esse de his disputationem considerationemque, si non sint. Sed si rerum veritatem atque integritatem perpendas, non est  dubium quin vere sint. Nam cum res omnes quae vere sunt, sine his quinque esse non possint, has ipsas quinque res vere intellectas esse non dubites. Sunt autem in rebus omnibus conglutinatae et quodammodo coniunctae atque compactae. Cur enim Aristoteles de primis decem sermonibus genera rerum significantibus disputaret vel eorum differentias propriaque colligeret et principaliter de accidentibus dissereret, nisi haec in rebus intimata et quodammodo adunata vidisset? Quod si ita est, non est dubium quin vere sint et certa animi consideratione teneantur. Quod ipsius quoque Porphyrii probatur assensu. Nam quasi iam probato et scito quod ista vere subsistant, aliam quaestionem inferre non dubitat, cum dicit: an corporalia ista sint an incorporalia. Quae nimis esset frivola atque absurda quaestio, utrum essent corporalia, nisi prius esse constaret. Haec quoque non mediocriter utilis inquisitio ita resolvitur: incorporalia esse quae ipsa quidem nullis sensibus capiantur, animi tamen qualia sint consideratione clarescunt. Nam quia incorporeorum prima natura est, potest res incorporea parens esse quodammodo corporeae. Corporea vero incorporeis praeesse non poterunt, quod, quoniam substantia genus est, corporale vero et incorporale species substantiae, corporale non esse genus haec res declarat, quod substantiae, id est generi, incorporale supponitur. Quodsi corporale esset genus, numquam sub eo species incorporea poneretur. Animadverte igitur vehementissime, quam numquam ƿ quicquam a te animadversum fuit. Genus ipsum quoniam species habet, species vero differentiis disiunguntur et proprietatibus informantur, quoniam quaedam species reperiuntur quae in contraria sub genere divisione contrarias obtineant vices, ut sub animali rationale atque irrationale contraria sunt et sub rationali mortale atque immortale et haec quoque contraria, quaeritur, si animal solitario intellectu neque rationale neque irrationale sit, unde hae differentiae in speciebus natae sint, quae in genere ante non fuerant. Quodsi genus, id est animal, utrasque res in se habet, ut et rationale et irrationale sit, in uno eodemque duo contraria eveniunt, quod est impossibile. Accingam igitur breviter quaestionem et dicam quod non genus utrumque sit, id est rationale vel irrationale, vel quicquid aliud inter se species per contrarietates dividunt sed vi sua et potestate genus, hoc continet, ipsum vero nihil horum est. Ita ergo genus tale est, ut ipsum neque corporale neque incorporale sit, utrumque tamen ex se possit efficere, quod secundo libro melius liquebit. Species alias corporalis, alias incorporalis est. Nam si hominem sub substantia ponas, corporalem speciem posuisti, sin deum, incorporalem. Eodem modo etiam differentiae. Nam si corporales vel incorporales ƿ species dividunt, erunt alias incorporales, alio tempore corporales, ut si dicas 'quadrupes' ad bipedem, corporalis differentia est sed 'rationalis' ad irrationalem, incorporalis differentia est. Et propria nihilominus eodem modo. Nam aequale speciei proprium fuerit: si corporalis, corporale erit proprium, si incorporalis, incorporale vindicabitur. Et accidens eodem modo. Nam si incorporalibus quid accidit, incorporale esse manifestum est, ut in animo accidens est scientia, incorporalis scilicet, corporalibus vero quae accidunt, corporalia esse manifestum est, ut si quis dicat accidens me habere capillum crispum. Si igitur genus neutrum per se ipsum est sed utrasque res es se ipso efficere potest, species, differentia, propria et accidentia ut accepta in contrarias species fuerint, proinde vel corporalia vel incorporalia vocabuntur. Sed sunt quibus hoc ipsum integrum videri possit, et haec solum incorporalia esse definiunt. Qui sic dicunt, non considerari genus in eo quod quaeque res suapte natura constat sed in eo quod genus sit. Itaque si substantia genus est, non consideratur in eo quod substantia est sed in eo quod sub se species habet. Item si species corporeum et incorporeum est, non in eo quod deus vel homo dicitur, consideratur sed in eo quod est sub genere. Eodem modo etiam differentiae non cons'iderantur in eo quod bipes vel quadrupes sit sed in eo quod est differentia. Nam quadrupes hoc ipsum nulla differentia est, nisi sit bipes a quo differat. Itaque non quadrupes vel bipes respicitur sed id quod medium est in bipede et quadrupede, id est differentia: et de proprio idem. Nam quod cuiusque est proprium, in eo proprium consideratur quod eius cuius dicitur esse proprium speciei solius est. Nam 'risibilis' non in eo proprium hominis quod risus est sed in eo quod solus homo potest ridere. Quae manifeste incorporalia esse indubitatum est. Deinde accidentia proinde sunt, qualia fuerint ea quibus accidunt, ut superius dictum est. Sed hi probare videntur hoc ipsius Porphyrii sententia, qui, veluti iam probato quodi ncorporea sint, ita ait: ET UTRUM SEPARATA AN IPSIS SENSIBILIBUS IUNCTA, quod, si esse haec aliquando corporalia extitisset, absurdum esset quaerere utrum incorporalia seiuncta essent a sensibilibus an iuncta, cum sensibilia ipsa sint corpora. Talis autem est quaestio, ut quoniam quaedam incorporales sunt res, quae omnino corpora non patiuntur, ut ƿ animus vel deus, quaedam vero quae sine corporibus esse non possunt, ut prima post terminos incorporalitas, quaedam autem quae in corporibus sunt et praeter corpora sese esse patiuntur, ut anima -- quaeritur ergo hae quinque res ex quo incorporalitatis sint genere, utrum eorum quae omnino separantur a corpore an quae a corporibus separari non possunt an quae iungantur aliquotiens, aliquotiens segregentur. Videtur autem quod et segregari et iungi possint. Nam quando corporalium divisio per genera in species fit et eorum propria et differentiae nominantur, haec circa sensibilia, id est corporalia esse non dubium est; cum vero de incorporalibus rebus tractatus habetur et per ea ipsa dividuntur quae corpore carent, circa incorporalia versantur. Quodsi boc est, non est dubium quod quinque haec ex eodem sunt genere, quod et praeter corpora separata esse possint et corporibus iungi patiantur sed ita, ut si corporibus iuncta fuerint, inseparabilia a corporibus sint, si vero incorporalibus, numquam ab incorporalibus separentur et utrasque in se contineant potestates. Nam si corporalibus iunguntur, talia sunt, qualis illa prima post terminos incorporalitas, quae numquam discedit a corpore, si vero incorporalibus, talia sunt, qualis est animus, qui numquam corpori copulatur. Haec sese igitur Porphyrius tacere pollicitus breviter ƿ mediocriterque super his rebus tractare promittit habita in res alias consideratione aut coniectura, quod simile est ac si diceret: quoniam haec ad praedicamenta et ad definitiones et ad divisiones et ad probationes pertinent, ideo haec tractaturus assumo et eatenus de his disseram, quatenus in supra dictis rebus proficiunt, non quatenus de his ipsis generibus speciebusque et caeteris tractari possit. SUNT ENIM ILLA, ut ipse ait, GRAVIORIS TRACTATUS; QUAM DOCTRINAM A PERIPATETICIS ACCEPTAM, id est ab Aristotelicis, SE SEQUI confessus est. Nam Stoici, qui de his quoque rebus tractare voluerunt, non omnino a Porphyrio suscipiuntur, atque ideo ait se a Peripateticis rationem disputationis accipere. Tunc me Fabius ita percunctatus: Quid est, inquit, quod dudum dixeras, cum a te de incorporalibus tractaretur, esse quasdam incorporalitates quae circa corpus semper consisterent, ut sunt primae incorporalitates post terminos? Quae est haec incorporalitas aut quos terminos dicis? Non enim intellego. ÑEt ego: Longas, inquam, tractatus est et nihil nobis ad hanc rem quam quaerimus profuturus. Sed dicam breviter terminos me dixisse extremitates earum quae in geometria sunt figurarum, de incorporalitate vero quae circa terminos constat, si Macrobii Theodosii doctissimi viri primum librum quem de Somnio Scipionis composuit in manibus sumpseris, plenius uberiusque cognosces. Sed nunc ad sequentia transeamus. Tunc Fabius: Ut placet, inquit, simulque sic incipit: VIDETUR ENIM NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER APPELLARI, ID EST UNO MODO. GENUS NAMQUE DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID QUODAMMODO HABENTIUM COLLECTIO, PER QUAM DARDANIDUM DICITUR GENUS. DICITUR RURSUS GENUS UNIUSCUIUSQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE AUT AB EO IN QUO QUIS GENITUS EST. Caetera, inquit, fere nota sunt. Tunc ego: Si vim prius aequivocationis aspicias, divisionem generis diligenter agnosces. Placet enim per generis nomen cum sibi subectis aequivoca nominare. Aequivoca vero sunt quae, cum nomine una sint, longe diversa substantiae ratione et definitione discreta sunt, ut si quis hanc verbi gratia statuam Veneris <Venerem> appellet. Congruunt igitur Venus ipsa et statua Veneris unius nuncupatione vocabuli, quod utrisque Veneris nomen est. Si quis vero qui sit utrumque definiat, longe aliam Veneris, aliam lapidis rationem definitionemque constituet. Speciebus igitur illa esse aequivoca quae uno vocabulo appellentur, definitionibus vero diversis ƿ constituantur, clarescet, ut opinor, participatione generis quam Porphyrius fecit, non Victorinus, visa. Omne enim quicquid a genere in species ducitur, univocum. non aequivocum est. Univocum est quod et eodem nomine vocari et eadem definitione constitui potest, ut est animal genus, homo vero species sed idem homo animal est. Genus igitur et species, id est animal atque homo, possunt unius animalis nomine nuncupari, ut utrumque animal vocetur sed eadem definitionibus non discrepent. Nam si definitionem reddas animalis, dicas id esse animal quod est substantia animata sensibilis; quam si definitionem ad hominem vertas, non erit absurdum dicere hominem substantiam esse animatam atque sensibilem sicut animal, sicut iam superius dictum est. Si enim univoca sunt quae uno nomine atque eadem definitione constituuntur, aequivoca vero quae uno nomine sunt et non sunt una definitione substantiae, quicquid univocum est, in his genera speciesque versantur, quicquid aequivocum est, non est in eis talis participatio, ut speciebus et generibus censeantur quae enim erit in his generis specieique cognitio, in quibus substantiae definitio atque integerrima ratio disgregatur? Ita ergo Porphyrius nomen generis ƿ in tres dividit formas sed ut aequivoca, non ut univoca, id est ut hae formae uno quidem generis nomine contineantur, sui autem proprietate disgregata dissentiant. Sed Porphyrius nomen generis hoc modo in tres dividit partes, ut dicat vocari semel genus de eorunr inter se plurimorumque collectione qui ab uno quocumque nomen generis trahunt, ut Romani a Romulo trahentes genus ex eodem genere esse dicuntur. Secundo vero loco dici genus affirmat, ut cuiuscumque est nationis principium aut a generante aut a loco in quo quis natus est, ut Aeneam ab Anchisa et genere dicimus esse Troianum. TERTIUM VERO GENUS DICIT ILLUD CUI SPECIES SUPPONITUR. Victorinus vero duo superiora genera in unum redigit. Nam et multitudinis congruentiam inter se per eandem generis nuncupationem et quorumcumque a genere lineam et locum in quo quis natus est, uno generis vocabulo et designatione esse declarat. Addit autem ipse quod soli Latinae linguae congruere possit: dicit enim SECUNDO MODO GENUS DICI. UT EST GENUS CAUSAE HONESTUM. Quae genera causarum Graeci in rhetorica arte genera esse non putant sed schumata vocant id est figuras, genera autem sola principalia accipiunt, demonstrativum, deliberativum scilicet et iudiciale. Quae ipsa ƿ ei[dh rIhtorikh`" vocant, id est species rhetoricae, genera vero causarum. Tertium vero genus est id quod Porphyrius ponit, id est sub quo differentiis distributae species supponuntur. Sed quoniam de tertio genere tractaturus est, Victorini culpam vel, si ita contingit, emendationem aequi bonique faciamus. Nunc ergo ad priorem apud Victorinum generis significationem reuertamur et eius ut sunt verba enodanda atque expedienda sumamus. GENUS NAMQUE inquit DICITUR QUORUNDAM AD ALIQUID QUODAMMODO HABENTIUM COLLECTIO. Hic ergo utrumque monstravit, et cognationem inter se multitudinis et lineae ductum. Nam cum dicit genus esse quorundam collectionem ad se invicem quodammodo habentium, id est aliqua inter se cognatione, iunctorum, et quod addidit ET AD ALIQUID, generis lineam significat, quam singuli contingentes et ad unum sese ipsius generationis applicatione iungentes plures ex eadem linea iuncti atque cognati sunt, ut sit hic ordo: genus dicitur quorundam collectio quodammodo ad aliquem habentium, id est alicuius lineam per genus contingentium, ut per collectionem cognationem demonstret et per habitudinem quodammodo ad aliquem colligatam lineam generis ductumque designet. Sequitur ergo et id planius lucidiusque significat, cum dicit: DICITUR RURSUS GENUS CUIUSCUMQUE NATIVITATIS PRINCIPIUM AUT A GENERANTE ƿ AUT AB EO IN QUO QUIS GENITUS EST. Id ipsum latius expedit quod superius stricto et sentuoso brevitatis vinculo colligaverat. Dicit enim rursus dici genus aut a generante aut a loco in quo quis natus est. Sed rursus particula si ad hoc conectatur quod ait aut ab eo in quo quis genitus est, intellectus non titubat, ut sit ordo: dicitur genus uniuscuiusque nativitatis principium aut a generante aut rursus ab eo in quo quis genitus est. Vel certe erit simplicior expositio. Si priorem generis significationem, id est quorundam ad aliquem quodammodo habentium collectionem, ad solius cognationem multitudinis accipiamus, lineae vero ductum et loci generationem in subteriore significatione distribui, ita tamen, ut una quodammodo generis significatiolle et multitudinis cognationem et a generante lineam et loci nativitatem significet. Haec enim omnia de sola cuiuslibet natione tractantur. Quare non absurdum est quae omnia ad ortum genitalem cuiuslibet pertineant. Una significatione generis contineri. Propriae tamen et simplicissimae expositionis est quattuor significationes generis constituisse Victorinum, ut ad tres Porphyrii unam ipse addiderit generis causae, ut sint hae quattuor significationes, multitudinis cognatio, lineae ductus, genus causae, genus specierum. Sequitur secunda generis divisio apud Victorinum UT EST GENUS CAUSAE: quae Graeci, ut dictum est, Non genera sed schumata vocant. Tertiae vero significationis generis, hic modus est GENUS DICI CUI SUPPONITUR SPECIES, id est genus illud a quo species derivantur, quod ait ad superiorum fortasse similitudinem aequitatemque dispositum. Sic enim genus speciebus suis principium est, ut Romulus his, qui ab eo cognati sunt iunctique Romani item eodem modo nomen Romuli Romanos omnes continet, quemadmodum nomine generis species continentur. Nam sicut a Dardano Dardanidae prioris nomen Dardani in sese ipsos posteriores accipiunt, ita et animal cum verbi gratia species habeat hominem atque equum, equus scilicet atque homo animalis in se vocabulum capere, ut dicantur ipsa animalia non recusant. Eodem igitur modo species sub generibus continentur, quemadmodum cognati homines sub illo a quo illam cognationem forte traxerunt. Nam et genus speciebus principium est et plurimarum in se specierum collectivum est. Rursus primum cognationis nomen et ipsius generationis est principium et in illius solius vocabulo diversitas hominum vocabuli et generis participatione colligitur, atque hoc est quod ait his verbis: ALITER DICITUR GENUS CUI SUPPONUNTUR SPECIES, IUXTA SIMILITUDINEM FORTE SUPERIORUM APPELLATUM ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST GENUS HIS QUAE SUB IPSO SUNT ET VIDETUR MULTITUDINEM CONTINERE OMNIUM QUAE SUB SE SUNT. Sed cautissime additum est videtur. Si enim nihil haec omnia distarent, una significatio generis esset et ea quae in species funditur et ea quae in cognatione dividitur. Sed est inter haec ƿ genera talis diversitas, quod genera earum specierum quae sub se habent alias species, aequaevis speciebus aequaliter sunt genera. Hominem enim et equum, qui sub animali sunt, neutrum neutro possumus dicere prius ad tempus inchoationemque nascendi. Nam si qua res una sit prior, altera posterior et eas sub uniuscuiusque generis nomine quis velit aptare, non poterit; genus enim speciebus suis aequaliter genus est. Quodsi genus speciebus suis aequaliter genus est, species ipsae eius ordinis inter se aequali tempore ortuque censentur. At vero in generibus quae cognationes efficiunt, non ita est. Quisquis enim fuit Capis pater, qui Capuam condidit, si solum filium Capin progenuit et ab uno Capuanorum cognatio iunctioque cuncta manavit, distat a genere cui species supponuntur, quod genus uni speciei genus numquam esse potest nisi pluribus, quod quoniam est idoneum genus illud, id est principium cognationum, etiam ab uno filio colligere et congregare cognationem, quod genus per species ductum facere non potest, nisi plures species supponantur, constat in hoc distare genus quod cognationem colligit, ab eo a quo species dividuntur. Potest autem distare in hoc etiam, quod genus, id est principium cognationis, potest habere sub se duos ex se non aequali temporis conditione progenitos sed alium posterioris ortus, alium vero senioris, quod in generibus speciebusque non convenit. Nam, ut ƿ superius dictum est, species nisi sibi aequales fuerint, non merito sed natura, sub genere poni non possunt. His igitur expeditis sequitur: TOTIENS IGITUR DE GENERE DICTO DE POSTREMA SIGNIFICATIONE INTER PHILOSOPHOS DISPUTATIO EST, QUOD DEFINIENTES ITA DECLARANT -- Quod dicit TOTIENS, tertio demonstrare vult atque hoc propter lucidam operis seriem admissum est, ut, quoniam genus plurimorum nomen est, omnis eius primum significatio diceretur, ut de qua disputandum esset, aliis reiectis eligeret. Quod ait hoc modo: cum totiens, id est tertio, genus dicatur, apud philosophos, id est unde ipse tractaturus est, de postrema generis significatione quam dixit, id est de illo genere quod sub se species habet, disputatio consideratioque vertitur. At vero de superioribus generibus id est de cognatione et loco in quo quis genitus est, aut historicorum aut poetarum spectatio est secundi vero generis rhetorum, tertii philosophorum consideratio est. Etiam hic in disputationibus ordo est, quod, cum inciderent res quae multis possit nominibus nuncupari et de unoquoque eorum vocabulo tractari disserique, necesse est dici prius in ordinem omnia, ut id quod eligitur et reicitur distinguatur. Sed illa quae reicienda atque explodenda sunt, prius dicantur, illud vero quod disserendum tractandumque, ƿ capitur, posterius nominetur, ut hic illa posterior generis significatio posita est, quam disserendam accepturus prius definiendam et termino quodam circumscribendam demonstrandamque suscepit. Omnis enim res, nisi quid prius sit constiterit. Eius tractatus uacuo modo speculationis habebitur. Definit igitur sic: genus esse quod ad plures differentias specie distantes in eo quod quid sit praedicatur, velut animal. Quod definitionis talis est. Omnia quae distant, habent inter se quandam differentiam qua distare et differre videantur. Porro autem si quid sit genus et sub eo species supponantur, duas vel plures necesse est species poni sub genere, quoniam unius speciei genus esse non potest. Sed si plurimae species erunt, aliqua necesse est differentia dividantur, aliter cnim plures esse non possunt. Nam si nihil distent, non erunt plures species et nomen generis perit. Constat igitur eas sub genere poni species quae differentiis distributae plures numero ipsarum differentiarum divisionibus componantur. Ergo, quoniam superius dictum est in omnibus definitionibus a genere definitionis trahendum esse principium, si quam cuiuslibet speciem definile volueris, genus primo necesse est nominabis et ad illam speciem quam definis, generis ipsius nomen prius aptabis. Et hoc illam principaliter dicis esse, quod est illud genus sub quo ipsa species quam definis est posita. Post autem differentiis propriisque eam ab aliis circumscriptione quadam definitionis ƿ excludis. Nam si dicis animal esse hominem, animal genus est, species vero homo. Nomen igitur animalis, id est generis, de homine, id est specie, praedicasti, cum dixeris hominem esse animal. Quodsi nomen generis in definitionibus ad unam speciem dicere posses, de ea nomen generis praedicares. Species autem aequali modo generibus suis species sunt, nihil uetat, immo etiam necesse est semper quaecumque sunt genera, de sibi subiectis speciebus in definitionibus vel in quibuslibet interrogationibus praedicari. Sed quoniam praedicatur genus de speciebus, quomodo praedicetur agnoscendum est. Nam si dixeris: quid est homo? Et aliquis responderit animal, bene et integre respondisse videtur, et certe. Nam cum tu quid sit homo interrogaveris, ille respondit animal, genus scilicet de specie in eo quod quid sit species praedicavit. Nam tu quid esset species interrogasti, ille vero in eo quod quid sit species quam interrogasti, animalis nomen, id est generis accommodavit. Plena igitur et propria definitio facta est generis, 'hoc esse genus quod ad plurimas differentias specie distantes in eo quod quid sit appellatur, velut animal'; animal enim ad hominem, equum, bovem, coruum, anguem et alia plura quae differentiis speciebusque differunt, in eo quod quid sit appellatur. Sed utrum sic dixisset, genus esse quod ad plurimas species differentia distantes in, eo quod quid sit praedicetur, an, sicut dixit, 'genus esse quod ad plurimas differentias specie distantes in ƿ eo quod quid sit praedicatur', nihil interest. Nam sive differentiae specie distent sive species differentiis distent, utrumque idem est. Nam sive rationale et irrationale, quae sunt differentiae, specie hominis verbi gratia atque equi distent, sive species homo atque equus differentia rationali atque irrationali dividantur et distent, nihil interest. Quare plena perfectaque facta est generis definitio. Sed definitiones duplicibus modis fiunt. Una enim definitio est quae, sicut dictum est, a genere trahitur. Sed quoniam sunt quaedam magis genera, quae super se genus aliud habere non possunt, ut sunt praedicamentas decem quae Aristoteles constituit, eorum igitur definitio quae haberi potest quorum genus inveniri non potest, quod omnium quaecumque sunt, ipsa sunt genera? horum ergo quos Graeci vipografikou;" lougou" dicunt, Latini subscriptivas rationes dicere possunt, reddemus. Subscriptivae autem rationes sunt demonstrativae et quodammodo insignitivae proprietatis illius rei quae cum ipsa generalissima sit et genus eius nullum reperiri possit, eam tamen definire necesse est. Et Aristoteles, quoniam substantiam genus generalissimum definire volebat et eius nullum genus poterat invenire, proprietatem quandam et demonstrationem subscriptionemque ipsius rei dixit esse subiectum. Substantia enim omnibus subiecta est. Accidens enim, quod in novem ƿ dividitur partes, praeter substantiam esse non potest. Atque ideo omnia quaecumque definienda sunt, si genus non habeant, eorum subscriptivam quandam et demonstrativam rationem reddi necesse est. Sic igitur nunc generis, quoniam rem ipsam definiendam putabat, non duxit a genere definitionem sed dedit quandam generis demonstrationem proprietatemque. Dico autem quod Porphyrius vel subalternorum generum vel illorum quae generalissima sunt, hanc dederit definitionem et quodammodo subscriptionem demonstrationemque. Nam si quod genus habeat aliud genus et item hoc ipsum aliud et item aliud si nullum erit supra genus quod genus non habeat, in infinitum procedit ratio. Sin vero non habuerit, necesse est quoque istam definitionem apte ordinateque congruere. Dico autem genus non animal homini atque equo sed illud quo ipsum animal homini atque equo genus est. Animal enim ipsum per sese nulli genus est neque homo ipsum per sese ulli species est neque equus ipsum per sese ulli species est sed sunt genera et species ad alterius participationem. Nam quoniam sub animali est equus atque homo, non ad se ipsum animal genus est sed ad equum atque hominem. Et item species quae vocantur, homo scilicet atque equus, non ad equum atque hominem sed ad animal, species sunt. Dico igitur genus <et species> non ipsas substantias in quibus genus et species sunt. Sed ipsam participationem priorum ad subteriores et subterioram ad priores. Haec igitur participatio quoniam et in magis ƿ generibus et in magis speciebus et in subalternis generibus et in subalternis speciebus una atque eadem est et huius participationis inveniri genus non poterat. Haec definitio generis quae facta est, non a genere tracta est sed subscriptiva ratio et demonstrativa et designatitla quodammodo generis est reddita. Hic Fabius: Subtiliter mehercule et quod numquam fere ante haec audivimus. Sed perge, quaeso te. Iam enim certant sidera quodammodo et nox luce superatur. ÑTunc ego: Sequitur rerum omnium prima brevisque divisio. Ita enim ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD UNITATEM DICUNTUR, SICUT SUNT OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD, ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS SUNT. Brevis, ut supra dictum est, et distincta divisio. Omnis enim res aut unius rei nomen est aut plurimarum, et hoc est quod ait: eorum quae dicuntur, alia ad unitatem dicuntur, sicut sunt omnia individua. Quid autem sit, breviter explicandum est. Omne genus quoniam sub se ƿ species habet, species vero differentiis distinguuntur et proprietatibus explicantur -- accidunt autem in speciebus accidentia secundo loco, principaliter vero in individuis quae sunt sub speciebus. Quid autem sit, posterius dicendum est -- genera igitur et de speciebus dicuntur et de differentiis, quae ipsas species distribuunt, et de propriis. Quae species componunt. Et de his accidentibus quae, cum principaliter in individuis fuerint, in speciebus esse dicuntur. Hoc autem monstremus exemplis. Et sit nobis genus animal, sit species homo, sit differenti rationale, sit proprium risibile, sit accidens stans vel ambulans vel aliquid in mensura corporis, ut tripedalis. Animal ergo, quod genus est, dicitur de specie, id est de homine; dicis enim hominem esse animal. Porro autem de speciei differentia nihilominus dicis genus: dicis enim rationale esse animal. Nihil autem prohibet eodem modo et de proprio genus dicere. Nam si dicas: quid est risibile? non absurdum est animal nominare. Accidentia vero hoc modo principaliter in individuis, secundo vero loco in speciebus sunt. Nam si quis dicat ad singulos homines, ut puta Ciceronem sedere vel stare vel quod aliud libet, in specie hominis eadem quoque convenire necesse est. Nam si Cicero sedet sedet etiam homo, si Cicero ambulat, ambulat etiam homo. Ergo si qua accidentia venerint ab individuis et ea tracta in speciebus consederint, ad ipsa quoque accidentia dici poterit genus. Quid est enim ambulans, si quis interroget, merito animal dicitur. Nihil enim ambulare nisi animal potest. Porro autem sub speciebus individua sunt, ut Cicero et Virgilius sub homine, atque de individuo ƿ genus speciei praedicari potest. Nam si interrogaveris, quid est Cicero, merito animal dicas. Genus igitur et ad speciem et ad differentias et ad accidentia et ad propria et ad individua nominatur. Porro autem species non iam de genere neque de differentiis sed de solis propriis et subiectis individuis appellatur, in illis, id est individuis, quia superest. In propriis vero, quia aequalis est. Quid autem sit, hoc modo videamus. omnia genera speciebus suis supersunt et abundant. Abundare autem genera dicimus speciebus plus habere genera virtutis quam species. Homo enim quod est species, solum homo est, animal vero quod est genus, non solum homo est sed et equus vel bos vel quod aliud libet animali supponere. Ita maior vis generis recte de minori sibi et subiecta specie praedicatur. Alia vero sunt quae sibi sunt paria, ut sunt propria et species. Species est homo, proprium risibile. Quicquid ergo fuerit risibile, hoc est homo, quicquid homo, hoc risibile. Itaque neque risibile hominis neque homo risibilis potentiam superuadit sed aequalia sibi ad se invicem praedicari possunt, ut dicas: quid est homo? risibile; quid est risibile? homo. Ita igitur quaecumque superiora fuerint, ad illa quae subteriora sunt, praedicantur et quaecumque aequalia fuerint. Aequaliter sibi ad se invicem praedicantur. Illa vero quae subteriora sunt et minora, de superioribus et abundantibus, ut sunt genera et species -- genera enim abundantia, species minores -- praedicari non possunt. Numquam enim recte speciem de genere praedicabis. Ita ergo species de proprio praedicatur ut pari sed quoniam sub speciebus singillatim individua sunt -- individua autem vocamus quae in nullas species neque in aliquas iam alias partes dividi possunt, ut est Cato vel Plato vel Cicero et quicquid hominum singulorum est; hos enim in nullis partibus dividis, ut animal in species, hominem scilicet atque equum, hominem ipsum specialem et singulos circumplectentem in Catonem, Platonem, Virgilium et omnes singillatim homines distributos; hominem vero ipsum singulum, id est Ciceronem, in nullos alios distribuere possumus atque ideo a[tomon, id est individuum, vocitatum est -- species ergo, quae ad propria aequaliter praedicatur, ad individua, quoniam maior est species hominis quam quodlibet individuum, ita praedicatur, ut superius ad id quod est subterius. Cicero enim solus Cicero est, homo autem non solum est Cicero quod si ad individua praedicatur, et ad individuornm accidentia praedicabitur. Ita igitur species ad genus eo quod superius est, non praedicatur neque ad differentiam, quia differentia, ut nunc monstraturi sumus, super speciem est, ad proprium vero, cui par est, vel ad individuum, cui superest, praedicatur. Differentia vero et ad species et ad propria et ad individua praedicatur. Namque rationale, quod est differentia, ad hominem praedicatur, quod est species. Item rationale, id ƿ est differentia, praedicatur ad risibile, id est proprium. Dicitur enim id esse risibile, quod rationale. Nam si homo rational et homo risibile, constat id quod est risibile, etiam rationale posse nominari. Quodsi ad species differentia dicitur, species autem ad individua praedicatur. Necesse est ut differentia quoque ad individua praedicetur. Dicis enim: qualis est Cicero? rationalis. Quodsi differentia ad individua praedicatur, accidentia vero in individuis accidunt. Necesse est differentias et ad accidentia praedicari. Proprium vero quoniam semper unius speciei proprium est, et ad ullam speciem praedicatur solam. Cuius est proprium. Risibile namque, quod proprium est ad solam hominis speciem praedicatur. Quod si ad hominis speciem praedicatur. Species vero ad individua dicitur. Non est dubium quin proprium quoque de individuis praedicetur. Nam si homo risibile animal est, Cicero quoque et Virgilius risibilia animalia recte dicuntur. Quodsi proprium ad individua recte dicitur, recte etiam et de accidentibus praedicatur quae in ipsis accidunt individuis. Accidentia vero ipsa et de speciebus et de aliis omnibus praedicantur et de ipsis maxime individuis. Namque et albus equus et albus homo dicitur et iterum niger equus et niger Aethiops. Quod si ita est, animal quoque nigrum dicitur. Dicitur etiam rationale nigrum et irrationale nigrum, quippe si equus et homo Aethiops nigri sunt. Dicitur etiam risibile nigrum, cum homo quis niger fuerit. Dicitur etiam individuum nigrum, cum quis unus homo ex Aethiopia nominatur. Quod cum ita sit, constat genus ad plurima praedicari, id est ƿ speciem, differentias, accidentia propriaque et individua, nihilominus et differentiam ad plurima praedicari, id est ad speciem, propria, individua et accidentia, et proprium ad plurima, id est speciem, individua et accidentia, et speciem ad plurima, id est proprium, individua et accidentia, accidens vero et ad genus et ad speciem et ad proprium et ad differentiam at ad individua. Quod si ita est, has quinque res constat ad plurima praedicari. At vero individuum quoniam sub se nihil habet, ad singularitatem quandam et unitatem praedicatur. Cicero enim unus est et ad unum nomen istud aptatur. Ita individua quae ad unitatem dicuntur, cunctis superioribus supposita sunt, ut genus, species, differentia, propria vel accidentia, quamvis ad se invicem dici possunt, ad individua tamen aequaliter praedicantur, ut superius demonstratum est. Individua vero quoniam sub se nihil habent ubi secari distribuique possint, ad nihil aliud praedicantur nisi ad se ipsa, quae singula atque una sunt. Atque hoc est quod ait: EORUM QUAE DICUNTUR, ALIA AD UNITATEM DICUNTUR, SICUT OMNIA INDIVIDUA, UT EST SOCRATES ET HIC ET ILLUD, ALIA QUAE AD MULTITUDINEM, UT SUNT GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA. HAEC ENIM COMMUNITER, NON UNIUS PROPRIE APPELLATIONIS SUNT. Simile est ac si diceret: haec enim communiter ad plurima praedicantur, non ad unitatem sicut individua. Et quid sint genera vel species vel differentiae vel propria ƿ vel accidentia, exemplum supponit dicens: EST ENIM GENUS, UT ANIMAL, SPECIES, UT HOMO -- quam dudum hominis speciem cum aliis animantibus sub animali posuimus -- DIFFERENTIA, UT RATIONALE -- qua species scilicet hominis ab irrationali distat animal -- PROPRIUM, UT RISIBILE, quod nullum aliud animal neque rationale neque irrationale habet. Nullum enim animal ridet nisi solus homo. Quare, cum quaedam caelestium potestatum animalia rationabilia sint, eorum tamen proprium risibile non est, quoniam non rident. Recte igitur risibile solius hominis proprium praedicatur. ACCIDENS, UT ALBUM, NIGRUM ET SEDERE: quia ista in substantia hominum non sunt, merito accidentia vocantur. Nam si substantiae cuiuscumque speciei inesset id quod accidens dicimus, interempto accidenti periret etiam eius speciei substantia cui accidit. Nam quoniam rationale in hominis substantia est, si rationalitas interimatur, hominis quoque substantia necessarlo peritura est idcirco, quod in ipsius speciei substantia naturaque nersatur. At vero nigrum et album vel quaecumque sunt accidentia si interimas, species ipsa in qua illa accidebant, manet. Nam neque omnis homo candidus neque omnis niger est, et cui alterutra defuerint, eius species non peribit. Atque idcirco haec accidentia, veluti non innata in substantia sed a foris venientia, recte nominata sunt. Nunc ergo, quoniam quid sit genus ostendit et ea quae ƿ ad unitatem dicuntur, ab his quae de plurimis praedicantur distinxit atque distribuit. Ipsius generis differentias vel ab his quae ad unitatem dicuntur vel ab eis quae ad pluralitatem congruunt, id est differentis, specie, proprio accidentique, declarat et dicit genus ab illis quae ad sola individua prae dicantur, id est quae ad unitatem, hoc differre, quod genus ad plurima praedicetur, individua vero ad singula. Sed quoniam haec differentia generis ad individua communis erat differentiis speciebusque, propriis et accidentibus, ab illis ipsis aliis differentiis genus dividit atque disiungit. Quod ita demonstrat: AB HIS IGITUR QUAE AD UNITATEM DICUNTUR, DIFFERT GENUS, QUOD GENUS EST HOC QUOD DE PLURIMIS PRAEDICATUR. AB HIS VERO RELIQUIS GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO PRAEDICATUR. Ac primum generis specieique distantiam monstrat, quae propior est generi. Nam quamvis differentia super speciem sit, super speciem specialissimam differentia ponitur. Nam quamvis rationalis differentia super hominem ponatur, quae species specialissima est, tamen ante speciem specialissimam ƿ ipsa differentia species est eius generis, cui species snecialissima supponitur; nam sub animali ante hominem rationale ponitur. Igitur cum genus et species utraque ad plurima praedicentur, genus vero ad plurimas species in eo quod quid sit praedicetur, species non iam ad plurimas species sed ad plurima individua praedicatur. Sunt autem quaedam genera generalissima, ut dictum est, supra quae aliud genus inveniri non possit. Sunt autem species sub quibus alia species inveniri non possit, et integra species illa nominatur quae numquam genus est, id est sub qua species nullae sunt. Nam si sub ea species essent, ipsa etiam genus esse posset. Species ergo quae vere species est, alias sub se species non habebit, nt est homo. Namque homo quoniam species est, singuli homines qui sub ipso sunt, non eius species sed individua nominantur. Nam si homo genus esset hominum singulorum, genus autem, sicut dictum est, ad plurimas res specie differentes in eo quod quid sit appellatur, homo, id est species, si sicut genus praedicaretur ad singulos homines, singuli homines specie ipsa differrent. Sed quia singuli homines specie non differunt, quod autem specie non differt, si quid ad hoc praedicatum fuerit, non praedicatur ut genus ad species, id est homo non praedicatur ad singulos homines ut genus ad res plurimas specie differentes, quid igitur? Ad res plurimas numero differentes; singuli enim homines numero a se tantum, non specie distant. Atque ideo, quoniam genus sic ad subiecta praedicatur, ut ad plurimas res specie differentes praedicetur, species autem ad subiecta ita praedicatur, ut ad plurimas res numero differentes praedicetur, genus in hoc ab specie distat, quoniam genus ad plurimas res specie differentes praedicatur. Species autem ad plurimas res numero differentes dicitur. Congruunt ergo sibi genus et species, quod genus et species ad plurima praedicantur et utraque in eo quod quid sit. Nam si interroges: quid est Cicero? Animal dicitur, id est genus. Et si interroges: quid est Cicero? Homo dicitur, id est species distant autem, quod quamvis utraque ad plurima praedicentur et in eo quod quid sit, genus praedicatur ad res specie differentes, species vero dicitur ad res tantum numero differentes quod Porphyrius sic demonstrat: AB HIS VERO RELIQUIS QUAE DE PLURIBUS APPELLANTUR, GENUS DIFFERT, PRIMO AB SPECIE, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICATUR, NON TAMEN SPECIE DIFFERENTIBUS SED NUMERO. HOMO ENIM SPECIES CUM SIT, DE SOCRATE, PLATONE, CICERONE PRAEDICATUR, QUI NON SPECIE SED NUMERO DIFFERUNT, ANIMAL VERO QUOD GENUS EST, ET BOVIS ET EQUI PRAEDICATIO EST QUAE ETIAM DIFFERUNT SPECIE A SE INVICEM, NON NUMERO SOLO. Quod simile est ac si diceret genus ab specie unam differentiam plus habere. Congruunt namque genera speciebus, quod utraque in eo quod quid sit praedicantur, ut dictum est. Congruit item et genus et species, quod utraque ad res plulimas praedicantur. Congruit item genus ad species, quod utraque ad les numero differentes praedicantur. Nam et singuli homines sta a se divisi sunt, quantum ad numerum, ut homo ab equo vel a bove vel a coruo vel a quibuslibet aliis animantibus. At vero distat ab specie genus, quod genus de pluribus rebus specie differentibus praedicatur, quod species non habet. Nihil autem differre arbitrator, utrum ita dicatur 'aliam rem ad aliam praedicari' an 'aliam de alia praedicari'. Utrumque enim idem intellectus est. Nam si animal praedicatur ad hominem, idem etiam animal de homine praedicatur. Nam cum interrogaveris: quid est homo? Respondeas de hominis interrogatione hominem esse animal. Sed nunc oportet nos ea quae secuntur aspicere. Quid ergo sequitur? A PROPRIO AUTEM GENUS DIFFERT, QUOD PROPRIUM IUXTA UNAMQUAMQUE SPECIEM PROPRIUM APPELLATUR CUIUS EST PROPRIUM, ET IUXTA EA QUAE SUB SPECIE SUNT, SCILICET INDIVIDUA; NAMQUE RISIBILE HOMINIS SOLUM EST ET SINGULORUM UTIQUE HOMINUM. GENUS AUTEM NON AD UNAM SPECIEM SED AD PLURES DIFFERENTES SEMPER APTATUR. Ergo hoc videtur hic dicere, quoniam omne proprium si fuerit speciei unius, tunc vere est proprium. Nam si unius speciei non fuerit sed duarum vel plurium, tunc duabus vel pluribus non proprium sed erit in substantiae ratione commune. Constat ergo proprium ei cuius est proprium soli speciei singulariter adhaerere. Unde quia hominis species sola est quae ridet, risibile homini proprie et singulariter aptatur. Ad unam semper igitur speciem proprietas adhibetur. Distat igitur proprium a genere, quod genus semper ad plurimas species appellatur, proprium vero de una tantum specie cuius est proprium. Nam si risibile dicas, ad unam tantum speciem hominis appellatur. Congruit autem genus cum proprio in hoc, quod genus et proprium de pluribus appellantur. Namque genus ad plures species appellatur, appellatur etiam genus de his quae sub specie sunt individuis. Nam si homo et equus animal est, erit etiam Cicero animal et quilibet equus singulariter animal nominatur. Similiter et proprium ad plurima dicitur. Dicitur enim ad unamquamque speciem et ad ea individua quae sunt sub specie praedicatur. Nam si homo risibilis est, risibilis est etiam Cicero et Virgilius, et quicumque singulariter nominantur, risibiles sunt. Congruunt etiam, quoniam utraque in eo quod quld sit praedicantur. Nam genus de specie in eo quod quid sit praedicatur. Nam si dicis: quid est homo? Animal appellabis. Item proprium in eo quod quid sit praedicatur. Nam ƿ si dicis: quid est homo? Merito risibile praedicabis. Congruunt autem, quod genus et proprium ad plurimas res numelo differentes praedicantur. Nam ita a se differunt singula animalia, id est homo, equus et coruus et caetera, ut singuli homines, quantum ad numerum. Distat autem a genere, quod genus ad plurimas species praedicatur, proprium vero ad unam solam cuius est proprium nominatur. Sed non est inter genus et proprium eadem differentia, quae est inter speciem et genus. Nam species de nulla omnino specie praedicatur, proprium vero licet non ad plures, ad unam tamen solam speciem, cuius est proprium, semper aptabitur. Post hoc igitur de differentiae accidentisque a genere distantia disserit dicens: A DIFFERENTIA VERO ET AB ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI ETIAM ISTA DE PLURIBUS SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICANTUR, DIFFERENTIAE SCILICET ET ACCIDENTIA QUAE COMMUNITER ACCIDUNT, NON TAMEN IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR, CUM INTERROGANTIBUS NOBIS FIT SECUNDUM EA RESPONSIO; MAGIS ENIM QUALE QUID SIT OSTENDUNT. Differentiam vero et accidens idcirco posterius reservavit, quod eorum unam differentiam erat distantiamque dicturus. Differentia enim et accidens qualitatem cuiuscumque speciei demonstrant. Illa substantiae qualitatem, id est differentia, illud, ƿ id est accidens, non substantiae. Ergo quoniam genus super speciem est et species supposita generi, genus speciem, species individuum quid sit ostendit. Porro autem solae possunt species differentiae segregare quae qualitatibus eas substantialibus, id est substantias declarantibus, seiungunt atque dispertiunt. Nam cum animal genus sit, homo vero vel equus species, quales utraeque species sint monstrat differentiae segregatio, ut dicamus speciem esse hominis rationalem, speciem vero equi irrationalem. Si enim quis interroget: quid est homo? Animal dicitur. Si autem quis dicat: qualis est homo? Rationalis respondetur. Ita semper differentia non in eo quod quid sit sed in eo quod quale sit appellatur. De accidenti vero non dubium est, cum ipsa qualitas in accidentis partibus componatur. Namque in praedicamentis inter alias novem partes accidentis etiam qualitas nominatur. Nam etiam si quis interroget qualis corui species sit, nigra continuo respondetur. Congruunt ergo genera differentiis et accidentibus, quod de speciebus pluribus praedicantur. Nam sicut genus plures sub se species habet, ita differentia. Nam rationale dicimus deum et hominem. rursus etiam accidens de pluribus speciebus praedicatur. Nam nigrum dicimus et hominem et equum et coruum et hebenum et plurimas alias species. Rursus congruit genus differentiae, quod, sicut genus, sic differentia aequaliter ad indiniduum praedicatur. Nam si Cicero animal est, quod est genus, et rationale avimal est. Quod est differentia. Congruunt etiam, quod de numero differentibus praedicantur, quod ƿ superius de aliis monstratum est. Distant autem quod, sicut dictum est, genus in eo quod quid sit appellatur, differentia vero vel accidentia in eo quod quale sit praedicantur. Nam si dicas: quid est homo? Appellabis genus et dicis animal esse hominem, si vero qualis sit ad differentiam interrogaveris, rationale respondebis, vel <ad> accidens, nigrum vel album vel qualis quisque sit de quo interrogatur. His igitur distributis distantias ipsas a primordio rursus orditur dicens: UNDE HOC QUOD DE PLURIBUS PRAEDICATUR GENUS DISTAT AB HIS QUAE DE SINGULIS PRAEDICANTUR, HOC EST AB INDIVIDUIS; ILLO QUOD DE SPECIE DIFFERENTIBUS PRAEDICATUR, DISTAT AB SPECIEBUS ET A PROPRIIS; ILLO ETIAM IN QUO QUID SIT APPELLATUR, SECERNITUR A DIFFERENTIIS ET A COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUOD HAEC DUO QUALE QUID SIT DECLARANT. Hoc dicit distare genus ab individuis, quod genus de pluribus, ut dictum est, praedicatur. Colligit autem et in unum redigit proprii specieique differentias. Nam quoniam species de pluribus non specie sed numero differentibus praedicatur, proprium vero de una tantum specie et de his quae sub eadem specie sunt individuis praedicatur, quamvis de una specie praedicetur, tamen aequa est illi cum specie a genere differentia de pluribus specie differentibus non praedicari. Nam neque species omnino de speciebus aliquibus poterit praedicari ƿ neque proprium, quoniam proprium non de pluribus speciebus sed de una tantum cuius est specie praedicatur. Quod si ita est, una differentia a genere species et propria seiunguntur accidens vero et differentia eadem quoque una a genere differentia separantur, quod genus in eo quod quid sit dicitur, differentia vero vel accidentia in eo quod quale appellantur. Has Porphyrius ad constituendam generis rationem differentias quam parcissime potest colligit et ipsas differentias multis modis posterius probaturus, nunc vero quantum sat est dicit se <neque deminutam neque> abundantem generis constituisse rationem hoc dicens: HOC SI ITA EST, NULLO MINUS AUT PLUS EFFECTA EST GENERIS DEFINITIO. Perfectam plenamque se generis definitionem fecisse dicit, quoniam neque plus neque minus facta sit definitio sed aequaliter ad genus pariterque composita. Quod unde sit, hoc modo monstrandum est. Novimus quod quaedam res quae ad alia praedicantur, his de quibus praedicantur, abundant, ut genera et species. Namque animal, quod genus est, de homine, quod est species, hoc abundat, quod nomen generis etiam in equum atque bovem atque in alia valet aptari. Ergo si quis ad quamlibet rem abun dantem fecerit maioremque definitionem quam ipsa res fuerit quam definit, non erit integra propriaque definitio, quoniam non solum illam rem amplectitur quam definit, ƿ si maior fuerit definitio sed etiam alias quascumque res, quibus ipsius definitionis terminus abundabit. maiorum igitur praedicamentorum maior erit definitio, minorum vero minor erit etiam definitio; animal ergo, quod maius est, ita definiunt: animal est substantia animata sensibilis, hominem vero, quod ab animali minus est, ita definiunt: animal rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile quoniam maius est animal ab homine, maior etiam erit animalis definitio ab hominis definitione. Plus enim erit dicere 'substantia animata sensibilis' quam 'animal rationale et mortale'. Nam substantia animata sensibilis, sicut ipsum animal, non solum hominem complectitur sed etiam equum vel bovem atque alias huiusmodi species. Si quis ergo ad hominem maiorem definitionem aptaverit, quae est animalis, ut ita definiat hominem: homo est substantia animata sensibilis, non est plena definitionis ratio, cum equus atque bos substantia animata atque sensibilis esse possint, quae species hominis non sunt. Si quis vero maiori rei minorem definitionem aptaverit, curtam et deminutam quodammodo faciet rationem. Nam si quis animal definire volens dicat: animal est res rationalis, risus et disciplinae perceptibilis, non erit integra definitio, quoniam sunt quaedam animalia quae istius definitionis rationem subterfugere atque euadere possunt. Est enim animal bos, quod neque rationale sit neque risus perceptibile. Sola igitur relinquuntur bene definiri quaecumque aequalibus definitionibus constituuntur. Ubi autem aequalis definitio sit, hoc modo possumus reperire. Praedicamenta quaecumque fuerint, si maius praedicamentum de minore aliquo praedicatur, converti non potest, ut minus de maiore praedicetur. Semper enim maiora de minoribus, numquam minora de maioribus praedicantur. Nam si quis dicat hominem esse animal, non poterit convertere animal esse hominem. Nam homo nihil aliud, quantum ad genus, nisi animal est, animal, quantum ad species, potest esse etiam non homo. Paria vero praedicamenta semper sibi ipsa invicem convertuntur. Nam quoniam risibile solius est hominis, risibile ad hominem praedicatum etiam converti potest, ut homo ad risibile praedicetur dicitur enim: quid est homo? Risibile. Quid est risibile? Homo. Ergo quascumque definitiones convertere potes, illae verae atque pares sunt, quascumque vero convertere non potes, aut maiores sunt aut minores, pares inveniri non possunt. Nam si dicas hominem substantiam esse animatam atque sensibilem, verum est. Item si convertas et dicas substantiam animatam atque sensibilem esse hominem, non omnino verum dixeris potest enim et substantia animata esse atque sensibilis et homo non esse. Item si dixeris rem rationalem, mortalem, risus et disciplinae capacem esse animal, verum dixeris. Si autem dicas atque convertas animal esse rem rationalem mortalem, risus et disciplinae perceptibilem, non omnino verum dixeris. Potest enim esse animal et non esse rationale et risus capax. Ergo quotiens est maior definitio quam id quod definitur si prius dicitur id quod definitur et maior definitio adhibetur vera esse poterit definitio. Si enim prius dixeris hominem, rem minorem, et ad ipsum posterius adbibueris definitionem maiorem, ut prius dicas 'homo est', et post subiungas 'substantia ƿ animata sensibilis', verum est. Homo enim necessario est substantia animata sensibilis. Si vero prius dixeris definitionem et postea dixeris id quod definies, vera esse non omnino potest. Nam si definitionem maiorem prius dixeris dicens 'substantia animata sensibilis' et postea rem minorem intuleris, ut dicas 'homo est', ut sit 'substantia animata sensibilis homo est', non omnino verum est. Potest enim esse et substantia animata sensibilis, non tamen homo. At vero si minor fuerit definitio quam illa ipsa res quae definitur, si prius dicta sit definitio, vera est, posterius, falsa. Nam si dixeris definitionem quae est minor 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae capax' et post intuleris 'animal est', ut sit 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae capax animal est', vera est. Omnis enim res quae rationalis et mortalis est et risus et disciplinae capax, necessario animal est. At vero si converteris et rem maiorem prius dixeris, post vero minorem definitionem adhibueris, vera omnino esse non potest. Nam si dicas prius 'animal est', postea autem iunxeris 'res rationalis, mortalis, risus et disciplinae perceptibilis', non omnino verum est. Potest enim esse animal et rationale vel mortale non esse. Itaque si maior est definitio quam res fuerit, si prius rem dixeris, postea definitionem intuleris, vera est, si vero prius definitionem dixelis, post rem intuleris, falsa est. In minoribus vero definitionibus et maioribus rebus contra ƿ est. Nam si definitionem prius dixeris, postea rem subieceris vera est, si vero rem prius dixeris, postea definitionem sub ieceris, vera omnino esse non potest. At vero in aequalibus definitionibus converti aequaliter potest. Nam quoniam solius hominis haec est definitio 'animal rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile', aequalis est haec ad hominem definitio, quoniam non est cui alii possit aptari. Itaque vel si prius rem dixeris, postea definitionem subieceris, vera erit, ut est 'homo est animal rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile', sin vero converteris et prius definitionem, postea rem dixeris ut si dicas 'animal quod fuerit rationale, mortale, risus et disciplinae perceptibile homo est', haec quoque vera est. Ita semper ut definitiones verae sint, neque plus neque minus in defini tionibus oportet aptari sed aequalitter definitiones convenienterque disponi. Quod Porphyrius scilicet non ignorans ait se neque plus neque minus effecisse generis definitionem. Et Fabius: Sequitur, inquit, te de specie disputare. ÑDic, inquam, quid sequitur? ÑEt Fabius: Hic, ut opinor, ordo est: SPECIES QUOQUE MULTIS DICITUR MODIS. NAM ET UNIUSCUIUSQUE HOMINIS FORMA SPECIES APPELLATUR. RURSUS IGITUR ET PULCHRITUDO UULTUS, UNDE PULCHERRIMOS QUOSQUE SPECIOSOS DICIMUS. DICITUR SPECIES ET EA QUAE ƿ SUPPOSITA EST GENERI, UNDE ANIMALIS SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT, ET ALBUM COLORIS SPECIEM. Tunc ego: Speciei quoque nomen sicut generis aequivocum puta. Nam et hoc quoque multifariam appellari designat. Dicitur enim, inquit, species et figura corporis et fortasse alia plura. De quibus quoniam nullus tractatus habebatur, iure praetermissa sunt. Hic tamen a Victorino videtur erratum, quod cum idem sit cuiuscumque hominis species et uultus, quasi in alia appellatione speciei uultus iterum pulchritudinem dixit, quasi vero non proinde pulchlitudo uultus sit ac tota species fuerit; nam si quispiam pulcher fuerit toto corpore, etiam uultu. Sed praemissis his ad illam speciem quae sub genere ponitur atque genus efficit veniamus. Namque, ut dictum est, substantiae ipsae nullo speciei nomine generisue censentur, nisi quadam ad se invicem collatione sint comparationeque compositae. Nam quod animal est, non idcirco est genus, quoniam animal est sed idcirco, quod hominis sub se atque equi et caeterorum animantium species habet. Atque idcirco ait: UNDE ANIMALIS SPECIEM APPELLAMUS, CUM ANIMAL IPSUM GENUS SIT; neque enim homo species diceretur, si super ipsum animalis appellatio non praedicaretur. Sed ut monstraret non in unis solis substantiis genera speciesque versari sed etiam in omnium praedicamentorum nuncupationibus ƿ esse conexa, non solius substantiae dedit exemplum sed etiam eius quod reliquum remanserat, accidentis. Quid enim ait et album coloris speciem: quae sunt in accidentis divisione qualitatis. Sed quoniam inter se quaedam conexio est et talis comparatio atque relatio, ut praeter ad se invicem latitudinem genera et species esse non possint -- nihil enim in eorum definitionibus concludi potest, nisi ad alterutrum nominata sint; nam si substantia generis specie supposita species vero genere superposito et ad ipsam praedicato perficitur, non est dubium quin cum genus definire necesse it iure speciem, et cum speciem, iure nobis genus praedicare necesse sit -- haec igitur etiam in generis subscriptione servatur distinctio, cum generis definitio habita est. Hoc enim dictum est tunc, esse genus quod ad distantes species diceretur, nunc vero dicendum est id esse speciem quae sub genere ponitur. Sed multiplex eius definitio haberi potest. Potest enim rursus dici id esse speciem, ad quam genus in eo quod quid sit praedicatur. Quae res utraeque id significant, speciem poni sub genere. Nam prima quidem definitia id aperte designat, secunda vero talis est: quoniam semper ƿ maioribus minora supponuntur, genus ab eo, ad quod in eo quod quid sit praedicatur, maius esse non dubium est. Quod si ita est, nullus est obscuritatis error, quin species quae minor est, maiori sibi generi supponatur. Nihil igitur haec secunda definitionis significatio a priore differt; si enim species sub genere non poneretur, genus ad speciem in eo quod quid sit non praedicaretur. Tertia vero definitio speciei integra ratione collecta est et ipsius speciei vim naturamque demonstrat. Dicit enim speciem esse quae ad plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicatur. Quae definitio etiam ex superiore genere debuit esse planissima sed ego nunc quantum castigata permittit brevitas explicabo. Sed prius de ipsis generibus speciebusque pauca dicenda sunt. Cum sint quaedam genera quae species habeant atque ipsa aliis generibus species esse possint, non est dubium ea gemina comparationis habitudine fungi, ut ad alia species, ad alia genera nominentur. Sed si in uno filo atque ordine speculemur et quodcumque genus alicuius rei repertum sit, eius rursus genus aliud requiramus et rursus aliud atque aliud iterum, si nihil sit quod intellectus ratione consistat, inesplicabilis ratio interminabilisque tractabitur. Sed quoniam nulla sunt in his scientiae fundamenta quae nulla consideratione animi in infinitum procedentia concluduntur, dicendum necessario est posse nos ascendentes usque ad tale aliquid pervenire cuius, cum ipsum caeteris genus sit, ƿ aliud genus invenire non possumus, quod genus primum et magis genus et generalissimum nuncupetur. Sed si hoc in genere contingit, ut ascendentes alicubi consistamus, non est dubium quin descendentes iterum per species ad aliquem quodammodo calcem offenso termino consistamus. Igitur cum descendentes per species usque ad illam speciem venerimus quae sub se species nullas habet, illam speciem ultimam speciem et magis speciem et specialissimam nuncupemus. Sed quoniam species aliquorum est continens, si aliquorum specie differentiam continens esset, non magis species sed genus merito vocaretur. Sed quoniam continet et non specie differentes res continet, similes necesse est sibi contineat pluralitates. Sed si continet pluralitatem et maius semper est id quod continet quam id quod continetur, de pluralitate illa species praedicabitur. Appellabitur igitur species de pluribus rebus numero differentibus in eo quod quid sit. Species enim cum appellatur de subterioribus, superiorem speciem substantiamque declarat nam cum dicimus: quid est Cicero? Homo continuo respondetur. Cum ergo tribus modis speciei facta sit definitio, superiores duae non tantum sunt speciei sed etiam subalternae speciei, quae et ipsa genus. generalissimum substantia et sub ea corpus animatum, sub animato corpore animal et sub animali ƿ homo, sub homine individua. Sed hanc divisionem plenius posterius exequemur, nunc autem hoc nobis tantum sufficit. Substantia igitur magis genus est, homo magis species, ita ut neque substantia species aliquando esse possit nec homo genus. Corpus vero animatum vel animal ad superiora species, ad subteriora genera nominantur. Si quis ergo corpus animatum vel animal vel hominem velit exprimere et dicat: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET AD QUAM GENUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, haec definitio et magis speciem, id est hominem, et subalternam speciem continet, id est corpus animatum vel animal. Nam corpus animatum et animal et homo sub genere sunt posita, et ad eas omnes in eo quod quid sit appellatur, ut dictum est. Si quis vero illam speciem definitione monstrare velit quae vere species est, id est specialissimam speciem, quae tantum species, numquam et genus sit, hoc modo definiet, speciem esse quae ad plurimas res numero differentes in eo quod quid sit praedicetur. Sed haec definitio subalternis speciebus numquam conveniet. Illae enim quae subalternae sunt species, possunt etiam pro generibus accipi, si ad subiecta praedicentur. Quodsi possunt pro genelibus accipi, cum pro generibus acceptae fuerint, non tantum ad plurimas res numero differentes praedicabuntur sed etiam ad plurimas res specie differentes, quippe cum sint genera. Sed quia hoc in magis speciebus non evenit, ut aliquando de specie differentibus praedicentur, haec definitio posterior solius magis speciei definitio est et eam caeterae subalternae species excludunt atque reiciunt. Quod Porphyrius ita demonstrat: SED HAEC DEFINITIO EIUS SPECIEI EST QUAE MAGIS SPECIES DICITUR, ALIAE VERO DEFINITIONES ERUNT ETIAM ILLARUM QUAE NON SUNT MAGIS SPECIES. Horum ergo ipsam subscriptionem demonstrationemque clarius se ipsum dicere promittit cum dicit: MANIFESTIUS AUTEM FIET HOC QUOD DICIMUS HOC MODO. IN OMNIBUS PRAEDICAMENTIS SUNT QUAEDAM MAGIS GENERUM ET MAGIS SPECIERUM, SUNT ALIA MIXTA. MAGIS GENERA SUNT SUPRA QUAE NULLUM ALIUD GENUS POTERIT INVENIRI, MAGIS SPECIES RURSUS, SUB QUA NULLA SPECIES REPERITUR. HORUM INTERUALLA QUAE POSSIDENT, ET GENERA ET SPECIES SUNT, SINGULA SUPERIORIBUS INFERIORIBUSQUE COLLATA, UT ALTERI GENUS, ALTERI SPECIES APPELLENTUR Huiusmodi sunt, inquit, quaedam quorum genera inveniri non possunt, haecque ipsa merito magis genera nominantur, quoniam maius ipsorum aliquid inveniri non potest. Nam si ista sunt genera, genus autem omnibus sub se positis maius est, quorum genus nullum est, nihil eorum maius poterit reperiri. At quorum genus nihil poterit inveniri, merito ipsa magis genera vocitantur. Sunt autem quaedam alia quae magis spe cies appellentur, sub quibus non aliae species locatae sunt. nam plus videtur esse species ea et integrior vere species est ƿ quae genus numquam est quam ea quae aliquando genus esse potest. Quodsi verior species est quae sola species, numquam genus est, merito magis species appellata est. Igitur inter magis speciem et magis genus quod est interuallum, subalterna genera et subalternae species impleuerunt. Nam subalterna vocamus quaecumque ad superiora species, ad inferiora pro generibus accipiuntur, idcirco quoniam, si omnes res ad inferiora componas, genera, si ad superiora, species, et si ad superiora et inferiora eadem ducas, genera et species invenientur. Atque ideo subalterna genera et species nominata sunt, quod filo quodam atque ordine ad inferiora composita genera et ad superiora species agnoscuntur. Sed haec ita genera speciesque esse possunt, non ut cui genus est, eidem iterum velut species supponatur. Nam si, ut prius ostensum est, specie sua maius est genus, non est dubium quin maior res sub minore poni non possit. Atque ideo ait ut alteri genus, alteri species appellentur, quod nequaquam eandem rem et genus esse et speciem conveniret. Dat igitur huius rei exemplum, quo quod dicit, facilius possit agnosci. Facit igitur hanc divisionem. Ponit substantiam magis genus, supponitur substantiae corpus et incorporeum, corpori animatum corpus et inanimatum, animato corpori animal sensibile et insensibile -- ut sunt ostrea vel conchilia vel echini vel arbores et alia huiusoemodi, quae vivendi animam habent, non etiam sentiendi -- sub animali animal rationale et irrationale, sub rationali mortale et inmortale, sub mortali hominem, gub homine singulos homines, hoc est corpora individua, Ciceronem et Virgilium scilicet et eos ƿ qui iam in partes sunt singuli. Substantia ergo quae prior est magis generis accipitur loco; genus enim solum, non etiam species est, quod numquam eius genus superius invenitur. Homo vero solum species est, nullas enim alias species sub se cohercet; singuli enim homines non specie, ut dictum est, numero differunt. Corpus vero, quod pridem sub genere posuimus, id est substantia, ad substantiam quidem species, ad animatum corpus genus accipitur. Animatum autem corpus ad corpus species est, ad animal genus, animal autem ad animatum corpus species videtur, ad rationale animal genus. Rationale item animal mortalis genus est, species animalis. Mortale autem genus hominis est, species rationalis animalis. Homo autem quod super individua est, nihil de generis natura sortitus est sed tantum sola species appellatur. Sed hanc divisionem sicubi in aliis rebus transferri et aptari placeat, ita considerandum est, ut quicquid fuerit cuius genus inveniri non potest, magis id genus appelletur et quicquid cuius nulla species fuerit, id est ut super individua collocetur, illam magis speciem esse. Oportet enim, si quod genus sit. Super differentes specie res poni, quod autem magis species non super specie res differentes ponitur, numquam digne genus poterit appellari. Ergo quemadmodum quod ƿ superius genus super se nullum genus habet, magis genus dicitur, ita et species quae sub se species non habet sed tantum individua, merito magis species appellatur. Illa autem quae in medio posita sunt, non eiusdem sunt habitudinis. Nam quoniam species esse possunt, non sunt magis genera, et quoniam genera possunt esse, idcirco numquam magis species praedicantur. Nam illis quae supersunt, species sunt, illis vero quae subsunt, loco generis praeponuntur. Cum igitur duae formae sint omnium rerum, aut ut genera praeponantur aut ut species supponantur, summitates, id est generalissimum genus et specialissima species, singulas tantum continent habitudines, illud, ut tantum genus, numquam species videatur, illud, ut sola species, numquam etiam genus appelletur. Subalterna vero, quae media sunt, duas formas habent, id est utrasque. Namque, ut frequentius inculcatum est, et generis quodammodo parentelam et speciei derivationem sortita sunt. Nec hoc fortasse nos turbet, quod species specialissima habet sub se aliquid. Namque homo cum sit magis species, habet sub se singulos homines. Haec enim quamvis individuis supersit, numquam formam specialitatis inmutat. Cum enim sub se individua habeat, quod ea contineat quae sub una specie sint et nulla substantiae proprietate discrepent, species eorum vocatur quae continet. Ita homo et animalis species dicitur, quia continetur, et hominum singulorum species est, quia eos continet qui nulla umquam specie discrepabunt. Definitio ergo magis generum magisque specierum talis est: magis genus ƿ esse dicitur quod genus semper sit, numquam species, et quo superius nullum genus sit; rursus magis species est quae semper species sit, tumquam genus, et iterum, quae numquam dividitur in species et quae ad plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicatur. Illa vero alia, ut saepe dictum est, et genera et species esse possunt, superioribus scilicet inferioribusque collata. Hoc autem attentissime respiciendum est, quod in diversis longe nationibus in eo genere ubi ex sanguine aliqua cognatio deducitur, diversarum cognationum gens ad unum caput generis duci potest. Nam quoniam Romani a Romulo sunt, Romulus autem a Marte, Mars a Iove, poterit gens Romanorum ad Iovem duci. Item quoniam Athenienses a Minerua, Minerua a Iove, potest Atheniensium gens ad eundem Iovem duci. Item quoniam Persae a Sole, Sol autem a Iove, possunt Persae quoque ad eundem Iovem velut ad originem propriam deduci. Ita diversissimae gentes ad unius cognationem erigi possunt, quod idem speciebus generibusque non fit. Numquam enim diversa genera sub uno genere poterunt accommodari. Aristoteles enim primorum generum decem praedicamenta constituit, quae velut aliquis fons, ita subterioribus omnibus ortum quodammodo nationemque profuderint. Haec igitur decem genera quoniam generalissima sunt et superius eis nullum inveniri genus potest, ad unum genus reduci non poterunt. Quodsi decem genera prima ad unum genus ƿ reduci non poterunt, nec illa quae sunt sub eisdem generibus, id est species subalternaque genera, ad unum genus aliquando poterunt applicari. Nam si prima eorum genera ad unum superius duci non possunt, non est dubium quin ea ipsa quae sub ipsis sunt, ab uno genere coherceri continerique non patiantur. Nam si substantia, qualitas et quantitas et caetera sub alio communi genere poni non possunt, quod ipsa magis sunt genera, nec quicquid sub substantia fuerit, id est sub eodem genere, ut animal vel homo, vel item sub qualitate vel quantitate, ad aliquod genus commune se poterunt applicare. Numquam enim inveniri genus poterit quod haec decem genera solitario et proprio intellectu intra se possit velut species continere. At dicat quis haec omnia decem genera si vere sunt subsistentia, quodammodo vel entia dici posse. Flexus enim hic sermo est ab eo quod est esse, et in participii abusionem tractum est propter angustationem linguae Latinae compressionemque haec igitur, ut dictum est, entia poterunt appellari, et ens hoc ipsum, id est esse, genus eorum fortasse dici videbitur. Sed falso. Namque omnia quae inter se aequivoce nominantur, numquam eiusdem continentiam generis sortiuntur, quippe quorum substantia discrepat, non est dubium quin generis quoque ipsius definitio discrepabit; haec autem ut entia nominentur, non univoce sed aequivoce praedicantur. Nam quoniam substantia ens est et item qualitas ens, sed si quis rationem definitionemque qualitatis dixerit, ƿ eadem natura utriusque non poterit convenire, non est dubium quin substantia et qualitas non univoce sed aequivoce praedicentur. Quodsi aequivoce praedicantur, sub eiusdem generis fonte poni non poteront. Non est igitur in generibus speciebusque aliquod genus solum quod possit diversa remm genera cohercere. Tunc Fabius: Abundanter haec, inquit, omnia, et de his ipsis rebus frequentius inculcatum est. Sed perge ad sequentia. Faciam, inquam. Haec enim, ut arbitror, secuntur: ERGO DECEM GENERA CONSTITUIT ARISTOTELES IN PRAEDICAMENTIS QUAE MAGIS GENERA SUNT, AT VERO ILLAE QUAE MAGIS SPECIES SUNT, SEMPER IN PLURIMO QUIDEM NUMERO SUNT, NON TAMEN IN INFINITO. AT INDIVIDUA QUAE SUB MAGIS SPECIEBUS SUNT, INFINITA SUNT SEMPER. Hoc enim dicere vult quod multo plures species sunt quam genera; habet enim genus sub se plurimas species. Et quoniam decem genera rerum omnium prima sunt, species specialissimae non solum decem sunt sed plures, non tamen infinitae individua vero quae sub magis speciebus sunt, infinita sunt et eorum intellegentia nulla umquam capi potest. Quae enim infinita sunt, nullo scientiae termino concluduntur. Igitur omnis nobis divisio omnisque scientia a magis generibus per subalterna genera usque ad magis species deducatur; ibi enim consistentes integram, superiorum scientiam capere possumus ac retinere. Si quis autem individua velit scientia disciplinaque comprehendere, frustra laborat sed ita iubemur a magis generibus ƿ usque ad magis species per media interualla decurrere, ut specificis differentiis dividentes subalterna genera a magis generibus usque ad magis species descendamus. Specificae autem differentiae sunt quae speciem quamcumque declarant. Declaratur autem species differentiis hoc modo. Si quis enim dicat substantiam, ut ponat sub substantia corpus, sub corpore animatum corpus, sub animato corpore animal, sub animali rationale, sub rationali mortale, has omnes species, quae sunt substantiae, cum pro differentiis posuerit, hominis scilicet species informabitur. Nam corpus animatum ab inanimato corpore differentia est, porro autem animal ab insensibilibus et rationale ab irrationalibus et mortale ab immortalibus differentiae sunt. Haec igitur omnia cum iunxeris, unam speciem declarabis, id est hominem. Nam cum dicis corpus animatum, animal rationale et mortale, quae scilicet differentiae in subalterno ordine sibi suppositae sunt, hominem demonstrasti. Sunt autem quaedam aliae differentiae, quae tales sunt ac si dicas animal rhetoricum, quod solus homo rhetor esse possit. Sed haec differentia non specifica differentia est et substantiam hominis naturamque non perficit sed tantum artem quandam scientiamque esse commendat. Illae igitur in divisionibus differentiae speciesque prosunt ex quibus illa quae dicitur magis species informatur, et haec vocatur specifica differentia quae magis speciem possit efficere. Ergo cum per haec descensum fuerit ad magis species, relinquenda sunt sub magis speciebus individua nec eorum aliqua scientia requirenda. Nam illa non ƿ solum infinita sunt sed etiam quaecumque in sese continverint infinita fiunt. Rhetorica enim species est sed cum venerit in singulos homines, tunc per singulos et infinitos divisa singula etiam fiet et infinita. Si enim omnes quicumque sunt vel fuere numerentur rhetores, nullus umquam huiusce numerationis finis erit, cum praesertim etiam per infinita tempora in futurum singuli homines rhetores esse possint. Hic Fabius: Hoc igitur, inquit, erat quod ait: PORRO AUTEM VEL ARTIUM VEL DISCIPLINARUM CUM INDIVIDUA PER HOMINES SINGULOS ESSE COEPERINT, RATIONEM AD PERCIPIENDUM CAPERE VEL HABERE OMNINO NON POSSUNT. Et ego: Hoc, inquam, est quod 'cum artes vel disciplinae quae in sua specie una ante collecta fuerant, in individua venerint', id est per singulos homines in infinitam multitudinem innumerabilemque sese dispertiunt; hoc autem idcirco evenit, quod haec eadem ratio est quam Porphyrius ipse dicere non neglexit. Genus enim cum unum sit, plurimarum specierum progenitivum est; namque sub uno genere plures species inveniuntur. Idcirco species genus illud unde profluunt. In plurima segregant atque dispertiunt. Genus autem plurimas colligit res, sicut ipsum a plurimis iterum speciebus dividitur. Namque homo, coruus et equus, quae sunt species, quantum ad animal aequaliter animalia sunt. Ita nomen animalis omnes suas species intra se continet. Quodsi et in homine animalis ƿ nomen est et in coruo et in equo, non est dubium quoniam illud genus quod sub se ipsum ea continet, species divisae inter se dividant multiplicentque. Colligit igitur genus species in se, species vero genus ipsum suapte natura dispertiunt. Est igitur genus collectivum specierum suarum et quodammodo adunativum, species vero divisivae generis et quodammodo multiplicativae. Igitur quicumque ad magis genera ascendit, omnem specierum multitudinem per genera colligit adunatque. Cum vero a magis generibus usque ad magis species decurritur, omnis unitas generum superiorum in multifidas ramosasque species segregabitur. Quod autem ait multitudo capieuda, proinde est ac si diceret 'multitudo facienda' est; nam cum dividis genus in species, easdem species multas esse accipis, quas tu idem fecisti. Species quoque ab hac generis adunatione ac quodammodo collectione non discrepant. Namque et ipsae infinitatem individuorum ad unam reuocant formam. Singulorum enim hominum species, quae est homo, collectiva est hoc modo. Ad hominis enim speciem cuncti singuli homines unus homo sumus, id est prima species quae nos continet cohercetque. Porro autem ipsa species in nos multos scissa dividitur. Omne enim quod singulum est atque individuum, illud unde nascitur dividit, omne quod non est singulum atque individuum sed dividi potest, non ipsum magis dividit subteriora quam colligit. His igitur expeditis constat genus plurimarum esse specierum genus et speciem plurima sub se individua cohercere. Nam si qua sunt subteriora, illa quae sunt superiora dispertiunt et in multitudinem dissipant dividuntque; quare non est dubium quin superiora semper inferioribus pauciora sunt. Praedicamenta vero aliud de alio vel ad se invicem quae torquentur, hoc modo sunt. Omnis enim res alia aut maior erit aut minor aut aequa. Omne quod est maius, de minore poterit praedicari; nam cum animal sit maius ab homine, poterit animal de homine praedicari. Minus vero de maiore non dicitur: nam quoniam animal est et homo et equus, ad animal hominem si praedicare volueris, tantum haec convenit praedicatio, quantum convenit animalis partem esse super hominem. Age enim, converte et dic hoc esse animal quod hominem: quantum igitur pars est animalis, quae hominis speciem contineat, tantum animal homo est. In illis autem aliis partibus animalis quae aliud continent quam est species hominis, hominis appellatio non convenit. Nam si dicas 'animal hoc est quod homo', in illa parte in qua equus est animal et coruus, ista talis praedicatio non aptatur atque ideo universaliter non convertuntur. Nam si dicis 'omnis homo animal', verum est, si dixeris 'omne animal homo', falsum est. Quodsi maiora de minoribus idcirco praedicantur, quia omne minus in se continent, et minora de maioribus idcirco non praedicantur, quia maiora minoris definitionem superuadunt et ƿ quodammodo exsuperant. Non est dubium quin illa quae sunt aequalia, sibi possint ipsa converti. Aequalia autem illa sunt quae neque minora neque maiora sunt, id est, ut si in quamlibet speciem apponantur, et omni illi speciei adsint et nulli alii; nam omnis homo risibile est et nulla alia species risibili potest proprio nuncupari, atque ideo quoniam aequalia sunt, convertuntur. Dicis enim: quid est homo? Risibile. Quid est risibile? Homo. Et item: quid est hinnibile? Equus. Quid est equus? Hinnibile. Quodsi semper maiora de minoribus praedicuntur, superiora necesse est genera esse et omnia subalterna minora fiunt. Quodsi subalterna omnia minora sunt, non est dubium quin, si quis per subdivisionem descendat ad ultimam speciem. Quodcumque genus de vicinis sibi praedicabitur, etiam de subalternis. Namque substantia habet sibi vicinum ad subteriora genus, ad se vero speciem, quod est corpus; de hoc igitur substantia praedicatur. Si quis enim interroget: quid est corpus? Dicitur substantia. Sub corpore vero est animatum corpus et sub eo animal ergo quoniam substantia idcirco praedicatur de corpore. Quia illi est superior, necesse est, quibus corpus superius fuerit, eisdem etiam sit substantia superiol. Nam si corpus praedicatur de animato corpore et de animali, praedicabitur etiam substantia de animato corpore et de animali. Sic igitur quaecumque superiora fuerint, de subterioribus non solum sibi vicinis sed etiam longe subterioribus praedicantur. Nam si maiora sunt his quae sibi vicinae sunt speciebus, multo maiora erunt etiam illis quibus ƿ illae vicinae species fuerint ampliores. Ergo de quibuscumque species praedicatur, de ipsis praedicabitur et illius speciei genus. Nam si species aliqua alicui maior est, multo genus speciei ipsius illa re qua species maior est, maius erit. Atque ita ad id praedicabitur, quemadmodum ipsa species antea praedicata est. Quod si ita est, non est dubium genus quoque generis illius quod ad illud ad quod species praedicabatur, poterat praedicari, etiam id, quoque de eo <ad> quod species et genus speciei praedicabatur, praedicari posse. Nam si quis dicat Ciceronem esse hominem, cum animal hominis genus sit, non erit absurdum Ciceronem animal praedicari. Et cum animalis ipsius substantia genus sit, non erit inconveniens Ciceronem substantiam praedicari, quoniam quae supersunt, de subterioribus praedicantor et ea quae subteriora sunt, si qua alia sibi subteriora habeant, illud primum genus habebunt etiam ista subteriora et de his non inconvenienter praedicabitur. Igitur species de individuo praedicatur ut maius, magis genus vero de omnibus subalternis et de magis specie praedicatur. Aequo enim modo dicitur et corpus substantia et animatum corpus substantia et sensibile corpus substantia et rationale animal substantia et mortale substantia et homo substantia. Et de ipsis etiam magis genus individuis praedicatur. Potest enim Cicero dici substantia, species vero sola de nullis aliis nisi de individuis praedicatur, ut dictum est, individua autem ipsa de nullo alio praedicantur nisi de ipsis, id est singulis. Natura autem individuorum haec est, quod ƿ proprietates individuorum in solis singulis individuis constant et in nullis aliis transferuntur atque ideo de nullis aliis praedicantur. Ciceronis enim proprietas cuiuslibet modi fuerit, neque in Catonem neque in Brutum neque in Catulum aliquando conveniet. At vero proprietates hominis quae sunt idem quod est rationale, mortale, <sensibile>, risibile, in pluribus et in omnibus individuis possunt et singulis convenire. Omnis enim homo et singulatim individuus et rationalis est et mortalis et sensibilis et risibilis. Atque ideo illa quorum proprietates possunt <in> aliis convenire, possunt de aliis praedicari, haec autem quorum proprietas in aliis non convenit, nisi ipsis tantum singulariter, de aliquibus aliis praeter se singulariter praedicari non possunt. Repetendum est igitur quod omne individuum specie continetur. Species vero ipsa cohercetur a genere et ullum quasi omnium corpus magis genus est et numquam est pars, individuum vero pars semper est, numquam est totum. Species autem et pars et totum merito nuncupatur, nam ad genus pars est, ad individua totum: dividit enim genus, ut dictum est, et individua colligit. Sed species pars est alterius, id est generis, totum vero non est partis sed partium. Namque genus unum est et plures species unius rei, id est unius generis species pars est. Et quoniam individua plura sunt et infinita sub una specie, quae illa individua colligit, species illa non est unius totum, id est non est partis totum sed plurimorum, id est partium; plures enim partes ƿ sub ea individuorum sunt, quarum totum species, id est homo appellatur. Sed de genere et specie sufficienter dictum. Et quoniam matutinae salutationes vocant, in futuras noctis vigilias quod est reliquum transferamus. Multa nobis a parente natura excelsius quam caeteris animantibus gravia illustliaque concessa sunt. Quae nos ita quasi quaedam benigna artifex hllmanitatis excoluit, ut primum nobis reputandi considerandique animos rationemque concederet, post vero ratione reperta proloquendi conferret usus iussissetque nos non corpolis sensibus a beluis sed mentis divinitate distare. Quae cum se sibi adiunxerit et a suae vivacitate naturae non discesserit, tunc vero sicut ipsa est aeterni generis, ita quoque famam in posteros vitamque gloriae infinitissimis temporibus coaequat. Sin vero se pravis libidinibus corporis obnoxilam perdendam corrumpendamque permiserit, naturam corporis sequitur. Nam nihil eius vivacitatis post corpora remanet cui omnis labor et studium de rebus corporis atque in corpus impensum est. Quare annitendum est, ut nos meliores curatioresque reddamus, non ea re qua pecudibus nihil distare possumus sed quo caelestium virtutum similitudine aeternitatis gloriam factis egregiis dictisque mereamur. Sed de his alias, nunc ad propositum reuertar. Cum igitur alterius noctis consueta lucubratio vigiliaeque venissent, credo hesternae rationis subtilitate captus vel qua ipse est cupiditate discendi audiendique studio vigilantius quam umquam surrexerat, Fabius ad me perrexit. Qui postquam consalutatus sequentis a me operis plomissam continuationem reposceret, Faciam, inquam, non inuitus, quippe cum nec mihi sit in vita quicquam melius agere et tu hanc mihi iucunditatem studio tuo augeas, quod mihi perquam glatissimum est. Placuit igitur ut, quoniam hesterna dissertio speciem explicuerat, alterius expositionis principium de sequenti differentia sumeretur. ÐHic Fabius: Uberrime, inquit, a te hesternis vigiliis de generibus et speciebus expositum est. Sed, ut dici audio, subtilior de differentiis tenuiorque tractatus est. ÑNon, inquam, immerito. Nam varie acceptae differentiae varias babebunt etiam potestates. Erunt namque alias genera, alias species, alias vero differentiae. Sed hoc postea demonstrabitur, nunc nero ita, ut arbitror, textus est: OMNIS DIFFERENTIA ET COMMUNITER ET PROPRIE ET MAGIS PROPRIE DICITUR. Differentiam quoque, multis modis appellari designat. Dicit autem tribus his modis fieri differentiam, cuius aut communes sunt aut propriae aut magis propriae. Communes sunt quibus omnes aut ab aliis differimus aut a nobis ipsis. Nam sedere vel ambulare vel stare differentia est; nam si tu ambules, ego vero sedeam, in situ ipso atque ambulatione differimus. Et item ego cum nunc sedeo, postea vero si ambulem, communi a me ipso differentia discrepabo. Propriae vero sunt ƿ quae uniuscuiusque individui formam aliqua naturali proprietate depingunt, ut si quis sit caecis oculis vel crispo capillo; etenim propria uniuscuiusque singuli hominis sunt quoquomodo ista nascuntur. Magis propriae sunt quae in substantia ipsa permanent et totam speciem differentia descriptioneque permutant, ut est rationalis vel mortalis hominis differentia. Harum autem communes et propriae differentiae sub eadem specie singulos a se faciunt discrepare, illa propriis differentiis, illa communibus, magis propriae vero totam naturam cuiuslibet speciei substantiamque permutant et ab aliis speciebus segregant atque disiungunt. Harum ergo communes et propriae differentiae, quoniam speciem non permutant sed formam quodammodo et habitudinem solam faciunt discrepare, alteratum facere dicuntur, id est non integrum alterum facere, id est non integre permutare sed quodammodo discrepantiam distantiamque faciunt, atque ideo non vocantur alterum facientes, id est permutantes sed magis alteratum, id est non integrum alterum facientes. Illa vero tertia, id est magis propria, quoniam substantialis est et ipsius speciei inserta naturae, alterum facit. Nam quoniam homo atque equus quantum ad quod animalia erant, una illis erat substantia, veniens rationale disgregavit omnino speciem et funditus alteram fecit. Ergo communes et propriae differentiae alteratum facientes vocantur, magis propriae alterum facientes. Constat igitur differentiarum alias facere alterum, alias alteratum. Illae quae faciunt alterum, substantiales sunt et omnes naturam speciemque ƿ permutant et specificae praedicantur; valent enim quamlibet speciem constituere et ab aliis omnibus segregare et eius formam paturamque componere. Nam si dicas mortale et rationale differentias et eas animali supponas, non est dubium quin hominis speciem, facias et speciei huius sint perfectrices. Atque ideo specificae nominantur, quod et permutant naturam et ipsam substantiam cuiuslibet illius speciei constituunt illae vero aliae nihil aliud efficiunt nisi alteratum, quippe cum aut proprietate quadam formae alius distet ab alio aut aliqua habitudine et dispositione aliquid faciendi. Illa igitur magis propria differentia, quam specificam nominamus, sola poterit in generis divisione congruere. Etenim caeterae nihil ad substantiam sed ad quandam quodammodo eiusdem similitudinis discrepantiam distantiamque ponuntur. Nihil enim in illis praeter alteritatem solam reperire queas, quippe quae non constituunt species sed constitutas iam et effectas magis propriis suis qualitatibus ipsae discriminant. Quod autem dicit: REPETENTI NUNC A SUPERIORIBUS DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS INSEPARABILES. hoc est quod hic nunc divisio alia rursus assumitur. Nam cum prius differentiam in tribus partibus separaret et postea tres illas in duarum tantum namerum quantitatemque colligeret, ut alias alterum facientes esse diceret, alias alterantes, ipsarum rursus trium tertia sumitur facienda divisio. Dicit enim alias esse separabiles, alias vero inseparabiles, et sicut in priore divisione alteratum facientes duae fuerant communes et propriae. Sola vero magis propria remanserat quae alterum faciebat, eodem nunc etiam modo in separabilibus et in inseparabilibus communis tantum separabilis differentia est, aliae vero differentiae utraeque, ut caecitas oculorum vel flaua caesaries vel corporis proceritas, quae sunt propriae differentiae, vel certe rationabilitas vel mortalitas. Quae sunt magis propriae differentiae, possunt numquam ab hominis specie segregari. Sedere vero vel currere, quae communes sunt, separantur a singulis et item rursus adduntur. Earum vero quae sunt inse pal abiles, aliae per se veniunt, aliae vero per accidens. Et illae quae per se veniunt, a magis propriis manant, illae quae per accidens, a solis propriis effunduntur. Et inseparabile accidens est quicquid per inseparabilem propriam differentia unim cuique speciei contigerit. Sed quamquam propria et magis propria inseparabiles differentiae sint, numquam tarnen illam superiorem formam naturamque commutant. Nam magis propria semper alterum, propria vero solum semper efficit alteratum. Huc accedit quod inseparabiles propriae possunt alicui plus minusue contingere, inseparabiles magis propriae nec cumulis intentionis augentur nec imminutione decrescunt. Potest enim alius procerior, alius fuscior, deductioribus alius capillis, alius ƿ flavioribus nasci, quae sunt inseparabiles propriae differentiae at vero magis propria, id est rationale, neque plus neque minus admittit. Omnes enim homines in eo quod homines sunt, aequaliter sunt rationales atque mortales. Nam si genus alicui plus minusue esse posset genus, possent etiam differentiae vel intentione crescere vel remissione decrescere. Nam quoniam animal non est plus homini quam equo neque equo quam caeteris, et aequaliter subiectis omnibus genus est. Sic specierum differentiae quas specificas appellamus, maius minusue non capiunt. Nam si animal rationale mortale hominis definitio est et hominum nihilominus singulorum, non est dubium quin haec definitio ad omnes homines singulos aequaliter semper aptetur et nulli neque plus neque minus conveniat quod si ita est, partes quoque totius definitionis, quae sunt differentiae, tales erunt, ut nulli neque plus neque minus sed aequaliter semper et convenienter aptentur. Partes autem huius definitionis sunt rationale et mortale. Rationale igitur et mortale, quae sunt magis propriae differentiae, plus minusue non capiunt. Ab hac igitur, id est separabilium inseparabiliumque differentiarum divisione tribus modis differentias speculamur nam aut separabiles sunt aut inseparabiles, inseparabilium vero aut per se veniunt aut per accidens. Quae per se veniunt, aliae sunt quae genus dividunt, aliae quae speciem informant atque constituunt. Sed de superioribus prius dictum est, nunc autem de his quae genus dividunt et speciem constituunt. Disseramus. Omnis quaecumque fit generum divisio in species, si earum specierum alia snbdivisio fiat et a magis generibus ƿ per subalterna genera usque ad magis species decurratur, gemina in his erit duplexque divisio. Namque si contrarias specierum differentias respicias. Generum est divisio, si suba-ltemorum generum, fit specierum constitutio. Si enim genus dividamus id est sublstantiam, ut iam speciei disputatione e divisa est, et sit substantia, post substantiam animatum corpus et inanimatum, sub animato corpore sensibile et insensibile, sub sensihili, id est animali, rationale vel irrationale, sub rationali mortale vel immortale, hae igitur differentiae eaedem species sunt, si contra se ipsas in divisione respiciantur. Et dividunt genus hoc modo. Nam quoniam sub substantia animatum corpus et inanimatum posuimus, si animatum corpus contra inanimatum respicias, substantiam divisisti. Si vero subalterna genera in ipsis differentiis aspicias, speciem constitues. Nam si animatum corpus et quod sub ipso est sensibile corpus aspeseris, animal respexisti. Item si rationalem differentiam contra hlrationalem acceperis, genus quod est utrorumque, id est animal divisisti. Si vero sub eodem ordine rationalem differentiam et mortalem accipias, hominis sine dubio speciem demonstrasti. Ita hae differentiae alio modo acceptae fiunt generis divisibiles, id est genera dividentes, alio vero modo fiunt constitutivae specierum, id est quae species declarent atque constituant, nam si contrarias differentias respexeris, divides genus, si vero subalternas, speciem constitues. Differentiarum igitur vis et separabilium et inseparabilium caeteras tres res, id est genus, speciem aceidensque sic retinet, ut permutata comparatione per haec eadem ipsa etiam permutentur. Nam rationale et mortale differentias si contra irrationale et immortale respexeris. Divisibiles sunt et generis differentiae, sin vero idem ipsum rationale et mortale ad superiora comparaveris, species erunt eius quod eas continet animalis. Si vero rationale atque mortale ad subiectum hominem consideres, genera eius constitutivasque differentias contemplabere. At vero de illis aliis inseparabilibus. Id est propriis, cadunt differentiae inseparabilis accidentis. Inseparabile namque est accidens caecitas oculorum et, nasi curuitas et alia huiusce modi. Et idem de separabilibus accidentibus, id est de communibus. Separabile namque est accidens vigilare, dormire et currere vel sedere. Quod autem dicit: SIC IGITUR COMPOSITA SIT SUPER OMNIA SUBSTANTIA ET SINT EIUS DIFFERENTIAE DIVISIBILES ANIMATUM ET INANIMATUM, contrarias differentias in species monstrat. Quod autem dicit: HAEC DIFFERENTIA ANIMATA ATQUE SENSIBILIS SOCIATA SUBSTANTIAE PERFICIET ANIMAL, constitutivas specierum diffetentias monstrat. Sic igitur variis modis acceptae varias virtutes formasque sortitae sunt. Sed et divisibiles et constitutivae utraeque specificae nominantur ƿ et in divisione generum definitionibusque solae sunt utiles, caeterae vero inseparabiles per accidens inutiles, et multo magis illae sunt inutiles quae separabili differentia discretioneque formatae sunt. Has autem specificas differentias qui de differentiarum definitione tractaverunt, tales esse declarant quibus species a genere abundant. Quid autem sit, breviter explanandum est. Controversia est utrum genus differentias specierum suarum in se habeat an minime, ut puta: animal sub se habet species rationale et irrationale, id est hominem et verbi gratia equum; rationabilitatem igitur et irrationabilitatem, id est hominis vel equi differentias, quibus a se species sub animali positae differunt, utrum habeat utrasque animal an non habeat. Nam si animal, quod genus est, neque rationale neque immtionale est, species quae sub ipso sunt positae, istas differentias non habebunt. Nam si genus istas differentias non habebit, unde erunt speciebus differentiae, quibus a se ipsis differunt? Sed si quis dicat esse in genere istas differentias, non enim haberent species, nisi prius genus habuisset, aliud maius continget incommodum. Nam quoniam aeque sunt species quae sub aliquo genere supponuntur, et aequaliter homo atque equus sub animali genere ponuntur neque homo prius est neque equus sed uterque aequaliter animati species nominantur. Igitur si rationale atque irrationale aequaliter sub eodem genere sunt, ƿ erunt etiam uno tempore. Quodsi uno tempore et genus istas differentias habet, ut genus suapte natura id est animal rationale sit et irrationale, noo est dubium quod eadem res uno tempore duas contrarietates in sese substantialiter retineat. Quod fieri nequit. Quid igitur? Dicendum est quoniam genus actu quidem ipso, quod Graeci eineurgeian vocant, istas differentias non habet, at vero potestate ab his ipsis differentiis, quas in suas species fundit, non uacat. Quid autem sit actus et potestas, castigatius explicandum est. tantum interest aotus a potestate, quantum homo ridens ab eo qui ridere possit, non tamen rideat. Ille enim agit ipsam rem, ille tantum potest, non etiam agit. Sic igitur et animal. Namque homo actu ipso rationalis est, semper enim homo rationalis et nihil aliud est; et equus semper irrationalis, et eius irrationabilitas in actu posita est. At vero ipsum animal rationale vel irrationale non ipsum agit neque est in eorum actu positum sed in potestate. Potest ellim es se rationale atque irrationale profundere. Quare quoniam species actu differentias continent, genus vero potestate, species a genere merito differentiis abundare dicuntur, quoniam quod genus potest, id est differentias facere, species non solum possunt sed etiam agunt; in ipsis enim speciebus positae informataeque sunt. Est autem alia differentiae definitio talis, quae dicat differentiam esse quae ad plurimas species in eo quod quale sit praedicetur. Differentia ad res plurimas dici potest, ut rationale dicitur ad hominem -- homo enim rationalis -- dicitur ad deum; deus enim rationalis dicitur sed non in eo ƿ quod quid sit sed in eo quod quale sit. Nam si qualis homo sit interrogetur, rationalis continuo respondetur, qualis deus sit si interroges, rationalem non absurde dixeris. Eodem modo etiam irrationabilitas. Dicitur enim et ad equum et ad bovem et ad piscem et ad avem, quae omnia si qualia sint interrogaveris, irrationabilia praedicantur. bona igitur et recta haec est definitio, id est: DIFFERENTIA EST QUOD AD PLURIMAS RES SPECIE DISTANTES IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Et de mortali vero et de aliis differentiis eadem est ratio. Sequitur locus perdifficilis sed transferentis obscuritate Victorini magis quam Porphyrii proponentis, qui huiusmodi est. Dicit omnem rem quaecumque est corporea, ex materia et forma constare. Namque si statuam dicas, constat statua ex aere verbi gratia et figura illa quam ei suus fictor imposuit, et est materia ex quo facta est aeris, figura vero, id est forma, qua aes ipsum formatum est. Nam si hominem formabis ex aere, erit hominis forma, aes vero materia. Eodem modo etiam genus. Namque genus in modo materiae accipitur, differentia vero in modo formae. Etenim quemadmodum quaecumque illa res ex materia et forma consistit, sic etiam omnis species ex genere et differentia. Namque genus ita est hominis, ut est statuae aes, differentia vero sic est hominis, ut est forma illa es qua aes effictum est. Nam sicut ex aliqua figura quae es aeris materia efficta est, cuiuscumque illius species statuae ƿ fit, sic etiam cum in genus, id est in animal venerit differentia, id est rationale, hominis species fingitur. Ista igitur sibi proportionaliter sunt. Proportio autem est cuiuscumque, illius rei similis ad aliquam rem cognatam comparatio, ut puta si duo compares ad quattuor, dupla proportio est, sin vero viginti ad quadraginta, eadem dupla. Sub eadem ergo proportione sunt quattuor ad duo, sub quali quadraginta ad viginti quod utrique duplex est numerorum! comparatio. Sic igitur qualis proportio est, id est comparatio materiae et figurae talis est proportio generis et differentiae, et ista quattuor sibi proportionaliter sunt. Eodem enim modo ex materia et figura species cuiuscumque illius fictionis fortnata est, quemadmodum ex genere vel differentiis species cuiuscumque illius animantis inanimantisue formatur. Quod Victorinus scilicet intellexisse minus videtur. Nam quod Porphyrius ainaulogon dixit, id est proportionale, ille sic accepit quasi a[logon diceret, id est irrationale. Atque ideo in loco ubi habet hoc modo scriptum: OMNES NAMQUE RES EX FORMA ET MATERIA CONSISTUNT IPSA AUTEM FORMA IRRATIONABILIS EST, tollendum est irrationabilis est et dicendum proportionabilis est. Et subterius paululum ubi habet: IAM OMNE GENUS SIMILE MATERIAE EST ET CONSISTIT IRRATIONALE, tollendum irrationale et ponendum est proportionale, ut sit et consistit proportionaliter. Nam quae proportio est figurae ad materiam in efficienda cuiuslibet corporis fictione, eadem est proportio diffelrentiae ad genus in efficienda cuiuslibet specie animati atque inanimati. Sequitur item alia definitio, quae est huiusmodi. Dicunt enim esse differentiam quod possit separare quicquid sub eodem genere est, et recte dicunt. Nam dum syb eodem genere sit homo atque equus, quia utrumque est animal, cum venerit rationale vel irrationale, equum atque hominem, quae sub eodem genere sunt, dividunt atque discerllunt. Sunt igitur illae differentiae quae possunt res sub eodem genere separare. Est autem alia definitio: differentiae sunt quibus quidque ab alio distat. Nam homo atque equus rationali atque irrationali differentia discrepant, cum unum sint quantum ad genus. Et hoc est quod dicit: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA, QUIA PER SE IPSUM GENUS EST ET ILLA QUAE RATIONABILIA SUNT, NOS SCILICET, ET ILLA QUAE IRRATIONABILIA SUNT. NAMQUE ET HOMO ET EQUUS ET AVIS HAEC OMNIA GENUS UNUM SUNT, ID EST ANIMAL. NAMQUE ANIMAL HORUM OMNIUM GENUS EST. Sed si de hoc loco in quo positum est quia per se ipsum ƿ genus est, mutes et facias 'quia per se ipsa animalia sunt', plenior sensus erit -- generis enim hic nomine pro animalis abusus est -- et erit huiusmodi ordo: 'differentia est qua differunt singula, quia per se ipsa animalia sunt et illa quae rationabilia sunt animalia, nos scilicet, et illa quae irrationabilla sunt'. Quod si sic esset, nullus esset error omnino. Nunc vero genus quod ait, pro animalis nomine intellegendum est. Item dii atque homines cum utrique rationales sint, mortalitatis tamen nomine adiecto differunt discrepantque. Sic igitur differentia est qua singula differunt sed hoc non simpliciter sed illas tantum differentias huiusmodi esse putandum est quae ad substantiam prosunt et quae ad id quod est et quaecumque speciei possint esse aliqua pars. Quod huiusmodi est si equus atque homo, quorum utrorumque unum genus est animal, a se differunt rationali atque irrationali qualitate attamen ista rationabilitas et irrationabilitas in substantia ipsarum specierum est hoc modo. Nam neque equus potest esse sine irrationabilitate, neque homo sine rationabilitate. Atque ideo istae differentiae prosunt ad aliquid esse speciei illi cui fuerint accommodatae et substantiae ipsius partes sunt. Nam cum homo ex his differentiis constet, id est ex rationali et mortali, rationale et mortale solum positum pars est substantiae hominis. Nam si utraque simul unum hominem faciunt, non est dubium quin ad substantiam hominis efficiendam unaquaeque earum res pars esse videatur. Quare illae ƿ differentiae quaecumque non prosunt ad esse nec partes substantiae cuiuslibet speciei sunt, specificae differentiae dici non habent, quamvis sola hoc una species habeat. Nam si homo navigat, potest dici animal navigabile sed navigare in substantiam hominis non convertitur. Neque enim homo inde subsistit, quia navigat, quamvis hoc nullum aliud animal habere possit, id est nullum possit animal navigare. Eodem modo et esse rhetorem vel grammaticum. Has igitur differentias quae ad esse non prosunt sed tantum artem aliquam scientiamque commemorant, non ponimus specificas esse, quamvis una quaelibet animalis id species habeat. Ergo considerandum est, ut quotiens dicimus definitionem differentiae illam, 'differentiam esse qua differant singula', illam significari differentiam intellegamus quae ad aliquid esse prodest et quae est alicuius pars substantiae speciei, illas vero quae ad esse non prosunt, a in hoc genere differentiarum, quamvis singulae cuiusque sint, non ponamus. Sed quoniam de differentia dictum est, de proprio explicemus. ÑTunc Fabius: Ut arbitror, consequens est: PROPRIUM QUATTUOR DICITUR MODIS. DICITUR NAMQUE PROPRIUM QUOD UNI SPECIEI ACCIDIT, ETIAMSI NON OMNIBUS. Et ego: Quattuor ergo modis propria dividuntur. Est enim proprium quod uni accidit, etsi non omnibus, ut est rhetor vel geometer vel grammaticus. Haec vero omnia uni soli speciei, id est homini accidunt, non tamen omnibus. Neque ƿ enim omnes homines grammatici vel rhetores vel geometres sunt, atque ideo vocabitur hoc proprium quod uni sit, etiamsi non omnibus. Est item alia proprietas quae est omnibus etiamsi non soli. Nam bipes omni homini accidit, omnis enim homo bipes est sed non soli hominum speciei accidit sed etiam avibus. Est item tertium proprium quod omni et soli et aliquo tempore accidit, ut est in pubertate pubescere et in senecta canescere. Namque et umnibus hominibus evenit et nulli alii speciei nisi soli hominum et aliquo tempore; constitutum enim tempus est vel adolescentibus pubescendi vel senescentibus canescendi. Neque enim a sexto anno vel septimo aliquis pubescit aut a vicesimo canescit, nisi forte aliquid accidit novi quartum proprium est quod uni speciei accidit et omnibus sub eadem specie individuis et omni tempore. Nam risibilem esse hominem et uni speciei solum, id est homini, contingit et omnibus sub eadem specie individuis; omnes enim singuli homines rident et omni tempore. Numquam enim tempus fuit ut quicumque ridere non posset. Sed risibile dico potestate, non actu. Namque etsi non rideat homo, tamen quia ridere potest, risibilis appellatur. Et sunt integre et vere propria ista quae et uni et omnibus et omni tempore insunt, namque haec speciebus suis converti possunt. Si enim dicas: quid est homo? Risibile. Si: quid est risibile? interroges, homo praedicabis. Illa vero alia, bipes vel grammaticus, propria quidem sunt sed converti non possunt. Nam grammaticus semper homo, homo vero non semper grammatices, et e contrario homo ƿ semper bipes est, non e contra bipes semper homo est. Et hinnibile similiter magis proprium equi est. Nam eodem modo haec proprietas ad suam speciem converti potest. Nam si dicas: quid est equus? hinnibile respondebis, si: quid est hinnibile? equus praedicabitur. Sed quoniam de propriis dictum est, de accidentibus sequens tractatus habeatur. Tum Fabius: Definit Porphyrius accidens sic: ACCIDENS EST QUOD INFERTUR ET AUFERTUR SINE EIUS IN QUO EST INTERITU. Hoc autem dicere videtur, illud esse accidens sine quo potest constare illud cui accidit; ut puta si forte casu aliquo cuiquam facies inrubuerit, abscedente rubore inlaesa facies permanebit, sicut eveniente non laesa est. Dividit ergo accidens in separabile et in inseparabile. Namque separabile accidens est, ut puta si quis sedeat vel ambulet, inseparabile est, ut si dicas coruum nigrum, cygnum album; a quibus haec accidentia separari non possunt. Nascitur autem huiusmodi dubietas, utrum superior definitio vera sit et omnium accidentium nomen includat. Nam quoniam sunt quaedam, ut ipse ait, accidentia inseparabilia, in his talis definitio videtur convenire non posse. Nam si separari non possunt, non est in illis vera definitio quae dicit accidens esse quod et inferri et auferri potest sine eius in quo est interitu. Nam cum inseparabilia sunt, auferri non possunt. Sed haec tam uehemens quaestio solvitur sic, quod haec ipsa definitio de accidentibus facta est potestate, non ƿ actu, et intellegentia, non veritate, non quia Aethiops et coruus colorem amittunt sed sine isto colore ad intellegentiam nostram possunt subsistere. Nam verum est quoniam Aethiopem aut coruum color niger numquam deserit. Sed si quis subintellegat colorem istum Aethiopem vel coruum posse amittere plumarum tantum color in coruo mutabitur et erit avis alba specie et forma corui, si quis hoc intellegat, at vero hominis, id est Aethiopis, amisso nigro colore, elit eius species candida sicut etiam aliorum hominum. Ergo hoc non ideo quia fiat dicitur sed ideo quia, si posset fieri, huius accidentis susceptrix substantia non periret. Quod ipse hoc modo demonstrat: POTEST AUTEM SUBINTELLEGI ET CORVUS ALBUS ET AETHIOPS COLOREM SUUM PERDITURUS SINE INTERITU SUO IN QUO COLOR FUIT. Nihil enim ad speciem impedit, si Aethiops vel coruus amisso colore in propriae substantiae natura permaneat. Est autem alia definitio, quae est huiusmodi: ACCIDENS EST QUOD CONTINGIT ALICUI ET ESSE ET NON ESSE. Nam quod in substantiam non convertitur, id accidens esse dicimus, id est non in substantia insitum sed extrinsecus veniens. Ergo ea quae contingunt et esse et non esse, ideo accidentia vocata sunt, quoniam in substantiae ratione non accipiuntur. Si enim in substantiae ratione ponerentur, numquam non essent, et si non essent, numquam esse possent. Nam quoniam verbi gratia ratio in substantia hominis est, numquam homo esse potelit irrationalis, quoniam irrationabilitas in substantia hominis non est. Ex hoc ergo venit etiam alia definitio, ƿ accidens esse illud quod neque genus sit ueque species neque differentia neque proprium. Nam quoniam genus, species, differentia et proprium in substantia sunt et cuiuscumque illius rei substantiam monstrant, idcirco quicquid horum aliquid non fuerit, id accidens merito praedicatur. Explicitis igitur atque expeditis his quae proposuit, id est genere, specie, propriis, differentiis accidentibusque, tractare a nunc exequitur illa quae inter haec communia omnia vel quae differentiae sint. Et primo omnium simul inter se communiones explicat, post etiam singulorum, et dicit omnium esse commune de pluribus praedicari. Namque genus praedicatur de speciebus et de individuis, eodem modo praedicatur et differentia de speciebus et de individuis, etiam proprium et de speciebus et de individuis praedicatur, at vero species de solis tantum individuis appellatur. Genus enim praedicatur de equis, hominibus, bobus et canibus, id est speciebus, praedicatur item et de his quae sub ipsis speciebus individua continentur; nam sicut species ipsae canis vel equi vel hominis ƿ animalia sunt, sic et unusquisque equus vel homo animalia praedicantur. Differentiae vero praedicantur de speciebus et de individuis hoc modo. Namque homo et equus species sunt sed rationalis dicitur et ad speciem hominis differentia praedicatur eodem modo et ad Ciceronem. Nam cum sub hominis specie individuum sit, et ipse rationalis appellatur proprium autem de specie praedicatur. Cum dicitur species; quod est homo, risibilis et cum dicitur Cicero risibilis, quod est individuum, monstratur proprium de individuis praedicari. Species vero de suis tantum solis individuis praedicatur interrogatur enim: quid est Cicero? et homo respondetur. Accidens vero ante praedicatur de individuis et postea de speciebus. Nam si quis dicat: homo sedet, quod est accidens separabile, cum quicumque singulum hominem, id est'individuum sedere viderit, tunc id et de specie praedicat, ut dicat: quoniam Cicero sedet Cicero autem homo est, homo sedet. Eodem modo inseparabile de speciebus et de individuis praedicatur. Expeditis ergo omnium communionibus, generis et differentiae primum communiones differentiasque declarat. Et primum dicit generi cum differentia esse commune quod ab utrisque species continentur. Nam genus, quod est animal, continet speciem hominis atque equi. Porro autem rationale, quod est differentia, continet et hominem et deum, et irrationale, ƿ quod est differentia, continet equum, bovem atque avem sed ita continet, ut genus semper plures species contineat quam continet differentia. Namque genus et ipsas differentias continet. Genus enim, id est animal, rationale atque irrationale continet illasque species quae sunt sub rationali; etiam eas <quae sunt sub> irrationali, continet genus, lid est animal. At vero differentia, id est rationale, in rationale non continet sed tantum hominem atque deum. Plus igitur genus continet quam differentia. Est autem et alia communio. Si quid enim ad quodlibet genus ita praedicatur, ut eius genus sit, et de illis speciebus quae sunt sub illo genere ad quod praedicatur, illud genus appellatur et de individuis quae sub illis speciebus sunt. Namque animal genus est hominis, et de animali praedicatur ut genus substantia; genus enim substantia animalis est. Ergo illa substantia quae ad hominis genus, id est animal, ita praedicatur ut genus, praedicatur etiam et ad ipsum hominem; dicitur enim homo substantia. Praedicatur item illud generis genus etiam de bis quae sunt sub specie individuis; dicitur enim Cicero, quod est sub hominis specie individuum, substantia. Differentia eodem modo. Nam si qua differentia dicta fuerit de alia differentia, ut differentia intellegatur, praedicabitur et ad speciem quae sub illa differentia est ad quam praedicatur, et de illis individuis quae sub eadem specie sunt. Nam 'ratione uti' differentia ad rationalem differentiam veluti cognata differentia praedicatur, rationabile autem praedicatur ad hominem: ƿ ergo et ratione uti praedicatur ad hominem. Idem etiam ratione uti praedicatur ad Ciceronem, quod est individuum sub illa specie ad quam speciem illa differentia, id est rationalis, praedicabatur, de qua praedicabatur ut cognata illa differentia, id est ratione uti. Igitur est ista generis differentiaeque communitas, quod ea quae de genere speciei praedicantur ut genus, et de sub eodem genere specie praedicantur et de indiaiduis, et illa quae de differentia praedicatur ut differentia, et de sub eadem differentia specie praedicatur et de individuis. Est autem alia communio, quod quemadmodum interempto genere species interimuntur, sic interempta differentia species sub eadem differentia interimuntur. Nam si interielit animal, homo atque equus continuo periturus est, sin vero differentia, id est rationale, dii atque homines interibunt et nihil eorum erit quod uti ratione possit. Post demonstrationem igitur communium proprietates eorum differentiasque designat et dicit differentiam primam eam qua genus non solum <a> differentiis sed etiam speciebus vel propriis vel accidentibus differat. Namque dicit genus multo de pluribus praedicari quam praedicetur differentia vel species vel accidens vel proprium. Namque genus dicitur, id est animal, de quadrupede, de bipede, <de> reptili, id est ƿ de serpentibus, vel de natabili, id est de pisce. Quadrupes autem, quod est a bipede differentia, de solis illis dicitur quae quattuor pedes habent, id est equus vel bos, de caeteris autem aliis, id est bipede vel reptili vel natabili, unde genus aequaliter praedicatur, appellari non potest. Plus autem genus ab speciebus praedicatur, quod, cum hominis species sit et de solis individuis praedicetur, idem tamen homo de equo vel bove vel cane non praedicatur. At vero animal, quod est genus, de pluribus speciebus praedicatur, id est de homine et de equo et cane et bove et de omnibus quae sunt sub ipsis posita individuis. Genus autem a proprio praedicationibus abundat, quod proprium unius speciei semper est et de sub eadem individuis, genus vero de multis speciebus et propriis praedicatur et de sub eisdem individuis. Ab accidentibus vero genus magis de plurimis praedicatur, quod, cum unius cygni inseparabile fortasse accidens sit album, animal non solum de cygno praedicatur sed de omnibus animalibus, etiam non albis, at vero accidens de solis tantum illis quibus inseparabiliter continetur vel quibus separabiliter; nam principaliter de individuis dicitur. Quare constat multo de pluribus praedicari genus quam accidentia praedicantur, quod accidentia principaliter de individuis, genera vero de individuis et de speciebus et de differentiis praedicantur. SED NUNC ILLAS DIFFERENTIAS ACCIPIAMUS QUIBUS GENUS DIVIDITUR, NON QUIBUS SPECIES FORMANTUR. Hoc autem tale est. Quoniam duas diximus differentiarum esse formas, ut aliae sint divisibiles, aliae constitutivae, constitutivas illas diximus quae sub eodem filo positae et a subalternis generibus descendentes speciem quandam informant atque efficiunt, ut est rationale vel mortale; quae hominis speciem constituunt, alias vero divisibiles, quae genus dividunt, non speciem informant, id est rationale et irrationale, mortale et immortale. Nunc de illis differentiis iste tractatus habetur quae genus dividunt, non quae speciem constituunt. Nam illae quae genus dividunt, 1n differentiarum integro loco accipiuntur, illae vero quae speciem constituunt, in generum specierumque substantia recipiuntur. Namque rationale mortalis genus est, porro mortale hominis genus est, et istae constituunt speciem, at vero rationale irrationalis species non est neque genus, nec mortale immortalis neque genus neque species est. Atque ideo quoniam propriam vim differentiarum ista retinent quae neque genera neque species sibi invicem esse possunt, ipsas nunc differentias accipiamus in quibus nulla quantum ad genus est speciemque communitas. Est etiam generis differentia. Namque genus a propriis differentiis prius est. Namque si abstuleris genus, omnes simul differentias abstulisti. Nam si abstuleris animal, rationale atque irrationale non remanent. Porro autem si rationale abstuleris, remanet ƿ animal. Sed si utrasque interemeris differentias, id est rationale vel irrationale, potest tamen quiddam intellegi, quod sit substantia animata sensibilis, id est animal. Ita genus sublatum omnes secum auferet differentias, sublatae differentiae genus secum non interimunt, quod intellegentia genus remanet, id est quoniam potest animal intellegi praeter differentias, ut eius tantum definitionem animo capias et esse dicas substantiam animatam atque sensibilem. Quae autem talia sunt, ut ipsa interempta interimant, non simul aliis interemptis ipsa interimantur, priora sunt illis quae possunt interimere. Est etiam alia differentia, quod genus semper in eo quod quid sit praedicatur, ut dictum est, differentia vero in eo quod quale sit. Sed hoc frequentius inculcatum est atque ideo a nobis praetermittendum est. Est etiam alia differentia, quod ad omnem speciem unum semper genus aptatur. Homo enim unum tantum genus habet, ut animal appelletur, in unam autem speciem plurimae differentiae poterunt commodari. Namque homo et rationale est, quae differentia est, et mortale, quae eadem differentia est, et sensibile, quibus scilicet omnibus ab aliis differt. Differt enim his omnibus, quod sensibilis est ab insensibilibus, quod rationalis ab irrationabilibus, quod mortalis ab immortalibus. Est etiam alia differentia, quae superius dicta est. Nam genus speciei ita est ut materies, differentia vero ut figura. Nam sicut in aeris materiem veniens figura statuam efficit, ita animali, id est generi, veniens differentia, id est rationale vel irrationale, facit hominis vel pecudis speciem. Quae autem communitates ƿ vel proprietates generis <et differentiae> fuerunt, hactenus dixit. Et fortasse erunt etiam aliae, quae propter brevitatem supersedendae atque omittendae sunt. Nunc autem de generis vel speciei communitatibus proprietatibusque tractatur. Et dicit genus et speciem commune habere de pluribus praedicari, sicut dictum est. Nam genus et de speciebus pluribus praedicatur et earum individuis et item species de sub se plurimis individuis appellatur. Et hic quoque illae species accipiuntur quae magis species sunt. Nam si subalternae accipiuntur, non magis species quam genera videbuntur. Nam quae subalternae species sunt, etiam genera sunt, et erit absurdum et huic propositioni inconveniens de generum inter se differentiis communibusque tractare. Accipiantur illae tantum species quae vere species et magis species appellantur. Est etiam alia eorum communio, quod sicut gentls ab specie primum est, sic species ab individuis primae sunt. Nam si genus auferas, species abstulisti, si species abstuleris, genera non peribunt. Porro si species abstuleris, individua morientur, si individua interierint, species manent. Est etiam his alia communio, quod quemadmodum genus quid sit totum declarat, sic etiam species. Nam totum quod est rationale atque irrationale, a genere declaratum est; dicitur enim quicquid fuerit rationale vel irrationale, id esse animal. ƿ Sic igitur totum quid sit, a genere declaratur. Porro autem quid sit tota hominum diversitas, id est individuorum, a sola specie declaratur, cum dicitur homo. Nam et Scytha et Indus et totum quisquid in individuis est, uno solo hominis, id est speciei nomine continetur. Dissertis igitur generis specieique communibus ad proprietates eorum vel differentias transitum fecit dicens differre inter se genus et species, quod genera species continent, numquam rursus genera ab speciebus propriis continentur. Oportet autem, ut dictum est, in hoc tractatu non subalternas sed magis species considerari. Genus enim plurimarum specierum est continens et unum omnium et totum et omnibus et singulis. Quod si ita est et genus a suis speciebus singulis maius est atque ideo eas dicitur continere, non est dubium quin ea ipsa genera quae continent species, ab his ipsis contineri non possint. Insuper omnia genera praeiacent. Hoc videtur dicere quod omnia genera prius sint ab his speciebus quae sub ipsis positae continentur. Nam sicuti materies prima est ab illa re quae veniens in materiem formam constituerit atque figuravexit, sic etiam prius est genus ab illa specie quam veniens differentia formabit atque constituet. Nisi enim in generibus differentia venerit, species numquam constituentur. Quare praeiacent, id est praesunt et antiquiora sunt genera speciebus suis. Atque ideo si genera interimantur, ƿ species quoque peribunt; nam si animal sustuleris, hominem pecudemque sustulisti. Si vero species interimantur, non continuo genus interibit; nam si homo perierit, animal continuo non interemptum est, alia enim remanebit species de qua ipsum animal, id est genus praedicetur. Atque ideo genera ab speciebus suis priora dicuntur. Et quod omnia genera univoce de speciebus praedicentur, species ipsae de generibus numquam. Hoc, ut arbitror, in hesterna lucubratione iam dictum est. Nam genera semper de speciebus univoce praedicantur. Homo enim et homo est et animal. Porro autem animal genus est hominis et praedicatur animal de lmmine. Quoniam ergo animal Ac homine praedicatur et dioitur homo animal, animal et homo uno animalis nomine nuncupantur. Sed his ipsis definitio una conveniet. Est enim animal snbstantia animata sensibilis, quod non absurdum est in homine dici. Nam si homo ipse animal dicatur, non erit absurdum dici de homine 'substantia animata sensibilis'. Igitur genus de speciebus suis univoce praedicatur, quod eodem nomine et eadem definitione conveniat. At vero species non modo univoce non praedicantur de generibus suis sed nec omnino praedicantur; nulla enim res minor de maiore poterit prxedicari. Atque ideo, quoniam species minores sunt suis generibus, de generibus suis neque univoce neque aliquo modo poterunt appellari. AMPLIUS OMNIA GENERA ABUNDANT COMPLEXIONE SUB SE POSITARUM SPECIERUM, IPSAE SPECIES ABUNDANT GENERUM SUORUM PROPRIIS DIFFERENTIIS. Quod dicit proinde est ac si diceret: Omne quod genus est, plures sub se species continet, omne quod species, plures in se differentias habet. Genus enim, id est animal, in hoc homine, id est specie, superabundat et superest, quod homo solum homo est, animal vero non solum homo sed etiam bos vel avis vel alia huiusmodi. Species vero in eo superant genera sua, quod eas differentias quas species in actu habent, eas genera non habents nam, sicut superius dictum est, genera differentias illas quas habent sub se species positae, potestate continent, non etiam re. Atque ideo species quae est homo, vel alia species, sicut est equus, a genere suo, animali, in hoc abundant et supersunt, quod animal ipsum per se neque rationale neque irrationale est, at vero homo vel equus hoc rationale. Illud vero rationis expers. ILLUD ETIAM, QUOD SPECIES NUMQUAM MAGIS GENUS FIET, RURSUS ET GENUS NUMQUAM MAGIS SPECIES FIT. Et ut sciremus hic non de subalternis speciebus. Sed de illis magis speciebus specialissimisque tractari, quid ait? Quod ea quae sunt genera, magis species fieri numquam possunt neque magis species aliquando fieri magis genus. Nam species numquam genus est. Quicquid enim fuerit species, genus non erit neque quicquid fuerit genus, species erit. Quare constat in his eum tractatibus de speciebus solis, non etiam de subalternis disserere. Subalternae enim possunt esse etiam genera. Magis species vero, ut ipse ait, numquam genera esse possunt. Sed postquam de generum specierumque communitatibus differentiisque tractatus est habitus, ad genera propriaque transgressus est. GENERIS ET PROPRII COMMUNE HOC EST, ADHAERERE SPECIEBUS ET AMPLECTI. Dicit geners et propria in hoc sibi esse consimilia, quod omne genus a suis speciebus numquam recedit. Eodem modo et propria. Nam si dixeris 'homo', cum ipso homine continuo animal nominasti, quod ipsius hominis, id ost speciei genus est. At vero etiam si hominem dixeris, eius etiam proprium continuo cum bomine nominasti; omnis enim homo risihilis est. Ita semper genus et propria suis speciebus inselta et quodammodo conglutinata sunt. SIMILITER ET GENUS PRAEDICATUR DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE HIS QUAE SUI PARTICIPANTIA SUNT. Et aequaliter, inquit, omnes species eidem generi supponuntur et ad eas genus illud appellatur, sicut propria ad ea praedicantur quae sui participare possunt. Namque aequaliter genus animal de homine dicitur et de equo et de bove et de caeteris animantibus, quemadmodum et risibile, id est proprium, de Hortensio dicitur et Cicerone et de singulis individuis quae sub eadem specie continentur, ad quam speciem proprium, id est risibile, poterit praedicari. Adhuc commune est ipsis univoce praedicari. Nam genus ƿ de suis speciebus, ut dictum est, univoce praedicatur et risibile de ea specie cuius est proprium, univoce praedicatur; namque et homo est et risibile. Porro autem si quis dicat hominem esse animal rationale et mortale et dixerit risibile esse animal rationale et mortale, non errabit. Aequaliter igitur et genus de speciebus suis et propria de ea specie cuius sunt propria, univoce praedicantur. Differt autem utrumque, quod genus primum et secundum est proprium. Genus enim si ab specie primum est, proprium autem uni tantum speciei adhaeret et eidem aequale est, non est dubium quoniam genus, quod specie maius est, proprio etiam speciei maius sit. Nam ut sit risibile, animal prius est. Namque ut aliqua species informetur, propriis et differentiis primo erit genus, ubi illa conveniant, sicut *equentius inculcatum est. Accedit etiam quod genus de plurimis speciebus praedicatur. Namque genus, id est animal, de pluribus, at vero propriums id est risibile, de sola tantum hominis specie praedicatur. Unde fit ut semper propria de speciebus suis conversim praedicari possint, species autem de generibus numquam. Neque enim omne quod animal est, homo est neque omne quod animal est, risibile est. Potest enim esse et equus et hinnibile id ƿ quod animal nominatur. Porro autem omne quod est homo, id risibile est et omne quod risibile est, id homo est. Possunt autem propria et species sibi ipsa converti et conversim ad se invicem praedicari. Praeterea omni speciei quicquid fuerit proprium, omni et soli est. Namque risibile et omnibus hominibus est et solius hominis speciei evenit. At vero animal, qmld genus est, etsi uni speciei inest, non tamen soli. Namque animal omni homini inest, non soli tamen homini, quia inest etiam pecudi et caeteris animantibus. Oportet autem hic illa propria intellegere quae magis propria sunt, id est quae integre propria nominantur; quae sunt huiusmodi, ut et uni speciei et omnibus insint. Differunt ergo in hoc quoque genera et propria, quod propria et uni speciei et omnibus individuis in ea specie sunt, genera vero omnibus quidem individuis in ea specie sunt sub eodem genere, non tamen uni soli speciei, quoniam genus semper de plurimis praedicatur. Unde fit ut sublata propria non auferant genus, sublatis vero generibus ipsa quoque propria auferantur. Nam si sustuleris proprium, id est risibile, remanet hinnibile remanet natabile. Si vero genus snstuleris, simul quoque species sustulisti si species sustuleris, propria etiam quae sunt speciebus, simul interibunt. Itaque sublatis generibus propria sustuleris, sublatis propriis simul genera non auferuntur Peractis igitur generum propriorumque differentiis ad generum accidentiumque communitates vel proprietates transitum ƿ fecit et unam eorum praedicat communitatem, quae est quod de pluribus praedicantur. Namque sicut genus de plurimis speciebus praedicatur, ita etiam separabile accidens vel inseparabile de plurimis speciebus appellatur. Dicitur enim et de coruo et de homine Aethiope nigrum et de equo et de homine moveri, quod illud est inseparabile accidens, illud vero separabile. Et quoniam longius a se distant, idcirco unam eorum solam communionem dixit et alias si quae forte essent quaerere supersedit. Differt autem genus ab accidenti, quod genus ante species est, accidentia vero speciebus posteriora sunt. Semper genera super species et his praeiacere et esse maiora superius demonstratum est. Namque prius est animal ab homine, atque ideo consumptum animal species quoque consumit, consumptae species non interimunt genera. At vero accidens postea necesse est ut sit, quam sunt ipsae species. Erit enim prius aliquid cui possit accidere. Omne enim accidens praeter illud cui accidit, esse non potest. Atque ideo prius erit aliqua res ubi accidat, quam est ipsum accidens. Necesse est igitur omne accidens post species inveniatur et magis post individua, quibus principaliter possit accidere. Huc accedit quod generis participantia aequaliter participant. Sicut omne genus speciebus suis aequaliter genus est, ut saepius dictum est, ƿ et species omnes aequaliter suo generi participant. Namque equus et homo aequaliter animalia sunt neque equus homine plus neque homo equo. At vero accidentia non aequaliter participant nam cum separabile accidens sit moveri, possunt aliae inter se species eodem accidenti participantes tardius velociusque moveri. Et de inseparabili accidenti eodem modo. Est enim ut aliquis nigrioribus oculis sit et alius quamvis nigris, tamen purpureis. Atque ideo et intentionem et remissionem recipit accidens. Nam et candidum quod dicitur, et magis et minus dicitur et alia huiusmodi. Quare distant haec duo, quod genere quae participant, aequaliter participant, accidenti fortasse non aequaliter. Huc accedit quod genera non modo ante individua sed ante species sunt, accidentia vero non modo post species sed etiam post individua sunt; ipsis enim principaliter necidunt, ut dictum est. Est etiam differeutia quae iam superius dicta est. Nam genus in eo quod quid sit praedicatur, accidens vero in eo quod quale sit aut quomodo se habeat. Nam si quid sit Socrates interroges, 'homo' atque 'animal' respondetur, si vero qualis sit, fortasse 'caluus' aut 'simus', quae accidentia sunt inseparabilia. Sin vero quomodo se habeat, aut 'iacet' respondetur aut 'sedet' aut quod aliud faciens contigerit. Ergo quoniam generis ad speciem et differentiam, ad proprium et accidens divisa substantia est, nunc vero posteriora persequitur. Sunt autem omnes differentiae viginti. Nam cum quinque res sint et unaquaeque ipsarum ad alias quattuor quattuor item differentias habeat, quinquies quaternis viginti differentiae efficiuntur. Nam si genus differt ab specie, proprio, differentia, accidenti, quattuor differentiae fiunt. Sin vero species differt a genere, proprio, differentia, accidenti, item quattuor; quae iunctae cum superioribus octo fiunt. Et si differentia distat ab specie, proprio, genere. Accidenti, aliae quattuor supercresculat; quae iunctae cum octo prioribus duodecim faciunt. At vero si proprium differt a genere, specie, differentia et accidenti, aliis quattuor differentiis super duodecim positis omnes sedecim differentiae fiunt. Quodsi accidentis quoque differentias ad quattuor reliqua duxeris, quattuor super sedecim crescentibus viginti omnes differentiae perficiuntur. Quarum ita viginti sunt, ut ad sufficientem doctrinae cumulum decem tantum differentiae numerentur. Nam quod dictum est genus differre a differentia, specie, proprio et accidenti, quattuor fuere differentiae. Si autem differentiam dicamus differre <ab> specie, proprio et accidenti, superuacuum ƿ est differentiae cum genere differentias commemorare, cum iam prius commemoraverimus, quando generis ad differentiam differentias dicimus. Eisdem enim, ut opinor, differt differentia a genere quibus differebat genus a differentia. Itaque relinquenda est haec differentia qua distat differentia a genere, quoniam iam superius dicta est, cum diceretur quid genus, distaret a differentia. Remanent igitur tres differentiae, quibus ipsa differentia ab specie, proprio et accidenti distat. Et cum superioris generis ad alia quattuor differentiae fuerint. Nunc vero differentiae ad alia tres distantiae videantur, septem hae distantiae fiunt. At vero species quid a genere distet, iam tunc dictum est, cum dicebatur quid genus distet ab specie. Quid autem a differentia discreparet, tunc demonstratum est, cum diceremus in quo differentia ab specie discerneretur. Remanent igitur duae speciei, id est cum proprio et accidenti differentiae, quae iunctae cum superioribus septem novem differentias efficiunt. Restat igitur una proprii et accidentis differentia quae dicatur. Nam quid a genere distet dictum est, cum quid genus distaret a proprio diceretur, porro quid ab specie, dudum dicebatur, cum quid species a proprio differret enumerabatur, porro autem quid a differentia, etiam id dictum est, cum a proprio differentia separaretur. Sed nunc quemadmodum differentia ab specie, proprio accidentique discernatur, videamus. Et est communio differentiae et speciei quod aequaliter species sub se individuis se permittit et aequaliter individua specie ipsa participant; namque omnes homines aequaliter homines sunt et hominis participatione aeque participant. Eodem modo etiam differentia; namque omnes homines aequaliter rationales sunt et rationabilitate, quae est differentia, omnes qui ratione participant, aeque participant. Est etiam alia communitas. Quod quemadmodum species numquam deserit ea quorum species est et quibus superest, sic et differentia numquam ea deserit quae distare ab aliis facit. Namque Socrates quoniam sub specie hominis est, numquam ab hominis specie deseritur; semper enim Socrates homo est. At vero differentia Socratem, quoniam Socrates rationalis est, numquam deserit; semper enim Socrates rationale animal est. Differunt autem inter se species et differentia, quod differentia semper in eo quod quale sit praedicatur -- nam dicitur quale animal sit <Socrates>, ut rationale respondeatur. Species vero in eo quod quid sit praedicatur; nam dicitur quid sit Socrates, ut homo respondeatur. Namque hominis qualitas rationale est. Sed non simpliciter. Illa enim qualitas pro differentia accipitur, quae veniens in ƿ genere speciem constituit et de qualitate substantiali facta est substantialis et specifica differentia. Ista igitur talis qualitas differentia nominatur et ea in eo quod quale sit ad hominem praedicatur. Hoc etiam est in eorum differentiis. Namque differentia frequenter in pluribus speciebus consideratur. Differentia enim quadrupes in bovis et in equi et in canis specie est et differentia rationalis hominis et dei. Species vero numquam aliis nisi solis sub se individuis praeest. Numquam enim alia res homo est nisi quod est individuum, ut est Socrates et Plato et Cicero. Unde fit ut sublata differentia species quoque tollatur. Nam si sustuleris rationale, hominem sustuleris. Si vero sustuleris speciem, differentia manet. Nam si sustuleris hominem, rationalis dei differentia remanebit. Est vero etiam haec differentia, quod differentia cum alia differentia iungi potest, ut aliqua ex his species informetur. Namque rationalis differentia et mortalis differentia iunctae hominis unius speciem reddiderunt, iunctae vero species numquam aliquam ex se speciem constituent. Si enim iungas hominem bovi, nulla ex his species informabitur. Sed fortasse dicat quis: asini atque equi coniunctione mulus nascitur. Sed non ita est: namque individui coniunctione natum est aliquid individuum. Si autem sic simpliciter speciem ipsam asini atque equi coniungas, nulla ex his umquam species constituitur. Neque enim si se possunt individua commiscere, ideirco etiam species individuorum in alterutram substantiam transeunt. ƿ Atque ideo constat iunctas species unam speciem non posse componere, quod differentiae iunctae unius speciei constitutivae sint. His itaque transactis ad differentiae et proprii communia veniamus. Differentia et proprium commune habent quod quibus differentia est et a quibus ipsa differentia participatur, aequaliter participatur, sicut etiam et quibus proprium est, proprium ipsum participatur. Nam rationalis differentia quoniam est hominibus et omnes homines rationali differentia participant, non est dubium quia omnes homines aequaliter sint rationales atque aequaliter rationabilitate participent. At vero proprium, quod risibile est, aequaliter omnibus hominibus est; omnes enim homines aequaliter risibiles sunt. Est etiam haec eorum communitas, quod sicut potestate risibile dicitur, etiamsi non rideat, ita etiam potestate bipes dicitur, etiamsi quis uno pede minuatur. Non enim quod est dicitur sed quod esse possit; nam quoniam ille ridere potest, risibilis nominatur, quod ille duos pedes habere possit, bipes. Atque ideo numquam ab illis in quibus sederint, proprium differentiaque discedunt. Semper enim homo risibilis est, etiamsi non rideat, semper bipes, etiamsi uno pede minuatur. In his enim differentiis et propriis, ut dictum est, quod potestate esse possit, non quod vere sit consideratur. Differunt autem inter se, quod differentia de pluribus speciebus praedicatur, proprium vero de una. Namque differentia quae est mortalis, praedicatur de homine et de bove et equo et caeteris animantibus et rationale praedicatur et de deo et de homine, at vero risibile de sola tantum specie hominis praedicatur. Unde evenit ut omnis differentia, quoniam plurimarum continens est specierum, a suis speciebus maior sit, atque ideo ipsa de speciebus praedicari potest. Porro autem de ipsa species praedicari non possunt, neque conversim dini potest. Nam quoniam homo dicitur rationalis, non contra dicitur 'quod rationale est, id homo est'; potest enim esse etiam non homo sed deus. At vero proprium, quoniam aequaliter et ad unam speciem semper aptatur, aequa vice atque appellatione convertitur. Dicitur enim: quid est homo? risibile; quid est risibile? homo. Quibus pertractatis ad differentiam et accidens transgressa disputatio est. Differentia et accidens commune habent de pluribus praedicari. Namque differentia dicitur et de homine et de deo, quoniam utrique rationales sunt, et accidens dicitur de homine et de equo, ut homo Aethiops niger et equus niger. Est etiam ista communio, quod inseparabile accidens, cuicumque speciei fuerit, inseparabiliter et omnibus inest ut differentia. ƿ Namque inseparabile accidens quod est nigrum coruo, inseparabiliter accidit coruo et omnibus coruis. Eodem modo etiam differentia. Nam quoniam accidit homini ut bipes sit, semper et omnibus hominibus est esse bipedibus. Differunt autem inter se, quod omnis differentia species continet, non contra ipsa ab speciebus continetur. Nam si differentia plures sub se species habet, ut dictum est, maior erit sub se positis speciebus, si maior etit, numquam eam quaelibet species continet; maior enim a minori numquam continetur. Namque quod est rationale, continet hominem et deum homo vero rationale non continet. Accidentia vero aliquotiens continent, aliquotiens continentur. Namque continent; quoniam frequenter unum accidens duas sub se species habet. Ut nigrum habet Aethiopem, habet et coruum, continentur vero. Quoniam species una habet duo vel tria vel quamlibet plurima accidentia. Si quis enim sit glaucus vel crispus vel candidus vel procerus, haec omnia accidentia ille unus cui accesserunt complectitur et continet. Atque ideo species illa quae illud individuum continet quod individuum plura in se accidentia suscepit, accidentis illius complexiva est. DEHINC DIFFERENTIA NUMQUAM INTENDITUR NEQUE RELAXATUR. Quod dicit hoc est. Rationale in unaquaque specie neque plus neque minus est. Nullus enim homo alio homine ad substantiam ƿ plus rationalis est neque minus. At vero accidens et intenditur et relaxatur. Dicitur enim quicumque procerior, dicitur quicumque velocior, dicitur quicumque crispior, quae omnia accidentia esse non dubium est. PRAETEREA IMMIXTAE SEMPER SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE. Immixtae ait, id est immixtibiles, quae misceri non possunt. Neque enim rationale cum irrationali misceri potest neque in una specie convenire. At vero contraria accidentia manifestum est in una specie posse congruere. Namque nigrum vel album potest in una non modo specie sed etiam individuo congruere. Potest enim quicumque homo, cum ipse sit candidus, nigros tamen capillos habere. Ergo <quoniam> quemadmodum species differat a genere vel differentia dictum est, cum de generis ad speciem et differentiae ad speciem distantia diceremus. Nunc dicemus, id quod reliquum est, de speciei propriique communibus. Et est una eorum communio, quod de se ipsa invicem praedicantur. Nam quoniam aequa sibi sunt, neque species hominis alii proprio convenit nisi risibili neque risibile alii convenit speciei nisi horhini, atque ideo dicitur: ƿ quid homo? quod risibile; quid risibile? quod homo. Commune est etiam illud, quod omne proprium aequaliter ad sub se posita praedicatur, namque omnes homines aequaliter risibiles sunt, et species aequaliter ad sub se posita praedicatur, namque omnes homines individni aequaliter uno nomine homines nuncupantur. Differunt autem a se, quoniam species potest etiam genus alteri esse, proprium esse non potest. Sed hic illam speciem intellegamus quae subalterna est, non illam quae magis species est et genus esse numquam potest. Atque ideo nos illam modo solam quae subalterna species est intellegamus, quae scilicet poterit esse et genus: namque mortale cum rationalis generis species sit, hominis genus est, at vero risibile de nulla umquam specie alia poterit praedicari neque alii esse proprium, sicut est hominis. Illa enim semper, ut dictum est, propria sunt quae nulli alii nisi ad unam speciem semper aptantur. DEINDE SPECIES PRAECEDIT ET SIC PROPRIUM SEQUITUR. Quod dicit tale est. Omnis species ut habeat proprium, primo eam esse et constare necesse est. Oportet enim prius esse hominem, ut sit risibilis, non prius esse risibile, ut sit homo. Nam quoniam proprium dicitur, per se proprium non constat, nisi alicuius speciei sit. Atque ideo prius esse necesse est illud cuius est proprium, quam sit proprium. Huc accedit quod species semper in opere intellegitur cuiuscumque subiecti. Species enim semper in actu est, non solum potestate. Homo enim re vera et opere et actu homo est, id est numquam poterit esse non homo. At vero risibile, quod est proprium, potestate tantum dicitur, etiamsi in actu non sit. Potest enim quilibet ille non ridere, tamen quia ridere potest, risibile nominatur. Distant igitur in hoc, quod semper species in actu est et in opere, proprium vero aliquotiens potestate. Deinde quorum definitiones diversae sunt, necessario etiam ipsa quoque diversa sunt. Omnis definitio substantiam definit. Ergo si qua eiusdem substantiae fuerint, eadem etiam definitione monstrantur, si qua eadem definitione fuerint, eadem substantia praedicantur. At vero si qua definitionibus differant, differunt etiam substantiis, quae substantiis difforunt, longe a se ipsis alia sunt. Nunc igitur quoniam definitiones proprii et speciei differunt, species quoque ipsa et propriurn a se differunt. Est autem speciei definitio sub genere esse et ad plurima numero differentia in eo quod quid sit praedicari, at vero proprii uni tantum inesse speciei et sub ipsa de omnibus individuis praedicari. Sed quoniam et definitiones differunt, ipsa quoque species a proprio distabit. Post haec ad communitates speciei et accidentis disputationem transtulit et dicit eorum raras esse alias communitates ƿ nisi has solas, quod de pluribus praedicantur. longe enim a se distare videntur in substantia sui et in potestate patiendi atque faciendi id quod alicui accidit et id cui accidit. Namque illud cui accidit, quasi quoddam accidentis est fundamentum, illud vero quod accidit, praeter id cui accidit, esse in sui substatltiÇ non potest. Propria vero singulorum sunt haec, quod species in eo quod quid sit praedicatur, accidens vero in eo quod quale sit et quodammodo se habens. Nam si quis dicat: quid Socrates est? homo dicitur; si quis dicat, qualis sit, caluus vel simus appellatur, si quis vero, quomodo se habens sedens aut iacens appellabitur. Item quod unaquaeque substantia unam speciem habet. Namque hominis substantia unam solam hominis speciem habet, substantia vero equi unam solius equi speciem habet. At vero una substantia plura frequenter accidentia continebit. Nam et in eodem equo quaedam pars frequenter nigra, quaedam alba et est in eo proceritas, est altitudo, est aquilum caput et alia huiusmodi. Habet etiam non solum inseparabile accidens eadem substantia sed etiam separabile. Nam fortasse quidam velos est et idem etiam corpore validus eat, idem etiam sagittator et caetera. Huc accedit quod species praenoscuntur, ƿ id est praeintelleguntur, hoc est ante esse cognoscuntur quam accidentia. Et prius erit aliqua res ubi accidat, quam illa quae accidat. Et quoniam species est subiectum accidentis ubi accidens accidat, ideoque ante species intellegitur esse quam accidens. Accidentia vero postnativa sunt, id est a foris venientia et estranea a qualibet illa substantia, etiamsi inseparabilia sunt. Haec quoque est eorum separatio, quod semper omnia quae participant specie, aequaliter participant; aequaliter enim et Socrates et Cicero et Plato homines sunt. At vero illa quae participant accidenti, etiamsi inseparabile accidens sit, tamen non aequaliter participant. Namque quamvis inseparabile sit accidens Aethiopibus nigros esse, tamen est aliquis inter ipsos nigrior nec omnes illa nigredine aequaliter participant. Relinquitur igitur de communibus proprii accidentisque tractare; nam proprium quid distaret vel ab specie vel a genere vel a differentia, superius demonstratum est. Proprium autem et inseparabile accidens commune habent, quod sine his numquam consistunt ea quae ƿ eorum participant et in quibus ipsa considerantur. Nam neque homo amittit risibile esse nec Aethiops aut coruus nigrum. Atque ideo sine his ipsis, id est propriis et accidentibus, quae eorum participant, constare non possunt, ne forte contra superiorem definitionem accidentis venire videatur ista communio -- est enim ita definitum: accidens est quod infertur et aufertur sine eius in quo est interitu -- quod nunc dici videtur sine his constare non posse, cum superius sine eorum interitu posse dicerentur auferri. Sed hoc modo dicitur, non quod, si auferatur hoc accidens inseparabile, intereat illud cui accidit sed quoniam separari non potest, idcirco sine hoc constare non possit. Est etiam in separabilis accidentis et proprii alia communio, quod sicut et omni et semper inest proprium cui inest, id est homini -- semper enim et omnis homo risibile est -- sic etiam quodlibet accidens inseparabile et semper et omni est accidens inseparabile; namque et omnis coruus et semper niger est. Sola autem separabilibus accidentibus illa communio est, quod quemadmodum de multis individuis proprium praedicatur, ita etiam accidens de multis individuis potest praedicari. Plures etiam currunt, plures ambulant, quae scilicet accidentia separabilia sunt, quemadmodum plures possunt esse risibiles. Differunt autem ista, quod proprium semper uni speciei inest, accidens vero et pluribus. Namque accidens ƿ pluribus speciebus et animatis et inanimatis evenit, ut est hebeno nigrum, coruo nigrum, homini Aethiopi nigrum, risibile vero nulli nisi soli homini. Atque ideo conversim proprium praedicatur, quia unius speciei continens est et illi speciei soli aequalis est, at vero accidens conversim praedicari non potest, quia plures sub se species habet. Non enim potes dicere id esse nigrum quod hebenum, cum dicas hoc esse hebenum quod nigrum; potest enim esse nigrum et non esse hebenum. Deinde omne proprium aequaliter se his rebus quae sub se fuelint dat et ab his aequaliter participatur -- Socrates enim et Cicero et Vergilius aequaliter et risibili participant et aequaliter risibiles sunt -- at vero accidens non semper aequaliter; potest enim quicumque esse procerior et alius esse velocior, quod scilicet illud separabile est accidens, illud inseparabile. Et fortasse aliae eorum quaedam proprietates vel communiones esse videantur sed nunc quantum introductioni sat est, ista sufficiant. Sed iam tibi, mi Fabi, omnia quaecumque ad Introductionem Porphyrii pertinent, plenius uberiusque tractata sunt. Post vero si quid umquam mei egueris, studiis praesertim tuis, quae nulla umquam honestate caruerunt, libens animo hortatorque ad easdem cupiditates parebo. Hic Fabius: Tu, inquit, paterno haec mihi animo polliceris, verum ego numquam deficiam ab his studiis, te praesertim docente, ƿ a quo totam fortasse logicae Aristotelis, si vita suppetet, capiam disciplinam. Et ego: Faciam, inquam, libentissime. Sed quoniam iam matutinus, ut ait Petronius, sol tectis arrisit, surgamus, et si quid illud est, diligentiore postea consideratione tractabitur.  Secundus hic arreptae expositionis labor nostrae seriem translationis expediet, in qua quidem vereor ne subierim fidi interpretis culpam, cum verbum verbo espressum comparatumque reddiderim. Cuius incepti ratio est quod in his scriptis in quibus rerum cognitio quaeritur, non luculentae orationis lepos sed incorrupta veritas exprimenda est. Quocirca multum profecisse videor, si philosophiae libris Latina oratione compositis per integerrimae translationis sinceritatem nihil in Graecorum litteris amplius desideretur. Et quoniam humanis animis excellentissimum bonum philosophiae comparatum est ƿ ut via et filo quodam procedat oratio, ex animae ipsius efficientiis ordiendum est. Triplex omnino animae vis in vegetandis corporibus deprehenditur. Quarum una quidem vitam corpori subministrat ut nascendo crescat alendoque subsistat; alia vero sentiendi iudicium praebet; tertia vi mentis et ratione subnixa est. Quarum quidem primae id officium est ut creandis nutriendis alendisque corporibus praesto sit, nullum vero rationis praestet sensusue iudicium. Haec autem est herbarum atque arborum et quicquid terrae radicitus affixum tenetur. Secunda vero composita atque coniuncta est ac primam sibi sumens et in partem constituens varium de rebus capere potest ac multiforme iudicium. Omne enim animal quod sensu viget, idem et nascitur et nutritur et alitur. Sensus vero diversi sunt et usque ad quinarium numerum crescunt. Itaque quicquid tantum alitur non etiam sentit, quicquid vero sentire potest ei prima quoque animae vis, nascendi scilicet atque nutriendi, probatur esse subiecta. Quibus vero sensus adest non tantum eas rerum capiunt formas quibus sensibili corpore feriuntur praesente, sed abscedente quoque sensu sensibilibusque se positis cognitarum sensu formarum imagines tenent memoriamque conficiunt, et prout quodque animal valet longius breviusque custodit. Sed eas imaginationes confusas atque inevidentes sumunt ut nihil ex earum coniunctione ac compositione ƿ efficere possint. Atque idcirco meminisse quidem possunt nec aeque omnia, admissa vero oblivione memoriam recolligere ac reuocare non possunt. Futuri vero his nulla cognitio est. Sed vis animae tertia, quae secum priores alendi ac sentiendi trahit hisque velut famulis atque oboedientibus utitur, eadem tota in ratione constituta est eaque vel in rerum praesentium firmissima conceptione vel in absentium intellegentia vel in ignotarum inquisitione versatur. Haec tantum humano generi praesto est, quae non solum sensus imaginationesque perfectas et non inconditas capit sed etiam pleno actu intellegentiae quod imaginatio suggessit, explicat atque confirmat. Itaque, ut dictum est, huic divinae naturae non ea tantum cognitione sufficiunt quae subiecta sensibus comprehendit, verum etiam et insensibilibus imaginatione concepta et absentibus rebus nomina indere potest, et quod intellegentiae ratione comprehendit vocabulorum quoque positionibus aperit. Illud quoque ei naturae proprium est, ut per ea quae sibi nota sunt ignota uestiget et non solum unumquodque an sit sed quid sit etiam et quale sit necnon cur sit, optet agnoscere. Quam triplicis animae vim sola, ut dictum est, hominum natura sortita est. Cuius animae vis intellegentiae motibus non caret, quia in his quattuor propriae vim rationis exercet. Aut enim aliquid an sit inquirit aut si esse constiterit, quid sit addubitat. Quodsi etiam utriusque scientiam ratione possidet, quale sit ƿ unumquodque uestigat atque in eo caetera accidentium momenta perquirit, quibus cognitis cur ita sit quaeritur et ratione nihilominus uestigatur. Cum igitur hic actus sit humani animi ut semper aut in <rerum> praesentium comprehensione aut in absentium intellegentia aut in ignotarum inquisitione atque inventione versetur, duo sunt in quibus omnem operam vis animae ratiocinantis impendit, unum quidem ut rerum naturas certa inquisitionis ratione cognoscat, alterum vero ut ad scientiam prius veniat quod post gravitas moralis exerceat. Quibus inquirendis permulta esse necesse est quae uestigantem animum a recti itinere non minimum progressione deducant, ut in multis evenit Epicuro qui atomis mundum consistere putat et honestum voluptate metitur. Hoc autem idcirco huic atque aliis accidisse manifestum est quoniam per imperitiam disputandi quicquid ratiocinatione comprehenderant, hoc in res quoque ipsas evenire arbitrabantur. Hic vero magnus est error; neque enim sese ut in numeris ita etiam in ratiocinationibus habet. In numeris enim quicquid in digitis recte computantis euenerit, id sine dubio in res quoque ipsas necesse est evenire, ut si ex calculo centum esse contigerit, centum quoque res illi numero subiectas esse necesse est. Hoc vero non aeque in disputatione servatur: neque enim quicquid sermonum decursus invenerit, ƿ id natura quoque fixum tenetur. Quare necesse erat eos falli qui abiecta scientia disputandi de rerum natura perquirerent. Nisi enim prius ad scientiam venerit quae ratiocinatio veram teneat disputandi semitam quae veri similem, et agnoverit[1] quae fida quae possit esse suspecta, rerum incorrupta veritas ex ratiocinatione non potest inveniri. Cum igitur ueteres saepe multis lapsi erroribus falsa quaedam et sibimet contraria in disputatione colligerent -- atque id fieri impossibile videretur ut de eadem re contraria conclusione facta utraque essent vera quae sibi dissentiens ratiocinatio conclusisset, cuique ratiocinationi credi oporteret esset ambiguum -- visum est prius disputationis ipsius veram atque integram considerare naturam, qua cognita tum illud quoque quod per disputationem inveniretur, an vere comprehensum esset, posset intellegi. Hinc igitur profecta est logicae peritia disciplinae, quae disputandi modos atque ipsas ratiocinationes internoscendi ias parat, ut quae ratiocinatio nunc quidem falsa nunc autem vera sit, quae vero semper falsa quae numquam falsa, possit agnosci. Huius autem vis duplex esse perpenditur, una quidem in inveniendo, altera in iudicando. Quod Marcus etiam Tullius in eo libro cui Topica titulus est, evidenter espressit dicens Cum omnis ratio diligens disserendi duas habeat partes, unam inveniendi alteram iudicandi, utriusque princeps, ut mihi quidem videtur, Aristoteles fuit. Stoici ƿ autem in altera elaboraverunt; iudicandi enim vias diligenter persecuti sunt ea scientia quam *dialektiken* appellant, inveniendi artem, quae *topike*; dicitur quae et ad usum potior erat et ordine naturae certe prior, totam reliquerunt. Nos autem, quoniam in utraque summa utilitas est et utramque, si erit otium, persequi cogitamus, ab ea quae prima est ordiemur. Cum igitur tantus huius considerationis fructus sit danda est huic tam sollertissimae disciplinae tota mentis intentio, ut primis firmati in disputandi veritate uestigiis facile ad rerum ipsarum certam comprehensionem venire possimus. Et quoniam qui sit ortus logicae disciplinae praediximus, reliquum videtur adiungere: an omnino pars quaedam sit philosophiae an (ut quibusdam placet) supellex atque instrumentum per quod philosophia cognitionem rerum naturamque deprehendat. Cuius quidem rei has e contrario video esse sententias. Hi enim qui partem philosophiae putant logicam considerationem his fere argumentis utuntur. Dicentes philosophiam indubitanter habere partes speculativam atque activam, de hac tertia rationali quaeritur an sit in parte ponenda. Sed eam quoque partem esse philosophiae non potest dubitari. Nam sicut de naturalibus caeterisque sub speculativa positis solius philosophiae uestigatio est itemque de moralibus ac ƿ reliquis quae sub activam partem cadunt sola philosophia perpendit, ita quoque de hac parte tractatus, id est de his quae logicae subiecta sunt, sola philosophia iudicat. Quodsi speculativa atque activa idcirco philosophiae partes sunt quia de his philosophia sola pertractat, propter eandem causam erit logica philosophiae pars, quoniam philosophiae soli haec disputandi materia subiecta est. Iam vero inquiunt: cum in his tribus philosophia versetur cumque activam et speculativam considerationem subiecta discernant, quod illa de rerum naturis, haec de moribus quaerit, non dubium est quin logica disciplina a naturali atque morali suae materiae proprietate disiuncta sit. Est enim logicae tractatus de propositionibus atque syllogismis et caeteris huiusmodi, quod neque ea quae non de oratione sed de rebus speculatur neque activa pars quae de moribus inuigilat aeque praestare potest. Quodsi in his tribus (id est speculativa, activa, atque rationali) philosophia consistit quae proprio triplicique a se fino disiuncta sunt, cum speculativa et activa philosophia partes esse dicuntur, non dubium est quin rationalis quoque philosophia pars esse conuincatur. Qui vero non partem sed philosophiae instrumentum putant haec fere afferunt argumenta. Non esse inquiunt similem logicae finem speculativae atque activae partis extremo. Utraque enim illarum ad suum proprium terminum spectat ut speculativa ƿ quidem rerum cognitionem, activa vero mores atque instituta perficiat; neque altera refertur ad alteram. Logicae vero finis esse non potest absolutus sed quodammodo cum reliquis duabus partibus colligatus atque constrictus est. Quid enim est in logica disciplina quod suo merito debeat optari nisi quod propter investigationem rerum huius effectio artis inventa est? Scire enim quemadmodum argumentatio concludatur vel quae vera sit quae veri similis, ad hoc scilicet tendit, ut vel ad rerum cognitionem referatur haec scientia rationum vel ad invenienda ea quae in exercitium moralitatis adducta beatitudinem pariunt. Atque ideo quoniam speculativae atque activae suus certusque finis est, logicae autem ad duas reliquas partes refertur extremum, manifestum est non eam esse philosophiae partem sed potius instrumentum. Sunt vero plura quae ex alterutra parte dicantur quorum nos ea quae dicta sunt strictim notasse sufficiat. Hanc litem vero tali ratione discernimus. Nihil quippe dicimus impedire ut eadem logica partis vice simul instrumentique fungatur officio. Quoniam enim ipsa suum retinet finem isque finis a sola philosophia consideratur, pars philosophiae esse ponenda est. Quoniam vero finis ille logicae quem sola speculatur philosophia ad alias eius partes suam operam pollicetur, instrumentum esse philosophiae non negamus. Est autem finis logicae inventio iudiciumque rationum. Quod scilicet non esse mirum videbitur quod eadem pars, eadem quoddam ponitur instrumentum, si ad partes corporis animum reducamus quibus et fit aliquid ut his quasi quibusdam instrumentis utamur, et in toto tamen corpore partium obtinent locum. Manus enim ad tractandum, oculi ad videndum, caeteraeque corporis partes proprium quoddam videntur habere officium. Quod tamen si ad totius utilitatem corporis referatur, instrumenta quaedam corporis esse deprehenduntur quae etiam partes esse nullus abnuerit. Ita quoque logica disciplina pars quidem philosophiae est, quoniam eius philosophia sola magistra est, supellex vero quod per eam inquisita philosophiae veritas uestigatur. Sed quoniam, quantum mihi quoque brevitas succincta largita est, ortum logicae et quid ipsa logica esset explicui, nunc de eo nobis libro pauca dicenda sunt quem in praesens sumpsimus exponendum. Titulo enim proponit Porphyrius introductionem se in Aristotelis Praedicamenta conscribere. Quid vero valeat haec introductio vel ad quid lectoris animum praeparet breviter explicabo. Aristoteles enim librum qui De decem praedicamentis inscribitur hac intentione composuit ut infinitas rerum diversitates quae sub scientiam cadere non possent paucitate generum comprehenderet, atque ita quod per incomprehensibilem multitudinem sub disciplinam venire non poterat per generum, ut dictum est, paucitatem animo fieret scientiaeque subiectum. Decem igitur genera rerum esse omnium consideravit -- id est unam substantiam et accidentia novem (quae sunt qualitas, quantitas, relatio, ubi, quando, facere et pati, situs, habere) -- quae quoniam genera essent suprema et quibus nullum aliud superponi genus posset, omnem necesse est multitudinem rerum horum decem generum species inveniri. Quae quidem genera a se omnibus differentiis distributa sunt nec quicquam videntur habere commune nisi tantum nomen, quoniam omnia esse praedicantur. Quippe substantia est, qualitas est, quantitas est, et de aliis omnibus 'est' verbum communiter praedicatur sed non est eorum communis una substantia vel natura sed tantum nomen. Itaque decem genera ab Aristotele reperta omnibus a se differentiis distributa sunt. Sed quae aliquibus differentiis disiunguntur necesse est ut habeant proprium quiddam quod ea in singularem solitariamque vindicet formam. Non est autem idem proprium quod accidens: accidentia enim et venire et abesse possunt, propria ita sunt insita ut absque his quorum sunt propria esse non possint. Quae cum ita sint cumque Aristoteles decem rerum genera repperisset quae vel intellegendo mens caperet vel loquendo disputator efferret (quicquid enim intellectu capimus id ad alterum sermone uulgamus), evenit ut ad horum decem praedicamentorum intellegentiam quinque harum rerum tractatus incurreret, scilicet generis, speciei, differentiae, proprii, accidentis. Generis quidem quoniam oportet ante praediscere quid sit genus ut decem illa quae Aristoteles caeteris anteposuit rebus genera esse possimus agnoscere. Speciei vero cognitio plurimum valet ut quae cuiusque generis sit species possit agnosci. Si enim quid sit species intellegimus, nihil impediti errore turbamur. Fieri enim potest ut per speciei inscientiam saepe quantitatis species in relatione ponamus et cuiuslibet primi generis species alteri cuilibet ƿ generi subdamus atque ita fiat permixta rerum atque indiscreta confusio; quod ne accidat quae sit natura speciei ante noscendum est. Nec vero in hoc tantum prodest speciei cognoscenda natura ne priorum generum species invicem permutemus, verum etiam ut in eodem quolibet genere proximas species generi noverimus eligere, ut ne substantiae mox animal dicamus esse speciem potius quam corpus aut corporis hominem potius quam animatum corpus. At vero differentiarum scientia in his maximum retinet locum. Qui enim omnino qualitatem a substantia vel caetera a se genera distare cognoscimus nisi eorum differentias viderimus? Quomodo autem discernere eorum differentias possumus si quid ipsa sit differentia nesciamus? Nec hunc solum nobis inscientia differentiae offundit errorem, verum etiam specierum quoque tollit omne iudicium. Nam omnes species differentiae informant; ignorata differentia species quoque necesse est ignorari. Quomodo vero fieri potest ut quamlibet differentiam possimus agnoscere si omnino quae sit nominis huius significatio nesciamus? Iam vero proprii tantus usus est ut Aristoteles quoque singulorum praedicamentorum propria perquisiverit. Quae propria esse quis deprehenderit antequam quid omnino sit proprium discat? Nec in his tantum propriis haec cognitio valet quae singulis nominibus efferuntur, ut hominis risibile, verum etiam in his quae in locum definitionis adhibentur. Omnia enim propria rem subiectam quodam termino descriptionis includunt, quod suo quoque loco ƿ oportunius commemorabo. Accidentis quoque cognitio quantum afferat quis dubitare queat, cum videat inter decem praedicamenta novem accidentis naturas? Quae quomodo accidentia esse putabimus si omnino quid sit accidens ignoremus, cum praesertim nec differentiarum nec proprii scientia nota sit nisi accidentis naturam firmissima consideratione teneamus? Fieri enim potest ut differentiae loco vel proprii per inscientiam accidens apponatur. Quod esse vitiosissimum etiam definitiones probant, quae cum ipsae ex differentiis constent et fiant uniuscuiusque definitiones propriae, accidens tamen non videntur admittere. Cum igitur Aristoteles rerum genera collegisset quae nimirum diversas sub se species continerent, quae species numquam diversae forent nisi differentiis segregarentur, cumque omnia in substantiam atque accidens, accidens vero in alia novem praedicamenta solvisset, cumque aliquorum praedicamentorum fere sit propria persecutus -- de his ipsis quidem praedicamentis docuit. Quid vero esset genus, quid species, quid differentia, quid illud accidens de quo nunc dicendum est, vel quid proprium, velut nota praeteriit. Ne igitur ad Praedicamenta Aristotelis venientes quid significaret unumquodque eorum quae superius dicta sunt ignorarent, hunc librum Porphyrius de earum quinque rerum cognitione perscripsit, quo perspecto et considerato quid unumquodque eorum quae supra praeposuit designaret, facilior intellectus ea quae ab Aristotele proponerentur addisceret. Haec quidem intentio est huius libri, quem Porphyrius ad introductionem Praedicamentorum se conscripsisse ipsa, ut ƿ dictum est, tituli inscriptione signavit. Sed licet ad hoc unum huius libri referatur intentio, non tamen simplex eius utilitas est verum multiplex et in maxima quaeque diffusa est. Quam idem Porphyrius in principio huius libri commemorat dicens: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST APUD ARISTOTELEM PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM, NOSSE QUID GENUS SIT ET QUID DIFFERENTIA QUIDQUE SPECIES ET QUID PROPRIUM ET QUID ACCIDENS, ET AD DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM ET OMNINO AD EA QUAE IN DIVISIONE VEL DEMONSTRATIONE SUNT UTILIA, HAC ISTARUM RERUM SPECULATIONE COMPENDIOSAM TIBI TRADITIONEM FACIENS TEMPTABO BREVITER VELUT INTRODUCTIONIS MODO EA QUAE AB ANTIQUIS DICTA SUNT AGGREDI; ALTIORIBUS QUIDEM QUAESTIONIBUS ABSTINENS, SIMPLICIORES VERO MEDIOCRITER CONIECTANS. Utilitas huius libri quadrifariam spargitur. Namque ad illud etiam ad quod eius dirigitur intentio, magno legentibus usui ƿ est et ad caetera: quae cum extra intentionem sint, non tamen minor ex his legentibus utilitas comparatur. Est enim per hoc opusculum et praedicamentorum facilis cognitio et definitionum integra assignatio et divisionum recta perspectio et demonstrationum veracissima conclusio. Quae res quanto difficiles atque arduae sunt tanto perspicaciorem studiosioremque animum lectoris expectant. Dicendum vero est quod in omnibus libris evenit. Nam primum si quae sit intentio cognoscatur, quanta quoque utilitas inde provenire possit expenditur; et licet extra multa, ut fit, huiusmodi librum sequantur, tamen illam proxime utilitatem videtur habere ad quod eius refertur intentio ipso libro quem sumpsimus exponente. Cum eius intentio sit ad Praedicamenta intellectum facilem comparandi, non dubium quin haec eius principalis probetur utilitas, licet non minores sint comites definitio, divisio, ac demonstratio, quorum nobis quaedam hic principia suggeruntur. Sensus vero totus huiusmodi est Cum sit, inquit, utilis generis, speciei, differentiae, proprii accidentisque cognitio ad Praedicamenta Aristotelis eiusque doctrinam, ad definitionum etiam assignationem, ad divisionem et demonstrationem, quae sit harum rerum utilis uberrimaque cognitio, compendiosam, inquit, traditionem ƿ faciens ea quae ab antiquis large ac diffuse dicta sunt, temptabo breviter aperire. Neque enim esset compendiosa nisi totum opus brevitate constringeret. Et quoniam introductionem scribebat: Altiores, inquit, quaestiones sponte refugiam, simpliciores vero mediocriter coniectabo -- id est simpliciorum quaestionum obscuritates habita in eis quadam coniecturae ratiocinatione tractabo. Tota quidem sententia huiusce prooemii talis est quae et utilitate uberrima et facilitate incipientis animo blandiatur; sed dicendum videtur quidnam celet amplius altitudo sermonum. NECESSARIUM in Latino sermone, sicut in Graeco *anagkoion*, plura significat. Diversa enim significatione Marcus Tullius dicit necessarium suum esse aliquem atque nos cum nobis necessarium esse dicimus ad forum descendere, qua in voce quaedam utilitas significatur. Alia quoque significatio est qua dicimus solem necessarium esse moveri, id est necesse esse. Et illa quidem prima significatio praetermittenda est, omnino enim ab eo necessario quod hic Porphyrius ponit aliena est. Hae vero duae huiusmodi sunt ut inter se certare videantur quae huius loci obtineat significationem in quo dicit Porphyrius: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI; namque, ut dictum est, necessarium ƿ et utilitatem significat et necessitatem. Videntur autem huic loco utraque congruere. Nam et summe utile est ad ea quae superius dicta sunt de genere et specie et caeteris disputare, et summa est necessitas quia nisi sint haec ante praecognita illa ad quae ista praeparantur non possunt cognosci. Nam neque praeter generis vel speciei cognitionem praedicamenta discuntur, nec definitio genus relinquit et differentiam, et in caeteris quam sit utilis iste tractatus, cum de divisione et demonstratione disputabitur, apparebit. Sed quamquam necesse sit haec quinque de quibus hic disputandum est, prius ad cognitionem venire quam ea quibus illa praeparantur, non tamen ea significatione hic a Porphyrio positum est qua necessitatem significari vellet ac non potius utilitatem. Ipsa enim oratio contextusque sermonum id clarissima intellegentiae ratione significat. Neque enim quisquam ita utitur ratione ut aliquam necessitatem referri dicat ad aliud. Necessitas enim per se est, utilitas vero semper ad id quod utile est refertur, ut hic quoque. Ait enim: CUM SIT NECESSARIUM, CHRYSAORI, ET AD EAM QUAE EST APUD ARISTOTELEM PRAEDICAMENTORUM DOCTRINAM. Si igitur hoc necessarium 'utile' intellegamus et id nomine ipso vertamus dicentes: Cum sit utile, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum ƿ doctrinam, nosse quid genus sit... etc. recte se habebit ordo sermonum; sin vero id ad 'necesse' permPombaur atque dicamus: Cum sit necesse, Chrysaori, et ad eam quae est apud Aristotelem praedicamentorum doctrinam, nosse quid genus sit... etc. rectae intellegentiae sermonum ordo non convenit. Quocirca hic diutius immorandum non est. Quamquam enim sit summa necessitas his ignoratis non posse ad ea ad quae hic tractatus intenditur perveniri, non tamen de necessitate hic dictum est NECESSARIUM sed potius de utilitate. Nunc vero, licet idem superius dictum sit, tamen breviter quid ad praedicamenta generis, speciei, differentiae, proprii atque accidentis prosit agnitio, disputemus. Aristoteles enim in praedicamentis decem genera constituit rerum quae de cunctis aliis praedicarentur, ut quicquid ad significationem venire posset, id si integram significationem teneret, cuilibet eorum subiceretur generi de quibus Aristoteles tractat in eo libro qui De decem praedicamentis inscribitur. Hoc ipsum vero referri ad aliquid velut ad genus tale est, quale si quis speciem supponat generi. Hoc vero neque praeter cognitionem speciei ullo modo fieri potest. Nec vero ipsae species quid sint vel cuius magis sint possunt perspici nisi earum differentiae cognoscantur. Sed differentiarum natura incognita, quae uniuscuiusque ƿ speciei sint differentiae modis omnibus ignorabitur. Quare sciendum est quoniam si de generibus Aristoteles tractat in Praedicamentis, et generum natura cognoscenda est, cuius cognitionem speciei quoque comitatur agnitio. Sed hoc cognito quid sit differentia non potest ignorari, quamquam in eodem libro plura sint ad quae nisi maximam peritiam et generis et speciei et differentiae lector attulerit, nullus omnino intellectus patebit ut cum ipse Aristoteles dicit: Diversorum generum et non subalternatim positorum diversae secundum species et differentiae sunt quod his ignoratis intellegi impossibile est. Sed idem Aristoteles proprium uniuscuiusque praedicamenti diligentissima inquisitione uestigat, ut cum substantiae proprium post multa dicit esse quod idem numero contrariorum susceptibile sit, vel rursus quantitatis, quod in ea sola aequale atque inaequale dicatur, qualitatis etiam, quod per eam simile et dissimile aliud alii esse proponimus, et in caeteris eodem modo, ut quae sit proprietas contrarii, quae secundum relationem oppositionis, quae privationis et habitus, quae affirmationis et ƿ negationis. In quibus ita tractat tamquam iam peritis scientibusque quae sit proprietatis natura; quam si quis ignorat, frustra ea quae de his dispusantur aggreditur. Iam vero illud manifestum est quod accidens maximum praedicamentorum obtineat locum, quod proprio nomine novem praedicamenta circumdat. Et ad praedicamenta quidem quanta sit huius libri utilitas ex his manifestum est. Quod vero ait ET AD DEFINITIONUM ASSIGNATIONEM facile cognosci potest si prius substantiae rationum divisio fiat. Substantiae ratio alia quidem in descriptione ponitur, alia vero in definitione. Sed ea quae in descriptione est, proprietatem quandam colligit eius rei cuius substantiae rationem prodit -- ac non modo proprietate id quod monstrat informat, verum etiam ipsa fit proprium, quod in definitionem quoque venire necesse est; si quis enim quantitatis rationem reddere velit, dicat licebit: Quantitas est secundum quam aequale atque inaequale dicitur. Sicut igitur proprietatem quidem quantitatis in ratione posuit quantitatis et ipsa tota ratio ipsius quantitatis propria est, ita descriptio et proprietatem colligit et propria fit ipsa descriptio. Definitio vero ipsa quidem propria non colligit sed ipsa quoque fit propria. Definitio namque substantiam monstrat, genus differentiis iungit et ea quae per se sunt communia atque multorum in unum redigens uni speciei quam definit reddit aequalia. Ita igitur ad descriptionem utilis est proprii cognitio, quoniam sola proprietas in descriptione colligitur et ipsa fit propria sicut definitio quoque, ad definitionem vero genus (quod primum ƿ ponitur), et species (ad quam genus illud aptatur), et differentiae (quibus iunctis cum genere species definitur). Sed si cui haec pressiora quam expositionis modus postulat videbuntur, eum hoc scire convenit, nos, ut in prima editione dictum est, hanc expositionem nostro reservasse iudicio ut ad intellegentiam simplicem huius libri editio prima sufficiat, ad interiorem vero speculationem confirmatis paene iam scientia nec in singulis vocabulis rerum haerentibus haec postelior colloquatur. Ad divisionem vero faciendam tam hic liber est utilis ut praeter earum scientiam rerum de quibus in hac libri serie disputatur, casu fiat potius quam ratione partitio. Hoc autem manifestum erit si divisionem ipsam dividamus, id est si nomen ipsum divisionis in ea quae significat partiamur. Est namque divisio generis in species, ut cum dicimus: Coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud vero medium. Rursus divisio est quotiens vox plura significans aperitur et quam multa sint quae ab ea significantur ostenditur, ut si quis dicat: Nomen canis plura significat, et hunc latrabilem quadrupedemque et caeleste sidus et marinam bestiam quae omnia a se definitione disiuncta sunt. Dividi autem dicitur et quotiens totum in partes proprias separatur, ut cum dicimus: Domus aliud sunt fundamenta, aliud parietes, aliud tectum. Et haec quidem triplex divisio secundum se partitio nuncupatur. Est autem ƿ alia quae secundum accidens dicitur. Ea quoque fit tripliciter aut cum accidens in subiecta dividimus, ut cum dico: Bonorum alia sunt in animo, alia in corpore vel rursus cum subiectum in accidentia, ut Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris rursus cum accidens in accidentia separamus, ut cum dicimus: Liquentium alia sunt alba, alia nigra, alia medii coloris et rursus: Alborum alia sunt dura, alia liquentia quaedam mollia. Cum igitur ita omnis sit divisio aut secundum se aut per accidens, utraque vero partitio tripliciter fiat cumque in superiore secundum se triplici partitione sit una divisionis forma genus in species separare, id neque praeter generum scientiam fieri ullo modo potest neque vero praeter differentiarum, quas necesse est in specierum divisione sumi manifestum est igitur, quanta utilitas huius libri ad hanc divisionem sit quae primo aditu genus ac species et differentias tractat. Secunda vero ea divisio quae est secundum se in vocis significantias, nec haec quidem ab huius libri utilitate discreta est. Uno enim modo cognosci poterit utrum vox cuius divisionem facere quaerimus, aequivoca esse videatur an genus si ea quae significat definiantur. Et si ea quae sub communi nomine sunt definitione clauduntur, species esse necesse est, et illud commune eorum genus. Quodsi illa quae proposita ƿ vox designat non possunt una definitione concludi, nemo dubitat quin illa vox sit aequivoca neque ita sit communis his de quibus praedicatur ut genus, quandoquidem ea quae sub se posita significat, secundum commune nomen non possunt una definitione comprehendi. Si igitur ex definitione manifestum fit quid genus sit, quid vero nomen aequivocum, definitio vero per genera differentiasque discurrit, quisquamne dubitare potest aeque in hac divisionis forma plurimum huius libri auctoritatem valere? Illa vero secundum se divisio quae est totius in partes, quemadmodum discernitur ac non potius generis in species divisio esse putabitur, nisi sint genus et species et differentiae earumque vis ante disciplinae ratione tractata? Cur enim non quisquam dicat domus species potius esse quam partes fundamenta, parietes, et tectum? Sed cum occurrit generis nomen in unaquaque specie totum posse congruere, totius vero in unaquaque parte sua nomen convenlre non posse, manifestum fit aliam divisionem esse generis in species, aliam totius in partes. Convenire autem nomen generis singulis speciebus ostenditur per id, quod et homo et equus singuli animalia nuncupantur. Neque tectum vero neque parietes aut fundamenta singillatim domus nomine appellari solent sed ƿ cum fuerint iunctae partes, tunc recte totius nomen excipiunt. De ea vero divisione quae secundum accidens fit, nullus ignorat quin incognito accidenti incognitaque vi generis ac differentiarum facile evenire possit, ut accidens ita in subiecta solvatur quasi genus in species, et postremo omnem hunc ordinem partitionis foedissime permiscebit inscientia. Et quoniam quid hic liber ad divisionem prosit ostendimus, nunc de demonstratione dicemus, ne per ardua atque difficilia haereat qui in tanta hac disciplina vigilantissimo ingenio et sollertissimo labore sudaverit. Fit enim demonstratio, id est alicuius quaesitae rei certa rationis collectio, ex ante cognitis naturaliter, ex convenientibus, ex primis, ex causa, ex necessaliis, ex per se inhaerentibus. Sed genera speciebus propriis priora naturaliter sunt; ex generibus enim species fluunt. Item species sub se positis vel speciebus vel individuis priores naturaliter esse manifestum est. Quae vero priora sunt, ea et praenoscuntur et notiora sunt sequentibus naturaliter. Duobus enim modis primum aliquid et notum dicitur, secundum nos scilicet et secundum naturam. Nobis enim illa magis cognita sunt quae sunt proxima, ut individua, dehinc species, postremo genera, at vero natura converso modo ea sunt magis cognita quae nobis minime proxima. Atque ideo quamlibet se longius ƿ a nobis genera protulerint, tanto magis erunt lucida et naturaliter nota. Differentiae vero substantiales illae sunt quas per se inesse his rebus quae demonstrantur agnoscimus. Praecedere autem debet generum ac differentiarum cognitio ut in unaquaque disciplina quae sint eius rei quae demonstratur convenientia principia possit intellegi. Necessaria vero esse ea ipsa quae genera et differentias dicimus, nullus dubitat qui speciem sine genere et differentia intellegit esse non posse. Genera vero et differentiae sunt causae specierum. Idcirco enim species sunt quia genera earum et differentiae sunt quae in syllogismis posita demonstrativis non rei solum, verum conclusionis etiam causae sunt, quod postremi Resolutorii locupletius dicent. Cum igitur perutile sit et definitione quodlibet illud circumscribere et divisio ne dissoluere et demonstrationibus comprobare, haec autem praeter earum rerum scientiam de quibus in hoc libro disputabitur, neque intellegi neque exerceri valeant, quis umquam poterit dubitare quin hic liber maximum totius logicae adiumentum sit, praeter quem caetera quae in ea magnam vim tenent, nullum doctrinae aditum praebent? Sed meminit Porphyrius introductionem sese conscribere neque ultra quam institutionis modus est formam tractatus egreditur. Ait enim se altiorum quaestionum nodis abstinere, simplices vero mediocri coniectura perstringere. Quae vero sint altiores quaestiones quas se differre promittit ita proponit: MOX, INQUIT, DE GENERIBUS AC SPECIEBUS ILLUD QUIDEM SIVE SUBSISTUNT SIVE IN SOLIS NUDISQUE INTELLECTIBUS POSITA SUNT SIVE SUBSISTENTIA CORPORALIA SUNT AN INCORPORALIA ET UTRUM SEPARATA A SENSIBILIBUS AN IN SENSIBILIBUS POSITA ET CIRCA EA CONSTANTIA, DICERE RECUSABO. ALTISSIMUM ENIM EST HUIUSMODI NEGOTIUM ET MAIORIS EGENS INQUISITIONIS. Altiores, inquit, quaestiones praetereo ne eis intempestive lectoris animo ingestis initia eius primitiasque perturbem. Sed ne omnino faceret neglegentem ut nihil praeterquam quod ipse dixisset lector amplius putaret occultum, id ipsum cuius exequi quaestionem se differre promisit addidit ut de his minime obscure penitusque tractando nec lectori quicquam obscuritatis offunderet et tamen scientia roboratus quid quaeri iure posset agnosceret. Sunt autem quaestiones quas sese reticere ƿ promittit et perutiles et secretae et temptatae quidem a doctis viris nec a pluribus dissolutae. Quarum prima est huiusmodi. Omne quod intellegit animus aut id quod est in rerum natura constitutum intellectu concipit et sibimet ratione describit aut id quod non est uacua sibi imaginatione depingit. Ergo intellectus generis et caeterorum cuiusmodi sit quaeritur -- utrumne ita intellegamus species et genera ut ea quae sunt et ex quibus verum capimus intellectum, an nosmet ipsi nos ludimus cum ea quae non sunt animi nobis cassa cogitatione formamus. Quodsi esse quidem constiterit et ab his quae sunt intellectum concipi diserimus, tunc alia maior ac difficilior quaestio dubitationem parit cum discernendi atque intellegendi generis ipsius naturam summa difficultas ostenditur. Nam quoniam omne quod est aut corporeum aut incorporeum esse necesse est, genus et species in aliquo horum esse oportebit. Quale erit igitur id quod genus dicitur -- utrumne corporeum an vero incorporeum? Neque enim quid sit diligenter intenditur nisi in quo horum poni debeat agnoscatur. Sed neque cum haec soluta fuerit quaestio omne excludetur ambiguum. Subest enim aliquid quod, si incorporalia esse genus ac species dicantur, obsideat intellegentiam atque detineat exsolvi postulans: utrum circa corpora ipsa subsistant an et praeter corpora subsistentiae incorporales esse videantur. Duae quippe incorporeorum formae sunt: ut alia praeter corpora esse ƿ possint et separata a corporibus in sua incorporalitate perdurent (ut deus, mens, anima); alia vero cum sint incorporea, tamen praeter corpora esse non possint (ut linea vel superficies vel numerus vel singulae qualitates), quas tametsi incorporeas esse pronuntiamus quod tribus spatiis minime distendantur, tamen ita in corporibus sunt ut ab his divelli nequeant aut separari aut si a corporibus separata sint, nullo modo permaneant. Quas licet quaestiones arduum sit ipso interim Porphyrio renuente dissoluere, tamen aggrediar ut nec anxium lectoris animum relinquam nec ipse in his quae praeter muneris suscepti seriem sunt tempus operamque consumam. Primum quidem pauca sub quaestionis ambiguitate proponam, post vero eundem dubitationis nodum absoluere atque explicare temptabo. Genera et species aut sunt atque subsistunt aut intellectu et sola cogitatione formantur. Sed genera et species esse non possunt. Hoc autem ex his intellegitur. Omne enim quod commune est uno tempore pluribus, id unum esse non poterit. Multorum enim est quod commune est, praesertim cum una eademque res in multis uno tempore tota sit. Quantaecumque enim sunt species in omnibus genus unum est, non quod de eo singulae species quasi partes aliquas carpant sed singulae uno tempore totum genus habent. Quo fit ut totum genus in pluribus singulis uno tempore positum unum esse non possit; neque enim fieri potest ut cum in pluribus totum uno sit tempore in semet ipso sit unum ƿ numero. Quod si ita est, unum quiddam genus esse non poterit. Quo fit ut omnino nihil sit; omne enim quod est, idcirco est quia unum est. Et de specie idem convenit dici. Quodsi est quidem genus ac species sed multiplex neque unum numero, non erit ultimum genus sed habebit aliud superpositum genus quod illam multiplicitatem unius vi nominis includat. Ut enim plura animalia quoniam habent quiddam simile, eadem tamen non sunt, idcirco eorum genera perquiruntur, ita quoque quoniam genus quod in pluribus est atque ideo multiplex habet sui similitudinem quod genus est; non est vero unum quoniam in pluribus est -- eius generis quoque genus aliud quaerendum est, cumque fuerit inventum eadem ratione quae superius dicta est, rursus genus tertium uestigatur. Itaque in infinitum ratio procedat necesse est cum nullus disciplinae terminus occurrat. Quodsi unum quiddam numero genus est commune multorum esse non poterit. Una enim res si communis est aut partibus communis est et non iam tota communis sed partes eius propriae singulorum; aut in usus habentium etiam per tempora transit ut sit commune ut seruus communis vel equus; aut uno tempore omnibus commune fit, non tamen ut eorum quibus commune est substantiam constituat, ut est theatrum vel spectaculum aliquod, quod spectantibus omnibus commune est. Genus vero secundum nullum horum modum commune esse speciebus potest, nam ƿ ita commune esse debet ut et totum sit in singulis et uno tempore et eorum quorum commune est constituere valeat et formare substantiam. Quocirca si neque unum est quoniam commune est, neque multa quoniam eius quoque multitudinis genus aliud inquirendum est, videbitur genus omnino non esse. Idemque de caeteris intellegendum est. Quodsi tantum intellectibus genera et species caeteraque capiuntur, cum omnis intellectus aut ex re fiat subiecta ut sese res habet aut ut sese res non habet (nam ex nullo subiecto fieri intellectus non potest) -- Si generis et speciei caeterorumque intellectus ex re subiecta veniat ita ut sese res ipsa habet quae intellegitur, iam non tantum in intellectu posita sunt sed in rerum etiam veritate consistunt, et rursus quaerendum est quae sit eorum natura quod superior quaestio uestigabat. Quodsi ex re quidem generis caeterorumque sumitur intellectus neque ita ut sese res habet quae intellectui subiecta est, uanum necesse est esse intellectum qui ex re quidem sumitur, non tamen ita ut sese res habet; id est enim falsum quod aliter atque res est intellegitur. Sic igitur quoniam genus ac species nec sunt nec cum intelleguntur verus eorum est intellectus, non est ambiguum quin omnis haec sit deponenda de his quinque propositis disputandi cura, quandoquidem neque de ea re quae sit ƿ neque de ea de qua verum aliquid intellegi proferrive possit, inquiritur. Haec quidem est ad praesens de propositis quaestio, quam nos Alexandro consentientes hac ratiocinatione soluemus. Non enim necesse esse dicimus omnem intellectum qui ex subiecto quidem fit, non tamen ut sese ipsum subiectum habet, falsum et uacuum videri. In his enim solis falsa opinio ac non potius intellegentia est quae per compositionem fiunt. Si enim quis componat atque coniungat intellectu id quod natura iungi non patitur, illud falsum esse nullus ignorat -- ut si quis equum atque hominem iungat imaginatione atque effigiet centaurum. Quodsi hoc per divisionem et per abstractionem fiat, non quidem ita res sese habet ut intellectus est, intellectus tamen ille minime falsus est. Sunt enim plura quae in aliis esse suum habent ex quibus aut omnino separari non possunt aut, si separata fuerint, nulla ratione subsistunt. Atque ut hoc nobis in peruagato exemplo manifestum sit, linea in corpore quidem est aliquid et id quod est corpori debet, hoc est esse suum per corpus retinet. Quod docetur ita: si enim separata sit a corpore, non subsistit; quis enim umquam sensu ullo separatam a corpore lineam cepit? Sed animus cum confusas res permixtasque in se a sensibus cepit, eas propria vi et ƿ cogitatione distinguit. Omnes enim huiusmodi res incorporeas in corporibus esse suum habentes sensus cum ipsis nobis corporibus tradit, at vero animus, cui potestas est et disiuncta componere et composita resoluere, quae a sensibus confusa et corporibus coniuncta traduntur ita distinguit ut incorpoream naturam per se ac sine corporibus in quibus est concreta speculetur et videat. Diversae enim proprietates sunt incorporeorum corporibus permixtorum, etsi separentur a corpore. Genera ergo et species caeteraque vel in incorporeis rebus vel in his quae sunt corporea reperiuntur. Et si ea in rebus incorporeis invenit animus, habet ilico incorporeum generis intellectum. Si vero corporalium rerum genera speciesque perspexerit, aufert, ut solet, a corporibus incorporeorum naturam et solam puramque ut in se ipsa forma est contuetur. Ita haec cum accipit animus permixta corporibus, incorporalia dividens speculatur atque considerat. Nemo ergo dicat falso nos lineam cogitare, quoniam ita eam mente capimus quasi praeter corpora sit, cum praeter corpora esse non possit. Non enim omnis qui ex subiectis rebus capitur intellectus aliter quam sese ipsae res habent, falsus esse putandus est sed, ut superius dictum ƿ est, ille quidem qui hoc in compositione facit falsus est, ut cum hominem atque equum iungens putat esse centaurum, qui vero id in divisionibus et abstractionibus assumptionibusque ab his rebus in quibus sunt efficit, non modo falsus non est, verum etiam solus id quod in proprietate verum est invenire potest. Sunt igitur huiusmodi res in corporalibus atque in sensibilibus, intelleguntur autem praeter sensibilia ut eorum natura perspici et proprietas valeat comprehendi. Quocirca cum genera et species cogitantur, tunc ex singulis in quibus sunt eorum similitudo colligitur -- ut ex singulis hominibus inter se dissimilibus humanitatis similitudo, quae similitudo cogitata animo veraciterque perspecta fit species; quarum specierum rursus diversarum similitudo considerata, quae nisi in ipsis speciebus aut in earum individuis esse non potest, efficit genus. Itaque haec sunt quidem in singularibus, cogitantur vero universalia. Nihilque aliud species esse putanda est nisi cogitatio collecta ex individuorum dissimilium numero substantiali similitudine, genus vero cogitatio collecta ex specierum similitudine. Sed haec similitudo cum in singularibus est fit sensibilis; cum in universalibus fit intellegibilis -- eodemque modo cum sensibilis est in singularibus permanet; cum intellegitur fit universalis. Subsistunt ergo circa sensibilia, intelleguntur autem praeter corpora. Neque enim interclusum est ut duae res eodem in subiecto sint ratione diversae, ut linea curua atque caua, quae ƿ res cum diversis definitionibus terminentur diversusque earum intellectus sit, semper tamen in eodem subiecto reperiuntur; eadem enim linea caua, eadem curua est. Ita quoque generibus et speciebus, id est singularitati et universalitati, unum quidem subiectum est; sed alio modo universale est cum cogitatur, alio singulare cum sentitur in rebus his in quibus esse suum habet. His igitur terminatis omnis, ut arbitror, quaestio dissoluta est. Ipsa enim genera et species subsistunt quidem alio modo, intelleguntur vero alio. Et sunt incorporalia sed sensibilibus iuncta subsistunt in sensibilibus. Intelleguntur vero ut per semet ipsa subsistentia ac non in aliis esse suum habentia. Sed Plato genera et species caeteraque non modo intellegi universalia, verum etiam esse atque praeter corpora subsistere putat, Aristoteles vero intellegi quidem incorporalia atque universalia sed subsistere in sensibilibus putat. Quorum diiudicare sententias aptum esse non duxi, altioris enim est philosophiae. Idcirco vero studiosius Aristotelis sententiam executi sumus, non quod eam maxime probaremus sed quod hic liber ad Praedicamenta conscriptus est quorum Aristoteles est auctor. ILLUD VERO QUEMADMODUM DE HIS AC DE PROPOSITIS PROBABILITER ANTIQUI TRACTAVERUNT ET HORUM MAXIME PERIPATETICI, TIBI NUNC TEMPTABO MONSTRARE. Praetermissis his quaestionibus quas altiores esse praedixit, ƿ exoptat mediocrem introductorii operis tractatum. Sed ne haec ipsa sibi harum quaestionum omissio vitio daretur, apposuit quemadmodum de propositis tractaturus est, ex quorumque hoc opus auctoritate subnixus aggrediatur ante denuntiat. Cum mediocritatem quidem tractatus promittit detracta obscuritatis difficultate, animum lectoris inuitat, ut vero acquiescat ac sileat ad id quod dicturus est, Peripateticorum auctoritate confirmat. Atque ideo ait DE HIS, id est de generibus et speciebus de quibus superiores intulerat quaestiones, AC DE PROPOSITIS, id est de differentiis, propriis atque accidentibus, sese PROBABILITER disputaturum. PROBABILITER autem ait veri similiter, quod Graeci *logikos* vel *endoxos* dicunt. Saepe enim et apud Aristotelem *logikos* veri similiter ac probabiliter dictum invenimus et apud Boethum et apud Alexandrum. Porphyrius quoque ipse in multis hac significatione hoc usus est verbo quod nos scilicet in translatione, quod ait *logikos* ita interpretari ut rationabiliter diceremus, omisimus. Longe enim melior ac verior significatio ea visa est ut probabiliter sese dicere promitteret, id est non praeter opinionem ingredientium atque lectorum, quod introductionis est proprium. Nam cum ab imperitorum hominum mentibus doctrinae secretum altioris abhorreat, talis esse introductio debet ut praeter opinionem ingredientium non sit. Atque ideo melius ƿ probabiliter quam rationabiliter, ut nobis videtur, interpretati sumus. Antiquos autem ait de eisdem disputasse rebus sed <se> eorum illum maxime tractatum insequi quem Peripatetici Aristotele duce reliquerint, ut tota disputatio ad Praedicamenta conveniat. Quaeri in ei positionum principiis solet, cur unumquodque caeteris in disputationis ordine praeponatur, velut nunc in genere dubitari potest, cur genus speciei, differentiae, proprio accidentique praetulerit; de eo enim primitus tractat. Respondebimus itaque iure factum videri; omne enim quod universale est, intra semet ipsum caetera concludit, ipsum vero non clauditur. Maioris itaque meriti est ac principalis naturae quod ita caetera cohercet, ut ipsum naturae magnitudine nequeat ab aliis contineri. Genus igitur et species intra se positas habet et earum differentias propriaque, nihilominus etiam accidentia, atque ita de genere inchoandum fuit, quod caetera naturae suae magnitudine cohercet et continet. Praeterea illa semper priora putanda sunt quae si auferat quis, caetera perimuntur, illa posteriora quibus positis ea quae caeterorum substantiam perficiunt, consequuntur, ut in genere et caeteris. Nam si animal auferas, quod est hominis genus, homo quoque, quod species est, et rationale, quod differentia, et risibile, quod proprium, et grammaticum, quod accidens, non manebit et ƿ interemptum genus cuncta consumit. Si vero hominem esse constituas vel grammaticum vel rationale vel risibile, animal quoque esse necesse est. Sive enim homo est, animal est, sive rationale, sive risibile, sive grammaticum, ab animalis substantia non recedit. Sublato igitur genere et caetera consumuntur, positis caeteris sequitur genus; prior est igitur natura generis, posterior caeterorum. Iure est igitur in disputati*one praepositum. Sed quoniam generis nomen multa significat -- hoc est enim quod ait: VIDETUR AUTEM NEQUE GENUS NEQUE SPECIES SIMPLICITER DICI. Ubi enim non est simplex dictio, illic multiplex significatio est -- prius huius nominis significationes discernit ac separat, ut de qua significatione generis tractaturus est, sub oculis ponat. Sed cum neque genus neque species neque differentia nec proprium nec accidens significatione simplici sint, cur de his tantum duobus, genere inquam ac specie, dixit non simpliciter dici, cum proprium, differentia atque accidens ipsa quoque sint significatione multiplici? Dicendum est quoniam longitudinem vitans tantum speciem nominavit eamque idcirco, ne solum genus significationis esse multiplicis putaretur. Enumerat autem primam quidem generis significationem hoc modo: GENUS ENIM DICITUR ET ALIQUORUM QUODAMMODO SE HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO, SECUNDUM QUAM SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS SCILICET HABITUDINE, DICO AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM EAM QUAE AB ILLO EST COGNATIONEM SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE. Una, inquit, generis significatio est quae in multitudinem venit a quolibet uno principium trahens, ad quem scilicet ita illa multitudo coniuncta est, ut ad se invicem per eiusdem unius principium copulata sit, ut cum Romanorum dicitur genus; multitudo enim Romanorum ab uno Romulo vocabulum trahans et ipsi Romulo et ad se invicem quasi quadam nominis hereditate coniuncta est. Eadem enim quae a Romulo societas descendit, Romanos inter se omnes uno generis nomine devincit et colligat. Videtur autem secuisse hanc generis significationem in duas partes, cum copulativam coniunctionem admiscuit dicens: GENUS DICITUR ET ALIQUORUM QUODAMMODO SE HABENTIUM AD UNUM ALIQUID ET AD SE INVICEM COLLECTIO, tamquam et illud genus dicatur ad unum se aliquo modo habere et hoc rursus genus dicatur, quod ad se invicem unius generis significatione coniuncti sint. Hoc vero minime; eadem enim a quolibet uno propagata societas et ad illum qui princeps est generis, totam multitudinem refert et ipsam ƿ inter se multitudinem uno generis nomine conectit et continet. Quocirca non est putandus divisionem fecisse sed omne quicquid in hac generis significatione intellegendum fuit, aperuisse. Ordo autem verborum ita sese habet (qui est hyperbaton intellegendus): 'genus enim dicitur et aliquorum ad unum se aliquo modo habentium collectio et ad se invicem aliquo modo habentium' -- rursus 'collectio' subaudienda; est enim zeugma -- cuius significationis adiecit exemplum: SECUNDUM QUAM SIGNIFICATIONEM ROMANORUM DICITUR GENUS AB UNIUS SCILICET HABITUDINE, DICO AUTEM ROMULI, ET MULTITUDINIS RURSUS HABITUDINE HABENTIUM ALIQUO MODO AD INVICEM COGNATIONEM, EAM SCILICET QUAE AB ILLO EST, ID EST ROMULO, SECUNDUM DIVISIONEM AB ALIIS GENERIBUS DICTAE, scilicet multitudinis. Haec enim multitudo aliquo modo ad unum et ad se invicem habens genus dicta est, ut ab aliis discerneretur, ut Romanorum genus ab Atheniensium caeterorumque separatur, ut sit integer verborum ordo: 'genus enim dicitur et aliquorum collectio ad unum se quodammodo habentium et ad se invicem, secundum quam significationem Romanorum dicitur genus ab unius scilicet habitudine, dico autem Romuli, et multitudinis secundum divisionem ab aliis generibus dictae, habentium scilicet hominum aliquo modo ad invicem eam quae ab illo est, id est Romulo, cognationem.' ƿ Atque haec hactenus; nunc de secunda generis significatione dicendum est. DICITUR AUTEM ET ALITER RURSUS GENUS, QUOD EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS PRINCIPIUM VEL AB EO QUI GENUIT VEL A LOCO IN QUO QUIS GENITUS EST. SIC ENIM ORESTEM QUIDEM DICIMUS A TANTALO HABERE GENUS, HYLLUM AUTEM AB HERCULE, ET RURSUS PINDARUM QUIDEM THEBANUM ESSE GENERE, PLATONEM VERO ATHENIENSEM; ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS, QUEMADMODUM ET PATER. HAEC AUTEM VIDETUR PROMPTISSIMA ESSE SIGNIFICATIO; ROMANI ENIM SUNT QUI EX GENERE DESCENDUNT ROMULI, ET CECROPIDAE, QUI A CECROPE, ET HORUM PROXIMI. Quattuor omnino sunt principia quae unumquodque principaliter efficiunt. Est enim una causa quae effectiva dicitur, velut pater filii, est alia quae materialis, velut lapides domus, tertia forma, velut hominis rationabilitas, quarta, quam ob rem, velut pugnae victoria. Duae vero sunt quae per accidens uniuscuiusque ƿ dicuntur esse principia, locus scilicet ac tempus. Quoniam enim omne quod nascitur vel fit, in loco ac tempore est, quicquid loco vel tempore natum factumue fuerit, eum locum vel id tempus accidenter dicitur habere principium. Horum omnium in hac secunda generis significatione duo quaedam ex alterutris assumit, quae ad significationem generis videbuntur accommoda, ex his quidem quae principalia sunt, effectivum,; ex his vero quae accidentia, locum. Ait enim 'genus dicitur et a quo quis genitus est', quod est effectiva principalium causa, 'et in quo quis loco est procreatus', quae est accidens causa principii. Itaque haec secunda significatio duo continet, eum a quo quis procreatus est, et locum in quo quis editus, ut exempla quoque demonstrant. Orestem enim dicimus a Tantalo genus ducere; Tantalus quippe Pelopem, Pelops Atreum, Atreus Agamemnonem, Agamemnon genuit Orestem. Itaque a procreatione genus hoc dictum est. At vero Pindarum dicimus esse Thebanum, scilicet quoniam Thebis editus tale generis nomen accepit. Sed quoniam diversum est illud, a quo quis procreatus est, locusque in quo quis editus, videtur diversa esse generis significatio procreantis et loci, quam in secunda scilicet parte enumerans unam fecit. Sed ne videretur duplex, per similitudinem coniunxit dicens: ETENIM PATRIA PRINCIPIUM EST UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS, ƿ QUEMADMODUM ET PATER. Sed quoniam in significationibus evenit fere, ut sit aliquid quod intellectui significatae rei propinquius esse videatur, quoniam duas generis apposuit significationes, multitudinis scilicet et procreantis, cui generis nomen convenientius aptetur, iudicat atque discernit dicens hanc esse promptissimam generis significationem quae a procreante deducta sit; hi enim maxime Cecropidae sunt qui a Cecrope descendunt, hi Romani, qui a Romulo. Quae cum ita sint, confundi rursus generis significationes videntur. Si enim hi sunt maxime Romani qui a Romulo originem trahunt, et haec significatio illa est quae a procreante deducitur, ubi est reliqua, quam primam quoque enumeravit, quae est 'multitudinis ad unum et ad se invicem quodammodo se habentium collectio'? Sed acutius intuentibus plurimae admodum differentiae sunt. Aliud est enim a quolibet primo procreante genus ducere, aliud unum genus esse plurimorum. Illud enim et per rectam sanguinis lineam fieri potest et non in multa diffundi, ut si per unicos familia descendat, huic enim aptabitur secunda illa generis significatio, quae a procreante deducitur; prima vero illa non nisi in multitudine consistit. Illud quoque est, quod prima procreationis principium non requirit sed, ut ipse ait, sufficit aliquo modo se habere ad id unde huiusmodi generis principium sumitur, secunda vero significatio nullam vim nisi procreante sortitur. Item in illa primae significationis multitudine huius secundae particularitas continetur, ut in ƿ Romanorum genere Scipiadarum genus; nam cum sint Romani, Scipiadae sunt. Quoniam enim ad Romulum et ad caeteros Romanos secundum Romuli habitudinem iuncti sunt, Romani sunt, Seipiadae vero dicuntur ad secundam generis significationem, quia eorum familiae Scipio et sanguinis principium fuit. ET PRIUS QUIDEM APPELLATUM EST GENUS UNIUSCUIUSQUE GENERATIONIS PRINCIPIUM, DEHINC ETIAM MULTITUDO EORUM QUI SUNT AB UNO PRINCIPIO, UT A ROMULO; NAMQUE DIVIDENTES ET AB ALIIS SEPARANTES DICEBAMUS OMNEM ILLAM COLLECTIONEM ESSE ROMANORUM GENUS. Sensus facilis et expeditus, si tamen ambiguitas una solvatur. Cum enim prius multitudinis significationem retulerit ad generis nomen, post autem ad procreationis initium, nunc contrario modo illam prius a se enumeratam significationem dicere videtur quae est procreationis, illam vero posteriorem quae est multitudinis; quod contrarium videri potest, si quis ad ordinem superius digestae disputationis aspexerit. Sed hic non de se loquitur sed de humani consuetudine sermonis, in quo prius eam significationem generis fuisse dicit quae a procreante sit tracta, accedente vero aetate loquendi usu nomen generis etiam ad multitudinem habentem se quodammodo ad aliquem fuisse translatum, hoc vero idcirco, quoniam ƿ superius dixerat: haec enim videtur promptissima esse significatio, ut ab hac, id est secunda, quam promptissimam significationem esse dixit, illa quoque nuncupata videretur, quae est multitudinis. Prius enim genus inter homines appellatum est quod quis a generante deduceret, post autem factum est, ut per loquendi usum etiam multitudinis ad aliquem quodammodo se habentis genus diceretur propter divisionem scilicet gentium, ut esset inter eas nominis societatisque discretio. His igitur expletis venit ad tertium genus quod inter philosophos tractatur cuiusque ad dialecticam facultatem multus usus est. Horum quippe generum historia magis vel poesis tractat exordium, tertium vero genus apud philosophos consideratur. De quo hoc modo loquitur: ALITER AUTEM RURSUS GENUS DICITUR CUI SUPPONITUR SPECIES, AD HORUM FORTASSE SIMILITUDINEM DICTUM. ETENIM PRINCIPIUM QUODDAM EST HUIUSMODI GENUS EARUM QUAE SUB IPSO SUNT SPECIERUM, VIDETUR ETIAM MULTITUDINEM CONTINERE OMNEM QUAE SUB EO EST. Duplicem significationem generis supra posuit, nunc tertiam monstrare contendit, hanc autem ad superiorum similitudinem ƿ dictam esse arbitratur. Superius autem dictae significationes sunt una quidem, cum nomen generis quadam principii antiquitate ad se iunctam multitudinem contineret, alia vero, cum genus ab unoquoque procreante duceretur, quod eorum quae procreantur principium est. Cum igitur sint superius duae generis propositae significationes, tertium nunc addit de quo inter philosophos sermo est, illud scilicet cui supponitur species, quod idcirco genus vocatum esse sub opinionis credit ambiguo, quoniam habet aliquam similitudinem superiorum. Nam sicut illud genus quod ad multitudinem dicitur, uno suo nomine multitudinem claudit, ita etiam genus plurimas species cohercet et continet. Item ut genus illud quod secundum procreationem dicitur, principium quoddam est eorum quae ab ipso procreantur, ita genus speciebus suis est principium. Ergo quoniam utrisque est simile, idcirco nomen quoque generis etiam in hac significatione a superioribus mutuatum esse veri simile est. TRIPLICITER IGITUR CUM GENUS DICATUR, DE TERTIO APUD PHILOSOPHOS SERMO EST; QUOD ETIAM DESCRIBENTES ASSIGNAVERUNT ƿ GENUS ESSE DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, UT ANIMAL. Iure tertium genus philosophi ad disputationem sumunt; hoc enim solum est quod substantiam monstrat, caetera vero aut unde quid existat aut quemadmodum a caeteris hominibus in unam quasi populi formam dividatur ostendunt. Nam illud quod multitudinem continet genus, illius multitudinis quam continet substantiam non demonstrat sed tantum uno nomine collectionem populi facit, ut ab alterius generis populo segregetur. Item illud quod secundum procreationem dictum est, non rei procreatae substantiam monstrat sed tantum quod eius fuerit procreationis initium. At vero genus id cui supponitur species, ad speciem accommodatum speciei substantiam informat. Et quia inter philosophos haec maxima est quaestio, quid unumquodque sit -- tunc enim unumquodque scire videmur, quando quid sit agnoscimus -- idcirco reiectis caeteris de hoc genere quam maxime apud philosophos sermo est, quod etiam describentes assignaverunt ea descriptione quam subter annexuit. Diligenter vero ait describentes, non definientes; definitio enim fit es genere, genus autem aliud genus habere non poterit. Idque obscurius est quam ut primo aditu dictum pateat. Fieri autem potest ut res quae ƿ alii genus sit, alii generi supponatur, non quasi genus sed tamquam species sub alio collocata. Unde non in eo quod genus est, supponi alicui potest sed cum supponitur, ilico species fit. Quae cum ita sint, ostenditur genus ipsum in eo quod genus est, genus habere non posse. Si igitur voluisset genus definitione concludere, nullo modo potuisset; genus enim aliud quod ei posset praeponere, non haberet, atque idcirco descriptionem ait esse factam, non definitionem. Descriptio vero est, ut in priore volumine dictum est ex proprietatibus informatio quaedam rei et tamquam coloribus quibusdam depictio. Cum enim plura in unum convenerint, ita ut omnia simul rei cui applicantur aequentur, nisi ex genere vel differentiis haec collectio fiat, descriptio nuncupatur. Est igitur descriptio generis haec: genus est quod de pluribus et differentibus specie in eo quod quid sit praedicatur. Tria haec requiruntur in genere, ut de pluribus praedicetur, ut de specie differentibus, ut in eo qund quid sit de qua re quoniam ipse posterius latius disputat, nos breviter huius rei intellegentiam significemus exemplo. Sit enim nobis in forma generis animal. Id de aliquibus sine dubio praedicatur, homine scilicet, equo, bove et caeteris. Sed haec plura sunt. Animal igitur de pluribus praedicatur, homo vero, equus atque bos talia sunt, ut a se discrepent, nec qualibet mediocri re sed tota specie, id est tota forma suae substantiae. De quibus dicitur animal; homo enim et equus et bos animalia nuncupantur. Praedicatur ergo animal de pluribus specie differentibus. Sed quonam modo fit ƿ haec praedicatio? Non enim quicquid interrogaveris, mox animal respondetur: non enim si quantus sit homo interrogaveris, 'animal' respondebitur, ut opinor; hoc enim ad quantitatem pertinet, non ad substantiam. Item si 'qualis' interrogess ne huic quidem responsio convenit animalis, caeterisque omnibus interrogationibus hanc animalis responsionem ineptam atque inutilem semper esse reperies, nisi ei tantum apta est quae quid sit interroget. Interrogantibus enim nobis quid sit homo, quid sit equus, quid sit bos, 'animalia' respondebitur. Ita nomen animalis ad interrogationem 'quid sit' de homine, equo atque bove ac de caeteris praedicatur, unde fit ut animal praedicetur de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit. Et quoniam generis haec definitio est, animal hominis, equi, bovis genus esse necesse est. Omne autem genus aliud est quod in semet ipso atque in re intellegitur, aliud quod alterius praedicatione. Sua enim proprietas ipsum esse constituit, ad alterum relatio genus facit, ut ipsum animal, si eius substantiam quaeras, dicam substantiam esse animatam atque sensibilem. Haec igitur definitio rem monstrat per se sicut est, non tamquam referatur ad aliud. At vero cum dicimus animal genus esse, non, ut arbitror, tunc de re ipsa hoc dicimus sed de ea relatione qua potest animal ad caeterorum quae sibi subiecta ƿ sunt praedicationem referri. Itaque character est quidam ac forma generis in eo quod referri praedicatione ad eas res potest, quae cum sint plures et specie differentes, in earum tamen substantia praedicatur. Huius autem definitionis rationem per exempla subiecit dicens: EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR, ALIA QUIDEM DE UNO DICUNTUR SOLO, SICUT INDIVIDUA UT SOCRATES ET HIC ET HOC, ALIA VERO DE PLURIBUS, QUEMADMODUM GENERA ET SPECIES ET DIFFERENTIAE ET PROPRIA ET ACCIDENTIA COMMUNITER SED NON PROPRIE ALICUI. EST AUTEM GENUS QUIDEM UT ANIMAL, SPECIES VERO UT HOMO, DIFFERENTIA AUTEM UT RATIONALE, PROPRIUM UT RISIBILE, ACCIDENS UT ALBUM, NIGRUM SEDERE. Omnium quae praedicantur quolibet modo, facit Porphyrius divisionem idcirco, ut ab reliquis omnibus praedicationem generis seiungat ac separet, hoc modo. Omnium, inquit, quae praedicantur, alia de singularitate, alia de pluralitate dicuntur. ƿ De singularitate vero, inquit, praedicantur quaecumque unum quodlibet habent subiectum de quo dici possint, ut ea quibus singula subiecta sunt individua, ut Socrates, Plato, ut hoc album quod in hac proposita nive est, ut hoc scamnum in quo nunc sedemus, non omne scamnum -- hoc enim universale est -- sed hoc quod nunc suppositum est, nec album quod in nive est -- universale est enim album et nix -- sed hoc album quod in hac nive nunc esse conspicitur; hoc enim non potest de quolibet alio albo praedicari quod in hac nive est, quia ad singularitatem deductum est atque ad in dividuam formam constrictum est individui participatione. Alia vero sunt quae de pluribus praedicantur, ut genera, species, differentiae et propria et accidentia communiter sed non proprie alicui. Genera quidem de pluribus praedicantur speciebus suis, species vero de pluribus praedicantur individuis; homo enim, quod est animalis species, plures sub se homines habet de quibus appellari possit. Item equus, qui sub animali est loco speciei, plurimos habet individuos equos de quibus praedicetur. Differentia vero ipsa quoque de pluribus speciebus dici potest, ut rationale de homine ac de deo corpolibusque caelestibus, quae, sicut Platoni placet, animata sunt et ratione vigentia. Proprium item etsi de una specie praedicatur, de multis tamen individuis dicitur, quae sub convenienti specie collocantur, ut risibile de Platone, Socrate et caeteris individuis quae homini supponuntur. Accidens etiam ƿ de multis dicitur; album enim et nigrum de multis omnino dici potest quae a se genere specieque seiuncta sunt. Sedere etiam de multis dicitur; homo enim sedet, simia sedet, aves quoque, quorum species longe diversae sunt. Accidens autem quoniam communiter accidens esse potest et proprie alicui, idcirco determinavit dicens et accidentia communiter sed non proprie alicui. Quae enim proprie alicui accidunt, individua fiunt et de uno tantum valentia praedicari, ea quae communiter accipiuntur, de pluribus dici queunt. Ut enim de nive dictum est, illud album quod in hac subiecta nive est, non est communiter accidens sed proprie huic nivi quae oculis ostensionique subiecta est. Itaque ex eo quod communiter praedicari poterat -- de multis enim album dici potest, ut albus homo, albus equus, alba nix -- factum est, ut de una tantum nive praedicari illud album: possit cuius participatione ipsum quoque factum est singulare. Omnino autem omnia genera vel species vel differentiae vel propria vel accidentia, si per semet ipsa speculemur in eo quod genera vel species vel differentiae vel propria vel accidentia sunt, manifestum est quoniam de pluribus praedicantur. At si ea in his speculemur in quibus sunt, ut secundum subiecta eorum formam et substantiam metiamur, evenit ut ex pluralitate praedicationis ad singularitatem videantur adduci. Animal enim, ƿ quod genus est, de pluribus praedicatur sed cum hoc animal in Socrate consideramus -- Socrates enim animal est -- ipsum animal fit individuum, quoniam Socrates est individuus ac singularis. Item homo de pluribus quidem hominibus praedicatur sed si illam humanitatem quae in Socrate est individuo consideremus, fit individua, quoniam Socrates ipse individuus est ac singularis. Item differentia ut rationale de pluribus dici potest sed in Socrate individua est. Risibile etiam cum de pluribus hominibus praedicetur, in Socrate fit unicum. Communiter quoque accidens, ut album, cum de pluribus dici possit, in unoquoque singulari perspectum individuum est. Fieri autem potuit commodior divisio hoc modo. Eorum quae dicuntur, alia quidem ad singularitatem praedicantur, alia ad pluralitatem, eorum vero quae de pluribus praedicantur, alia secundum substantiam praedicantur, alia secundum accidens. Eorum quae secundum substantiam praedicantur, alia in eo quod quid sit dicuntur, alia in eo quod quale sit, in eo quod quid sit quidem, genus ac species, in eo quod quale sit, differentia. Item eorum quae in eo quod quid sit praedicantur, alia de speciebus praedicantur pluribus, alia minime; de speciebus pluribus praedicantur genera, de nullis vero species. Eorum autem quae secundum accidens praedicantur, alia quidem sunt quae de pluribus praedicantur, ut accidentia, ƿ alia quae de uno tantum, ut propria. Posset autem fieri etiam huiusmodi divisio. Eorum quae praedicantur, alia de singulis praedicantur, alia de pluribus. Eorum quae de pluibus, alia in eo quod quid sit, alia in eo quod quale sit praedicantur. Eorum quae in eo quod quid sit, alia de differentibus specie dicuntur, ut genera, alia minime, ut species, eorum autem quae in eo quod quale sit de pluribus praedicantur, alia quidem de differentibus specie praedicantur, ut differentiae et accidentia, alia de una tantum specie, ut propria. Eorum vero quae de differentibus specie in eo quod quale sit praedicantur, alia quidem in substantia praedicantur, ut differentiae, alia in communiter evenientibus, ut accidentia. Et per hanc divisionem quinque barum rerum definitiones colligi possunt hoc modo. Genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Species est quod de pluribus minime specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Differentia est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit in substantia praedicatur. Proprium est quod de una tantum specie in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. Accidens est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit non in substantia praedicatur. Et nos quidem has divisiones fecimus, ut omnia a semet ipsis separaremus, Porphyrio vero alia fuit intentio. Non enim omnia nunc a semet ipsis disiungere festinabat sed tantum ut caetera a generis forma et proprietate separaret. Idcirco divisit quidem omnia quae praedicantur aut in ea quae de singulis praedicantur, aut in ea quae de pluribus, ea vero quae de pluribus praedicantur, aut genera esse dilit aut species aut caetera, horumque exempla subiciens adiungit: AB HIS ERGO QUAE DE UNO SOLO PRAEDICANTUR, DIFFERUNT GENERA EO QUOD DE PLURIBUS ASSIGNATA PRAEDICENTUR, AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS, AB SPECIEBUS QUIDEM, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICANTUR SED NON DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED NUMERO; HOMO ENIM CUM SIT SPECIES, DE SOCRATE ET PLATONE PRAEDICATUR, QUI NON SPECIE DIFFERUNT A SE INVICEM SED NUMERO, ANIMAL VERO CUM GENUS SIT, DE HOMINE ET BOVE ET EQUO PRAEDICATUR, QUI DIFFERUNT A SE INVICEM ET SPECIE QUOQUE, NON NUMERO SOLO. A PROPRIO VERO DIFFERT GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM, PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT INDIVIDUIS, QUEMADMODUM ƿ RISIBILE DE HOMINE SOLO ET DE PARTICULARIBUS HOMINIBUS, GENUS AUTEM NON DE UNA SPECIE PRAEDICATUR SED DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS, QUONIAM ETSI DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE PRAEDICANTUR DIFFERENTIAE ET COMMUNITER ACCIDENTIA SED NON IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR SED IN EO QUOD QUALE QUID SIT INTERROGANTIBUS ENIM NOBIS ILLUD DE QUO PRAEDICANTUR HAEC, NON IN EO QUOD QUID SIT DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN EO QUOD QUALE SIT. INTERROGANTI ENIM QUALIS EST HOMO, DICIMUS RATIONALIS, ET IN EO QUOD QUALIS EST CORUUS, DICIMUS QUONIAM NIGER. EST AUTEM RATIONALE QUIDEM DIFFERENTIA, NIGRUM VERO ACCIDENS. QUANDO AUTEM QUID EST HOMO INTERROGAMUR, ANIMAL RESPONDEMUS; ERAT AUTEM HOMINIS GENUS ANIMAL. Nunc genus a caeteris omnibus quae quolibet modo praedicantur ƿ separare contendit hoc modo. Quoniam enim genus de pluribus praedicatur, statim differt ab his quidem quae de uno tantum praedicantur quaeque unum quodlibet habent individuum ac singulare subiectum; sed haec differentia generis ab his quae de uno praedicantur, communis ei est cum caeteris, id est specie, differentia, proprio atque accidenti idcirco, quoniam ipsa quoque de pluribus praedicantur. Horum igitur singulorum differentias a genere colligit, ut solum intellegendum genus quale sit sub animi deducat aspectum, dicens: AB HIS AUTEM QUAE DE PLURIBUS PRAEDICANTUR, DIFFERT GENUS, AB SPECIEBUS QUIDEM PRIMUM, QUONIAM SPECIES ETSI DE PLURIBUS PRAEDICANTUR, NON TAMEN DE DIFFERENTIBUS SPECIE SED NUMERO. Species enim sub se plurimas species habere non poterit, alioquin genus, non species appellaretur. Si enim genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur, cum species de pluribus dicatur et in eo quod quid sit, huic si adiciatur ut de specie differentibus praedicetur, speciei forma transit in generis; id quoque exemplo intellegi fas est. Homo enim praedicatur de Socrate, Platone et caeteris quae a se non specie disiuncta sunt, sicut homo atque equus sed numero: quod quidem habet dubitationem quid sit boc quod dicitur numero differre. Numero enim differre aliquid videbitur quotiens numerus a numero differt, ut grex boum qui fortasse continet triginta boves, differt numero ab alio boum grege, si centum in se contineat boves; in eo enim quod grex est, non differunt, in eo quod boves, ne eo quidem: numero igitur differunt, quod illi plures, illi vero sunt pauciores. Quomodo igitur Socrates et Plato specie non differunt sed numero, cum et Socrates unus sit et Plato unus, unitas vero numero ab unitate non differat? Sed ita intellegendum quod dictum est numero differentibus, id est in numerando differentibus, hoc est dum numerantur differentibus. Cum enim dicimus 'hic Socrates est, hic Plato', duas fecimus unitates, ac si digito tangamus dicentes 'hic unus est' de Socrate, rursus de Platone 'hic unus est', non eadem unitas in Socrate numerata est quae in Platone. Alioquin posset fieri ut secundo tacto Socrate Plato etiam monstraretur. Quod non fit. Nisi enim tetigeris Socratem vel mente vel digito itemque tetigeris Platonem, non facies duos, dum numerantur ergo differunt qute sunt numero differentia. Cum igitur species de numero differentibus, non de specie praedicetur, genus de pluribus et differentibus specie dicitur, ut de bove, de equo et de caeteris quae a se specie invicem differunt, non numero solo. Tribus enim modis unumquodque vel differre ab aliquo dicitur vel alicui idem esse, genere, specie, numero. Quaecumque igitur genere eadem sunt, non necesse est eadem esse specie, ut si eadem sint genere, differant specie. Si vero eadem sint specie, genere quoque eadem esse necesse est, ut cum homo atque equus idem sint genere -- uterque enim animal nuncupatur -- differunt specie, quoniam alia est hominis species, alia equi. Socrates vero atque Plato cum idem sint specie, idem quoque sunt genere; utrique enim et sub hominis et sub animalis praedicatione ponuntur. Si quid vero vel genere vel specie idem sit, non necesse est idem esse numero, quod si idem sit numero, idem et specie et genere esse necesse est; ut Socrates et Plato, cum et genere animalis et specie hominis idem sint, num ero tam en reperiuntur esse disiuncti. Gladius vero atque ensis idem sunt numero, nihil enim omnino aliud est ensis quam gladius. Sed nec specie diversi sunt, utrumque enim gladius est, nec genere, utrumque enim instrumentum est, quod est gladii genus. Quoniam igitur homo, bos atque equus, de quibus animal praedicatur, specie differunt, numero ergo etiam eos differre necesse est. Idcirco hoc plus habet genus ab specie, quod de specie differentibus praedicatur. Nam si integram generis definitionem demus, dabimus hoc modo: genus est quod de pluribus ƿ specie et numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, at vero speciei sic: species est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. A PROPRIO VERO DIFFERT GENUS, QUONIAM PROPRIUM QUIDEM DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM, PRAEDICATUR ET DE HIS QUAE SUB UNA SPECIE SUNT INDIVIDUIS. Proprium semper uni speciei adesse potest neque eam relinquit nec transit ad aliam, atque idcirco proprium nuncupatum est, ut risibile hominis; itaque et de ea specie cuius est proprium praedicatur et de his individuis quae sub illa sunt specie, ut risibile de homine dicitur et de Socrate et Platone et caeteris quae sub hominis nomine continentur. Genus vero non de una tantum specie, ut dictum est sed de pluribus. Differt igitur genus a proprio eo quod de pluribus speciebus praedicatur, cum proprium de una tantum de qua dicitur appelletur et de his quae sub illa sunt individuis. A DIFFERENTIA VERO ET AB HIS QUAE COMMUNITER SUNT ACCIDENTIBUS DIFFERT GENUS. Differentiae atque accidentis discrepantiam a genere una separatione concludit. Omnino enim quia haec in eo quod quid sit minime praedicantur, eo ipso segregantur a genere; nam in caeteris quidem propinqua sunt generi, nam et ƿ de pluribus praedicantur et de specie differentibus sed non in eo quod quid sit. Si quis enim interroget: qualis est homo? respondetur rationalis, quod est differentia; si quis: qualis est coruus? dicitur niger, quod est accidens. Si autem interroges: quid est homo? animal respondebitur, quod est genus. Quod vero ait: HAEC NON IN EO QUOD QUID SIT DICIMUS PRAEDICARI SED MAGIS IN EO QUOD QUALE SIT, hoc magis quaestioni occurrit huiusmodi. Aristoteles enim differentias in substantis putat oportere praedicari. Quod autem in substantia praedicatur, hoc rem de qua praedicatur, non quale sit sed quid sit ostendit. Unde non videtur differentia in eo quod quale sit praedicari sed potius in eo quod quid sit. Sed solvitur hoc modo. Differentia enim ita substantiam demonstrat, ut circa substantiam qualitatem determinet, id est substantialem proferat qualitatem. Quod ergo dictum est magis, tale est tamquam si diceret: videtur quidem substantiam significare atque idcirco in eo quod quid sit praedicari sed magis illud est verius, quia tametsi substantiam monstret, tamen in eo quod quale sit praedicatur. QUARE DE PLURIBUS PRAEDICARI DIVIDIT GENUS AB HIS QUAE DE UNO SOLO EORUM QUAE SUNT INDIVIDUA PRAEDICANTUR, DIFFERENTIBUS VERO SPECIE SEPARAT AB HIS QUAE ƿ SICUT SPECIES PRAEDICANTUR VEL SICUT PROPRIA; IN EO AUTEM QUOD QUID SIT PRAEDICARI DIVIDIT A DIFFERENTIIS ET COMMUNITER ACCIDENTIBUS, QUAE NON IN EO QUOD QUID SIT SED IN EO QUOD QUALE SIT VEL QUODAMMODO SE HABENS PRAEDICANTUR DE QUIBUS PRAEDICANTUR. Tria esse diximus quae significationem hanc tertiam generis informarent, id est de pluribus praedicari, de specie differentibus et in eo quod quid sit. Quae singulae partes genus a caeteris quae quomodolibet praedicantur distribuant ac secernunt, quod ipse breviter colligens dicit; id, enim quod' de pluribus praedicatur, genus ab his dividit quae de uno tantum praedicantur individuo. Individuum autem pluribus dicitur modis. Dicitur individuum quod omnino secari non potest, ut unitas vel mens; dicitur individuum quod ob soliditatem dividi nequit, ut adamans; dicitur individuum cuius praedicatio in reliqua similia non convenit, ut Socrates: nam cum illi sint caeteri homines similes, non convenit proprietas et praedicatio Socratis in caeteris. Ergo, ab his quae de uno tantum praedicantur, genus differt eo quod de pluribus praedicatur restant igitur quattuor, species et proprium, differentia et accidens, ƿ quorum a genere differentias colligamus. Singulis igitur differentiis ab his rebus segregabitur genus. Ea quidem differentia qua de specie differentibus genus dicitur, separat ab his quae sicut species praedicantur vel sicut propria. Species enim omnino de nulla specie dicitur, proprium vero de una tantum specie praedicatur atque ideo non de specie differentibus. Item genus a differentia et accidenti differt, quod in eo quod quid sit praedicatur; illa enim in eo quod quale sit appellantur, ut dictum est. Itaque genus quidem ab his quae de uno praedicantur differt in quantitate praedicationis, ab speciebus vero et proprio in subiectorum natura, quoniam genus de specie differentibus dicitur, proprium vero et species minime. Item genus in qualitate praedicationis a differentia accidentique dividitur. Qualitas enim praedicationis quaedam est vel in eo quod quid sit vel in eo quod quale sit praedicari. NIHIL IGITUR NEQUE SUPERFLUUM NEQUE MINUS CONTINET GENERIS DICTA DESCRIPTIO. Omnis descriptio vel definitio debet ei quod definitur aequari. Si enim definitio definito non sit aequalis et si quidem maior sit, etiam quaedam alia continebit et non necesse est ut semper definiti substantiam monstret; si minor, ad omnem definitionem ƿ substantiae non pervenit. Omnia enim quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, ut animal de homine, minora vero de maioribus minime; nemo enim vere dicere potest 'omne animal homo est'. Atque idcirco si sibi praedicatio convertenda est, aequalis oportebit sit. Id autem fieri potest, si neque superfluum quicquam habet neque diminutum, ut in ea ipsa generis descriptione. Dictum est enim esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, quae descriptio cum genere converti potest, ut dicamus quicquid de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicetur, id esse genus. Quodsi converti potest, ut ait, nec plus neque minus continet generis facta descriptio. Superior de genere disputatio videatur forsitan omnem etiam speciei consumpsisse tractatum. Nam cum genus ad aliquid praedicetur, id est ad speciem, cognosci natura generis non potest, si speciei quae sit intellegentia nesciatur. Sed quoniam diversa est in suis naturis eorum consideratio atque discretio, diversa in permixtis, idcirco sicut singula in prooemio proposuit, ita dividere cuncta persequitur. Ac primum post generis disputationem de specie tractat. De qua quidem dubitari potest. Si enim haec fuit ratio praeponendi generis reliquis omnibus, quod naturae suae magnitudine caetera contineret, non aequum erat speciem differentiae in ordine tractatus anteponere, quod differentia speciem contineret, cum praesertim differentiae ipsas species informent. Prius autem est quod informat quam id quod eius informatione perficitur. Posterior igitur est species a differentia, prius igitur de differentia tractandum fuit. Etenim prooemio etiam consentiret, in quo eum ordinem collocavit quem naturalis ordo suggessit, dicens utile esse nosse quid genus sit et quid differentia. Huic respondendum est quaestioni, quoniam omnia quaecumque ƿ ad aliquid praedicantur, substantiam semper ex oppositis sumunt. Ut igitur non potest esse pater, nisi sit filius, nec filius, nisi praecedat pater, alteriusque nomen pendet ex altero, ita etiam in genere ac specie videre licet. Species quippe nisi generis non est rursusque genus esse non potest, nisi referatur ad speciem; nec vero substantiae quaedam aut res absolutae esse putandae sunt genus ac species, ut superius quoque dictum est sed quicquid illud est quod in naturae proprietate consistat, id tunc fit genus ac species, cum vel ad inferiora vel ad superiora referatur. Quorum ergo relatio alterutrum constituit, eorum continens factus est iure tractatus. De specie igitur inchoans ait hoc modo: SPECIES AUTEM DICITUR QUIDEM ET DE UNIUSCUIUSQUE FORMA, SECUNDUM QUAM DICTUM EST: 'PRIMUM QUIDEM SPECIES DIGNA IMPERIO'. DICITUR AUTEM SPECIES ET EA QUAE EST SUB ASSIGNATO GENERE, SECUNDUM QUAM SOLEMUS DICERE HOMINEM QUIDEM SPECIEM ANIMALIS, CUM SIT GENUS ANIMAL, ALBUM AUTEM COLORIS SPECIEM, TRIANGULUM VERO FIGURAE SPECIEM. Sicut generis supra significationes distinxit aequivocas, ita idem in specie facit dicens non esse speciei simplicem significationem. Et ponit quidem duas, longe autem plures esse ƿ manifestum est, quas idcirco praeteriit, ne lectoris animum prolixitate confunderet. Dicit autem primum quidem speciem vocali uniuscuiusque formam, quae ex accidentium congregatione perficitur. Cautissime autem dictum est uniuscuiusque, hoc enim secundum accidens dicitur. Quae enim unicuique individuo forma est, ea non ex substantiali quadam forma species sed ex accidentibus venit. Alia est enim substantialis formae species quae humanitas nuncupatur, eaque non est quasi supposita animali sed tamquam ipsa qualitas substantiam monstrans; haec enim et ab bac diversa est quae uniuscuiusque corpori accidenter insita est, et ab ea quae genus deducit in partes. Postremumque plura sunt quae cum eadem sint, diversis tamen modis ad aliud atque aliud relata intelleguntur, ut hanc ipsam humanitatem in eo quod ipsa est si perspexeris, species est eaque substantialem determinat qualitatem; si sub animali eam intellegendo locaveris, deducit animalis in sese participationem separaturque a caeteris animalibus ac fit generis species. Quodsi uniuscuiusque proprietatem consideres, id est quam virilis uultus, quam firmus incessus caeteraque quibus individua conformantur et quodammodo depinguntur, haec est accidens species secundum quam dicimus quemlibet illum imperio esse aptum propter formae ƿ eximiam dignitatem. Huic aliam adiungit speciei significationem, id est eam quam supponimus generi. Nos vero triplicem speciei significationem esse subicimus, unam quidem substantiae qualitatem, aliam cuiuslibet individui propriam formam, tertiam s de qua nunc loquitur, quae sub genere collocatur. Credendum vero est propter obscuritatem eius quam nos adiecimus, quia nimirum altiorem atque eruditiorem quaereret intellectum, ea, tacita praetermissaque caeteras edidisse. Cuius quidem speciei haec exempla subiecit, ut hominem quidem animalis speciem, album, autem coloris, triangulum vero figurae; haec enim omnia species nuncupantur eorum quae sunt genera animal quidem hominis, albi autem color, trianguli figura. QUODSI ETIAM GENUS ASSIGNANTES SPECIEI MEMINIMUS DICENTES QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, ET SPECIEM DICIMUS ID QUOD SUB GENERE EST. Dudum cum generis description em assignaret, in generis definitione speciei nomen iniecit dicens id esse genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicaretur, ut scilicet per speciei nomen definiret genus. Nunc vero cam speciem definire contendat, generis utitur nuncupatione dicens speciem esse quae sub genere ponatur. Cui quidem dicto illa quaestio iure videtur opponi. Omnis enim definitio rem declarare debet quam definitio concludit, eamque apertiorem reddere quam suo nomine monstrabatur. Ex notioribus igitur fieri oportet definitionem quam res illa sit quae definitur. Cum igitur per speciei nomen describeret vel definiret genus, abusus est vocabulo speciei velut notiore quam generis atque ita ex notioribus descripsit genus. Nunc vero cum speciem vellet termino descriptionis includere, generis utitur nomine rerumque convertit notionem, ut in generis quidem sit notius speciei vocabulum, in speciei autem descriptione sit notius generis, quod fieri nequit. Si enim generis vocabulum notius est quam speciei, in definitione generis speciei nomine uti non debuit. Quodsi speciei nomen facilius intellegitur quam generis, in definitione speciei nomen generis non fuit apponendum. Cui quaestioni occurrit dicens: NOSSE ASTEM OPORTET <QUOD>, QUONIAM ET GENUS ALICUIUS EST GENUS ET SPECIES ALICUIUS EST SPECIES, IDCIRCO NECESSE EST ET IN UTRORUMQUE RATIONIBUS UTRISQUE UTI. Omnia quaecumque ad aliquid praedicantur, ex his de quibus praedicantur, substantiam sortiuntur; quodsi definitio uniuscuiusque substantiae proprietatem debet ostendere, iure ex alterutro fit descriptio in his quae invicem referuntur. Ergo quoniam genus speciei genus est et substantiam suam et ƿ vocabulum genus ab specie sumit, in definitione generis speciei nomen est aduocandum, quoniam vero species id quod est sumit el genere, nomen generis in speciei descriptione non fuit relinquendum. Quoniam vero diversae sunt specierum qualitates -- aliae enim sunt species, quae et genera esse possunt, aliae, quae in sola speciei permanent proprietate neque in naturam generis transeunt -- idcirco multiplicem speciei definitionem dedit dicens: ASSIGNANT ERGO ET SIC SPECIEM: SPECIES EST QUOD PONITUR SUB GENERE ET DE QUO GENUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDIAATUR. AMPLIUS AUTEM SIC QUOQUE: SPECIES EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR. SED HAEC QUIDEM ASSIGNATIO SPECIALISSIMAE EST ET QUAE SOLUM SPECIES EST, ALIAE VERO ERUNT ETIAM NON SPECIALISSIMARUM. Tribus speciem definitionibus informavit, quarum quidem duae omni speciei conveniunt omnesque quae quolibet modo species appellantur, sua conclusione determinant, tertia vero non ita. Cum enim duae sint specierum formae, una quidem, cum species alicuius aliquando etiam alterius genus esse potest, altera, cum tantum species est neque in formam generis ƿ transit, priores quidem duae, illa scilicet in qua dictum est id esse speciem quod sub genere ponitur, et rursus in qua dictum est id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, omni speciei conveniunt. Id enim tantum hae definitiones monstrant quod sub genere ponitur. Nam et ea quae dicit id esse speciem quod sub genere ponitur, eam vim significat speciei qua refertur ad genus, et ea quae dicit id esse speciem de quo genus in eo quod quid sit praedicatur, eam rursus significat speciei formam quam retinet ex generis praedicatione. Idem est autem et poni sub genere et de eo praedicari genus, sicut idem est supponi generi et ei genus praeponi. Quodsi omnis species sub genere collocatur, manifestum est omnem speciem hoc ambitu descriptionis includi. Sed tertia definitio de ea tantum specie loquitur quae numquam genus est et quae solum species restat. Haec autem species ea est quae de differentibus specie minime praedicatur. Nam si id habet genus plus ab specie, quod de differentibus specie praedicatur, si qua species praedicetur quidem de subiectis sed non de specie differentibus, ea solum erit superioris generis species, subiectorum vero non erit genus. Igitur praedicatio ea quam species habet ad subiecta, si talis sit, ut de differentibus specie non praedicetur, distinguit eam ab his speciebus ƿ quae genera esse possunt et monstrat eam solum speciem esse nec generis praedicationem tenere. Illa igitur tertia descriptio speciei quae magis species ac specialissima dicitur, definitur hoc modo: SPECIES EST QUOD DE PLURIBUS NUMERO DIFFERENTIBUS IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR, UT HOMO; praedicatur enim de Cicerone ac Demosthene et caeteris qui a se, ut dictum est, non specie sed numero discrepant. Ex tribus igitur definitionibus duae quidem et specialissimis et non specialissimis aptae sunt, haec vero tertia solam ultimam speciem claudit. Ut autem id apertius liqueat, rem paulo altius orditur eamque congruis inlustrat exemplis: PLANUM AUTEM ERIT QUOD DICITUR HOC MODO. IN UNOQUOQUE PRAEDICAMEUTO SUNT QUAEDAM GENERALISSIMA ET RURSUS ALIA SPECIALISSIMA ET INTER GENERALISSIMA ET SPECIALISSIMA SUNT ALIA. EST AUTEM GENERALISSIMUM QUIDEM SUPER QUOD NULLUM ULTRA ALIUD SIT SUPERVENIENS GENUS, SPECIALISSIMUM AUTEM, POST QUOD NON ERIT ALIN INFERIOR SPECIES, INTER GENERALISSIMUM AUTEM ET SPECIALISSIMUM ET GENERA ET SPECIES SUNT EADEM, AD ALIUD ƿ QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. SIT AUTEM IN UNO PRAEDICAMENTO MANIFESTUM QUOD DICITUR. SUBSTANTIA EST QUIDEM ET IPSA GENUS, SUB HAC AUTEM EST CORPUS, SUB CORPORE VERO ANIMATUM CORPUS, SUB QUO ANIMAL, SUB ANIMALI VERO RATIONALE ANIMAL, SUB QUO HOMO, SUB HOMINE VERO SOCRATES ET PLATO ET QUI SUNT PARTICULARES HOMINES. SED HORUM SUBSTANTIA QUIDEM GENERALISSIMUM EST ET QUOD GENUS SIT SOLUM, HOMO VERO SPECIALISSIMUM ET QUOD SPECIES SOLUM SIT, CORPUS VERO SPECIES QUIDEM EST SUBSTANTIAE, GENUS VERO CORPORIS ANIMATI; ET ANIMATUM CORPUS SPECIES QUIDEM EST CORPORIS, GENUS VERO ANIMALIS. ANIMAL AUTEM SPECIES QUIDEM EST CORPORIS ANIMATI, GENUS VERO ANIMALIS RATIONALIS SED RATIONALE ANIMAL SPECIES QUIDEM EST ANIMALIS, GENUS AUTEM HOMINIS, HOMO VERO SPECIES QUIDEM EST RATIONALIS ANIMALIS, NON AUTEM ETIAM GENUS PARTICULARIUM HOMINUM SED SOLUM SPECIES. ET OMNE QUOD ANTE INDIVIDUA PROXIMUM EST, SPECIES ERIT SOLUM, NON ETIAM GENUS. Praediximus ab Aristotele decem praedicamenta esse disposita, ƿ quae idcirco praedicamenta vocaverit, quoniam de caeteris omnibus praedicantur. Quicquid vero de alio praedicatur, si non potuerit praedicatio converti, maior est res illa quae praedicatur ab ea de qua praedicatur. Itaque haec praedicamenta maxima rerum omnium, quoniam de omnibus praedicantur, ostensa sunt. In unoquoque igitur horum praedicamentorum quaedam generalissima sunt genera et est longa series specierum atque a maximo decursus ad minima. Et illa quidem quae de caeteris praedicantur ut genera neque ullis aliis supponuntur ut species, generalissima genera nuncupantur, idcirco quia his nullum aliud superponitur genus, infima vero quae de nullis speciebus dicuntur, specialissimae species appellantur, idcirco quoniam integrum cuiuslibet rei vocabulum illa suscipiunt quae pura inmixtaque in ea de qua quaeritur proprietate sunt constituta. At quoniam species id quod species est ex eo habet nomen, quia supponitur generi, ipsa erit simplex species, si ita generi supponatur, ut nullis aliis differentiis praeponatur ut genus. Species enim quae sic supponitur alii, ut alii praeponatur, non est simplex species sed habet quandam generis admixtionem, illa vero species quae ita supponitur generi, ut minime speciebus aliis praeponatur, illa solum species simplexque est species atque idcirco et maxime species et specialissima nuncupatur. Inter genera igitur quae sunt generalissima et species, quae specialissimae sunt, in medio ƿ sunt quaedam quae superioribus quidem collata species sunt. Inferioribus vero genera. Haec subalterna genera nuncupantur. Quod ita sunt genera, ut alterum sub altero collocetur. Quod igitur genus solum est, id dicitur generalissimum genus, quae vero ita sunt genera, ut esse species possint, vel ita species, ut sint genera nonnumquam, subalterna genera vel species appellantur. Quod vero ita est species, ut alii genus esse non possit, specialissima species dicitur. His igitur cognitis sumamus praedicamenti unius exemplum. Ut ab eo in caeteris quoque praedicamentis atque in a caeteris speciebus in uno filo atque ordine quid eveniat possit agnosci. Substantia igitur generalissimum genus est; haec enim de cunctis aliis praedicatur. Ac primum huius species duae, corporeum, incorporeum; nam et quod corporeum est, substantia dicitur et item quod incorporeum est, substantia praedicatur. Sub corporeo vero animatum atque inanimatum corpus ponitur, sub animato corpore animal ponitur; nam si sensibile adicias animato corpori, animal facis, reliqua vero pars, id est species, continet animatum insensibile corpus. Sub animali autem rationale atque irrationale, sub rationali homo atque deus; nam si rationali mortale subieceris, hominem feceris, si immortale, deum, deum vero corporeum; hunc enim mundum ueteres deum vocabant et Iovis eum appellatione ƿ dignati sunt deumque solem caeteraque caelestia corpora, quae animata esse cum Plato, tum plurimus doctorum chorus arbitratus est. Sub homine vero individui singularesque homines ut Plato, Cato, Cicero et caeteri, quorum numerum pluralitas infinita non recipit. Cuius rei subiecta descriptio sub oculos ponat exemplum: incorporea corpus animatum | inanimatum animatum corpus sensibile | insensibile animal rationale | irrationale rationale animal mortale | immortale homo | Plato Cato Cicero Superius posita descriptio omnem ordinem a generalissimo usque ad individua praedicationis ostendit. In qua quidem substantia generalissimum dicitur genus, quoniam praeposita est omnibus, nulli vero ipsa supponitur, et solum genus propter eandem scilicet causam, homo autem species solum, quoniam Plato, ƿ Cato et Cicero, quibus est ipsa praeposita, non differunt specie sed numero tantum. Corporeum vero, quod secundum a substantia collocatur, et species esse probatur et genus, substantiae species, genus animati. At vero animatum genus est animalis, corporei species. Est enim animatum genus sensibilis, animatum vero sensibile animal est; ipsum igitur animatum propter propriam differentiam, quod est sensibile, recte genus esse dicitur animalis. Animal vero rationalis genus est et rationale mortalis. Cumque rationale mortale nihil sit aliud nisi homo, rationale fit animalis species. Hominis genus. Homo vero ipse Platonis, Catonis, Ciceronis non erit, ut dictum est, genus sed est solum species. Nec solum differentiae rationalis species est homo, verum etiam Platonis et Catonis caeterorumque species appellatur, propter diversam scilicet causam. Nam rationalis idcirco est species, quoniam rationale per mortale atque immortale dividitur, cum sit homo mortale. Idem vero homo species est Platonis atque caeterorum; forma enim eorum omnium homo erit substantialis atque ultima similitudo. Est autem communis omnium regula eas esse species specialissimas quae supra sola individua collocantur, ut homo, equus, coruus -- sed non avis; avium enim multae sunt species sed hae tantum species esse dicuntur -- quorum subiecta ita sibi sunt consimilia, ut substantialem differentiam habere non possint. In omni autem hac dispositione priora genera cum inferioribus coniunguntur, ut posteriores efficiant species; nam ƿ ut sit corpus substantia, cum corporalitate coniungitur et est substantia corporea corpus. Item ut sit animatum, corporeum atque substantia animato copulatur et est animatum substantia corporea habens animam. Item ut sit sensibile, eidem tria illa superiora iunguntur. Nam quod est sensibile, tantum est, quantum substantia corporea animata retinens sensum, quod totum animal est. Item superiora omnia rationi iuncta efficiunt rationale postremumque hominem superiora omnia nihilominus terminant; est enim homo substantia corporea, animata. Sensibilis, rationalis, mortalis. Nos vero definitionem hominis reddimus dicentes animal rationale, mortale, in animali scilicet includentes et substantiam et corporeum et animatum atque sensibile. Et in caeteris quidem speciebus atque generibus ad hunc modum vel genera dividuntur vel species describuntur. QUEMADMODUM IGITUR SUBSTANTIA, CUM SUPREMA SIT, EO QUOD NIHIL SIT SUPRA EAM, GENUS ERAT GENERALISSIMUM, SIC ET HOMO, CUM SIT SPECIES POST QUAM NON SIT ALIA SPECIES NEQUE ALIQUID EORUM QUAE POSSUNT DIVIDI SED SOLUM INDIVIDUORUM -- INDIVIDUUM ENIM EST SOCRATES ET PLATO -- SPECIES ERIT SOLA ET ULTIMA SPECIES ƿ ET, UT DICTUM EST, SPECIALISSIMA. QUAE VERO SUNT IN MEDIO, EORUM QUIDEM QUAE SUPRA IPSA SUNT, ERUNT SPECIES, EORUM VERO QUAE POST IPSA SUNT, GENERA. QUARE HAEC QUIDEM HABENT DUAS HABITUDINES, EAM QUAE EST AD SUPERIORA, SECUNDUM QUAM SPECIES IPSORUM ESSE DICUNTUR, ET EAM QUAE EST AD POSTERIORA, SECUNDUM QUAM GENERA IPSORUM ESSE DICUNTUR. EXTREMA VERO UNAM HABENT HABITUDINEM. NAM ET GENERALISSIMUM AD EA QUIDEM QUAE POSTERIORA SUNT, HABET HABITUDINEM, CUM GENUS SIT OMNIUM ID QUOD EST SUPREMUM, EAM VERO QUAE EST AD SUPERIORA, NON HABET, CUM SIT SUPREMUM ET PRIMUM PRINCIPIUM, SPECIALISSIMUM AUTEM UNAM HABET HABITUDINEM, EAM QUAE EST AD SUPERIORA, QUORUM EST SPECIES, EAM VERO QUAE EST AD POSTERIORA, NON DIVERSAM HABET SED ETIAM INDIVIDUORUM SPECIES DICITUR SED SPECIES QUIDEM INDIVIDUORUM VELUT EA CONTINENS, SPECIES AUTEM SUPERIORUM, VELUT QUAE AB EIS CONTINEATUR. Ex proportione speciei nomen et generis ostendit. Nam ut genus, quoniam non habet genus supra se, generalissimum genus dicitur, ut substantia, ita species, quoniam non habet sub se speciem sed individua, specialissima species dicitur, ut homo. Quid est autem species non habere? His praeesse quae neque in dissimilia dividi possunt, ut genera dividuntur, neque in similia secantur, ut species. Quae vero inter genera generalissima speciesque specialissimas constituta sunt, ea et species et genera nuncupantur, quoniam et ipsa aliis supponuntur et his alia subiciuntur, quorum vel in dissimilia vel in similia possit esse partitio. Cumque duae sint habitudines et quasi comparationes oppositae, quae in omnibus generibus speciebusque versentur, una quidem quae ad superiora respiciat, ut specierum, quae suis generibus supponuntur, alia vero quae ad inferiora, ut generum, cum speciebus propriis praeponuntur, generalissima quidem genera unam tantum retinent habitudinem, eam scilicet quae inferiora complectitur, illam vero quae ad praeposita comparatur, non habent. Generalissimum enim genus nulli supponitur. Item species specialissima unam possidet habitudinem, per quam scilicet ad sola gellera comparatur, illam vero quae ad inferiora committitur, non habet; nullis enim speciebus ipsa praeponitur. At vero quae subalterna sunt genera, utraque habitudine funguntur. ƿ Nam et illam possident quae ad superiora respicit, quoniam quae subalterna sunt, habent superpositum genus, et illam quae de inferioribus praedicatur; habent enim subalterna genera suppositas species, ut corporeum ad substantiam quidem eam retinet habitudinem qua potest poni sub genere, ad animatum vero eam qua potest de specie praedicari. Specialissimae vero species licet ipsae individuis praeponantur, tamen praepositi habitudinem non habebunt, idcirco quoniam illa quae speciei ultimae supponuntur, talia sunt, ut quantum ad substantiam unum quiddam sint non habentia substantialem differentiam sed accidentibus efficitur, ut numero saltem distare videantur, ut paene dici possit et pluribus praeesse speciem et quodammodo nulli omnino esse praepositam. Nam cum species substantiam monstret unam, quae omnium individuorum sub specie positorum substantia sit, quodammodo nulli praeposita est, si ad substantiam quis velit aspicere. At si accidentia quis consideret, plures de quibus praedicetur species fiunt, non substantiae diversitate sed accidentium multitudine itaque fit ut genus quidem semper plurimas sub ƿ se habeat species; de differentibus enim specie praedicatur, differentia vero nisi pluralitati non convenit. At vero species etiam uni aliquando individuo praeesse potest. Si enim unus, ut perhibetur, est phoenix, phoenicis species de uno tantum individuo praedicatur; solis etiam species unum solem intellegitur habere subiectum. Ita nullam multitudinem species per se continet, cum etiam si unum sit tantum individuum, speciei tamen non pereat intellectus; quibusdam enim suis quasi similibus partibus praeest, ut si aeris virgulam dividas, secundum id quod aes dicitur, idem et partes esse intellegitur et totum. Idcirco dictum est speciem, licet sit individuis praeposita, unam tamen habitudinem possidere, unam scilicet qua species est. Quoniam enim praepositis subditur, species nuncupatur, et est superiorum species tamquam subiecta inferiorum quoque species, idcirco quoniam eorum substantiam monstrat. Speciem vero substantiam nuncupamus, nec ita est species substantia individuorum, quemadmodum speciei genus; illud enim pars substantiae est, ut animalis homo. Reliquae enim partes rationale sunt atque mortale, homo vero Socratis atque Ciceronis tota substantia est; nulla enim additur differentia substantialis ad hominem, ut Socrates fiat aut Cicero, ƿ sicut additur animali rationale atque mortale, ut homo integra definitione claudatur. Idcirco igitur species specialissima tantum species est atque hanc solam possidet habitudinem ad superiora quidem, quoniam ab his continetur, ad inferiora vero, quoniam eorum substantiam format et continet. DETERMINANT ERGO GENERALISSIMUM ITA, QUOD CUM GENUS SIT, NON EST SPECIES, ET RURSUS, SUPRA QUOD NON ERIT ALIUD SUPERVENIENS GENUS, SPECIALISSIMUM VERO, QUOD CUM SIT SPECIES, NON EST GENUS ET QUOD CUM SIT SPECIES, NUMQUAM DIVIDITUR IN SPECIES ET QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICATUR. EA VERO QUAE IN MEDIO SUNT EXTREMORUM, SUBALTERNA VOCANT GENERA ET SPECIES, ET UNUMQUODQUE IPSORUM SPECIEM ESSE ET GENUS PONUNT, AD ALIUD QUIDEM ET AD ALIUD SUMPTA. EA VERO QUAE SUNT ANTE SPECIALISSIMA USQUE AD GENERALISSIMUM ASCENDENTIA, ET GENERA DICUNTUR ET SPECIES ET SUBALTERNA GENERA, UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES ET ULTIMUM IOVIS. Posteaquam naturam generum ac specierum diversitatemque monstravit, eorum ordinem definitionis descriptionisque commemorat. Ac primum quidem generalissimi generis terminum ƿ inducit, id esse generalissimum genus quod cum ipsum genus sit, non habet superpositum genus, hoc est speciem non esse, et rursus, supra quod non erit aliud superveniens genus. Si enim haberet aliud genus, minime ipsum generalissimum vocaretur. Specialissima vero species hoc modo: quod cum sit species, non est genus, ex opposito, quoniam opposita ex oppositis describuntur interdum. Nam quoniam praepositio opposita est suppositioni, genus autem praeponitur, species vero supponitur, si idcirco erit primum genus, quia ita superponitur, ut minime supponatur, idcirco erit ultima species, quia ita supponitur, ut praeponi non possit, oppositorum igitur recte ex oppositis facta est definitio. Est alia rursus descriptio: quod cum sit species, numquam dividatur in species, id est genus esse non possit. Si enim omne genus specierum genus est, si quid non dividitur in species, genus esse non poterit. Est rursus alia definitio: quod de pluribus et differentibus numero in eo quod quid sit praedicatur. De qua definitione saepe est superius demonstratum. Nunc illud attendendum est. Si, ut paulo superius dictum est, speciei unum individuum potest esse subiectum, ut phoenici atomum suum, ut soli corpus hoc lucidum, ut mundo vel lunae, quorum species singulis suis individuis superponuntur, qui convenit dicere speciem esse quae de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur? Sunt enim quaedam quae de numero differentibus minime dicuntur, ut phoenix, sol, luna, mundus. Sed de his illa ratio est de qua etiam superius pauca reddidimus, quae paululum inflexa commodissime nodum quaestionis absolvit. Omnia enim quae sub speciebus specialissimis sunt, sive infinita sint sive finito numero constituta sive ad singularitatem deducantur, dum est aliquod individuum, semper species permanebit neque individuorum deminutione, dum quodlibet unum maneat, species consumitur. ut enim dictum est, tametsi plura sint individua, substantiales differentias non habebunt. Id vero in genere dici non convenit, quod his praeest quae substantiali a se differentia disgregata sunti praeest enim speciebus quae diversis differentiis informantur. ƿ Si igitur earum una perierit et ad unitatem speciei reducta sit ratio, genus esse non poterit, quia de differentibus specie praedicatur. Non ita in speciebus. Si enim omnium individuorum natura consumpta sit et ad unius singularitatem individul superpositae speciei praedicatio peruenerit, est tamen species ac permanet. Talia enim sunt illa quae pereunt ac desunt, quale est id quod permansit et subiacet quod vero dicimus de pluribus numero differentibus speciem praedicari, duobus id recte explicabitur modis, uno quidem, quia multo plures sunt species quae de numerosis individuis praedicantur, quam hae quibus unum tantum individuum videtur esse suppositum, dehinc hoc, quia multa secundum potestatem dicuntur, cum actu non semper ita sint, ut risibilis homo dicitur; etiamsi minime rideat, quoniam ridere potest. Ita igitur species de numero differentibus praedicatur; nihilo enim minus phoenix de pluribus phoenicibus praedicaretur, si plures essent, quam nunc, quando unus esse perhibetur. Item solis species de hoc uno sole quem novimus, nunc dicitur, at si animo plures soles et cogitatione fingantur, nihilominus de pluribus solibus in dividuis nomen solis quam de hoc uno praedicabitur. Idcirco igitur species de pluribus numero differentibus dicitur praedicari cum sint aliquae quae de singulis individuis appellentur. Illa vero quae subalterna vocantur ita definiri queunt: subalternum ƿ genus est quod et genus esse poterit et species, ad eumque modum est ut in familiis, quae procreant et procreantur, ut etiam subiectum monstrat exemplum: UT AGAMEMNON ATRIDES ET PELOPIDES ET TANTALIDES ET ULTIMUM IOVIS. Atreus enim Pelopis filius tamquam eiusdem species quasi Agamemnonis genus est. Item Agamemnon Pelopides et Tantalides, cum Pelops ad Tantalum comparatus Tantalusque ad Iovem quasi species itemque Tantalus ad Pelopem, Pelops ad Atreum tamquam genera esse videantur, cum Iuppiter veluti sit horum generalissimum genus. SED IN FAMILIIS QUIDEM PLERUMQUE AD UNUM REDUCUNTUR PRINCIPIUM, VERBI GRATIA AD IOVEM, IN GENERIBUS AUTEM ET SPECIEBUS NON SE SIC HABET. NEQUE ENIM EST COMMUNE UNUM GENUS OMNIUM ENS NEC OMNIA EIUSDEM GENERIS SUNT SECUNDUM UNUM SUPREMUM GENUS, QUEMADMODUM DICIT ARISTOTELES. SED SINT POSITA, QUEMADMODUM ƿ IN PRAEDICAMENTIS, PRIMA DECEM GENERA QUASI PRIMA DECEM PRINCIPIA; VEL SI OMNIA QUIS ENTIA VOCET, AEQUIVOCE, INQUIT, NUNCUPABIT, NON UNIVOCE. SI ENIM UNUM ESSET COMMUNE OMNIUM GENUS ENS, UNIVOCE ENTIA DICERENTUR; CUM VERO DECEM SINT PRIMA, COMMUNIO SECUNDUM NOMEN EST SOLUM, NON ETIAM SECUNDUM RATIONEM, QUAE SECUNDUM NOMEN EST. Cum de subalternis generibus diceret, familiae cuiusdam posuit exemplum, quae ab Agamemnone pervenit ad Iovem, quem quidem pro numinis reuerentia ultimum posuit. Quantum enim ad ueteres theologos, refertur Iuppiter ad Saturnum, Saturnus ad Caelum, Caelus vero ad antiquissimum Ophionem ducitur, cuius Ophionis nullum principium est. Ne igitur quod in familiis est, id in rebus quoque esse credatur, ut res omnes possint ad unum sui nominis redire principium, idcirco determinat hoc in generibus ac speciebus esse non posse; neque enim sicut familiae cuiuslibet, ita etiam omnium rerum unum esse principium potest. Fuere enim qui hac opinione tenerentur, ut rerum omnium quae sunt umlm putarent esse genus quod ens nuncupant, tractum ab eo quod dicimus 'est'; omnia enim ƿ sunt et de omnibus esse praedicatur. Itaque et substantia est et qualitas est itemque quantitas caeteraque esse dicuntur; nec de his aliquid tractaretur, nisi haec quae praedicamenta dicuit tur, esse constaret. Quae cum ita sint, ultimum omnium genus ens esse posuerunt, scilicet quod de omnibus praedicaretur. Ab eo autem quod dicimus 'est' participium inflectentes Graeco quidem sermone *on* Latine ens appellaverunt. Sed Aristoteles sapientissimus rerum cognitor reclamat huic sententiae nec ad unum res omnes putat duci posse primordium, sed decem esse genera in rebus, quae cum a semet ipsis diversa sint, tum ad nullum commune principium reducantur. Haec autem decem genera statuit substantiam, qualitatem, quantitatem, ad aliquid, ubi, quando, situm, facere, pati, habere. Quod vero occurrebat quoniam de his omnibus esse praedicaretur -- omnia enim quae superius enumerata sunt genera, esse dicuntur -- ita discussit ac reppulit dicens non omne commune nomen communem etiam formare substantiam nec ex eo debere genus esse commune arbitrari, quod de aliquibus nomen commune praedicaretur. Quibus enim definitio communis nominis convenit, illa communis nominis iure species iudicabuntur et communi illo vocabulo univoce praedicantur, quibus vero non convenit, vox his communis tantum est, nulla vero substantia. Id autem manifestius declaratur exemplis hoc modo. Animal hominis atque equi genus esse praedicamus; demus igitur ƿ animalis definitionem, quae est substantia animata sensibilis; hanc si ad hominem reducamus, erit homo substantia animata sensibilis, nec ulla falsitate definitio maculatur. Rursus si ad equum, erit equus substantia animata sensibilis; id quoque verum est. Convenit igitur haec definitio et animali, quod commune est homini atque equo, et eidem equo atque homini, quae species ponuntur animalis. Ex quo fit ut homo atque equus utraque animalia univoce nuncupentur. At si quis hominem pictum hominemque vivum communi animalis nomine nuncupaverit, definiat si libet animal hoc modo, substantiam animatam esse atque sensibilem. Sed haec definitio ei quidem homini qui vivus est convenit, ei vero qui pictus est, minime; neque enim est animata substantia. Igitur homini vivo atque picto, quibus communis nominis definitio, id est animalis, non potest convenire, non est animal commune genus sed tantum commune vocabulum diciturque hoc nomen animalis in vivo homine atque picto non genus sed vox plura significans; vox autem plura significans aequivoca nuncupatur, sicut vox ea quae genus ostendit, univoca dicitur. Itaque id quod dicitur ens, etsi de omnibus dicitur praedicamentis, quoniam tam en nulla eius definitio inveniri potest quae omnibus praedicamentis possit aptari, idcirco non dicitur univoce de praedicamentis, id est ut genus sed aequivoce, id est ut vox plura significans. Conuincitur etiam hac quoque ratione id quod dicimus, ens praedicamentorum genus esse non posse. ƿ Unius enim rei duo genera esse non possunt, nisi alterum alteri subiciatur, ut hominis genus est animal atque animatum, cum animal animato velut species supponatur. At si duo sint sibimet ita aequalia, ut numquam alterum alteri supponatur. Haec utraque eiusdem speciei genera esse non possunt. Ens igitur atque unum neutrum neutri supponitur; neque enim unius dicere possumus genus ens nec eius quod dicimus ens, unum. Nam quod dicimus ens, unum est et quod unum dicitur, ens est; genus autem et species sibi minime convertuntur. Si igitur praedicatur ens de omnibus praedicamentis, praedicatur etiam unum. Nam substantia unum est, qualitas unum est. Quantitas unum est caeteraque ad hunc modum. Si igitur, quoniam esse de omnibus praedicatur, omnium genus erit, et unum, quoniam de omnibus praedicatur, erit omnium genus. Sed unum atque ens, ut demonstratum est, minime alterum alteri praeponitur; duo igitur aequalia singulorum praedicamentorum genera sunt, quod fieri non potest. Cum haec igitur ita sint, id Porphyrius determinavit dicens non ita in rebus, ut in familiis omnia ad unum principium posse reduci nec omnium rerum commune esse genus posse, ut Aristoteli placet; SED SINT POSITA, inquit, QUEMADMODUM IN PRAEDICAMENTIS dictum est, PRIMA DECEM GENERA QUASI DECEM PRIMA PRINCIPIA, scilicet ut nulla interim ratio perquiratur sed auctoritati Aristotelis concedentes haec decem genera nulli ƿ alii generi esse credamus subiecta, quae si quis entia nuncupat, aequivoce nuncupabit, non univoce; neque enim una eorum omnium secundum commune nomen definitio poterit adhiberi. Quae res facit, ut non univoce de his aliquid praedicetur. Si enim univoce praedicaretur, genus esset eorum commune nomen quod de omnibus praedicaretur; at si genus esset. Definitio generis conveniret in species. Quod quia non fit, commune his id quod dicimus ens, vocabulum est vocis significatione, non ratione substantiae. DECEM QUIDEM GENERALISSIMA SUNT, SPECIALISSIMA VERO IN NUMERO QUIDEM QUODAM SUNT, NON TAMEN INFINITO, INDIVIDUA AUTEM QUAE SUNT POST SPECIALISSIMA, INFINITA SUNT. QUAPROPTER USQUE AD SPECIALISSIMA A GENERALISSIMIS DESCENDENTEM IUBET PLATO QUIESCERE, DESCENDERE AUTEM PER MEDIA DIVIDENTEM SPECIFICIS DIFFERENTIIS; INFINITA, INQUIT, RELINQUENDA SUNT; NEQUE ENIM HORUM POSSE FIERI DISCIPLINAM. Quoniam specierum nosse naturam ad sectionem generum pertinet quoniamque scientia infinita esse non potest -- nullus enim intellectus infinita circumdat -- idcirco de multitudine generum, specierum atque individuorum rectissima raitione persequitur dicens supremorum generum numerum notum -- decem enim praedicamenta ab Aristotele esse reperta quae rebus omnibus generis loco praeferenda sint -- species vero multo plures esse quam genera. Nam cum decem suprema sint genera cumque uni generi non una sed multae species supponantur proximaeque species supremis generibus subalterna sint genera usque dum ad ultimas species descendatur, nimirum unius generis multas species esse necesse est utrobique diffusas, specialissimas vero multo plures esse quam subalterna, quoniam per multitudinem generum subalternorum ad specialissimas descenditur species. Quas multo plures esse quam genera subalterna hoc maxime ostenditur, quod inferiores sunt; semper enim genera in plura subiecta dividuntur. Decem vero generum species multo plures quam unius existere manifestum est, verum tamen etsi plures sunt, certo tamen numero continentur; quem facile si quis discutiat omniumque generum species persequatur, possit agnoscere. Individua vero quae sub unaquaque sunt specie, infinita sunt vel quod tam multa ƿ sunt diversisque locis posita, ut scientia numeroque includi comprehendique non possint, vel quod in generatione et corruptione posita nunc quidem incipiunt esse, nunc vero desinunt. Atque idcirco suprema quidem genera et subalterna et species eas quae specialissimae nuncupantur, quoniam finitae sunt numero, potest scientiae terminus includere, individua vero nullo modo idcirco igitur Plato a magis generibus usque ad magis species id est specialissimas praecipiebat facere sectionem; per ea enim quae finita essent numero, iubebat descendere dividentem, ubi autem ad individua veniretur, standum esse suadebat, ne, quod natura non ferret, infinita colligeret. Ita vero genera in species dividi comprobabat, ut specificis differentiis soluerentur. De specificis autem differentiis melius in eo tituro ubi de differentia disputatur, ac largius disseremus. Hic enim hoc tantum dixisse sufficiat, eas esse specificas differentias quibus species informantur, ut rationale vel mortale hominis. Cum igitur dividimus animal, rationali atque irrationali, mortali immortalique separamus. <Hoc ergo> caeteraque genera talibus differentiis quae subiectas species informent, Plato censuit esse dividenda usque dum ad specialissima ƿ veniretur, dehinc consistere nec infinita sequi, quoniam individuorum numquam esset nec disciplina nec numerus. DESCENDENTIBUS IGITUR AD SPECIALISSIMA NECESSE EST DIVIDENTEM PER MULTITUDINEM IRE, ASCENDENTIBUS VERO AD GENERALISSIMA NECESSE EST COLLIGERE MULTITURDINEM. COLLECTIVUM ENIM MULTORUM IN UNAM NATURAM SPECIES EST ET MAGIS ID QUOD GENUS EST, PARTICULARIA VERO ET SINGULARIA E CONTRARIO IN MULTITUDINEM SEMPER DIVIDUNT QUOD UNUM EST; PARTICIPATIONE ENIM SPECIEI PLURES HOMINES UNUS, PARTICULARIBUS AUTEM UNUS ET COMMUNIS PLURES; DIVISIVUM EST ENIM SEMPER QUOD SINGULARE EST, COLLECTIVUM AUTEM ET ADUNATIVUM QUOD COMMUNE EST. Dividere est in multitudinem quod unum fuerat ante dis soluere, omoisque divisio e contrario compositionem coniunctionemque meditatur. Quod enim, cum sit unum, dispertiendo dividitur, id ipsum ex pluribus rursus partibus adunando componitur. ut igitur superius dictum est, individuorum quidem similitudinem species colligunt, specierum vero genera; similitudo vero nihil est aliud nisi quaedam unitas qualitatis. Ergo substantialem similitudinem individuorum species colligere manifestum est, substantialem vero similitudinem specierum genera contrahunt et ad se ipsa reducunt. Rursus ƿ generis adunationem differentiae in species distribuunt, specieique adunationem in singulares individuasque personas accidentia partiuntur. Cum igitur haec ita sint, necesse est semper cum a genere descendis ad speciem, dividendo semper facere multitudinem, cum vero ab speciebus ascendis ad genera, componendo colligere et plura quae in specierum differentiis fuerant similitudine qualitatis adunare. In speciebus etiam idem considerari potest. ut enim ipsae individua, quae sunt infinita, una similitudine substantiali colligunt, ita individua speciem propria infinitate distribuunt Omnia enim individua disgregativa sunt et divisiva, species vero et genera collectiva, species quidem individuorum collectiva atque adunativa, specierum vero genera, ut ita dicendum sit: genus quidem species distribuunt et species ab individuis in multitudinem deducuntur, rursus autem genus quidem multas species colligit, species autem particularem singularemque multitudinem ad singularitatis deducit unitatem. Igitur plus genus adunativum est quam species. Species namque sola individua colligit, genus vero tam species quam ipsarum quoque specierum individuas contrahit singularesque personas. Sed in hoc convenienti utitur exemplo dicens quoniam PARTICIPATIONE SPECIEI, id est hominis, Cato, Plato et Cicero PLURESQUE RELIQUI HOMINES UNUS, id est milia hominum ƿ in eo quod sunt homines, unus homo est; at vero unus homo, qui specialis est, si ad homivum multitudinem qui sub ipso sunt consideretur, plures fiunt. Ita et plures homines in speciali homine unus est et specialis unus in pluribus infinitus sic igitur quod singulare quidem est, divisivum est, quod vero commune, quoniam multorum unum est, ut genus ac species, collectivum atque adunativum. ASSIGNATO AUTEM GENERE ET SPECIE, QUID EST UTRUMQUE, ET GENERE QUIDEM UNO, SPECIEBUS VERO PLURIBUS -- SEMPER ENIM IN PLURES SPECIES DIVISIO GENERIS EST -- GENUS QUIDEM SEMPER DE SPECIE PRAEDICATUR ET OMNIA SUPERIORA DE INFERIORIBUS, SPECIES AUTEM NEQUE DE PROXIMO SIBI GENERE NEQUE DE SUPERIORIBUS; NEQUE ENIM CONVERTITUR. OPORTET AUTEM AUT AEQUA DE AEQUIS PRAEDICARI, UT HINNIBILE DE EQUO, AUT MAIORA DE MINORIBUS, UT ANIMAL DE HOMINE, MINORA VERO DE MAIORIBUS MINIME; NEQUE ENIM ANIMAL DICES ESSE HOMINEM, QUEMADMODUM HOMINEM DICES ESSE ANIMAL. DE QUIBUS AUTEM SPECIES PRAEDICATUR, ƿ DE HIS NECESSARIO ET SPECIEI GENUS PRAEDICABITUR ET GENERIS GENUS USQUE AD GENERALISSIMUM; SI ENIM verUM EST SOCRATEM HOMINEM DICERE, HOMINEM AUTEM ANIMAL, ANIMAL VERO SUBSTANTIAM, VERUM EST ET SOCRATEM ANIMAL DICERE ATQUE SUBSTANTIAM. SEMPER IGITUR SUPERIORIBUS DE INFERIORIBUS PRAEDICATIS SPECIES QUIDEM DE INDIVIDUO PRAEDICABITUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO, GENERALISSIMUM AUTEM ET DE GENERE ET DE GENERIBUS, SI PLURA SINT MEDIA ET SUBALTERNA, ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO. DICITUR ENIM GENERALISSIMUM QUIDEM DE OMNIBUS SUB SE GENERIBUS SPECIEBUSQUE ET DE INDIVIDUIS, GENUS AUTEM QUOD ANTE SPECIALISSIMUM EST, DE OMNIBUS SPECIALISSIMIS ET DE INDIVIDUIS, SOLUM AUTEM SPECIES DE OMNIBUS INDIVIDUIS, INDIVIDUUM AUTEM DE UNO SOLO PARTICULARI. INDIVIDUUM AUTEM DICITUR SOCRATES ET HOC ALBUM ET HIC VENIENS, UT SOPHRONISCI FILIUS, SI SOLUS EI SIT SOCRATES FILIUS. Breviter quaecumque superius dicta sunt commemorat hoc modo. Cum, inquit, assignaverimus quid sit genus et quid species, cumque suis ea definitionibus comprehenderimus docuerimusque unum genus semper in plurimas species solvi, illud, inquit, adiungimus quoniam omnia superiora de inferioribus praedicantur, inferiora vero de superioribus minime. Et ea quae sunt utilia de praedicationis modo rite pertractat. Ostendit autem genus in plurimas species semper solvi assignata generis definitione. Quod enim de pluribus rebus specie differentibus in eo quod quid sit praedicaretur, esse definivit genus. Nihil autem sunt plurimae res specie differentes nisi plurimae species; de quibus autem praedicatur genus, in ea ipsa dissolvitur. Ostensum est igitur es definitionis assignatione unius generis esse species plures. Quae cum ita sint, genus quidem de specie praedicatur, species vero de individuis omniaque superiora de inferioribus, inferiora de superioribus nullo modo. Id quare eveniat paucis absolvam. Quae superiora sunt, substantialiter ea genera esse praediximus, qua vero sunt genera, ampliora sunt quam unaquaeque species. Neque enim in plurima divideretur genus, nisi ab unaquaque specie maius existeret. Id cum ita sit, nomen generis toti convenit speciei; non enim coaequatur solum speciei generis magnitudo, verum etiam speciem superuadit. Idcirco igitur omnis homo animal est, quoniam intra animalis vocabulum et homo et caetera continentur. At vero nullus dixerit: omne animal homo est; non enim pervenit ad totum animal hominis nomen, quia, cum sit minus, nullo modo generis vocabulo coaequatur. Itaque quae maiora sunt, de minoribus praedicantur, quae minora, non convertuntur, ut de maioribus praedicentur. At vero si qua sint aequalia, ea secundum naturae parilitatem converti necesse est, ut hinnibile atque equus, quoniam ita sibimet ƿ coaequantur, ut neque equus non sit hinnibilis neque quod sit hinnibile, non sit equus. Fit ergo ut omne hinnibile equus sit et omnis equus hinnibilis. Quae cum ita sint, ea quae superiora sunt, non modo de sibi proximis inferioribus praedicantur, verum etiam de inferiorum inferioribus. Nam si illud recipitur, ut ea quae superiora sunt, de inferioribus praedicentur, inferiorum inferiora superioribus multo magis inferiora sunt, velut substantia praedicatur de animali, quod est inferius; sed animali inferius est homo, praedicabitur igitur etiam substantia de homine. Rursus Socrates inferius est homine, praedicabitur igitur substantia de Socrate. Itaque species quidem de individuis praedieantur, genera vero et de speciebus et de individuis. Quod converti non potest; nam neque individua de speciebus aut generibus praedicantur nec species de generibus. Ita fit ut genus quod est generalissimum, de omnibus subalternis generibus praedicari et de speciebus et de individuis possit, de ipso nihil. Ultimum vero genus id est quod ante specialissimas species collocatur et de solis speciebus specialissimis dici potest, species vero de individuis, ut dictun est, individua autem de singulis praedicantur, ut Socrates et Plato, eaque maxime sunt ƿ individua quae sub ostensionem indicationemque digiti cadunt, ut hoc scamnum, hic veniens atque quae ex aliqua proprie accidentium designantur nota, ut, si quis Socratem significatione velit ostendere, non dicat 'Socrates', ne sit alius qui forte hoc nomine nuncupetur sed dicat 'Sophronisci filius', si unicus Sophronisco fuit. Individua enim maxime ostendi queunt, si vel tacito nomine sensui ipsi oculorum digito tactuue monstrentur, vel el aliquo accidenti significentur vel nomine proprio, si solus illud adeptus est nomen, vel ex parentibus, si illorum est unicus filius, vel ex quolibet alio accidenti singularitas demonstratur. Eo quod ad esse unam praedicationem habeat eiusque dictio non transeat ad alterum, sicut generis quidem ad species, specierum vero ad individua. INDIVIDUA ERGO DICUNTUR HUIUSMODI, QUONIAM EX PROPRIETATIBUS CONSISTIT UNUMQUODQUE EORUM, QUARUM COLLECTIO NUMQUAM IN ALIO EADEM ERIT. SOCRATIS ENIM PROPRIETATES NUMQUAM IN ALIO QUOLIBET ERUNT ƿ PARTICULARIUM, HAE VERO QUAE SUNT HOMINIS, DICO AUTEM EIUS QUI EST COMMUNIS, PROPRIETATES ERUNT EAEDEM IN PLURIBUS, MAGIS AUTEM IN OMNIBUS PARTICULARIBUS HOMINIBUS IN EO QUOD HOMINES SUNT. Quoniam superius individuum appellavit, huius nominis rationem conatur ostendere. Ea enim sola dividuntur quae pluribus communia sunt; his enim unumquodque dividitur quorum est commune quorumque naturam ac similitudinem continet. Illa vero in quae commune dividitur, communi natura participant proprietasque communis rei his quibus communis est convenit. At vero individuorum proprietas nulli communis est. Socratis enim proprietas, si fuit caluus, simus, propenso aluo caeterisque corporis lineamentis aut morum institutione aut forma vocis, non conveniebat in alterum; hae enim proprietates quae ex accidentibus ei obuenerant eiusque formam figuramque coniunxerant, in nullum alium conveniebant. Cuius autem proprietates in nullum alium conveniunt, eius proprietates nulli poterunt esse commones, cuius autem proprietas nulli communis est, nihil est quod eius proprietate participet. Quod vero tale est, ut proprietate eius nihil participet, ƿ dividi in ea quae non participant, non potest; recte igitur haec quorum proprietas in alium non convenit, individua nuncupantur. At vero hominis proprietas, id est specialis, convenit et in Socratem et in Platonem et in caeteros, quorum proprietates ex accidentibus venientes in quemlibet alium singularem nulla ratione conveniunt. CONTINETUR IGITUR INDIVIDUUM QUIDEM SUB SPECIE, SPECIES AUTEM SUB GENERE. TOTUM ENIM QUIDDAM EST GENUS, INDIVIDUUM AUTEM PARS, SPECIES vero ET TOTUM ET PARS SED PARS QUIDEM ALTERIUS, TOTUM AUTEM A NON ALTERIUS SED ALIIS; PARTIBUS ENIM TOTUM EST. DE GENERE QUIDEM ET SPECIE ET QUID GENERALISSIMUM ET QUID SPECIALISSIMUM ET QUAE GENERA EADEM ET SPECIES SUNT, QUAE ETIAM INDIVIDUA, ET QUOT MODIS GENUS ET SPECIES DICITUR, SUFFICIENTER DICTUM EST. Hic retractat omnia breviter quae supra latius absolvit dicens individuum ab specie contineri, species vero ipsas a genere, huiusque causam reddens ait: OMNE ENIM GENUS TOTUM EST, INDIVIDUUM PARS. Totum enim genus in eo quod genus est. Continet, tametsi species esse potest; totum enim non ut genus species est sed ut ea quae supponitur generi. Genus igitur in eo quod genus est, totum est speciebus, semper enim continet eas. At vero individuum pars semper est, numquam ƿ enim ipsum aliquid sua proprietate concludit. Species vero et totum est et pars, pars quidem generis, totum vero individuis. Et cum pars est, ad singularitatem refertur, cum totum, ad pluralitatem. Quoniam enim unum genus pluribus speciebus superest, una quaelibet species pars est generis, id est unius, quoniam autem species pluribus individuis praeest, non est uni individuo totum sed plurimis. Idcirco enim totum dicitur, quia plura continet et cohercet. Nam ut pars sit aliquid, una ipsa unius pars esse poterit, ut vero totum sit, unum ipsum unius totum esse non poterit. Idcirco alterius quidem pars est species, aliis vero totum. Et de genere quidem et specie dictum est et quid sit generalissimum genus, quoniam id cui nullum aliud superponitur genus, et quid specialissima species, quoniam ea cui species nulla supponitur, et quae genela eadem sunt, eadem et speries scilicet subalterna quibus aliquid superponitur, aliquid vero supponitur, quae etiam individua, ea scilicet quorum proprietates alteri nequeunt convenire, et quot modis genus vel species dicitur, genus quidem aut in multitudine aut in procreatione aut in participatione substantiae. Species vero aut ex figura aut ex generis suppositione, sufficienter dictum est. Quibus absolutis modum voluminis terminabo, ut quarti area libri differentiae reseruetur. De differentia disputanti non aeque illud debet occurrere quod in generis specieique tractatu de collocationis ordine quaerebatur. Illic enim meminimus inquisitum, cur esset omnibus praepositum genus, ut id primum ad disputationem veniret, cur post genus species esset iniecta, nunc vero superuacuum est dicere, cur post speciem differentia sumpta sit, cum illud iam fuerit inquisitum, cur non ante speciem collocata sit. Quodsi mirum videbatur speciem differentiae in disputationis loco fuisse praepositam, quod differentia continentior et magis amplior esset specie, quid est quod possit quisque mirari, si eandem differentiam ante proprium atque accidens collocaverit, cum proprium unius semper sit speciei, ut posterius demonstrabitur, accidens vero exteriorem quandam ostendat naturam nec omnino in substantia praedicetur, differentia vero utrumque contineat, et de pluribus speciebus et in substantia praedicari? sed haec hactenus, nunc ad ipsa Porphyrii verba veniamus. DIFFERENTIA VERO COMMUNITER ET PROPRIE ET MAGIS ƿ PROPRIE DICITUR. COMMUNITER QUIDEM DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUOD ALTERITATE QUADAM DIFFERT QUOCUMQUE MODO VEL A SE IPSO VEL AB ALIO. DIFFERT ENIM SOCRATES A PLATONE ALTERITATE ET IPSE A SE VEL PUERO VEL IAM viRO ET FACIENTE ALIQUID VEL QUIESCENTE ET SEMPER IN ALIQUO MODO HABENDI ALTERITATIBUS. PROPRIE AUTEM DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUANDO INSEPARABILI ACCIDENTI AB ALTERO DIFFERT. INSEPARABILE VERO ACCIDENS EST UT NASI CURUITAS, CAECITAS OCULORUM, CICATRIX, CUM ES UULNERE OBCALLUERIT. MAGIS PROPRIE DIFFERRE ALTERUM AB ALTERO DICITUR, QUANDO SPECIFICA DIFFERENTIA DISTITERIT, QUEMADMODUM HOMO AB EQUO SPECIFICA DIFFERENTIA DIFFERT RATIONALI QUALITATE. Tribus modis aliud ab alio distare praediximus, genere, specie, numero, in quibus omnibus aut secundum substantiales quasdam differentias alia res distat ab alia aut secundum accidentes. Nam quae genere vel specie distant, substantialibus quibusdam differentiis disgregata sunt, idcirco quoniam genera et species quibusdam differentiis informantur. Nam quod homo ab arbore genere distat, animalis sensibilis qualitas in eo differentiam facit. Addita enim sensibilis qualitas ƿ animato animal facit, eidem detracta facit animatum atque insensibile, quod virgulta sunt. Igitur homo atque arbor genere differunt -- utraque enim sub animalis genere poni non possunt -- differentia sensibili secundum genus discrepant, quae unius ex propositis tantum genus, id est hominis informat, ut dictum est. Illa vero quae specie distant manifestum est quod ipsa quoque differentiis substantialibus discrepant, ut homo atque equus differentiis substantialibus discrepant, rationabilitate atque irrationabilitate. Ea vero quae individua sunt et solo numero discrepant, solis accidentibus distant. Haec autem sunt vel separabilia vel inseparabilia, separabilia quidem, ut moveri, dormire; distat enim alius ab alio, quod ille somno prematur, hic vigilet. Distat item inseparabilibus accidentibus, quod hic staturae sit longioris, hic minimae. Quae cum ita sint, in ternarium numerum has differentiarum diversitates Porphyrius colligit hisque ipse nomina quibus post utatur, apponit dicens: OMNIS DIFFERENTIA VEL COMMUNITER VEL PROPRIE VEL MAGIS PROPRIE NUNCUPATUR, communiter quidem eam differentiam sumens quae quodlibet accidens monstret, quae in quadam alteritate consistit, ut si Plato a Socrate differat, quod ille sedeat, hic ambulet, vel quod ille sit senex, hic ƿ ivvenis. A se ipso etiam saepe aliquis differre potest, ut si nunc quidem faciat aliquid, cum ante quieuerit, vel si nunc adulescens iam factus sit, cum prius tenera vixisset infantia. Communes autem differentiae nuncupatae sunt, quoniam nullius propriae esse possunt differentiae sed separabilia accidentia sola significant. Nam et stare et sedere et facere aliquid ac non facere multorum atque adeo omnium et separabilia esse accidentia manifestum est. Quibus si qui differunt, communibus differentiis distare dicuntur. Praeterea puerum esse atque adulescentem vel senem, ea quoque separabilia sunt accidentia. Nam ex pueritia ad adulescentiam atque hinc ad senectutem, ab hac denique ad decrepitam usque aetatem naturae ipsius necessitate progredimur. Illud forsitan sit dubitabile de uniuscuiusque forma corporis, an ullo modo separari queat. Sed ea quoque est separabilis, nullius enim diuturna ac stabilis forma perdurat. Idcirco nec peregrinus pater relictum domi puerum, si adulescentem redux viderit, possit agnoscere; forma enim semper quae ante fuerat, permutatur atque ipsa alteritas qua distamus ab altero, semper diversa est. Constat igitur hanc communem differentiam separabilibus maxime accidentibus applicari, propria vero est quae inseparabilia significat accidentia. Ea huiusmodi sunt, ut si quis caecis nascatur oculis, si quis incuruo naso; dum enim adest nasus atque oculi, ille caecus, ille erit semper incuruus. Atque haec per naturam. Sunt vero alia quae per accidens corporibus fiunt, ut si cui uulnus ƿ inflictum cicatrice fuerit obductum, haec si obcalluerit. Propriam differentiam facit; distabit enim alter ab altero, quod hic cicatricem habeat, ille vero minime. Postremoque in his omnibus vel separabilibus accidentibus vel inseparabilibus alia sunt naturaliter accidentia, alia extrinsecus, naturaliter quidem ut pueritia vel ivuentus et totius conformatio corporis, sic caeci oculi et curuitas nasi. Et superiora quidem exempla separabilis accidentis per naturam sunt, posteriora vero inseparabilis. Item extrinsecus vel ambulare vel currere; id enim nou natura sed sola affert voluntas, natura vero posse tantum dedit, non etiam facere. Atque haec sunt separabilis accidentis extrinsecus venientis exempla, illa vero inseparabilis, ut si qua cicatrix obducta uulneri obcalluerit. Magis propriae autem differentiae praedicantur, quae non accidens sed substantiam formant, ut hominis rationabilitas; differt enim homo a caeteris, quod rationalis est vel quod mortalis. Hae sunt igitur magis propriae, quae monstrant uniuscuiusque substantiam. Nam si illae quidem idcirco communes dicuntur, quia separabiles atque omnium sunt, aliae autem propriae. Quoniam separari non possunt, quamvis sint in accidentium numero, illae iure magis propriae praedicantur, quae non modo a subiecto separari non possunt, verum subiecti ipsius speciem substantiamque perficiunt. Ex his igitur tribus differentiarum diversitatibus, id est communibus, propriis ac magis propriis, fiunt secundum genus vel speciem vel numerum discrepantiae. Nam ex communibus et propriis secundum numerum distantiae nascuntur, ex magis propriis vero secundum genus ac speciem. UNIVERSALITER ERGO OMNIS DIFFERENTIA ALTERATUM FACIT CUILIBET ADVENIENS SED EA QUAE EST COMMUNITER ET PROPRIE, ALTERATUM FACIT, ILLA AUTEM QUAE EST MAGIS PROPRIE, ALIUD. DIFFERENTIARUM ENIM ALIAE QUIDEM ALTERATUM FACIUNT, ALIAE VERO ALIUD. ILLAE QUIDEM QUAE FACIUNT ALIUD, SPECIFICAE VOCANTUR, ILLAE VERO QUAE ALTERATUM, SIMPLICITER DIFFERENTIAE. ANIMALI ENIM DIFFERENTIA ADVENIENS RATIONALIS ALIUD FECIT ET SPECIEM ANIMALIS FECIT, ILLA VERO QUAE EST MOVENDI, ALTERATUM SOLUM A QUIESCENTE FECIT; QUARE HAEC QUIDEM ALIUD, ILLA VERO ALTERATUM SOLUM FECIT. Omnis differentia alterius ab altero distantiam facit. Sed haec vel est communis et continens vel cum quodam proprio et magis proprio differentiarum modo. Quare quicquid qualibet ratione ab alio diversum est, alteratum esse dicitur. Si vero accesserit illi diversitati ut etiam specifica quadam differentia sit diversum, non alteratum solum, verum etiam aliud esse praedicatur. Alteratio igitur continens est, aliud vero intra alterationis spatium continetur; nam et quod aliud est, alteratum est sed nou omne quod alteratum est, aliud dici potest. Itaque si accidentibus aliquibus fuerit facta diversitas, alteratum ƿ quidem effectum est, quoniam quidem quolibet modo vel ex quibuslibet differentiis considerata diversitas alterationem facit intellegi, aliud vero non fit, nisi substantiali differentia alterum ab altero fuerit dissociatum. Itaque communes et propriae differentiae, quoniam accidentium, ut dictum est, sunt, solum efficiunt alteratum. Aliud vero minime, magis propriae autem, quoniam substantiam tenent et in subiecti forma prnedicantur, non modo alteratum, quod est commune vel substantiali vel accidenti differentiae sed etiam aliud faciunt, quod ea sola retinet differentia quae substantiam continet formamque suhiecti. Atque ilae quidem differentiao quae faciunt aliud, specificab nuncupantur idcirco, quod ipsae efficiunt speciem; quam cum substantialibus differentiis informaverint, faciunt ab aliis ita esse diversam, ut non aiterata solum sit, verum etiam tota alia praedicetur. Itaque fit huiusmodi divisio, differentiarum ut aliae alteratum faciant, aliae vero aliud. Et illae quidem quae faciunt alteratum, simpliciter pro nomine differentiae nuncupantur, illae vero quae aliud, specificae differentiae praedicantur. Atque, ut planius liqueat quid sit alteratum, quid aliud, tali describuntur termino vel declarantur exemplo: aliud est quod tota speciei ratione diversum est, ut equus ab homine, quoniatll rationalis differentia animali advenieus hominem fecit aliudque eum quam equum esse constituit. Item si unus homo sedeat, alter assistat, non efficietur homo diversus ab homine sed eos alteratio sola disiungit, ut eum qui assistit ab eo qui ƿ sedet faciat alteratum. Item si ille sit nigris oculis, ille caesiis, nihil, quantum ad formam humanitatis attinet, permutatum est. Ita secundum has differentias alteratio sola consistit. At si equus quidem iaceat, homo vero ambulet, et aliud est equus ab homine et alteratum, dupliciter quidem alteratum, semel vero aliud. Alteratum est enim, vel quod omnino specie diversum est -- et est aliud; omne enim aliud, ut dictum est, etiam alteratum est -- vel quod accidentibus distat, quod ille iaceat, hic ambulet, semel vero est aliud, quod rationabili atque irrationabili differentiis disgregatur, quae specificae sunt et substantiales dicuntur. Est igitur alteratum quod ab alio qualibet ratione diversum est. SECUNDUM IGITUR ALIUD FACIENTES DIVISIONES FIUNT A GENERIBUS IN SPECIES ET DEFINITIONES ASSIGNANTUR, QUAE SUNT EX GENERE ET HUIUSMODI DIFFERENTIIS, SECUNDUM AUTEM EAS QUAE SOLUM ALTERATUM FACIUNT, ALTERATIO SOLA CONSISTIT ET ALIQUO MODO SE HABENDI PERMUTATIONES. Quoniam in principio operis huius generis, speciei, differentiae, ƿ proprii accidentisque notitiam ad divisionem atque ad definitionem utilem esse praedixit, idcirco nunc differentiarum ipsarum facta divisione easdem partitur et segregat, quaenam differentiae divisionibus ac definitionibus accommodentur, quae vero minime. Quoniam igitur divisio generis ita in species facienda est, ut illae a se species omni substantiae ratione diversae sint, idcirco non probat assumendas esse eas ad divisionem differentias quae vel separabilis vel inseparabilis accidentis significationem tenent, idcirco quoniam, ut dictum est, solum faciunt alteratum, aliud vero perficere et informare non possunt. Inutiles igitur sunt ad divisionem hae differentiae quae faciunt alteratum. Segregandae igitur sunt communes et propriae a generis divisione, illae assumendae tantum quae sunt magis propriae. Illae enim faciunt aliud, quod generis divisio videtur exposcere. Ad definitionem quoque eaedem magis propriae plurimum valent, communes et propriae velut inutiles segregantur; communes enim et propriae, quoniam accidens diversi generis ferunt, nihil substantiae ratione conformant, definitio vero omnis substantiam conatur ostendere. Specificae vero differentiae illae sunt quae, ut superius dictum est, speciem informant substantiamque perficiunt; hae sunt magis propriae. Eaedem igitur sicut in divisionem, ita etiam in definitionem assumuntur. ut enim dictum est, eaedem differentiae ƿ nunc quidem constitutivae ad definitionem specierum sunluntur, nunc divisivae ad partitionem generis accommodantur. Ita igitur cum divisivae sunt generis, aliud constituunt. In substantiae vero definitione speciei informationem faciunt, cumque magis propriae et aliud faciant et specificae sint, eo quidem quo aliud faciunt. Divisionibus aptae sunt. Eo vero quo speciem informant. Definitionibus accommodatae sunt. Communes autem et propriae quoniam neque aliud faciunt sed alteratum, neque omnino substantiam monstrant, aeque a divisione ut a definitione disiunctae sunt. A SUPERIORIBUS ERGO RURSUS INCHOANTI DICENDUM EST DIFFERENTIARUM ALIAS QUIDEM ESSE SEPARABILES, ALIAS VERO INSEPARABILES. MOVERI ENIM ET QUIESCERE ET SANUM ESSE ET AEGRUM ET QUAECUMQUE HIS PROXIMA SUNT, SEPARABILIA SUNT, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM VEL RATIONALE VEL IRRATIONALE INSEPARABILIA. IN SEPARABILIUM AUTEM ALIAE QUIDEM SUNT PER SE, ALIAE ƿ VERO PER ACCIDENS; NAM RATIONALE PER SE INEST HOMINI ET MORTALE ET DISCIPLINAE ESSE PERCEPTIBILE, AT VERO AQUILUM ESSE VEL SIMUM SECUNDUM ACCIDENS ET NON PER SE. Superius differentias triplici divisione partitus est dicens aut communes esse aut proprias aut magis proprias, dehinc easdem alia divisione in duas secuit partes dicens has quidem aliud facere, illas vero alteratum. Nunc tertiam earum quidem facit divisionem dicens alias esse separabiles, alias inseparabiles, posse autem de unoquoque cuius multae sunt differentiae, plurimas fieri divisiones ex ipsa differentiarum natura manifestum est. Nam si omnis divisio differentiis distribuitur quorum multae sunt differentiae, multas etiam divisiones esse necesse est. Fit autem ut animal dividatur quidem hoc modo: animalis alia quidem sunt rationabilia, alia irrationabilia, item alia mortalia, alia immortalia; item alia pedes habentia, alia minime; rursus alia herbis uescentia, alia carnibus, alia seminibus. Ita nihil mirum videri debet, si multiplex differentiae est facta partitio. Ac primum quidem cum in ternarium numerum differentiae membra secuisset, communes et proprias et magis proprias nuncupavit. Secunda vero divisio communes et proprias intra nomen alteratum facientis inclusit, magis proprias vero intra aliud facientis. Haec vero tertia divisio, quae ait DIFFERENTIARUM ALIAS ESSE SEPARABILES, ALIAS INSEPARABILES, unam quidem ex alteratum facientibus separabilibus differentiis adiungit, caeteras vero intra inseparabilis differentiae vocabulum claudit. Una quidem ex alteratum facientibus, id est propria differentia, et reliqua quae aliud facere demonstrata est, id est magis propria, inseparabiles differentiae esse dicuntur. F quarum subdivisio fit. Inseparabilium differentiarum aliae sunt per se, aliae secundum accidens, per se quidem magis propriae, secundum accidens vero propriae. Per se autem aliquid inesse dicitur quod alicuius substantiam informat. Si enim idcirco quaelibet species est, quoniam substantiali differentia constituitur, illa differentia per se subiecto adest neque per accidens aut per quodlibet aliud medium sed sui praesentia speciem quam tuetur informat, ut hominem rationabilitas, homini enim huiusmodi differentia per se inest, idcirco enim homo est, quia ei rationabilitas adest; quae si discesserit, species hominis non manebit. Et has quidem quae substantiales sunt, inseparabiles esse nullus ignorat; separari enim a subiecto non poterunt, nisi interempta sit natura subiecti. Secundum accidens vero inseparabiles differentiae sunt hae quae propriae nuncupantur, ut aquilum esse vel simum; quae idcirco per accidens nuncupantur, quoniam iam constitutae speciei extrinsecus accidunt nihil subiecti substantiae commodantes. ILLAE IGITUR QUAE PER SE SUNT, IN SUBSTANTIAE ƿ RATIONE ACCIPIUNTUR ET FACIUNT ALIUD, ILLAE VERO QUAE SECUNDUM ACCIDENS, NEC IN SUBSTANTIAE RATIONE DICUNTUR NEC FACIUNT ALIUD SED ALTERATUM. ET ILLAE QUIDEM QUAE PER SE SUNT, NON SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS, ILLAE vero QUAE PER ACCIDENS, VEL SI INSEPARABILES SINT, INTENTIONEM RECIPIUNT ET REMISSIONEM; NAM NEQUE GENUS MAGIS AUT MINUS PRAEDICATUR DE EO CUIUS FUERIT GENUS, NEQUE GENERIS DIFFERENTIAE, SECUNDUM QUAS DIVIDITUR; IPSAE ENIM SUNT QUAE UNIUSCUIUSQUE RATIONEM COMPLENT, ESSE AUTEM UNI CUIQUE UNUM ET IDEM NEQUE INTENTIONEM NEQUE REMISSIONEM SUSCIPIENS EST, AQUILUM AUTEM ESSE VEL SIMUM VEL COLORATUM ALIQUO MODO ET INTENDITUR ET REMITTITUR. Differentiis rite partitis earum inter se distantiam monstrat atque unam quidem repetit quam superius dixit. Cum enim tres esse dixisset differentias, communes, proprias, magis proprias, alteratum facere dixit proprias, sicut etiam communes, aliud mimme sed hoc solis magis propriis reservavit. Nunc igitur idem repetit dicens quoniam inseparabiles differentiae quae substantiam monstrant, id est quae per se subiectis speciebus insunt easque perficiunt, aliud faciunt, illae vero ƿ quae sunt propriae, id est secundum accidens inseparabiles differentiae, neque in substantia insunt nec aliud faciunt sed tantum, ut superius dictum est, alteratum. Item alia distantia est earum differentiarum quae secundum substantiam sunt, ab his quae secundum accidens, quoniam quae substantiam monstrant, intendi aut remitti non possunt, quae vero sunt secundum accidens, et intentione crescunt et remissione decrescunt. Id autem probatur hoc modo. Unicuique rei esse suum neque crescere neque deminui potest; nam qui homo est, humanitatis suae nec crementa potest nec detrimenta suscipere. Nam neque ipse a se plus aut minus hodie vel quolibet alio tempore homo esse potest nec homo rursus ab alio homine plus homo potest esse vel animal. Utrique enim aequaliter animalia, aequaliter homines esse dicuntur. Quodsi uni cuique esse suum nec cremento ampliari potest nec inminutione decrescere, quod per id facile monstrari potest, quoniam quae genera sunt vel species. Nulla intentione vel remissione variantur, non est dubium quin differentiae quoque, quae uniuscuiusque speciei substantiam formant, nec remissionis detrimenta suscipiant nec intentionis augmenta. Itaque substantiales differentiae neque intentionem neque remissionem suscipiunt. Huius causa haec est. Quoniam esse unicuique unum et idem est, et intentionem remissionemue non suscipit huius exemplum. Genus ƿ enim dici non potest plus minusue cuilibet genus; omnibus enim genus aequaliter superponitur. Differentiae quoque quae dividunt genus et informant speciem, quoniam speciei essentiam complent, nec intentionem recipiunt nec remissionem. Quae vero secundum accidens differentiae sunt inseparabiles, ut aquilum esse vel simum vel coloratum aliquo modo, et intentionem suscipiunt et remissionem. Fieri enim potest ut hic paulo sit nigrior, hic vero amplius simus, ille minus aquilus, at vero quod non omnes homines aequaliter rationales mortalesque sint nec specierum nec differentiarum natura videtur admittere. CUM IGITUR TRES SPECIES DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR ET CUM HAE QUIDEM SINT SEPARABILES, ILLAE VERO INSEPARABILES, ET RURSUS INSEPARABILIUM CUM HAE QUIDEM SINT PER SE, ILLAE VERO PER ACCIDENS, RURSLLS EARUM QUAE SUNT PER SE DIFFERENTIARUM ALIAC QUIDEM SUNT SECUNDUM QUAS DIVIDIMUS GENERA IN SPECIES, ALIAE VERO SECUNDUM QUAS EA QUAE DIVISA SUNT SPECIFICANTUR, UT CUM PER SE DIFFERENTIAE OMNES HUINSMODI SINT, ANIMATI ET INANIMATI, ƿ SENSIBILIS ET INSENSIBILIS, RATIONALIS ET IRRATIONALIS, MORTALIS ET IMMORTALIS, EA QUIDEM QUAE EST ANIMATI ET SENSIBILIS DIFFERENTIA. CONSTITUTIVA EST SUBSTANTIAE ANIMALIS -- EST ENIM ANIMAL SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS -- EA VERO QUAE EST MORTALIS ET IMMORTALIS DIFFERENTIA ET RATIONALIS ET IRRATIONALIS, DIVISIVAE SUNT ANIMALIS DIFFERENTIAE; PER EAS ENIM GENERA IN SPECIES DIVIDIMUS. Fit nunc differentiarum plena et suprema divisio, quae est huiusmodi. Differentiarum aliae sunt separabiles, aliae inseparabiles, inseparabilium aliae sunt secundum accidens, aliae substantiales. Substantialium aliae sunt divisibiles generis, aliae constitutivae specierum. Quod vero ait: CUM IGITUR TRES SPECIES DIFFERENTIAE CONSIDERENTUR, ad hoc retulit, quod in prima differentiarum divisione partim eas communes esse, partim proprias, partim magis proprias disit, quas rursus tres differentias alias separabiles esse monstravit, alias inseparabiles, separabiles quidem commlmes, inseparabiles vero proprias ac magis proprias. Inseparabilium vero fecit divisionem dicens alias esse secundum accidens, quae propriae nuncupantur, magis proprias vero secundum substantiam considerari. Earum vero quae secundum substantiam sunt, subdivisionem facit, quod ƿ aliae earum genus dividant, aliae speciem informent. Ad cuius rei facilem cognitionem illa tertii libri specierum generumque dispositio transcribatur. Sitque primum substantia, sub hac corporeum atque incorporeum, sub corporeo animatum atque inanimatum, sub animato sensibile atque insensibile, sub quo animal, sub animali rationale atque irrationale, sub rationali mortale atque immortale et sub mortali species hominis, quae solis deinceps individuis praeponatur. In hac igitur divisione omnes hae differentiae specificae nuncupantur, generum enim specierumque differentiae sunt sed generum quidem divisivae, specierum autem constitutivae. Id autem probatur hoc modo. Substantiam quippe corporei atque incorporei differentiae partiuntur, corporeum vero animati atque inanimati, animatum sensibilis atque insensibilis. Ita igitur genera substantiales differentiae partiuntur et dicuntur generum divisivae. At velo si eaedem differentiae quae a genere descendentes genus dividunt, colligantur et in unum quae possunt iungi copulentur, species informatur. Nam cum animal species sit substantiae -- omnia enim superiora de inferioribus praedicantur et quicquid inferius fuerit, species erit etiam superioris -- animatum tamen atque ƿ sensibile quae sunt differentiae, si referantur ad genera, divisivae sunt, constitutivae vero fiunt animalis eiusque substantiam formant atque constituunt definitionemque conformant, ut sit animal substantia animata sensibilis. Substantia quidem genus, animatum vero atque sensibile eiusdem differentiae constitutivae. Item animal rationabilitas atque irrationabilitas dividit, mortali etiam atque immortali dividitur sed iuncta rationabilitas atque mortalitas, quae animalis divisivae fuerant, fiunt hominis constitutivae eiusque perficiunt speciem atque omnem eius rationem definitionis informant atque perficiunt. At si irrationabilitas cum mortalitate iungatur, fiet equus aut quodlibet animal, quod ratione non utitur, rationabilitas vero atque immortalitas copulatae dei substantiam informant. Ita eaedem differentiae cum referuntur ad genera, divisivae generum fiunt, si vero ad inferiores species considerentur, informant species earumque substantiam convenienti copulatione constituunt. In hoc quaesitum est, quemadmodum dicerentur esse hae differentiae ƿ specierum constitutivae, cum irrationabilis differentia atque immortalis nullam speciem videantur efficere. Respondemus primum quidem placere Aristoteli caelestia corpora animata non esse: quod velo animatum non sit, animal esse non posse; quod vero non sit animal, nec rationale esse concedi. Sed eadem corpora propter simplicitatem et perpetuitatem motus aeterna esse confirmat. Est igitur aliquid quod ex duabus his differentiis conficiatur, irrationabili scilicet atque immortali. Quodsi magis cedendum Platoni est et caelestia corpora animata esse credendum, nullum quidem his differentiis potest esse subiectum -- quicquid enim irrationabile est corruptioni subiacens et generationi, immortale esse non poterit -- sed tamen hae differentiae, quoniam substantialium differentiarum in numero sunt, si iungi ullo modo potuissent, earum naturam et speciem quoque possent efficere. Atque ut intellegatur, quae sit haec potentia effieiendae substantiae specieique formandae respiciamus ad proprias atque communes, quae tametsi iungantur, speciem substantiamque nulla ratione constituunt. Si quis enim loquatur ambulans, quae sunt duae communes differentiae, vel si albus ac longus, num idcirco isdem eius substantia constituitur? Minime. Cur? Quia non eiusdem sunt generis, quae alicuius possint constituere et conformare substantiam. ƿ Ita igitur hae, id est irrationale atque immortale, etiamsi subiectum aliquod habere non possunt, possent tamen substantiam efficere, si ullo modo iungi copularique potuissent. Praeterea irrationale iunctum cum mortali substantiam pecudis facit: est igitur constitutiva irrationalis differentia. Item immortale ac rationale coniuncta efficiunt deum: est igitur immorlale quod speciem formet. Quodsi inter se iungi nequeunt, non idcirco quod in natura earum est, abrogatur. SED HAE QUIDEM QUAE DIVISIVAE SUNT DIFFERENTIAE GENERUM, COMPLETIVAE FIUNT ET CONSTITUTIVAE SPECIERUM; DIVIDITUR ENIM ANIMAL RATIONALI ET IRRATIONALI DIFFERENTIA ET RURSUS MORTALI ET IMMORTALI DIFFERENTIA. SED EA QUAE EST RATIONALIS DIFFERENTIA ET MORTALIS, CONSTITUTIVAE FIUNT HOMINIS, RATIONALIS VERO ET IMMORTALIS. DEI, ILLAE vero QUAE SUNT IRRATIONALIS ET MORTALIS, IRRATIONABILIUM ANIMALIUM. SIC ETIAM ET SUPREMAE SUBSTANTIAE CUM DIVISIVA SIT ANIMATI ET INANIMATI DIFFERENTIA ET SENSIBILIS ET INSENSIBILIS, ANIMATA ET SENSIBILIS CONGREGATAE AD SUBSTANTIAM ANIMAL PERFECERUNT. Geminum differentiarum usum esse demonstrat, unum quidem quo genera dividuntur, alium vero quo species informantur; neque enim hoc solum differentiae faciunt, ut genera partiantur, verum etiam dum genera dividunt, species in quas genera deducuntur efficiunt. Itaque quae divisivae sunt generum, fiunt constitutivae specierum, huiusque rei illud exemplum est quod ipse subiecit: animalis quippe differentiae sunt divisivae rationale atque irrationale, mortale atque immortale, his enim praedicatio diniditur animalis. Omne enim quod animal est, aut rationale aut irrationale aut mortale aut immortale est. Sed istae differentiae quae dividunt genus quod est animal speciei substantiam formam quae constituunt. Nam cum sit homo animal, efficitur rationali mortalique differentiis, quae dudum animal partiebantur. Item cum sit equus animal, irrationali mortalique differentiis constituitur, quae dudum animal dividebant. Deus autem cum sit animal, ut de sole dicamus. Rationali immortalique efficitur differentiis, quas dividere genus habita partitio paulo ante monstravit. Sed hic, ut diximus deum corpoleum intellegi oportet, ut solem et caelum caeteraque huiusmodi, quae cum animata et rationabilia Plato esse confirmat, tum in deorum vocabulum antiquitatis veneratione probantur assumpta, de primo quoque genere, id est substantia demonstrantur venire. Nam cum eius divisivae sint differentiae ƿ animatum atque inanimatum, sensibile atque insensibile, iunctae differentiae sensibilis atque animati efficiunt substantiam animatam atque sensibilem, quod est animal. Iure igitur dictum est, quae divisivae sunt differentiae generum, easdem esse constitutivas specierum. QUONIAM ERGO EAEDEM ALIQUO MODO QUIDEM ACCEPTAE FIUNT CONSTITUTIVAE, ALIQUO MODO AUTEM DIVISIVAE, SPECIFICAE OMNES VOCANTUR. ET HIS MAXIME OPUS EST AD DIVISIONES GENERUM ET DEFINITIONES SED NON HIS QUAE SECUNDUM ACCIDENS INSEPARABILES SUNT, NEC MAGIS HIS QUAE SUNT SEPARABILES. Omnes a genere differentias procedentes genus ipsum a quo procedunt, dividere nullus ignorat. Ipsae autem quae dividunt genus, si ad posteriores species applicentur, informant substantias easque perficiunt. Eaedem igitur sunt constitutivae specierum, eaedem divisibiles generum, alio tamen modo atque alio consideratae, ut si ad genus relatae quidem in contrariam divisionem spectentur, divisibiles generis inveniuntur, si vero iunctae aliquid efficere possint, specierum constitutivae sunt. Quae cum ita sint, hae differentiae quae genus dividunt, rectissime divisivae nominanturÑquae enim constitumlt speciem, specificae sunt sed constituunt speciem hae differentiae quae ƿ sunt generis divisivae Ñ eaedemque sunt specierum constitutivae. Quare iure quae generum divisivae sunt et quae specierum constitutivae, specificae nuncupantur. Has igitur in divisione generis et in definitione specierum accipi oportere manifestum est. Quoniam enim divisivae sunt, per eas dividi oportet genus, quoniam autem constitutivae, per eas species definiri; quibus enim unumquodque constituitur, isdem etiam definitur. Constituitur autem species per differentias generis divisivas, quae sunt specificae. Iure igitur specificae solae et in generis divisione et in specierum definitione ponuntur. Et de specificis quidem haec ratio est, de his autem quae vel separabilia vel inseparabilia continent accidentia, nihil in generum divisione vel definitione specierum poterit assumi, idcirco quoniam quae divisibiles sunt, substantiam generis dividunt, et quae constitutivae sunt. Substantiam speciei constituunt. Quae vero sunt inseparabilia accidentia, nullius substantiam informant. Unde fit ut multo minus separabilia accidentia ad divisiones generum vel specierum definitiones accommodentur; omnino enim dissimiles sunt substantialibus differentiis. Nam inseparabilia accidentia hoc fortasse habent commune cum specificis, hoc est substantialibus differentiis, quod aeque subiectum non relinquunt, sicut nec specificae differentiae. Separabilia autem accidentia ne hoc quidem; separari ƿ enim possunt, nec tantum potestate et mentis ratiocinatione sed actus etiam praesentia, et omnino veniendi vel discedendi varietatibus permutantur. QUAS ETIAM DETERMINANTES DICUNT: DIFFERENTIA EST QUA ABUNDAT SPECIES A GENERE. HOMO ENIM AB ANIMALI PLUS HABET RATIONALE ET MORTALE: ANIMAL ENIM NEQUE IPSUM NIHIL HORUM EST -- NAM UNDE HABEBUNT SPECIES DIFFERENTIAS? -- NEQUE ENIM OMNES OPPOSITAS HABET -- NAM IN EODEM SIMUL HABEBUNT OPPOSITA -- SED, QUEMADMODUM PROBANT, POTESTATE QUIDEM OMNES HABET SUB SE DIFFERENTIAS, ACTU VERO NULLAM. AC SIC NEQUE EX HIS QUAE NON SUNT, ALIQUID FIT NEQUE OPPOSITA CIRCA IDEM SUNT. Specificas differentias definitione concludit dicens substantiales differentias a quibusdam tali descriptionis ratione finiri: DIFFERENTIA SPECIFICA EST QUA ABUNDAT SPECIES A GENERE. Sit enim genus animal, species homo: habet igitur homo differentias in se, quae eum constituunt, rationale atque mortale; omnis enim species constitutivas formae suae differentias in se retinet nec praeter illas esse potest, quarum congregatione perfecta est. Si igitur animal quidem solum genus est, homo vero est animal rationale mortale, plus habet homo ab animali id quod rationale est atque mortale. Quo igitur abundat species ƿ a genere, id est quo superat genus et quo plus habet a genere, hoc est specifica differentia. Sed huic definitioni quaedam quaestio videtur occurrere habens principium ex duabus per se propositionibus votis, una quidem, quoniam duo contraria in eodem esse non possunt, alia vero, quoniam ex nihilo nihil fit. Nam neque contraria pati sese possunt, ut in eodem simul sint, nec aliquid ex nihilo fieri potest; omne enim quod fit, habet aliquid unde effici possit atque formari. Quae propositiones talem faciunt quaestionem. Dictum est differentiam esse id qua plus haberet species a genere. Quid igitur? Dicendum est genus eas differentias quas habent species, non habere? Et unde habebit species differentias quas genus non habet? Nisi enim sit unde veniant, differentiae in speciem venire non possunt. Quodsi genus quidem has differentias non habet, species autem habet, videntur ex nihilo differentiae in speciem comlenisse et factum esse aliquid ex nihilo, quod fieri non posse superius dicta propositio monstravit. Quod si differentias omnes genus continet, differentiae autem in contraria dissoluuntur, fiet ut rationabilitatem atque irrationabilitatem, mortalitatem atque immortalitatem simul habeat animal, quod est genus, et erunt in eodem bina contraria, quod fieri non potest. Neque enim sicut in corpore solet esse alia pars alba, alia nigra, ita fieri in genere potest; genus enim per se consideratum partes non habet, nisi ad species referatur. Quicquid igitur habet, non partibus sed tota sui magnitudine retinebit. Nec illud dubium est, quin in partibus suis genus habeat ƿ contrarietates, ut animal in homine rationabilitatem, in bove contrarium. Sed nunc non de speciebus quaerimus, de quibus constat sed an ipsum per se genus eas differentias quas habent species, habere possit atque intra suae substantiae ambitum continere. Hanc igitur quaestionem tali ratione dissolvimus. Potest quaelibet illa res id quod est non esse sed alio modo esse, alio vero non esse, ut Socrates cum stat, et sedet et non sedet sedet quidem potestate, actu vero non sedet. Cum enim stat, manifestum est eum pon agere sessionem sed potius standi immobilitatem. Sed rursus cum stat sedet, non quia iam sedet sed quia sedere potest; ita actu quidem non sedet, potestate vero sedet. Et ouum animal est et non est animal. Non est quidem animal actu, adhuc namque ouum est nec ad animalis processit vivificationem sed idem tamen est animal potestate, quia potest effici animal, cum formam ac spiritum vivificationis acceperit. Ita igitur genus et habet has differentias et non habet, non habet quidem actu sed habet potestate. Si enim ipsum per se animal consideretur, differentias non habebit; si autem ad species reducatur, habere potest sed distributim atque ut eius speciebus separatim nihil possit evenire contrarium. Ita ipsum genus si per se consideretur, ƿ differentiis caret; quod si ad species referatur, per distributas species vel in partibus suis contraria retinebit, atque ita nec ex nihilo venerunt differentiae quas genus retinet potestate nec utraque contraria in eodem sunt, cum contrarias differentias in eo quod dicitur genus, actu non habet: impossibilitas enim eius propositionis quae dicit contraria in eodem esse non posse, in eo consistit quod contraria actu in eodem esse non possunt. Nam potestate et non actu duo contraria in eodem esse nihil impedit. Quae vero nos contraria diximus, Porphyrius opposita nuncupavit. Est enim genus contrarii oppositum; omnia enim contralia, si sibimet ipsis considerantur, opposita sunt. DEFINIUNT AUTEM EAM ET HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ET DIFFERENTIBUS SPECIE IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR; RATIONALE ENIM ET MORTALE DE HOMINE PRAEDICATUM IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST HOMO DICITUR SED NOLL IN EO QUOD QUID EST. QUID EST ENIM HOMO INTERROGATIS NOBIS CONVENIENS EST DICERE ANIMAL, QUALE AUTEM ANIMAL INQUISITI, QUONIAM RATIONALE ET MORTALE EST, CONVENIENTER ASSIGNABIMUS. Tres sunt interrogationes ad quas genus, species, differentia, proprium atque accidens respondetur, haec autem sunt: quid sit, quale sit, quomodo se habeat. Nam si quis interroget: quid est Socrates? Responderi per genus ac speciem convenit aut animal aut homo. Si quis quomodo se habeat Socrates interroget, iure accidens respondebitur, id est aut sedet aut legit aut caetera. Si quis vero qualis sit Socrates interroget, aut differentia aut proprium aut accidens respondebitur, id est vel rationalis vel risibilis vel caluus. Sed in proprio quidem illa est observatio, quod illud proprium dici potest quod de una specie praedicatur, accidens vero tale est quod qualitatem designet quae non substantiam significet, differentia vero talis est quae substantiam demonstret. Interrogati igitur qualis unaquaeque res sit, si volumus reddere substantiae qualitatem, differentiam praedicamus. Quae differentia numquam de una tantum specie praedicatur, ut mortale vel rationale sed de pluribus. Quod igitur de pluribus speciebus inter se differentibus praedicatur ad eam interrogationem, quae quale sit id de quo quaeritur interrogat, ea est differentia cuius talem posuit definitionem: DIFFERENTIA EST QUOD DE PLURIBUS ƿ SPECIE DIFFERENTIBUS IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICATUR. Cuius definitionis causam rationemque pertractans ait: REBUS ENIM EX MATERIA ET FORMA CONSTANTIBUS VEL AD SIMILITUDINEM MATERIAE ET FORMAE CONSTITUTIONEM HABENTIBUS, QUEMADMODUM STATUA EX MATERIA EST AERIS, FORMA AUTEM FIGURA. SIC ET HOMO COMMUNIS ET SPECIALIS EX MATERIA QUIDEM SIMILITER CONSISTIT GENERE, EX FORMA AUTEM DIFFERENTIA, TOTUM AUTEM HOC ANLMAL RATIONALE MORTALE HOMO EST, QUEMADMODUM ILLIC STATUA. Dixit superius differentias esse quae in qualitate speciei praedicarentur, nunc autem causas exequitur, cur speciei qualitas differentia sit. Omnes, inquit, res vel ex materia formaque consistunt vel ad similitudinem materiae atque formae substantiam sortiuntur. Ex materia quidem formaque subsistunt ƿ omnia quaecumque sunt corporalia; nisi enim sit subiectum corpus quod suscipiat formam, nihil omnino esse potest. Si enim lapides non fuissent. Muri parietesque non essent, si lignum non fuisset, omnino nec mensa quidem, quae ex ligni materia est, esse potuisset. Igitur supposita materia ac praeiacente cum in ipsam figura superuenerit, fit quaelibet illa res corporea ex materia formaque subsistens, ut Achillis statua ex aeris materia et ipsius Achillis figura perficitur. Atque ea quidem quae corporea sunt, manifestum est ex materia formaque subsistere, ea vero quae sunt incorporalia, ad similitudinem materiae atque formae habent suppositas priores antiquioresque naturas, super quas differentiae venientes efficiunt aliquid quod eodem modo sicut corpus tamquam ex materia ac figura consistere videatur, ut in genere ac specie additis generi differentiis species effecta est. Ut igitur est in Achillis statua aes quidem materia, forma vero Achillis qualitas et quaedarn figura, ex quibus efficitur Achillis statua, quae subiecta sensibus capitur, ita etiam in specie, quod est homo, materia quidem eius genus est, quod est animal, cui superveniens qualitas rationalis animal rationale, id est speciem fecit. Igitur speciei materia quaedam est genus, forma vero et quasi qualitas differentia. Quod est igitur in statua aes, hoc est in specie genus, quod in statua figura conformans, id in specie differentia, quod in statua ipsa statua, quae ex aere ƿ figuraque conformatur, id in specie ipsa species, quae ex genere differentiaque coniungitur. Quodsi materia quidem speciei genus est, forma autem differentia, omnis vero forma qualitas est, iure omnis differentia qualitas appellatur. Quae cum ita sint, iure in eo quod quale sit interrogantibus respondetur. DESCRIBUNT AUTEM HUIUSMODI DIFFERENTIAS ET HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUOD APTUM NATURA EST DIVIDERE QUAE SUB EODEM SUNT GENERE; RATIONALE ENIM ET IRRATIONALE HOMINEM ET EQUUM, QUAE SUB EODEM SUNT GENERE, QUOD EST ANIMAL, DIVIDUNT. Haec quidem definitio cum sit usitata atque ante oculos exposita, eam tamen plenius dilucideque declaravit. Omnes enim differentiae idcirco differentiae nuncupantur, quia species a se differre faciunt, quas unum genus includit, ut homo atque equus propriis discrepant differentiis; nam sicut homo animal est, ita etiam equus, ergo secundum genus nullo modo distant. Quae igitur secundum genus minime discrepant, ea differentiis distribuuntur. Additum enim rationale quidem homini, irrationale vero equo equus atque homo, quae sub eodem fuerant genere; distribuuntur et discrepant, additis scilicet differentiis. ASSIGNANT AUTEM ETIAM HOC MODO: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA; NAM SECUNDUM GENUS NON DIFFERUNT. SUMUS ENIM MORTALIA ANIMALIA ET NOS ET IRRATIONABILIA SED ADDITUM RATIONABILE SEPARAVIT NOS AB ILLIS, ET RATIONABILES SUMUS ET NOS ET DII SED MORTALE APPOSITUM DISIUNXIT NOS AB ILLIS. Vitiosa ratione et non sana quod uult explicat definitio quorundam. Id enim esse dicunt differentiam qua unaquaeque res ab alia distet. In qua definitione nihil interest quod ita dixit an ita concluserit: differentia est id quod est differentia. Etenim differentiae nomine in eiusdem differentiae usus est ƿ definitione dicens: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT A SE SINGULA. Quodsi adhuc differentia nescitur, nisi definitione clarescat, differre quoque quid sit qui poterimus agnoscere? Ita nihil amplius attulit ad agnitionem qui differentiae nomine id eiusdem usus est definitione. Est autem communis et uaga nec includens substantiales differentias sed quaslibet etiam accidentes hoc modo: DIFFERENTIA EST QUA A SE DIFFERUNT SINGULA; quae enim genere eadem sunt, differentia discrepant, ut cum homo atque equus idem sint in animalis genere, quoninm utraque sunt animalia, differunt tamen differentia rationali, et cum dii atque homines sub rationalitate sint positi, differunt mortalitate. Rationale igitur hominis ad equum differentia est, mortale hominis ad deum, atque hoc quidem modo substantiales differentiae colliguntur. Quodsi Socrates sedeat, Plato vero ambulet, erit differentia ambulatio vel sessio, quae substantialis non est. Namque istam quoque differentiam definitio videtur incllldere, cum dicit: DIFFERENTIA EST QUA DIFFERUNT SINGULA; quocumque enim Socrates a Platone distiterit -- nullo autem alio distare nisi accidentibus potest -- id erit differentia secundum superioris terminum definitionis. Quam rem scilicet viderunt etiam hi qui definitionis huius uagum communemque finem reprehendentes certae conclusionis terminum subiecerunt. INTERIUS AUTEM PERSCRUTANTES DE DIFFERENTIA DICUNT, NON QUODLIBET EORUM QUAE SUB EODEM SUNT GENERE DIVIDENTIUM ESSE DIFFERENTIAM SED QUOD AD ESSE CONDUCIT ET QUOD EIUS QUOD EST ESSE REI PARS EST; NEQUE ENIM QUOD APTUM NATUM EST NAVIGARE ERIT HOMINIS DIFFERENTIA, ETSI PROPRIUM SIT HOMINIS. DICIMUS ENIM 'ANIMALIUM HAEC QUIDEM APTA NATA SUNT AD NAVIGANDUM, ILLA VERO MINIME', DINIDENTES AB ALIIS SED APTUM NATUM ESSE AD NAVIGANDUM NON ERAT COMPLETIVUM SUBSTANTIAE NEC EIUS PARS SED APTITUDO QUAEDAM EIUS EST, IDCIRCO, QUONIAM NON EST TALIS QUALES SUNT QUAE SPECIFICAE DICUNTUR DIFFERENTIAE. ERUNT IGITUR SPECIFICAE DIFFERENTIAE QUAECUMQUE ALTERAM FACIUNT SPECIEM ET QUAECUMQUE IN EO QUOD QUALE EST ACCIPIUNTUR. -- ET DE DIFFERENTIIS QUIDEM ISTA SUFFICIUNT. Sensus propositionis huiusmodi est. Quoniam superius disit determinasse quosdam differentiam esse qua a se singllla discreparent, ait alios diligentius de differential perscrutantes non ƿ fuisse arbitratos recte esse superius propositam definitionem. Neque enim omnia quaecumque sub eodem posita genere differre faciunt, differentiae hae de quibus nunc tractatur, id est specificae, numerari queunt. Plura enim sunt quae ita dividunt species sub uno genere positas, ut tamen eorum substantiam minime conforment, quia non videntur esse differentiae specificae nisi illae tantum quae ad id quod est esse proficiunt et quae in definitionis alicuius parte ponuntur. Hae autem sunt nt rationale hominis. Nam et substantiam hominis conformat et ad esse hominis proficit et definitionis eius pars est. Ergo nisi ad id quod est esse conducit et eius quod est esse rei pars sit, specifica differentia nullo modo poterit nuncupari quid est autem esse rei? Nihil est aliud nisi definitio. Unicuique enim rei interrogatae 'quid est?' si quis quod est esse monstrare voluerit, definitionem dicit. Ergo si qua definitionis pars fuerit, eius erit pars quae uniuscuiusque rei quid esse sit designet. Definitio est quidem quae quid unaquaeque res ƿ sit, ostendit ac profert, demonstraturque quid uni cuique rei sit esse per definitionis assignationem. Illae vero differentiae quae non ad substantiam conducunt sed quoddam quasi extrinsecus accidens afferunt, specificae non dicuntur, licet sub eodem genere positas species faciant discrepare, ut si quis hominis atque equi hanc differentiam dicat, aptum esse ad navigandum. Homo enim aptus est ad navigandum, equus vero minime, et cum sit equus atque homo sub eodem genere animalis, addita differentia 'aptum esse ad navigandum' equum distinxit ab homine. Sed aptum esse ad navigandum non est huiusmodi, quale quod possit hominis formare substantiam sed tantum quandam quodammodo aptitudinem monstrat et ad faciendum aliquid vel non faciendum oportunitatem. Idcirco ergo specifica differentia esse non dicitur. Quo fit ut non omnis differentia quae sub eodem genere positas species distribuit, specifica esse possit sed ea tantum quae ad substantiam speciei proficit et quae in parte definitionis accipitur. Concludit igitur esse specificas differentias quae alteras a se species faciunt per differentias substantiales. Nam si uni cuique id est esse quodoumque substantialiter fuerit, quaecumque differentiae substantialiter diversae sunt, illas species quibus assunt, omni substantia faciunt alteras ac discrepantes, atque hae in definitionis parte sumuntur. Nam si definitio substantiam monstrat ƿ et substantiales differentiae species efficiunt, substantiales differentiae erunt partes definitionum. PROPRIUM VERO QUADRIFARIAM DIVIDUNT. NAM ET ID QUOD SOLI ALICUI SPECIEI ACCIDIT, ETSI NON OMNI, UT HOMINI MEDICUM ESSE VEL GEOMETREM, ET QUOD OMNI ACCIDIT, ETSI NON SOLI, QUEMADMODUM HOMINI ESSE BIPEDEM ET QUOD SOLI ET OMNI ET ALIQUANDO, UT HOMINI IN SENECTUTE CANESCERE, QUARTUM VERO, IN QUO CONCURRIT ET SOLI ET OMNI ET SEMPER, QUEMADMODUM HOMINI ESSE RISIBILE. NAM ETSI NON SEMPER RIDEAT, TAMEN RISIBILE DICITUR, NON QUOD IAM RIDEAT SED QUOD APTUS NATUS SIT; HOC AUTEM EI SEMPER EST NATURALE ET EQUO HINNIBILE. HAEC AUTEM PROPRIE PROPRIA PERHIBENT ESSE, QUONIAM ETIAM CONVERTUNTUR. QUICQUID ENIM EQUUS, HINNIBILE, ET QUICQUID HINNIBILE, EQUUS. Superius dictum est omnia propria ex accidentium genere descendere. Quicquid enim de aliquo praedicatur, aut substftntiam informat aut secundum accidens inest. Nihil vero est quod cuiuslibet rei substantiam monstret nisi genus, species et differentia, genus quidem et differentia speciei, species vero individuorum. Quicquid ergo reliquum est, in accidentium numero ponitur. Sed quoniam ipsa accidentia habent inter se aliquam differentiam, idcirco alia quidem propria, alia priore atque antiquiore nomine accidentia nunlcupantur. Et de accidentibus paulo post, nunc de propriis. Quae quadrifariam dividuntur, non tamquam genus aliquod proprium in quattuor species dividi secarique possit sed hoc quod ait dividunt, ita intellegendum est, tamquam si diceret 'nuncupant', id est propria quadrifariam dicunt. Cuius quadrifariae appellationis significationes enumerat, ut quae sit conveniens et congrua nuncupatio proprietatis ostendat. Dicit ergo proprium accidens quod ita uni speciei adest, ut tamen nullo modo coaequetur ei sed infra subsistat ac maneat, ut hominis dicitur proprium medicum esse, idcirco quoniam nulli alii inesse animalium ƿ potest. Nec illud attendimus, an hoc de omni homine praedicari possit sed illud tantum, quod de nullo alio nigi de homine dici potest medicum esse. Et haec quidem significatio proprii dicitur inesse SOLI, ETSI NON OMNI; soli enim speciei, etsi non omni coaequatur, ut medicina soli quidem inest homini sed non omnibus hominibus ad scientiam adest. Aliud proprium est quod huic e contrario dicitur omni, etsi non soli; quod huiusmodi est, ut omnem quidem speciem contineat eamque transcendat. Et quoniam quidem nihil est subiectae speciei quod illo proprio non utatur, dicimus omni, quoniam vero transcendit in alias, dicimus non soli: hoc huiusmodi est quale homini esse bipedem, proprium est enim bomini esse bipedem. Omnis enim homo bipes est etiamsi non solus, aves enim bipedes sunt. Geminae igitur significationes proprii quae superius dictae sunt, habent aliquid minus, prima quidem quia non omni, secunda vero quia non soli. Quas si iungimus, facimus omni et soli. Sed demimus aliquid secundum tempus, si ei adiciatur aliquando, ut sit haec tertia proprii nuncupatio 'omni et soli sed aliquando', ut est in senectute canescere vel in ivuentute pubescere; omni enim homini adest in ivuentute pubescere, in senectute canescere, et soli. Pubescere enim solius hominis est sed aliquando, ƿ neque enim omni tempore sed in sola tantum ivuentute. Haec igitur determinatio proprii in eo quidem modo quod omni et soli inest, absoluta est sed ex eo minuit aliquid vel contrahit, cum dicimus ALIQUANDO. Quod si auferamus, fit proprii integra simplexque significatio hoc modo: proprium est quod omni et soli et semper adest. Omni autem et soli speciei et semper intellegendum est ut hornini risibile, equo hinnibile; omnis enim et solus homo risibilis est et semper. Neque illud nos ulla dubitatione perturbet, quod semper homo non rideat; non enim ridere est proprium hominis sed esse risibile, quod non in actu sed in potestate consistit. Ergo etiamsi non rideat, quia ridere tamen posse soli et omni homini semper adesse dicitur, convenienter proprium nuncupatur. Nam si actus separatur ab specie, potestas nulla ratione disiungitur. Quattuor igitur significationes proprii dixit. Nam prima quidem, quando accidens ita subiectae speciei adest, ut soli ei adsit, etiamsi non omni, ut homini medicina; secunda vero, ƿ cum soli quidem non adest, omni vero semper adiungitur, ut homini esse bipedem; tertia vero, cum omni et soli sed aliquando, ut omni homini in ivuentute pubescere; quarta, cum omni et soli et semper adest, ut esse risibile. Atque ideo caetera quidem converti non possunt: neque enim coaequatur quod soli sed non omni speciei adest. Species quidem de ipso dici potest, ipsum vero de specie minime. Qui enim medicus est, potest dici homo, homo vero qui est, medicus esse non dicitur. Rursus quod ita est alii proprium, ut omni adsit etiamsi non soli, ipsum quidem de specie praedicari potest, species vero de eo minime. Nam bipes praedicari de homine potest, homo vero de bipede nullo modo. Rursus quod ita adest, ut omni et soli sed aliquando assit, quoniam de tempore, habet aliquid deminutum nec simpliciter semper adest, reciprocari non poterit. Possumus enim dicere 'omnis qui pubescit homo est', non 'omnis homo pubescit': potest enim minime ad inllentutem nenire atque ideo nec pubescere; nisi forte non sit pubescere hominis proprium sed in ivuentute pubescere, aut, etiam cum nondum est in ivuentute aut etiam praeteriit, tamen sit ei proprium non tale quale tunc fieri possit, cum praeter ivuentutem est sed quale cum in ivuentnte consistit. Atque ideo hoc ƿ quod non in omne tempus tenditur, etiamsi tale est, ut omni speciei assit, quod tamen in tempus aliquod differatur, integrum atque absolutum proprium esse von dicitur. Quartum est quod ita alicui adest, ut et solam teneat speciem et omni assit et absolutum sit a temporis conditione, ut risibile quod a superiore plurimum distat; nam qui risibilis est, semper ridere potest. Rursus qui potest in ivuentute pubescere, cum ipsa ivuentus non sit semper, non ei adest semper ut in ivuentute pubescat. Haec autem quarta proprii significatio quoniam nulla temporis definitione constringitur, absoluta est atque ideo etiam convertitur et de se invicem proprium atque species praedicantur; homo enim risibilis est et risibile homo. ACCIDENS VERO EST QUOD ADEST ET ABEST PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM. DIVIDITUR AUTEM IN DUO, IN SEPARABILE ET IN INSEPARABILE. NAMQUE DORMIRE EST SEPARABILE ACCIDENS, NIGRUM VERO ESSE INSEPARABILITER CORUO ET AETHIOPI ACCIDIT, POTEST AUTEM SUBINTELLEGI ET CORUUS ALBUS ET AETHIOPS AMITTENS COLOREM PRAETER SUBIECTI CORRUPTIONEM. DEFINITUR AUTEM SIC QUOQUE: ACCIDENS EST ƿ QUOD CONTINGIT EIDEM ESSE ET NON ESSE, VEL QUOD NEQUE GENUS NEQUE DIFFERENTIA NEQUE SPECIES NEQUE PROPRIUM, SEMPER AUTEM EST IN SUBIECTO SUBSISTENS. OMNIBUS IGITUR DETERMINATIS QUAE PROPOSITA SUNT, DICO AUTEM GENERE, SPECIE, DIFFERENTIA, PROPRIO, ACCIDENTI, DICENDUM EST QUAE EIS COMMUNIA ADSINT ET QUAE PROPRIA. Quoniam, ut superius dictum est, quae de aliquo praedicantur, vel substantialiter vel accidentaliter dicuntur cumque ea quae substantialiter praedicantur, eius de quo dicuntur substantiam definitionemque contineant et sint eo antiquiora atque maiora, quod ex substantialibus praedicatis efficiuntur, cum ea quae substantialiter dicuntur pereunt, necesse est ut simul etiam ea interimantur quorum naturam substantiamque formabant. Quae cum ita sint, necesse est ut quae accidenter dicuntur, quoniam substantiam minime informant, et adesse et abesse possint praeter subiecti corruptionem. Ea enim tantum cum absunt subiectum corrumpere poterunt, quae efficiunt atque conformant quae sunt substantialia, quae vero ƿ non efficiunt substantiam, ut accidentia, ea cum adsunt vel absunt, nec informant substantiam nec corrumpunt. Est igitur accidens quod adest et abest praeter subiecti corruptionem. Id autem dividitur in duas partes. Accidentis enim aliud est separabile, aliud inseparabile, separabile quidem dormire sedere. Inseparabile vero ut Aethiopi atque coruo color niger. In qua re talis oritur dubitatio. Ita enim est definitum: accidens est quod adesse et abesse possit praeter subiecti corruptionem. Idem tamen accidens aliquando inseparabile dicitur; quod si inseparabile est, abesse non poterit. Frustra igitur positum est accidens esse quod adesse et abesse possit, cum sint quaedam accidentia quae a subiecto non valeant separari. Sed fit saepe ut quae actu disiungi non valeant, mente et cogitatione separentur. Sed si animi ratione disiunctae qualitates a subiectis non ea perimunt sed in sua substantia permanent atque perdurant, accidentes esse intelleguntur. Age igitur, quoniam Aethiopi color niger auferri non potest. Animo emn atque cogitatione separemus. Erit igitur color albus Aethiopi. uum idcirco species consumpta sit? minime. Item etiam coruus, si ab eo colorem nigrum imaginatione separemus, permanet tamen avis nec interit species. Ergo quod dictum est et adesse et abesse, non re sed animo intellegendum est. Alioquin et substantialia, quae omnino separari non possunt, si animo et cogitatione disiungimus, ut si ab homine rationabilitatem auferamus -- ƿ quam licet actu separare non possumus, tamen animi imaginatione disiungimus -- statim perit hominis species quod idem in accidentibus non fit: sublato enim accidenti cogitatione species manet. Est alia quoque accidentis definitio caeterorum omnium privatione, ut id dicatur esse accidens quod neque genus sit neque species nec differentia nec proprium; quae definitio plurimum uaga est valdeque communis sic enim etiam genus definiri potest, quod neque species neque differentia nec proprium sit nec accidens, eodemque modo species ac differentia et proprium. Cum autem eadem similitudine definitionis plura definiri queant, non est terminans et circumclusa descriptio, praesertim cum longe sit a definitionis integritate seiunctum quod cuiuslibet rei formam aliarum rerum negatione demonstrat. Quibus omnibus expeditis, id est genere, specie, differentia, proprio atque accidenti, descriptisque eorum terminis quantum postulabat institutionis brevitas, ea ipsa communiter pertractanda persequitur, ut quas inter se habeant differentias haec quinque, de quibus superius disputatum est, quas vero communiones, mediocri consideratione demonstret, ut non solum ƿ quid ipsa sint, verum etiam quemadmodum inter se comparentur, appareat. Expeditis per se omnibus quae proposuit et quantum in uniuscuiusque consideratione poterat, ad scientiae terminum breviter adductis nunc iam non de singulorum natura, id est vel generis vel differentiae vel speciei vel proprii vel accidentis sed de ad se invicem relatione pertractat. Nam qui communiones ac differentias rerum colligit, non ut sunt per se res illae considerat sed ut ad alias comparentur. Id autem duplici modo, vel similitudine, dum communitates sectatur, vel dissimilitudine, dum differentias. Quae cum ita sint, nos quoque, ut adhuc fecimus, propter planiorem intellectum philosophi uestigia persequentes ordiemur de his communionibus quae assunt generi et speciei et differentiae vel proprio et accidenti. COMMUNE QUIDEM OMNIBUS EST DE PLURIBUS PRAEDICARI, ƿ SED GENUS QUIDEM DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS, ET DIFFERENTIA SIMILITER, SPECIES AUTEM DE HIS QUAE SUB IPSA SUNT INDIVIDUIS, AT VERO PROPRIUM ET DE SPECIE CUIUS EST PROPRIUM ET DE HIS QUAE SUB SPECIE SUNT INDIVIDUIS, ACCIDENS AUTEM ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS. NAMQUE ANIMAL DE EQUIS ET BOBUS [ET CANIBUS] PRAEDICATUR, QUAE SUNT SPECIES, ET DE HOC EQUO ET DE HOC BOVE, QUAE SUNT INDIVIDUA, IRRATIONALE VERO ET DE EQUIS ET DE BOBUS PRAEDICATUR ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, SPECIES AUTEM, UT HOMO, SOLUM DE HIS QUI SUNT PARTICULARES PRAEDICATUR, PROPRIUM AUTEM, QUOD EST RISIBILE, ET DE HOMINE ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, NIGRUM AUTEM ET DE SPECIE CORUORUM ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, QUOD EST ACCIDENS INSEPARABILE, ET MOVERI DE HOMINE ET DE EQUO, QUOD EST ACCIDENS SEPARABILE SED PRINCIPALITER QUIDEM DE INDIVIDUIS, SECUNDUM POSTERIOREM VERO RATIONEM DE HIS QUAE CONTINENT INDIVIDUA. Antequam singulorum ad unumquodque habitudinem tractet, illam prius respicit quam omnes ad se invicem habere videantur. Haec est autem una communio quae propositarum quinque rerum numerum pluralitate praedicationis includit omnia enim de pluribus praedicantur. In hoc ergo sibi cuncta communicant. Nam et genus de pluribus praedicatur, itemque species ac differentia et proprium et accidens. Quae cum ita sint, est eorum una atque indiscreta communio de pluribus plaedicari. Disgregat autem ipsam de pluribus praedicationem, quemadmodum in singulis fiat, quod unumquodque propositorum de quibus pluribus praedicetur ostendit. Ait enim genus quidem de pluribus praedicari, id est speciebus ac specierum individuis, ut animal praedicatur de homine atque equo ac de his individuis quae sub homine sunt atque sub equo. Item genus praedicatur de differentiis specierum atque id iure. Quoniam enim species differentiae informant, cum genus de speciebus praedicetur, consequens est ut etiam de his dicatur quae specierum substantiam formamque efficiunt. Quo fit ut genus etiam de differentiis praedicetur ac non de una sed de pluribus; dicitur enim quod rationabile est, esse animal et rursus quod irrationabile est, esse animal. Ita genus de speciebus ac differentiis praedicatur ac de his quae sub ipsis sunt individuis. Differentia vero de speciebus dicitur pluribus ac de earum individuis, ut irrationabile et de equo praedicatur ac bove, quae sunt plures species, et de his quae sub ipsis sunt individuis eodem modo dicitur; nam quod de universali praedicatur, praedicatur et de individuo. Quodsi differentia de speciebus dicitur, praedicabitur etiam de eiusdem speciei subiectis. Species vero de suis tantum individuis praedicatur; neque enim fieri potest, ut quae species est ultima quaeque vere species ac magis species nuncupatur, haec alias deducatur in species. Quod si ita est, sola post speciem individua restant. Iure igitur species de suis tantum individuis praedicantur, ut homo de Socrate, Platone, Cicerone et caeteris. Proprium item de specie praedicatur cuius est proprium, neque enim esset proprium alicuius, si de alio diceretur; de quo enim unaquaeque res 'et soli et omni et semper' dicitur, eiusdem proprium esse monstratur. Quae cum ita sint proprium de specie dicitur, ut risibile de homine; omnis enim homo risibilis est. Dicitur etiam de individuis speciei de qua praedicatur; est enim Socrates, Plato et Cicero risibilis. Accidens vero et de speciebus pluribus dicitur et de diversarum specierum individuis. Dicuntur enim coruus atque Aethiops nigri et hic coruus et hic Aethiops, qui sunt individui, nigri secundum nigredinis qualitatem vocantur. Atque hoc quidem est accidens inseparabile. Sed multo magis separabilia accidentia pluribus inhaerescunt, ut moveri homini et bovi -- uterque enim movetur -- et rursus ea quae sub homine sunt atque bove individua, moveri saepe praedicantur. Sed advertendum est auctore Porphyrio quod ea quae accidentia sunt, principaliter quidem de his dicuntur in quibus sunt individuis, secundo vero loco ad universalia individuorum referuntur. Atque ita praedicatio ƿ superiorum redditur, ut quoniam nigredo singulis coruis adest accidentis nigredinis inficit, idcirco eam de specie quoque praedicamus dicentes coruum, ipsam speciem, nigrum esse. In quibus omnibus mirum videri potest, cur genus de proprio praedicari non dixerit nec vero speciem de eodem proprio nec differentiam de proprio sed tantum genus quidem de speciebus ac differentiis, differentiam vero de speciebus atque individuis, speciem de individuis, proprium de specie atque individuis, accidens de speciebus atque individuis. Fieri enim potest ut quae maioris praedicationis sint, ea de cunctis minoribus praedicentur, et quae aequalia sunt, sibimet convertuntur, eoque fit ut genus de differentiis, de speciebus, de propriis, de accidentibus praedicetur, ut cum dicimus 'quod rationale est, animal est', genus de differentia, 'quod homo est, animal est', genus de specie, 'quod risibile est, animal est,' genus de proprio, 'quod nigrum est', si forte coruum vel Aethiopem demonstremus, 'animal est,' genus de accidenti praedicamus. Rursus 'quod homo est, rationale est', differentia de specie, 'quod risibile est, rationale est,' differentia de proprio, 'quod nigrum est, rationale est', si Aethiopem demonstremus, differentia de accidenti; item 'quod risibile est, homo est', species de proprio, 'quod nigrum est, homo est,' si Aethiopem designemus, species de accidenti. Qua in re etiam 'quod nigrum est, risibile est' in Aethiopis demonstratione ut proprium de accidenti praedicatur. Converti autem ad totum accidens potest, ut quoniam in individuis singulorum esse proponitur, idcirco de superioribus etiam praedicetur, ut quoniam Socrates animal est, rationalis est, risibilis est et homo est, cumque in Socrate sit caluitium, quod est accidens, praedicetur idem accidens de animali, de rationali, de risibili, de homine, ut accidens de quattuor reliquis praedicetur. Sed horum profundior quaestio est nec ad soluendum satis est temporis, hoc tantum ingredientium intellegeutia expectet, quod alia quidem recto ordine praedicantur, alia vero obliquo, quoniam moveri hominem rectum est, id quod movetur hominem esse conversa locutione proponitur. Quocirca rectam Porphyrius in omnibus propositionem sumpsit. Quodsi quis vim praedicationis et solutionis attenderit in singulis praedicationibus comparans, eas quidem ƿ prolationes quae rectae sunt, inveniet a Porphyrio esse enumeratas, eas vero quae converso ordine praedicantur, fuisse sepositas. COMMUNE EST AUTEM GENERI ET DIFFERENTIAE CONTINENTIA SPECIERUM. CONTINET ENIM ET DIFFERENTIA SPECIES, ETSI NON OMNES QUOT GENERA. RATIONALE ENIM ETIAMSI NON CONTINET EA QUAE SUNT IRRATIONABILIA QUEMADMODUM ANIMAL SED CONTINET HOMINEM ET DEUM, QUAE SUNT SPECIES. ET QUAECUMQUE PRAEDICANTUR DE GENERE UT GENERA, ET DE HIS QUAE SUB IPSO SUNT SPECIEBUS PRAEDICANTUR, ET QUAECUMQUE DE DIFFERENTIA PRAEDICANTUR UT DIFFERENTIAE, ET DE EA QUAE EX IPSA EST SPECIE PRAEDICABUNTUR. NAM CUM SIT GENUS ANIMAL, NON SOLUM DE EO PRAEDICANTUR UT GENERA SUBSTANTIA ET ANIMATUM SED ETIAM DE HIS QUAE SUNT SUB ANIMALI SPECIEBUS OMNIBUS PRAEDICANTUR HAEC USQUE AD INDIVIDUA. CUMQUE SIT DIFFERENTIA RATIONALIS, PRAEDICATUR DE EA UT DIFFERENTIA ID QUOD EST RATIONE UTI. NON SOLUM AUTEM DE EO QUOD EST RATIONALE SED ETIAM DE HIS QUAE SUNT SUB RATIONALI SPECIEBUS PRAEDICABITUR RATIONE UTI. COMMUNE AUTEM EST ET PEREMPTO GENERE VEL DIFFERENTIA SIMUL PERIMI QUAE SUB IPSIS SUNT; QUEMADMODUM ELLIM SI NON SIT ANIMAL, NON EST EQUUS NEQUE HOMO, ITA SI NON SIT RATIONALE. NULLUM ERIT ANIMAL QUOD UTATUR RATIONE. Post eam quae cunctis adesse visa est communitatem, singulorum ad se similitudines ac dissimilitudines quaerit. Et quoniam inter quinque proposita genus ac differentia universalioris praedicationis sunt, siquidem genus species continet ac differentias, differentiae vero species continent neque ab his ullo modo continentur, primum generis ac differentiarum similitudines colligit. Ac primam quidem ponit hanc. Dicit enim commune esse generi ac differentiae, ut species claudant; ƿ nam sicut genus sub se habet species, ita etiam differentia tametsi non tantas quot habet genus. Etenim genus quoniam differentiam etiam claudit et non unam tantum sub se differentialn cohercet ac retinet, plures necesse est habeat sub se species, quam quaelibet una earum differentiarum quas claudit. ut animal praedicatur de rationabili et irrationabili. Quodsi ita est, praedicabitur et de his quae sub rationali sunt positae speciebus et de his quae sub irrationali. Est ergo commune animali et rationali, id est generi et differentiae, quod sicut genus de homine et de deo praedicatur, ita etiam rationale. Quod est differentia, de deo ac de homine dicitur. Sed non in tantum haec praedicatio funditur quantum animalis, id est generis. Animal enim non de deo solum atque homine sed de equo et bove praedicatur, ad quae rationalis differentia non pervenit. Sed quandocumque deum supponimus animali, secundum eam opinionem facimus quae solem stellasque atque hunc totum millium animatum esse confirmat, quos etiam deorum nomine, ut saepe dictum est, appellaverunt. Secunda item communio est generis ac differentiae, quoniam quaecumque praedicantur de genere ut genera, eadem de his quae sub ipso sunt speciebus praedicantur; ad hanc similitudinem ƿ quaecumque de differentia praedicantur ut differentiae, et de his quae sub differentia sunt ut differentiae praedicantur. Cuius sententiae talis est expositio. Sunt plura quae de generibus praedicantur ut genera, ut de animali dicitur animatum, dicitur substantia, atque haec ut genera. Haec igitur praedicantur et de his quae sub animali sunt, ut genera rursus; nam hominis et animatum et substantia genus est, sicut ante fuerat animalis. Item in ipsis differentiis quaedam differentiae inveniuntur quae de ipsis differentiis praedicantur, ut de rationali duae differentiae dicuntur. Quod enim rationale est, utitur ratione vel habet rationem. Aliud est autem uti ratione, aliud habere rationem, ut aliud est habere sensum, aliud uti sensu. Habet quippe sensum et dormiens sed minime utitur, ita quoque dormiens habet rationem sed minime utitur. Ergo ipsius rationabilitatis quaedam differentia est ratione uti sed sub ratioaabilitate homo positus est: praedicatur igitur de homine ratione uti ut quaedam differentia. Differt enim a caeteris animalibus homo, quia ratione utitur. Demonstratum igitur est quia sicut ea quae de genere praedicantur, dicuntur de generi subiectis, ita etiam ea quae de differentia praedicantur, dicuntur de his quae differentiae supponuntur. Tertium commune est quod ƿ sicut absumptis generibus species interimuntur, ita absumptis differentiis species de quibus differentiae praedicantur, intereunt. Commune enim est hoc, universalium in substantia pereuntium perire subiecta. Sed prima communio demonstravit genera de speciebus praedicari, sicut etiam differentias. Propter hanc igitur similitudinem si auferantur genera, species pereunt, sicut etiam species perire necesse est quae sub differentiis sunt, si universales earum differentiae consumantur. Cuius exemplum est: si enim auferas animal, hominem atque equum sustuleris, quae sunt species positae sub animali, si auferas rationale, hominem deumque sustuleris, qui sunt sub rationali differentia collecti. Et de communitatibus quidem hactenus, nunc de generis et differentiae dissimilitudine perpendit. PROPRIUM AUTEM GENERIS EST DE PLURIBUS PRAEDICARI QUAM DIFFERENTIA ET SPECIES ET PROPRIUM ET ACCIDENS; ANIMAL ENIM DE HOMINE ET EQUO ET AVE ET SERPENTE, QUADRUPES VERO DE SOLIS QUATTUORPEDES HABENTIBUS, HOMO vero DE SOLIS INDIVIDUIS ET HINNIBILE DE EQUO ET DE HIS QUI SUNT PARTICULARES, ET ACCIDENS SIMILITER DE PAUCIORIBUS. OPORTET AUTEM DIFFERENTIAS ACCIPERE QUIBUS DIVIDITUR GENUS, NON EAS QUAE COMPLENT SUBSTANTIAM GENERIS. AMPLIUS GENUS CONTINET DIFFERENTIAM POTESTATE; ANIMALIS ENIM HOC QUIDEM RATIONALE EST, ILLUD VERO IRRATIONALE. AMPLIUS GENERA QUIDEM PRIORA SUNT HIS QUAE SUNT SUB SE POSITAE DIFFERENTIIS, PROPTER QUOD SIMUL QUIDEM EAS AUFERUNT, NON AUTEM SIMUL AUFERUNTUR; SUBLATO ENIM ANIMALI AUFERTUR RATIONALE ET IRRATIONALE. DIFFERENTIAE VERO NON AUFERUNT GENUS; NAM SI OMNES INTERIMANTUR, TAMEN SUBSTANTIA ANIMATA SENSIBILIS SUBINTELLEGITUR, QUAE EST ANIMAL. AMPLIUS GENUS QUIDEM IN EO QUOD QUID EST, DIFFERENTIA vero IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICATUR. AMPLIUS GENUS QUIDEM UNUM EST SECUNDUM UNAMQUAMQUE SPECIEM, UT HOMINIS ID QUOD EST ANIMAL, DIFFERENTIAE VERO PLURIMAE, UT RATIONALE, MORTALE. MENTIS ET DISCIPLINAE PERCEPTIBILE, QUIBUS AB ALIIS DIFFERT. ET GENUS QUIDEM CONSIMILE EST MATERIAE, FORMAE VERO DIFFERENTIA. CUM AUTEM SINT ET ALIA COMMUNIA ƿ ET PROPRIA GENERIS ET DIFFERENTIAE, NUNC ISTA SUFFICIANT. Proprium quidem quid sit, convenienti atque integro vocabulo definitum est. Sed per abusionem illa etiam propria quorumlibet dicuntur quae in unaquaque re ab aliis continent differentiam, licet cum aliis sint ea ipsa communia. Per se quippe proprium est homini quod ei omni et soli et semper adest, ut risibilitas, per usurpatam vero locutionem etiam proprium hominis rationabilitas dicitur non per se proprium quippe quod ei cum deorum est natura commune sed homini rationabilitas proprium dicitur ad discretionem pecudis, quod rationale non est; id vero propter hanc causam, quoniam id proprium uniuscuiusque dicitur quod habet suum. Quo igitur quis ab alio differt, proprium eius non absurda usurpatione praedicatur. Sed nunc quod dicit proprium generis esse de pluribus praedicari quam caetera quattuor, id ipsum generis tale proprium est, quale per se proprium dici solet, id est quod semper <et> omni et soli adsit generi. Generi enim soli adest, ut differentia, specie, proprio, accidenti uberius atque affluentius praedicetur. Sed de his differentiis, speciebus, propriis, atque accidentibus id dici potest quae sub quolibet ƿ genere sunt, id est differentiae quidem quae quodlibet dividunt genus, species vero quae divisibilibus generis differentiis informatur, proprium autem illius speciei quae sub illo genere est quod differentiis est divisum, accidentiaque quae his haereant individuis quae sub ea specie sunt quam designatum genus includit. Hoc facilius exempla declarant. Sit enim genus animal, quadrupes ac bipes differentiae sub animalis positae continentia, homo atque equus species sub eodem genere constitutae, risibile atque hinnibile propria earundem specierum, velox vero vel bellator accidentia quae his individuis accidunt quae sub speciebus equi atque hominis continentur: animal igitur, quod est genus, praedicatur et de quadrupede et bipede, quae sunt differentiae, quadrupes vero de bipede non dicitur sed tantum de his animalibus quae quattuor pedes habent; plus igitur praedicatur genus quam differentia. Rursus homo de Platone ac Socrate praedicatur, animal vero non modo de hominibus individuis, verum etiam de caeteris irrationabilibus individuis dicitur; plus igitur genus quam species praedicatur. Sed cum sit proprium hinnibile equi speciei cumque ƿ genus quam species uberius praedicetur, praedicatio quoque generis proprii supergreditur praedicationem. Accidens quoquo etsi pluribus inesse potest, tamen saepe genere contractius invenitur, ut bellator non proprie nisi homo dicitur, ut velocitas in paucis animalibus invenitur. Quo fit, ut genus differentia, specie, proprio et accidentibus amplius praedicetur. Atque haec est una proprietas generis quae genus ab aliis omnibus disiungat ac separet. Oportet autem, inquit, nunc eas differentias intellegere quibus dividitur genus, non quibus informatur. Illae enim quibus informatur genus plus quam ipsum genus sine dubio praedicantur, ut animatum et corporeum ultra animal tenditur, cum sint differentiae animalis sed non divisivae sed potius constitutivae; omnia enim superiora de inferioribus praedicantur. Quae vero de inferioribus praedicantur neque converti possunt, haec ab eis quae inferiora sunt amplius praedicantur. Post hoc aliud proprium generis ostendit quo ab his differentiis quae sub eodem sunt positae, segregatur. Omne enim genus continet differentias potestate, differentia vero genus non potest continere. Animal enim rationale atque irrationale continet potestate; neque enim irrationabilitas neque rationabilitas animal poterit continere. Potestate autem ait continere animal differentias quia, ut superius dictum est, ƿ genus quidem omnes sub se habet differentias potestate, actu vero minime. Ex quo fit ut alia proprietas oriatur. Sublato enim genere perit differentia, veluti sublato animali interimitur rationabilitas, quod est differentia. At si rationale interimas, irrationale animal manet. Sed obici potest: quid? Si utrasque differentias simul abstulero, num poterit remanere genus? Dicimus: potest. Unumquodque enim non ex his de quibus praedicatur sed ex his ex quibus efficitur, substantiam sumit. Itaque fit ut genus sublatis divisivis differentiis permanere possit, dum tamen maneant illae quae ipsius generis formam substantiamque constituunt. Quoniam enim animal animata atque sensibilis differentiae constituunt, hae si maneant atque iungantur, perire animal non potest, licet ea pereant de quibus animal praedicatur, rationale scilicet atque irrationale. unumquodque enim, ut dictum est, ex his substantiae proprietatem sumit ex quibus efficitur non ab his de quibus praedicatur. Amplius si utrasque differentias genus potestate continet, ipsum per se neutram earum intra se positam collocatamque concludit. Quodsi actu quidem eas non continet sed potestate, actu etiam ab his poterit separari; hoc ipsum enim, potestate eas continere, id erat actu non continere. Genus vero, quod quaslibet differentias actu non continet, actu ab eisdem etiam separatur. Rursus aliud est proprium generis, quod ex proprietate ƿ praedicationis agnoscitur. Omne enim genus ad interrogationem 'quid est unumquodque?' responderi convenit, ut animal in eo quod quid est de homine praedicatur, differentia vero minime sed in eo quod quale sit; omnis enim differentia in qualitate consistit. Sed hoc proprium tale est quale superius diximus, non per se sed secundum alicuius differentiam dictum. Alioquin commune est hoc generi cum specie, ut in eo quod quid sit praedicetur. Sed quia hoc genus a differentia discrepat, quoniam differentia quidem in eo quod quale est, genus vero in eo quod quid est praedicatur, generis proprium dicltur non per se sed ad differentiae comparationem. Et in omnibus reliquis eandem rationem conveniet speculari; quodcumque enim ita generi proprium dicitur, ut nulli sit alii commune sed tantum hoc habeat genus ut omne genus et semper, id secundum se proprium nuncupatur, quicquid vero cum quolibet alio commune est, id non per se sed ad alterius differentiam proprium dicitur. Alia rursus generis et differentiae separatio est, quod genus quidem speciei unum semper adest, scilicet proximum -- plura enim possunt esse superiora, velut hominis animal atque substantia sed proximum eiusdem hominis animal tantum -- differentiae vero plures uni speciei ƿ adesse poterunt, ut rationale atque mortale homini. Itaque fit definitio ex uno quidem genere sed pluribus differentiis, ut hominis animal rationale mortale. Rursus alia discretio est, quod genus quidem quasi subiecti locum tenet, differentia vero formae, ita ut illud sit materia quaedam quae figuram suscipiat, haec vero sit forma quao superveniens speciei substantiam rationemque perficiat. Idcirco vero pluribus differentiis a genere differentiam segregavit, quia haec maxime generis quandam similitudinem contineat, quia est universalis et praeter genus inter caeteras maxima. Sed cum alia plura: communia pluraque propria generis inter se ac differentiae valeant inveniri, nunc, inquit, ista sufficiant. Satis est enim ad discretionem quaslibet differentias assumere, etiamsi non quae dici possunt omnia colligantur.DE COMMUNIBUS GENERIS ET SPECIEI GENUS AUTEM ET SPECIES COMMUNE QUIDEM HABENT DE PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI. SUMATUR AUTEM SPECIES UT SPECIES ET NON ETIAM UT GENUS, SI FUERIT IDEM ET SPECIES ET GENUS. ƿ COMMUNE AUTEM HIS EST ET PRIORA ESSE EORUM DE QUIBUS PRAEDICANTUR, ET TOTUM QUIDDAM ESSE UTRUMQUE. Generis et speciei enumerat tria communia, unum quidem, de pluribus praedicari; genus enim et species de pluribus praedicantur sed genus de speciebus, ut dictum est, species vero de individuis. Sed nunc de illa specie loquitur quae tantum species est, id est quae non etiam genus est sed ultima species. Quodsi talem speciem ponamus quae etiam genus esse potest, ac de ea dicamus quoniam commune habet cum genere de pluribus praedicari, nihil interest an ita dicamus, ipsum genus id secum habere commune de pluribus plaedicari. Talis enim species quae non est solum species, ea etiam genus est. Est autem commune his quoque quod utraque priora sunt his de quibus praedicantul. Omne enim quod de aliquibus praedicatur, si recto, ut dictum est superius, ordine dicatur, prius est his de quibus praedicatur. Praeterea est illis hoc etiam commune, quod genus ac species totum sunt eorum quae intra suum ambitum continent et cohercent; omnium enim specierum totum est genus et omnium in dividuorum totum species. Aeque enim genus et species adunativa sunt plurimorum, quod vero multorum adunativum est, id eorum quae ad unitatis formam reducit, recte dicitur totum. Ƿ DIFFERT AUTEM EO QUOD GENUS QUIDEM CONTINET SPECIES SUB SE, SPECIES vero CONTINENTUR ET NON CONTINENT GENERA; IN PLURIBUS ENIM GENUS QUAM SPECIES EST. GENERA ENIM PRAEIACERE OPORTET ET FORMATA SPECIFICIS DIFFERENTIIS PERFICERE SPECIES; UNDE ET PRIORA SUNT NATURALITER GENERA ET SIMUL INTERIMENTIA SED QUAE NON SIMUL INTERIMANTUR. ET SPECIES QUIDEM CUM SIT, EST ET GENUS, GENUS VERO CUM SIT, NON OMNINO ERIT ET SPECIES. ET GENERA QUIDEM UNIVOCE DE SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES vero DE GENERIBUS MINIME. AMPLIUS GENERA QUIDEM ABUNDANT EARUM QUAE SUB IPSIS SUNT SPECIERUM CONTINENTIA, SPECIES VERO A GENERIBUS ABUNDANT PROPRIIS DIFFERENTIIS. AMPLIUS NEQUE SPECIES FIET UMQUAM GENERALISSIMUM NEQUE GENUS SPECIALISSIMUM. Expeditis communibus generis ac speciei nunc de eorum discretione pertractat. Differre enim dicit genus ab specio, quoniam genus continet species, ut animal hominem, species ƿ vero non continet genera; neque enim homo de animali praedicatur. Itaque fit ut species quidem contineantur a generibus numquam vero contineant genera. Omne enim quod amplius praedicatur, illius est continens quod minus dicitur. Quodsi genus amplius praedicatur quam species, necesse est ut species quidem contineatur a genere, genus vero speciei nullo ambitu praedicationis includatur. Huius autem ratio est quoniam genus semper suscipiens differentiam speciem facit, hoc est. Genus quod habebat latissimam praedicationem, coartatum differentia et contractum speciem facit; omnino enim generi iuncta differentia speciem reddit et ex universalitate atque latissima praedicatione in angustum speciei terminum contrahit. Animal enim, cuins praedicatio per se longe lateque diffusa est, si arripiat rationalis differentiam, si etiam mortalis deminuit atque contrahit in unum hominis speciem. Unde fit ut minor sit semper species quam genus atque ideo contineatur sed non contineat, sublatoque genere auferatur et species; si enim totum auferas, pars non erit. Quodsi species auferatur, genus manet, veluti cum animal sustuleris, interimitur etiam homo, si hominem auferas, animal restat. Haec etiam causa est, ut genus de specie univoce praedicetur, id est ut species suscipiat definitionem generis et nomen sed ƿ non e converso. Definitionem quippe speciei genus suscipere non videtur; substantiam enim priorum inferiora suscipiunt. Si enim definias animal et dicas sub stanti am esse animatam atque sensibilem aut si praedices de homine 'animal', verum dixeris. Si etiam animalis definitionem de homine praedicaveris dicasque hominem esse substantiam animatam atque sensibilem, nihil fuerit in propositione falsi. Sed si hominis definitionem reddas 'animal rationale mortale', ea animali non conveniunt; neque enim quod animal est, id dici poterit animal rationale mortale. Fit igitur, ut sicut species generis nomen suscipit, ita etiam capiat definitionem, et sicut genus nomen speciei non suscipit, ita nec eiusdem definitione monstretur sed cuius nomen et definitio de aliquo praedicatur, id univoce dicitur. Cum igitur generis et nomen et definitio de specie praedicetur; genus de specie univoce dicitur. Quoniam vero speciei de genere neque nomen neque definitio praedicatur, non comlertitur univoca praedicatio. Differunt genera <ab> speciebus hoc quoque modo, quod genera superuadunt species suas aliarum continentia specierum, species vero genera differentiarum pluralitate. Animal enim, quod est genus, superuadit hominem, quod est species, quia non hominem solum continet, verum etiam bovem, equum aliasque species, quas suae spatio praedicationis includit. Species vero, ut homo, superuadit genus, ut animal, multitudine differentiarum. Nam quod actu genus ƿ non habet rationale vel mortale -- nullas quippe actu genus retinet differentias -- easdem species suae substantiae inhaerentes atque insitas tenet. Homo enim rationalis est atque mortalis, quod genus minime est; animal enim neque mortale est per se neque rationale. Quodsi genus quidem plus unam continet speciem, at vero species multis differentiis infor mantur, superat quidem genus speciem continentia specierum species vero vincit genus differentiarum pluralitate. Illa quoque est differentia, quod genus quoniam omnium primum est, numquam in tantum descendere poterit, ut fiat ultimum, species vero, quae cunctis est inferior, in tantum ascendere non poterit, ut suprerna omnium fiat; numquam igitur nec species generalissimum fiet nec genus specialissimum. Sed ex his quae dictae sunt differentiae aliae sunt quae genus ab specie propriae coniunctaeque disterminant, aliae vero quae non solum genus ab specie, verum etiam a caeteris diducunt ac disterminant. Neque in his tantum differentiae quae sunt dictae, verum etiam in caeteris considerentur oportet, si proprie normam quaerimus discretionis agnoscere. GENERIS AUTEM ET PROPRII COMMUNE QUIDEM EST SEQUI SPECIES -- NAM SI HOMO EST, ANIMAL EST, ET SI HOMO EST, RISIBILE EST -- ET AEQUALITER PRAEDICARI GENUS DE SPECIEBUS ET PROPRIUM DE HIS QUAE ILLO PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM ET HOMO ET BOS ANIMAL ET CATO ET CICERO RISIBILE. COMMUNE AUTEM ET UNIVOCE PRAEDICARI GENUS DE PROPRIIS SPECIEBUS ET PROPRIUM QUORUM EST PROPRIUM. Tria intelim generis ac proprii dicit esse communia. Quorum primum illud est, quoniam ita genus sequitur species ut proprium. Posita enim specie necesse est intellegi genus ac proprium; neutrum enim species proprias derelinquit. Nam si homo est, animal est, si homo est, risibile est; ita quemadmodum genus, sic proprium ab ea specie cuius est proprium, non recedit. Illud quoque, quod aequalis est generis participatio, sicut etiam proprii. Omne enim genus aequaliter speciebus participatur, proprium vero individuis omnibus aequaliter adhaerescit. Manifestum vero est participationem esse generis aequalem; neque enim plus homo animal est quam equus ƿ atque bos sed in eo quod sunt animalia, aequaliter animalis, id est generis ad se vocabulum trahunt. Cato etiam et Cicero aequaliter risibiles sunt, etiamsi aequaliter non rideant; in eo enim quod apti ad ridendum sunt, dici risibiles possunt, non quod iam rideant. Aequaliter ergo ea quae sub genere sunt, suscipiunt genus, sicut ea quae sub propriis, propria. Tertium illud, quod sicut genus de speciebus propriis univoce praedicatur, itn etiam proprium de sua specie univoce dicitur. Genus enim quoniam substantiam speciei continet, non modo eius nomen de specie, verum etiam definitio praedicatur. Proprium vero quia speciem non relinquit eamque semper sequitur nec in aliam speciem transgreditur nec infra subsistit, definitionem quoque propriam speciebus tradit; cuius enim nomen uni tantum convenit speciei cui coaequatur, dubitari non potest quin eius quoque definitio speciei conveniat. Quo fit ut sicut genus de speciebus, ita proprium de sua specie univoce praedicetur. DIFFERT AUTEM, QUONIAM GENUS QUIDEM PRIUS EST, POSTERIUS VERO PROPRIUM; OPORTET ENIM ESSE ANIMAL, DEHINC DIVIDI DIFFERENTIIS ET PROPRIIS. ET GENUS QUIDEM ƿ DE PLURIBUS SPECIEBUS PRAEDICATUR, PROPRIUM VERO DE UNA SOLA SPECIE CUIUS EST PROPRIUM. ET PROPRIUM QUIDEM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS EST PROPRIUM, GENUS VERO DE NULLO CONVERSIM PRAEDICATUR. NAM NEQUE SI ANIMAL EST, HOMO EST, NEQUE SI ANIMAL EST, RISIBILE EST; SIN VERO HOMO EST, RISIBILE EST, ET E CONVERSO. AMPLIUS PROPRIUM OMNI SPECIEI INEST CUIUS EST PROPRIUM, ET SOLI ET SEMPER, GENUS VERO OMNI QUIDEM SPECIEI CUIUS FUERIT GENUS, ET SEMPER, NON AUTEM SOLI. AMPLIUS SPECIES QUIDEM INTEREMPTAE NON SIMUL INTERLIMUNT GENERA, PROPRIA VERO INTEREMPTA SIMUL INTERIMUNT EA QUORUM SUNT PROPRIA. ET HIS QUORUM SUNT PROPRIA INTEREMPTIS ET IPSA SIMUL INTERIMUNTUR. Rursus tale proprium sumit, quod ad alterius comparationem proprium nuncupetur. Dicit enim proprium esse generis prius esse quam propria. Oportet enim prius esse genus, quod veluti materia differentiis supponatur, venientibusque differentiis fieri speciem, cum quibus propria nascuntur. Si igitur prius est ƿ genus quam differentiae, prius etiam differentiae quam species et speciebus propria coaequantur, non est dubium quin propria generibus posteriora sint, ac per hoc quod dictum est, proprium esse generis prius esse quam propria, commune est hoc generi cum differentia. Differentiae enim species conformantes priores considerantur esse quam propria, siquidem speciebus ipsis priores sunt, quas propria ratione determinant. Sed ut dictum est, hoc proprium ad differentiam proprii intellegendum est, non quale superius per se proprium constitutum est. Rursus differt genus a proprio, quod genus quidem de pluribus praedicatur speciebus, proprium vero minime; nam neque genus est, nisi plures ex se species proferat, nec proprium, si alteri cuilibet speciei possit esse commune. Fit igitur ut genus quidem plurimas sub se species habeat, ut animal hominem atque equum, proprium vero unam tantum, sieut risibile hominem. Quo fit ut illa quoque differentia nascatur: genus enim praedicatur quidem de speciebus, ipsum vero in nulla praedicatione supponitur, proprium vero et species alterna praedicatione mutantur. Fit enim praedicatio aut a maioribus ad minora aut ab aequalibus ad aqqualia. Genus igitur, quod maius est, de speciebus omnibus praedicahlr, species vero, quoniam minores sunt, de generibus non dicuntur, ut animal de homine dicitur, homo vero de animali nullo modo praedicatur. At vero proprium, quoniam speciei aequale est, aeque ƿ praedicatur atque supponitur, ut risibile de homine dicitur -- omnis enim homo risibilis est -- eodemque convertitur modo; omne enim risibile homo est. Differt etiam proprium a genere, quod proprium uni et omni et semper speciei adest, genus vero ex his duo quidem retinet, in uno vero diversum est. Nam speciebus suis et semper adest et omnibus, non vero solis; hoc enim haeret propriis, quod singulas tantum species continent, hoc generibus, quod plures. Igitur propria quidem singulas optinent species, genera vero non singulas. Adest igitur proprium uni soli speciei et semper et omni, genus vero omni quidem et semper sed non soli, ut risibile homini soli, animal vero eidem homini sed non soli; praeest enim caeteriss quae irrationabilia nuncupamus. Praeterea si auferatul genus, species interimuntur -- nam si non sit animal, non erit homo -- si auferas species, non interimitur genus; nam si non sit homo, animal non peribit. Species vero et propria quoniam sunt aequalia, alterna sese vice consumunt; nam si non sit risibile, homo non erit, si homo non sit, risibile non manebit. Consumunt igitur genera sub se positas species, non vero ab his invicem consumuntur, species vero et proprium invicem perimuutur et perimunt. GENERIS VERO ET ACCIDENTIS COMMUNE EST DE PLURIBUS, QUEMADMODUM DICTUM EST, PRAEDICARI, SIVE SEPARABILIUM SIT SIVE INSEPARABILIUM; ETENIM MOVERI DE PLURIBUS ET NIGRUM DE CORUIS ET DE HOMINIBUS AETHIOPIBUS ET ALIQUIBUS INANIMATIS. Nihil est quod inter caetera ita sit a generis ratione disiunctum. Sicut est accidens. Nam cum genus cuiuslibet substantiam monstret, accidens vero a substantia longe disiunctum sit et extrinsecus veniens, nihil fere notius commune potest habere cum genere quam de pluribus praedicari. Genus enim de plaribus praedicatur speciebus, accidens vero de pluribus non modo speciebus, verum etiam generibus animatis atque inanimatis, ut nigrum dicitur de rationabili homine, de irrationabili coruo et de inanimato hebeno, album etiam de cygno et marmore, moveri de homine, de equo et de stellis ac de sagitta, quae sunt separabilis accidentis exempla. DIFFERT AUTEM GENUS AB ACCIDENTI, QUONIAM GENUS ANTE SPECIES EST, ACCIDENTIA VERO SPECIEBUS POSTERIORA SUNT; NAM SI ETIAM INSEPARABILE SUMATUR ACCIDENS SED TAMEN PRIUS EST ILLUD CUI ACCIDIT QUAM ACCIDENS. ET GENERE QUIDEM QUAE PARTICIPANT, AEQUALITER PARTICIPANT, ACCIDENTI VERO NON AEQUALITER; INTENTIONEM ENIM ET REMISSIONEM SUSCIPIT ACCIDENTIUM PARTICIPATIO, GENERUM VERO MINIME. ET ACCIDENTIA QUIDEM IN INDIVIDUIS PRINCIPALITER SUBSISTUNT, GENERA NERO ET SPECIES NATURALITER PRIORA SUNT INDIVIDUIS SUBSTANTIIS. ET GENERA QUIDEM IN EO QUOD QUID SIT PRAEDICANTUR DE HIS QUAE SUB IPSIS SUNT, ACCIDENTIA VERO IN EO QUOD QUALE ALIQUID SIT VEL QUOMODO SE HABEAT UNUMQUODQUE; QUALIS EST ENIM AETHIOPS INTERROGATUS DICES 'NIGER', ET QUEMADMODUM SE SOCRATES HABEAT, DICES QUONIAM SEDET VEL AMBULAT. Differentiam generis et accidentis hanc primam proponit, quod genus quidem ante species sit, quippe quod mateliae loco est et differentiis informatum species gignit, at vero accidens post species invenitur. Oportet enim prius esse cui aliquid accidat, post vero ipsum accidens supervenire; nam si subiectum non sit quod suscipiat, accidens esse non poterit. Quodsi genus quidem speciebus subiectum est nec possunt esse species, nisi eis genus veluti materia supponatur, accidentia vero esse non possunt, nisi eis species supponantur, manifestum est genus quidem esse ante species, accidentia vero post species. Rursus alia differentia, quoniam genus neque intentionem neque remissionem suscipere potest. Quo fit ut quae participant genere, aequaliter eius nomen definitionemque suscipiant; omnes enim homines aequaliter animalia sunt eodernque modo equi, necnon inter se homo atque equus et caetera animalia comparata aeque animalia praedicantur. Accidentis vero participatio et intenditur et remittitur. Invenies enim quemlibet paulo diutius ambulantem, paulo amplius nigrum et in ipsis Aethiopibus considerabis omnes non aeque nigro colore obductos. Alia quoque differentia est, quoniam omne accidens in individuis principaliter subsistit, genera vero et species individuis priora sunt; nisi enim singuli corui ƿ nigredine infecti essent, corui species nigra esse minime diceretur. Ita fit ut accidentia post individua esse videantur. Nam si prius est id cui aliquid accidit quam illud quod accidit, non est dubium prius esse individua, posterius vero accidens. Genera vero et species supra individua considerantur; hoc idcirco, quoniam de his omnibus praedicantur eorumque substantiam propria praedicatione constituunt. Sed dici potest genera quoque ipsa et species posteriora individuis inveniri; nam nisi sint singuli homines singulique equi, hominis atque equi species esse non possunt, et nisi singulae species sint, eorum genus animal esse non poterit. Sed meminisse debemus superius dictum esse genus non ex his sumere substantiam de quibus praedicatur sed de eo potius, quod differentiis constitutivis eorum substantia formaque perficitur. Itaque si genus quidem divisivis differentiis interemptis non perimitur sed manet in his quae eius constitutivae sunt eiusque formam definitionemque perficiunt, cumque differentiae divisivae generis speciebus sint priores -- ipsas enim species conformant atque constituunt -- non est dubium quin genus etiam pereuntibus speciebus possit in propria manere substantia. Idem de speciebus dictum sit; species enim superioribus differentiis, non posterioribus individuis informantur. Quae cum ita sint, species quoque ante individua subsistunt. Accidentia vero nisi sint ƿ quibus accidant, esse non possunt, nullis vero prius accidunt quam individuis; haec enim generationi et corruptioni supposita variis semper accidentibus permutantur. Illam quoque adnumerat differentiam quae est superius dicta, quod genus quidem, quia rem demonstrat et de substantia praedicatur, in eo quod quid est dicitur, accidens vero in eo quod quale est aut in eo quod quomodo sese habet res. Nam si qualitatem interroges, accidens respondebitur, ut si qualis est coruus, 'niger', si quomodo sese habeat, aliud rursus accidens, aut 'sedet' aut 'uolat' aut 'crocitat'. Nam cum accidens in novem praedicamenta dividatur, qualitatem, quantitatem, ad aiiquid, ubi, quando, situm, habitum, facere, pati, caetera quidem omnia in {quomo do se habeat' in terrogatione pomlntur, qualitas vero in qualitatis sciscitatione responderi solet. Nam si interrogemur qualis est Aethiops, respondebimus accidens, id est 'niger', si quomodo se habeat Socrates, tunc dicemus aut 'sedet' aut 'ambulat' aut superiorum aliquid accidentium.GENUS VERO QUO AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT, DICTUM EST. CONTINGIT AUTEM ETIAM UNUMQUODQUE ALIORUM DIFFERRE AB ALIIS QUATTUOR, UT CUM QUINQUE QUIDEM SINT, UNUMQUODQUE AUTEM AB ALIIS QUATTUOR DIFFERAT. QUATER QUINQUE, viGINTI FIANT OMNES DIFFERENTIAE SED SEMPER POSTERIORIBUS ENUMERATIS ET SECUNDIS QUIDEM UNA DIFFERENTIA SUPERATIS, PROPTEREA QUIA IAM SUMPTA EST, TERTIIS VERO DUABUS, QUARTIS VERO TRIBUS, QUINTIS VERO QUATTUOR, DECEM OMNES FIUNT, QUATTUOR, TRES, DUAE, UNA. GENUS ENIM DIFFERT A DIFFERENTIA ET SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI; QUATTUOR IGITUR SUNT OMNES DIFFERENTIAE. DIFFERENTIA VERO QUO DIFFERAT A GENERE DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB EA DICEBATUR; RELINQUITUR IGITUR QUO DIFFERAT AB SPECIE ET PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE, ET FIUNT TRES. RURSUS SPECIES QUO ƿ QUIDEM DIFFERAT A DIFFERENTIA DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET DIFFERENTIA AB SPECIE, DICEBATUR; QUO AUTEM DIFFERAT SPECIES A GENERE, DICTUM EST, QUANDO QUO DIFFERRET GENUS AB SPECIE DICEBATUR; RELIQUUM EST IGITUR, UT QUO DIFFERAT A PROPRIO ET ACCIDENTI DICATUR DUAE IGITUR ETIAM ISTAE SUNT DIFFERENTIAE. PROPRIUM AUTEM QUO DIFFERAT AB ACCIDENTI RELINQUITUR; NAM QUO AB SPECIE ET DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERAT, PRAEDICTUM EST IN ILLORUM AD IPSUM DIFFERENTIA. QUATTUOR IGITUR SUMPTIS GENERIS AD ALIA DIFFERENTIIS, TRIBUS VERO DIFFERENTIAE, DUABUS AUTEM SPECIEI, UNA AUTEM PROPRII AD ACCIDENS, DECEM ELUNT OMNES, QUARUM QUATTUOR, QUAE ERANT GENERIS AD RELIQUA, SUPERIUS DEMONSTRAVIMUS.Quoniam differentias atque communitates generis ad differentiam, ad speciem, ad proprium atque accidens persecutus est, idem quoque ad caeteras facere contendens praedicit, quot omnes differentiae possint esse quae inter se comparatis commixtisque ƿ rebus his quae supra propositae sunt efficiantur. Sunt autem viginti. Nam cum quinque sint res, unaquaeque res earum si a quattuor aliis differat, quinquies quater, viginti differentiae fiunt, quod appositarum litterarum manifestatur exemplo. Sint quinque res veluti quinque litterae A B C D E. Differat igitur A quidem ab aliis quattuor, id est B C D E, fient quattuor differentiae. Rursus B differat ab aliis quattuor, id est A C D E, erunt rursus quattuor; quae superioribus iunctae octo coniungunt. C vero tertia ab reliquis differt quattuor, scilicet A B D E; quae quattuor differentiae superioribus octo copulatae duodecim reddunt. Quarta D reliquis quattuor comparetur differatque ab eisdem, id est A B C E, fient igitur rursus quattuor; quae superioribus duodecim appositae sedecim copulant. Quodsi ultima B ab aliis quattuor differat, scilicet A B C D, fient aliae quattuor differentiae; quae compositae prioribus viginti perficiunt. Et sit quidem huiusmodi descriptio: A --> B C D E B --> A C D E C --> A B D E D --> A B C E E --> A B C D. Quae cum ita sint, in generibus quoque et speciebus et caeteris idem considerabitur. Erunt ergo quattuor differentiae, quibus genus a differentia, specie, proprio accidentique disiungitur; aliae rursus quattuor, quibus differentia a genere, specie, proprio atque accidenti discrepat; rursus quattuor speciei ad genus ac differentiam, proprium atque accidens; quattuor etiam proprii ad genus, differentiam, speciem atque accidens; quattuor in super accidentis ad genus, differentiam, speciem atque proprium. Quae coniunctae omnes viginti explicant differentias. Sed hoc, si ad numeri refelatur naturam comparationisque alternationem; nam si ad ipsas differentiarum naturas vigilans lector aspiciat, easdem saepe differentias inveniet sumptas. Quo enim genus differt a differentia, eodem differentia distat a genere, et quo differentia distat ab specie, eodem species a differentia disgregatur, et in caeteris eodem modo. In hac igitur dispositione differentianlm, quam supla disposui, easdem saepius adnumeravi. Atque si differentiarum similitudines detrahamus, decem fiunt omnino differentiae, quas ad praesentem tractatum velut diversas atque dissimiles oportet assumere. Age enim differat genus a differentia, specie, proprio ƿ atque accidenti, quattuor differentiis, quas supra iam diximus. Item sumamus differentiam, distabit haec a genere primum, dehinc ab specie, proprio atque accidenti. Sed quo discrepet a genere, iam superius explicatum est, cum diceremus quo genus a differentia discreparet. Detracta igitur hac comparatione, quoniam supra commemorata est, relinquuntur tres distantiae quibus differentia ab specie, proprio accidentique disiungitur; quae iunctae cum superioribus quattuor septem differentias reddunt. Post hanc species si sumatur, quattuor quidem eius essent differentiae secundum numeri diversitatem, cum ad genus, a differentiam, proprium atque accidens comparatur sed priores duae comparationes iam dictae sunt. Nam quo species differat a genere tunc dictum est, cum quid genus differret ab specie dicebamus, quid vero species a differentia distet commemoratum est, cum differentiae ab specie dissimilitudines redderemus. Quibus detractis duae supersunt integrae atque intactae speciei ad proprium atque accidens discrepantiae; quae iunctae cum septem novem differentias copulant. Proprii vero si ad numerum differentiae considerentur, quattuor erunt, scilicet ad genus, differentiam, speciem atque accidens comparati, quarum quidem tres superiores differentiae iam dictae sunt. Nam quid proprium distet a genere, tunc dictum est, cum quid genus a proprio distaret ostendimus, rursus quid proprium a differentia discrepet, in colligenda distantia differentiae propriique superius ƿ demonstratum est, quid vero proprium distet ab specie, tunc expositum est, cum quid species distaret a proprio dicebatur. Restat igitur una differentia proprii ad accidens, quae superioribus iuncta decem differentias claudit. Accidentis vero ad caetera possent quidem esse quattuor, nisi iam omnes probarentur esse consumptae. Nam quid differat vel genus vel differentia vel species vel proprium ab accidenti, supra monstratum est, nec sunt diversae differentiae accidentis ad caetera quam caeterorum ad accidens. Itaque fit, ut cum sit quinque rerum numerus, si prima assumatur, quattuor fiant differentiae, si secunda, tres, vincanturque secundae rei ad caeteras differentiae a prima ad caeteras una tantum distantia; nam cum prima habuerit quattuor, secunda retinet tres. Tertia vero si sumatur, duas habebit differentias, quae vincantur a primis quattuor differentiis duabus; quarta si sumatur, unam habebit differentiam, quae vincitur a primis quattuor differentiis tribus, quinta vero quoniam nullam omnino habebit differentiam nouam, totis quattuor a prima differentiis superatur. Atque hoc numerorum gradu quidem usque ad denarium numerum tenditur: quattuor, tres, duae, una, ut generis quidem quattuor, differentiae vero tres, speciei duae, proprii una, accidentis nulla sit. Et primae quidem generis comparationes quattuor nouas tenent differentias, secundae vero differentiae comparationes tres nouas tenent; una enim superius adnumerata est, vincitur autem a primis quattuor novis differentiis una tantum. Speciei vero tertia comparatio dnas tantum habet differentias nouas, duas quippe superius adnumeratas agnoscimus, et vincitur a quattuor primis duabus tantum differentiis novis. Proprium vero unam retineat nouam, quoniam tres habet superius adnumeratas, vincaturque a prima novis tribus differentiis, quinti vero accidentis comparationes quoniam nullam retinent nouam differentiam, totis quattuor a primis generis transcendantur. Atque ad hunc modum ex viginti differentiis secundum numerum decem secundum dissimilitudinem contrahuntur. ut tamen has secundum dissimilitudinem differentias non in quinario tantum numero, verum in caeteris notas habere possimus, talis dabitur regula quae plenam differentiarum dissimilitudinem in qualibet numeri pluralitate repeliat. Propositarum enim rerum numero si unum dempseris atque id quod dempto uno relinquitur, in totam summam numeri multiplicaveris, eius quod ex multiplicatione factum est dimidium coaequabitur ei pluralitati quam propositarum rerum differentiae continebunt. Sint igitur res quattuor A B C D; his aufero unum, fiunt tres; has igitur quater multiplico, fient duodecim; horum dimidium ƿ teneo, sex erunt. Tot igitur erunt differentiae inter se rebus quattuor comparatis: A quippe ad B et C et D tres retinet differentias, rursus B ad C et D duas, C vero ad D unam; quae iulletae senarium numerum complent. Atque hanc quidem regulam simpliciter ac sine demonstratione nunc dedisse sufficiat, in Praedicamcntorum vero expositione ratio quoque cur ita sit explicabitur. COMMUNE ERGO DIFFERENTIAE ET SPECIEI EST AEQUALITER PARTICIPARI; HOMINE ENIM AEQUALITER PARTICIPRNT PARTICULARES HOMINES ET RATIONALI DIFFERENTIA. COMMUNE VERO EST ET SEMPER ADESSE HIS QUAE PARTICIPANT; SEMPER ENIM SOCRATES RATIONALIS ET SEMPER SOCRATES HOMO. Dictum est saepius ea quae substantiam formant, nec remissione contrahi nec intentione produci; uni cuique enim id quod est, unum atque idem est. Quodsi differentia specierum substantiam monstret, species vero individuorum, aequaliter utraque ab intentione et remissione seiuncta sunt; quo fit ut aequaliter participentur. Omnes enim individui mortales aeque sunt atque rationales sicut homines. Nam si idem est 'esse' homini quod est 'esse rationale', cum omnes homines aeque sint homines, necesse est ut sint aequaliter rationales. Aliud quoque commune habent quoniam ita differentiae sui participantia non relinquut ut species. Semper enim Socrates rationalis est -- Socrates enim rationabilitate participat -- semper homo est, quia scilicet humanitate participat. Ut igitur differentiae sui participantia non relinqbunt, ita species his quae ea participant, semper adiuncta est. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE QUIDEM EST IN EO QUOD QUALE SIT PRAEDICARI, SPECIEI VERO IN EO QUOD QUID EST; NAM ET SI HOMO VELUT QUALITAS ACCIPIATUR, NON SIMPLICITER ƿ ERIT QUALITAS SED SECUNDUM ID QUOD GENERI ADVENIENTES DIFFERENTIAE EAM CONSTITUERUNT. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM IN PLURIBUS SAEPE SPECIEBUS CONSIDERATUR, QUEMADMODUM QUADRUPES IN PLURIBUS ANIMALIBUS SPECIE DIFFERENTIBUS, SPECIES VERO IN SOLIS HIS QUAE SUB SPECIE SUNT INDIVIDUIS EST. AMPLIUS DIFFERENTIA PRIMA EST AB EA SPECIE QUAE EST SECUNDUM IPSAM; SIMUL ENIM ABLATUM RATIONALE INTERIMIT HOMINEM, HOMO VERO INTEREMPTUS NON AUFERT RATIONALE, CUM SIT DEUS. AMPLIUS DIFFERENTIA QUIDEM COMPONITUR CUM ALIA DIFFERENTIA -- RATIONALE ENIM ET MORTALE COMPOSITUM EST IN SUBSTANTIA HOMINIS -- SPECIES VERO SPECIEI NON COMPONITUR, UT GIGNAT ALIAM ALIQUAM SPECIEM; QUIDAM ENIM EQUUS CUIDAM ASINO PERMISCETUR AD MULI GENERATIONEM, EQUUS AUTEM SIMPLICITER ASINO NUMQUAM CONVENIENS PERFICIET MULUM. Expositis communitatibus quantum ad institutionem pertinebat differentiae et speciei, eorundem nunc dissimilitudines colligit dicens quoniam differunt, quod species in eo quod quid sit praedicatur, differentia vero in eo quod quale sit. Huic differentiae poterat occurri. Nam si humanitas ipsa, quae species est, qualitas quaedam est, cur dicatur species in eo quod quid sit praedicari, cum propter quandam suae naturae ƿ proprietatem quaedam qualitas esse videatur? Huic respondemus, quia differentia solum qualitas est, humanitas vero non est solum qualitas sed tantum qualitate perficitur. Differentia enim superveniens generi speciem fecit; ergo genus quadam differentiae qualitate formatum est, ut procederet in speciem, species vero ipsa, qualis quidem est, secundum differentiam illius quae est pura ac simplex qualitas, qua scilicet perficitur et conformatur, qualitas vero ipsa pura simplexque nullo modo est sed ex qualitatibus effecta substantia. Itaque iure differentia, quae pure ac simpliciter qualitas est, in eo quod quale est sciscitantibus respondetur, species vero in eo quod quid sit, licet ipsa quoque quaedam qualitas sit non simplex sed aliis qualitatibus informata. Rursus illa quoque differentia est, quia plures sub se species differentia continet, species vero tantum individuis praesunt. Rationabilitas enim et hominem claudit et deum, quadrupes equum, bovem, canem et caetera, homo vero solos individuos. Atque in aliis speciebus eadem ratio est. Idcirco enim definitiones quoque secutae sunt, ut differentia vocaretur quod in pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur, species vero quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur. Ideo etiam superioris naturae sunt differentiae, quoniam continentes sunt specierum. Nam si quis auferat differentiam, speciem ƿ quoque sustulerit, ut si quis auferat rationabilitatem, hominem deumque consumpserit, si vero hominem tollat, rationabiiitas nuanet in speciebus reliquis constituta. Est igitur differentiae specieique distantia quod una differentia plures species contmerc potest, species vero nullo modo. Alia rursus est dlfferentia, quoniam ex pluribus differentiis una saepe species iungitut, ex pluribus speciebus nulla speciei substantia copulatur. Iunctis enim differentiis mortali ac rationali factus est homo, iunctis vero speciebus nulla umquam species informatur. Quodsi quis occurrat dicens quoniam permixtus asino equus efficit mulum, non recte dixerit. Individua enim individuis iuncta individua rursus alia fortasse perficiunt, ipseuero equus simpliciter, id est universaliter, et asinus universaliter neque permisceri possunt neque aliquid, si cogitatione misceantur, efficiunt. Constat igitur differentias quidem plurimas ad unius speciei substantiam convenire, species vero in alterius speciei naturam nililo modo posse congruere. DIFFERENTIA VERO ET PROPRIUM COMMUNE QUIDEM HABENT AEQUALITER PARTICIPARI AB HIS QUAE EORUM PARTICIPANT; AEQUALITER ENIM RATIONALIA RATIONALIA SUNT ET RISIBILIA RISIBILIA. ET SEMPER ET OMNI ADESSE COMMUNE ƿ UTRIUSQUE EST. SI ENIM CURTETUR QUI EST BIPES SED AD ID QUOD NATUM EST SEMPER DICITUR; NAM ET RISIBILE IN EO QUOD NATUM EST HABET ID QUOD EST SEMPER SED NON IN EO QUOD SEMPER RIDEAT. Nunc differentiae propriique communia continua ratione persequitur. Commune enim dicit esse proprio ac differentiae quod aequaliter participantur -- aeque enim omnes homines rationabiles sunt, aeque risibiles -- illud, quia substantiam monstrat, istud, quia est aequum proprium speciei et subiectam speciem non relinquit. Aliud etiam his commune subiungit: aequaliter enim semper differentia subiectis adest ut proprium; semper enim homines rationabiles sunt, ut semper quoque risibiles. Sed obici poterat non semper esse bipedem hominem, cum sit bipes differentia, si unius pedis perfectione curtetur. Quam tali modo solvimus quaestionem. Propria et differentiae non in eo quod semper habeantur sed in eo quod semper natutaliter haberi possunt, semper dicuntur adesse subiectis. ƿ Si enim quis curtetur pede, nihil attinet ad naturam, sicut nihil ad detrahendum proprium valet, si homo non rideat. Haec enim non in eo quod assint sed in eo quod per naturam adesse possint, semper adesse dicuntur. Ipsum enim semper non actu esse dicimus sed natura. Numquam enim fieri potest, ut per naturae ipsius proprietatem non semper homo bipes sit, etiamsi potest fieri, ut pede curtetur, etiam si deminuto pede sit natus; in his enim non speciei atque substantiae sed nascenti individuo derogatur. PROPRIUM AUTEM DIFFERENTIAE EST QUONIAM HAEC QUIDEM DE PLURIBUS SPECIEBUS DICITUT SAEPE, UT RATIONALE DE HOMINE ET DE DEO, PROPRIUM vero DE UNA SOLA SPECIE, CUIUS EST PROPRIUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM ILLIS EST CONSEQUENS QUORUM EST DIFFERENTIA SED NON CONVERTITUR, PROPRIA VERO CONVERSIM PRAEDICANTUR QUORUN SUNT PROPRIA, IDCIRCO QUONIAM CONVERTUNTUR. Distat a proprio differentia, quia differentia plurimas species ƿ claudit ac de his omnibus praedicatur, proprium vero uni tantum speciei cui iungitur adaequatur. Rationale enim de homine atque de deo, quadrupes de equo et caeteris animalibus, risibile vero unam tantum tenet speciem, id est hominem. Unde fit ut differentia semper speciem consequatur, species vero differentiam minime. Proprium vero ac species alterius sese vicibus aequa praedicatione comitantur. Sequi vero dicitur, quotiens quolibet prius nominato posterius reliquum convenit nuncupari, ut si dicam 'omnis homo rationabilis est', prius hominem, posterius apposui differentiam; sequitur ergo differentia speciem. At si convertam nomina dicamque 'omnis rationabile homo est', propositio non tenet veritatem; igitur species differentiam nulla ratione comitatur. Proprium vero et species quia converti possunt, mutuo se secuntur: omnis homo risibilis est et omne risibile homo est. DIFFERENTIAE AUTEM ET ACCIDENTI COMMUNE QUIDEM EST DE PLURIBUS DICI, COMMUNE VERO AD EA QUAE SUNT INSEPARABILIA ACCIDENTIA, SEMPER ET OMNIBUS ADESSE; BIPES ENIM SEMPER ADEST OMNIBUS CORUIS ET NIGRUM ESSE SIMILITER. Duo quidem differentiae et aecidentis communia proponit, quorum unum separabilibus et inseparabilibus accidentibus cum differentia commune est, ab altero vero separabile accidens segregatur. Tantum vero inseparabile secundo communi concluditur. Est enim commune differentiae cum omnibus accidentibus de pluribus praedicari; nam et separabilia et inseparabilia accidentia sicut differentia de pluribus speciebus et individuis praedicantur, ut bipes de coruo atque cygno et de his individuis quae sub coruo et cygno sunt, nuncupatur. Item de eodem coruo atque cygno album et nigrum, quae sunt inseparabilia accidentia, praedicantur. Ambulare enim vel stare, dormire ac vigilare de eisdem dicimus, quae sunt accidentia separabilia, reliqua vero communitas ea tantum accidentia videtur includere quae sunt inseparabilia. Nam sicut differentia semper subiectis speciebus adhaerescit, ita etiam inseparabilia accidentia numquam videntur deserere subiectum. ut enim bipes, quod est differentiat numquam coruorum speciem derelinquit, ita nec nigrum, quod accidens inseparabile est. Differentia enim idcirco non relinquit subiectum, quoniam cius substantiam complet ac perficit, accidens vero huiusmodi, quia noo potest separari; neque enim possit esse accidens inseparabile, si subiectum aliquando relinquit. DIFFERUNT AUTEM QUONIAM DIFFERENTIA QUIDEM CONTINET ET NON CONTINETUR -- CONTINET ENIM RATIONABILITAS HOMINEM -- ACCIDENTIA VERO QUODAM QUIDEM MODO CONTINENT EO QUOD IN PLURIBUS SUNT, QUODAM VERO MODO CONTINENTUR EO QUOD NON UNIUS ACCIDENTIS SUSCEPTIBILIA SUNT SUBIECTA SED PLURIMORUM. ET DIFFERENTIA QUIDEM ININTENTIBILIS EST ET IRREMISSIBILIS, ACCIDENTIA VERO MAGIS ET MINUS RECIPIUNT. ET IMPERMIXTAE QUIDEM SUNT CONTRARIAE DIFFERENTIAE, MIXTA VERO CONTRARIA ACCIDENTIA. HUIUSMODI QUIDEM COMMUNIONES ET PROPRIETATES DIFFERENTIAE ET CAETERORUM SUNT, SPECIES VERO QUO QUIDEM DIFFERAT A GENERE ET DIFFERENTIA, DICTUM EST IN EO QUOD DICEBAMUS, QUO GENUS DIFFERRET A CAETERIS ET QUO DIFFERENTIA DIFFERRET A CAETERIS. Post differentiae et accidentis redditas communitates nunc de eorum differentiis tractat. Ac primum quidem talem proponit. Differentia, inquit, omnis speciem continet rationabilitas enim continet hominem, quoniam plus rationabilitas quam species, id est homo, praedicatur: supergressa enim substantiam hominis in deum usque diffunditur. Accidentia vero aliquando quidem continent, aliquando continentur. Continent quidem, quia quodlibet unum accidens speciebus adesse pluribus consuevit, ut album cygno et lapidi? Nigrum coruo, Aethiopi atque hebeno, continentur vero, quoniam plura accidentia uni accidunt speciei, ut videatur illa species plurima accidentia continere. Cum enim Aethiopi accidit ut sit niger, accidit ut sit simus, ut crispus, quae cuncta sunt accidentia Aethiopis, species, quod est homo, omnia quae habet intra se plurima accidentia videtur includere. Huic occurri potest: quoniam differentiae quoque aliquo modo continentur, aliquo modo continent, ut rationabilitas continet hominem -- plus enim quam de homine praedicatur -- continetur quoque ab homine, quia non solum hanc differentiam homo continet, verum etiam mortalem. Respondebimus: omnia quaecumque substantialiter de pluribus praedicantur, ab his de quibus dicuntur non poterunt contineri; quo fit ut differentiae quidem non contineantur ab specie, etsi sint differentiae plures quae speciem forment. Accidentia vero continentur, quoniam accidentia speciei substantiam nulla praedicatione constituunt; nam nec pioprie universalia dicuntur ƿ accidentia, cum de speciebus pluribus dicuntur, differentiae vero maxime. Quae enim quorumlibet universalia sunt, ea necesse est eorum quorum sunt universalia, etiam substantiam continere. Quo fit ut quia differentiae substantiam monstrant, intentione ac remissione careant -- una enim quaeque substantia neque contrahi neque remitti potest -- at vero accidentia quoniam nullam constitutionem substantiae profitentur, intentione crescunt et remissione decrescunt. Illa quoque eorum est differentia, quod differentiae contrariae permisceri, ut ex his fiat aliquid, non queunt, accidentia vero contraria miscentur et quaedam medietas ex alterutra contrarietate coniungitur. Ex rationabili enim et irrationabili nihil in unum iungi potest, ex albo vero et nigro coniunctis fit aliquis medius color. Expositis igitur distantiis differentiae ad caetera restat de specie dicere, cuius quidem differentias ad genus ante collegimus, cum generis ad speciem differentias dicetamus, eiuselem etiam speciei distantias ad differentiam diximus, cum differentiae ad species dissimilitudines monstrabamus. Restat igitur speciem proprii et accidentium communioni coniungere, tum differentia segregare. SPECIEI AUTEM ET PROPRII COMMUNE EST DE SE INVICEM PRAEDICARI; NAM SI HOMO, RISIBILE EST, ET SI RISIBILE, HOMO EST -- RISIBILE VERO QUONIAM SECUNDUM ID QUOD NATUM EST SUMI OPORTET, SAEPE IAM DICTUM EST -- AEQUALITER ENIM SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. Commune, inquit, habent propria atque species ad se ipsa praedicationes habere conversas. Nam sicut species de proprio, ita proprium de specie praedicatur; namque ut est homo risihilis, ita risibile homo est; idque iam saepius dictum esse commemorat. Cuius communitatis rationem subdidit, eam scilicet, quia aequaliter species individuis participantur, sicut eadem propria his quorum sunt propria. Quae ratio non videtur ad conversionem praedicationis accommoda sed potius ad illam aliam similitudinem, quia sicut species aequaliter individuis participantur, ita etiam propria; aeque enim Socrates et Plato homines sunt, sicut etiam risibiles. Itaque tamquam aliam communionem debemus accipere quod est additum: AEQUALITER ENIM SUNT SPECIES HIS QUAE EORUM PARTICIPANT ET PROPRIA QUORUM SUNT PROPRIA. An magis intellegendum est hoc modo dictum, tamquam si diceret 'aequalia enim sunt species et propria'? Nam quia species eorum sunt species quae speciebus ipsis participant. Et propria eorum propria quael propriis participant, proprium atque species aequaliter utrisque sunt, id est neque species superuadit ea quae specie participant, ƿ neque propria superuadunt ea quae propriis participant. Cumque haec propria specierum sint propria, species ac propria aequalia esse necesse est atque invicem praedicari. DIFFERT AUTEM SPECIES A PROPRIO, QUONIAM SPECIES QUIDEM POTEST ET ALIIS GENUS ESSE, PROPRIUM VERO ET ALIARUM SPECIERUM ESSE IMPOSSIBILE EST. ET SPECIES QUIDEM ANTE SUBSISTIT QUAM PROPRIUM, PROPRIUM VERO POSTEA FIT IN SPECIE; OPORTET ENIM HOMINEM ESSE, UT SIT RISIBILE. AMPLIUS SPECIES QUIDEM SEMPER ACTU ADEST SUBIECTO, PROPRIUM vero ALIQUANDO POTESTATE; HOMO ENIM SEMPER ACTU EST SOCRATES, NON VERO SEMPER RIDET, QUAMVIS SIT NATUS SEMPER RISIBILIS. AMPLIUS QUORUM TERMINI DIFFERENTES, ET IPSA SUNT DIFFERENTIA; EST AUTEM SPECIEI QUIDEM SUB GENERE ESSE ET DE PLURIBUS ƿ ET DIFFERENTIBUS NUMERO IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI ET CAETERA HUIUSMODI, PROPRII VERO QUOD EST SOLI ET SEMPER ET OMNI ADESSE. Primam proprii et speciei differentiam dicit quoniam species potest aliquando in alias species derivari, id est potest esse genus, ut animal, cum sit species animati, potest esse hominis genus. Sed nunc non de his speciebus loquitur quae sunt specialissimae, atque hunc confundele videtur errorem, quod cum de his speciebus dicere proposuerit quae essent ultimae, nunc de his quae sunt subalternae et saepe locum generis optineant disserit. Propria vero nullo modo esse genera possunt, quoniam specialissimis adaequantur; quae quoniam genera esse non queunt, nec propria quae sibi sunt aequalia, genera es se permittuntur. Rursus species semper ante subsistit quam proprium -- nisi enim sit homo, risibile esse non poterit -- et cum ista simul sint, tamen substantiae cogitatio praecedit proprii rationem. Omne enim proprium in accidentis genere collocatur, eo vero differt ab accidenti, quia circa omnem solam quamlibet unam speciem vim propriae praedicationis continet. Quodsi priores sunt substantiae quam accidentia, species vero substantia est, proprium vero accidens, non est dubium quin prior sit species. Proprium vero posterius. Discernuntur ƿ etiam species a propriis actus potestatisque natura; species enim actu semper individuis adest, propria vero aliquotiens actu, potestate autem semper. Socrates enim et Plato actu sunt homines, non vero semper actu rident sed risibiles esse dicuntur, quia tametsi non rideant, ridere tamen potenlnt. Natura itaque species et proprium semper subiectis adest sed actu species. Proprium vero non semper actu, velut dictum est. At rursus quoniam definitio substantiam monstrat, quorum diversae sunt definitiones, diversas necesse est esse substantias; speciei vero et proprii diversae sunt definitiones, diversae sunt igitur substantiae. Est autem speciei definitio esse sub genere et de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicari; quam superius frequenter expositam nunc iterare non opus est. Proprium vero non ita: definitur: proprium est quod uni et omni et semper speciei adest. Quodsi definitiones diversae sunt, non est dubium speciem ac proprium secundum naturae suae terminos discrepare. SPECIEI VERO ET ACCIDENTIS COMMUNE QUIDEM EST DE PLURIBUS PRAEDICARI; RARAE VERO ALIAE SUNT COMMUNITATES ƿ PROPTEREA, QUONIAM QUAM PLURIMUM A SE DISTANT ACCIDENS ET ID CUI ACCIDIT. Speciei atque accidentis similitudinem communem dicit de pluribus praedicari; de pluribus enim dicitur species, sicut et accidens. Raras vero dicit esse alias eorum communiones idcirco, quoniam longe diversum est id quod accidit et cui accidit. Cui enim accidit, subiectum est atque suppositum, quod vero accidit, superpositum est atque advenientis naturae. Item quod supponitur substantia est, quod vero velut accidens praedicatur, extrinsecus venit. Quae omnia multam eius quod est subiectum et eius quad est accidens differentiam faciunt. Tamen inveniri etiam aliae possunt speciei et accidentis inseparabilis communitates, ut semper adesse subiectis -- aeque enim homo singulis hominibus semper adest et inseparabilia accidentia singulis individuis praesto sunt -- et quod sicut species de his quae individua continet, aeque de pluribus accidentia individuis praedicantur; nam homo de Socrate et Platone, nigrum vero atque album de pluribus coruis et cygnis quibus accidit nuncupatur. PROPRIA VERO UTRIUSQUE SUNT, SPECIEI QUIDEM IN EO QUOD QUID EST PRAEDICARI DE HIS QUORUM EST SPECIES, ƿ ACCIDENTIS AUTEM IN EO QUOD QUALE QUIDDAM EST VEL ALIQUO MODO SE HABENS; ET UNAMQUAMQUE SUBSTANTIAM UNA QUIDEM SPECIE PARTICIPARE, PLURIBUS AUTEM ACCIDENTIBUS ET SEPARABILIBUS ET INSEPARABILIBUS; ET SPECIES QUIDEM ANTE SUBINTELLEGI QUAM ACCIDENTIA, VEL SI SINT INSEPARABILIA -- OPORTET ENIM ESSE SUBIECTUM, UT ILLI ALIQUID ACCIDAT -- ACCIDENTIA VERO POSTERIORIS GENERIS SUNT ET ADVENTICIAE NATURAE. ET SPECIEI QUIDEM PARTICIPATIO AEQUALITER EST, ACCIDENTIS VERO, VEL SI INSEPARABILE SIT, NON AEQUALITER; AETHIOPS ENIM ALIO AETHIOPE HABEBIT COLOREM VEL INTENTUM AMPLIUS VEL REMISSUM SECUNDUM NIGREDINEM. RESTAT IGITUR DE PROPRIO ET ACCIDENTI DICERE; QUO ENIM PROPRIUM AB SPECIE ET DIFFERENTIA ET GENERE DIFFERT, DICTUM EST. Quod nunc proprium speciei et accidentis se exequi pollicetur, tale proprium intellegendum est quod, ut superius dictum est, ad comparationem dicitur differentium rerum. Species enim in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo quod quale est. Qua differentia non ab accidentibus solis species ƿ discernitur, verum etiam a differentiis ac propriis, nec solum species ab eisdem, verum etiam genus. Praeterea quod species in eo quod quid est praedicatur, accidens vero in eo quod quomodo sese habeat, id quoque commune est cum genere; genus quippe ab accidenti in eo quod quid est et quomodo se habeat praedicatione dividitur. Item ullam quamque substantiam una videtur species continere, ut Socrntem homo, atque ideo Socrati una tantum propinquitas est species hominis. Rursus individuo equo una species equi est proxima, itemque in caeteris; uni cuique enim substantiae una species praeest. At vero uni cuique substantiae non unum accidens iungitur; uni cuique enim substantiae plura semper accidentia superveniunt, ut Socrati quod caluus, quod simus, quod glaucus, quod propenso ventre, et in aliis quidem substantiis de numero accidentium idem convenit. Dehinc semper ante accidentia species intelleguntur. Nisi enim sit homo cui accidat aliquid, accidens esse non poterit, et nisi sit quaelibet substantia cui accidens possit adiungi, accidens non erit. Omnis autem substantia propria specie continetur. Recte igitur prins species, accidentia vero posterius intelleguntur; posterioris enim sunt, ut ait, generis et adventiciae naturae. Nam quae substantiam non informant, recte adventiciae naturae esse dicuntur et posterioris generis; his enim substantiis assunt quae ante differentiis informatae sunt. Rursus quoniam species substantiam ƿ monstrat, substantia vero, ut dictum est, intentione ac remissione caret, speciei participatio intentionem remissionemque non suscipit. Accidens vero vel si inseparabile sit, potest intentionis remissionisque cremento et detrimento variari, ut ipsum inseparabile accidens quod Aethiopibus inest, nigredo. Potest enim quibusdam talis adesse, ut sit fuscis proxima, aliis vero talis, ut sit nigerrima. Restat nunc proprii communiones ac differentias persequi. Sed quo proprium differat a genere vel specie vel differentia superius demon stratum est, cum quid genus vel species vel differentia a proprio distaret ostendimus. Nunc reliqua ad communitatem vel differentiam consideratio est, quid proprium accidentibus aut iungat aut segreget. COMMUNE AUTEM PROPRII ET INSEPARABILIS ACCIDENTIS EST QUOD PRAETER EA NUMQUAM CONSTANT ILLA IN QUIBUS CONSIDERANTUR; QUEMADMODUM ENIM PRAETER RISIBILE NON SUBSISTIT HOMO, ITA NEC PRAETER NIGREDINEM SUBSISTIT ƿ AETHIOPS, ET QUEMADMODUM SEMPER ET OMNI ADEST PROPRIUM, SIC ET INSEPARABILE ACCIDENS. Quoniam proprium semper adest speciebus nec eas ullo modo relinquit quoniamque inseparabile accidens a subiecto non potest segregari, hoc illis inter se videtur esse commune. Quod ea in quibus insunt, praeter propria vel inseparabilia accidentia esse non possint. Inseparabilia vero accidentia comparat, quoniam, ut in specie dictum est, rarissimae sunt speciei atque accidentis similitudines. Quocirca multo magis proprii atque accidentis communitates difficile reperiuntur. Accidens enim in contrarium dividi solet, in separabile accidens atque in inseparabile, quae vero sub genere in contrarium dividuntur, ea nullo alio nisi tantum generis praedicatione participant. Quodsi proprium inseparabile quoddam accidens est, a separabili accidenti plurimum differt, atque ideo nullas proprii et separabilis accidentis similitudines quaerit. Sed quia ipsum proprium certis quibusdam causis ab inseparabilibus accidentibus differt, horum et communitates inveniri possunt et inter se differentiae. Quarum una quidem ea est quam superius exposuimus, secunda nero quoniam sicut proprium semper et omni speciei adest. Ita etiam inseparabile accidens; nam sicut risibile omni homini et semper adest, ita etiam nigredo omni coruo et semper adiuncta est. DIFFERT AUTEM QUONIAM PROPRIUM UNI SOLI SPECIEI ADEST, QUEMADMODUM RISIBILE HOMINI, IN SEPARABILE VERO ACCIDENS, UT NIGRUM, NON SOLUM AETHIOPI SED ET IAM CORNO ADEST ET CARBONI ET HEBENO ET QUIBUSDAM ALIIS. QUARE PROPRIUM CONVERSIM PRAEDICATUR DE EO CUIUS EST PROPRIUM ET EST AEQUALITER, INSEPARABILE AUTEM ACCIDENS CONVERSIM NON PRAEDICATUR. ET PROPRIORUM QUIDEM AEQUALITER EST PARTICIPATIO, ACCIDENTIUM VERO HAEC QUIDEM MAGIS, ILLA VERO MINUS. SUNT QUIDEM ETIAM ALIAE COMMUNITATES VEL PROPRIETATES EORUM QUAE DICTA SUNT SED SUFFICIUNT ETIAM HAEC AD DISCRETIOLLEM EORUM COMMUNITATISQUE TRADITIONEM. Proprii atque accidentis prima quidem differentia est quia proprium semper de una tantum specie dicitur, accidens vero minime sed eius praedicatio in plurimas diversi generis substantias speciesque diffunditur. Risibile enim de nullo alio nisi de homine praedicatur, nigrum vero, quod est inseparabile quibusdam accidens, tam coruo quam Aethiopi, quae diversa sunt specie, tam coruo atque hebeno, quae differunt generibus, non tantum specie, praesto est. Quo fit ut propriis quidem ƿ conversio aequa seruetur, in accidentibus vero minime. Quoniam enim propria in singulis esse possunt atque omnes continent, species converso ordine praedicantur; nam quod risibile est homo est, et quod homo, risibile. Nigrum vero non ita sed ipsum quidem de his praedicari potest quibus inest, illa vero ad huius praedicationem converti retrahique non possunt; nigrum enim de carbone, hebeno, homine atque coruo praedicatur, haec vero de nigro minime. Nam quae plurima continent, de his quae continent praedicari possunt, ea vero quae continentur, de sese continentibus nullo modo nuncupantur. Rursus proprium quidem aequaliter participatur, accidens remissionibus atque intentionibus permutatur. Omnis enim homo aeque risibilis est, Aethiops vero non aequaliter niger est sed, ut dictum est. Alius quidem panlo minus niger, alius vero tacterrimus invenitur. Et de proprii quidem atque accidentis differentiis satis dictum est. Restabat vero accidentis ad caetera communiones proprietatesque explicare sed iam superius adnumeratae sunt, cum generis, differentiae, speciei et proprii ad accidens similitudines ac differentias assignavimus. Fortasse autem his institutus animus et sollertior factus alias praeter eas quas nunc diximus communitates vel differentias quinque rerum quae superius sunt positae reperiet sed ad discretionem atque eorum similitudines comparandas ea fere quae sunt dicta sufficiunt. Nos etiam, quoniam promissi operis portum tenemus atque huius libri seriem primo quidem ab rhetore Victorino, post vero a nobis ƿ Latina oratione conversam gemina expositione patefecimus, hic terminum longo statuimus operi continenti quinque rerum disputationem et ad Praedicamenta servanti. Expeditis his quae ad praedicamenta Aristotelis Porphyrii institutione digesta sunt, hos quoque commentarios in praedicamenta perscribens mediocris styli seriem persecutus, nihil de aliorum quaestionum tractatione permiscui sed dilucidandi moderatione servata, nec angere lectorem brevitate volui nec dilatatione confundere. Quare prius breviter huius operis aperienda videtur intentio, quae est huiusmodi: Rebus praeiacentibus, et in propria principaliter naturae constitutione manentibus, humanum solum genus exstitit, quod rebus nomina posset imponere. Unde factum est ut sigillatim omnia prosecutus hominis animis singulis vocabula rebus aptaret. Et hoc quidem (verbi gratia) corpus hominem vocavit, illud vero lapidem, aliud lignum, aliud vero colorem. Et rursus quicumque ex se alium genuisset, patris vocabulo nuncupavit. Mensuram quoque magnitudinis proprii forma nominis terminavit, ut diceret bipedale esse, aut tripedale, et in aliis eodem modo. Omnibus ergo nominibus ordinatis, ad ipsorum rursus vocabulorum proprietates figurasque reuersus est, et huiusmodi vocabuli formam, quae inflecti casibus possit, 'nomen' vocavit; quae vero temporibus distribui, 'uerbum'. Prima igitur illa fuit nominum positio, per quam vel intellectui subiecta vel sensibus designaret. Secunda consideratio, qua singulas proprietates nominum figurasque perspicerent, ita ut primum nomen sit ipsum rei vocabulum: ut, verbi gratia, cum quaelibet res homo dicatur. Quod autem ipsum vocabulum, id est homo, nomen vocatur, non ad significationem nominis ipsius refertur sed ad figuram, idcirco quod possit casibus inflecti. Ergo prima positio nominis secundum significationem vocabuli facta est, secunda vero secundum figuram: et est prima positio, ut nomina rebus imponerentur, secunda vero ut aliis nominibus ipsa nomina designarentur. Nam cum homo vocabulum sit subiectae substantiae, id quod dicitur homo, nomen est hominis, quod ipsius nominis appellatio est. Dicimus enim, Quale vocabulum est homo? et proprie respondetur: nomen. In hoc igitur opere haec intentio est de primis rerum nominibus et de vocibus res significantibus disputare, non in eo quod secundum aliquam proprietatem figuramque formantur sed in eo quod significantes sunt. Nam quodcumque de substantia vel facere vel pati dicitur, non ita tractatur quasi unum eorum casibus inflecti possit, aliud vero temporibus permutari sed quasi aut hominem, aut equum, aut individuum aliquod, aut speciem genusue significet. Est igitur huius operis intentione vocibus res significantibus in eo quod significantes sunt pertractare. Haec quidem est tempori introductionis, et simplicis expositionis apta sententia, quam nos nunc Porphyrium sequentes, quod videbatur expeditior esse planiorque digessimus. Est vero in mente de intentione, utilitate et ordine, tribus quaestionibus disputare, videlicet in alio commentario quem componere proposui de eisdem categoriis ad doctiores, quarum una est quid praedicamentorum velit intentio, ibique numeratis diversorum sententiis, docebimus cui vostrum quoque accedat arbitrium, quod nemo huic in praesentia sententiae repugnare miretur, cum videat quanto illa sit altior cuius non nimium ingredientium mentes capaces esse potuissent, ad quos mediocriter  imbuendos ista conscripsimus. Afficiendi ergo, et quodammodo disponendi mediocri expositione sunt in ipsi quasi disciplinae huius foribus, quos ad hanc paramus scientiam admittere. Hanc igitur causam mutatae sententiae utriusque operis lector agnoscat, quod illic ad scientiam Pythagoricam perfectamque doctrinam, hic ad simplices introducendorum motus expositionis sit accommodata sententia. Sed nunc ad propositum reuertamur, sitque in praesens praedicamentorum intentio, quae superius est comprehensa, id est, de primis vocibus significantibus prima rerum genera in eo quod significantes sunt disputare: et quoniam res infinitae sunt, infinitas quoque voces quae significant eas esse necesse est: sed infinitorum nulla cognitio est, infinita namque animo comprehendi nequeunt. Quod autem ratione mentis circumdari non potest, nullius scientiae fine concluditur, quare infinitorum scientia nulla est: sed hic Aristoteles non de infinitis rerum significationibus tractat sed decem praedicamenta constituens, ad quae ipsa infinita multitudo significantium vocum referri debeat, terminavit: ut, verbi gratia, cum dico homo, lignum, lapis, equus, animal, plumbum, stannum, argentum, aurum, et alia huiusmodi quae nimirum infinitum sunt, haec omnia ad unum substantiae vocabulum deducantur. Haec namque, etsi qua sunt alia quae certae sunt infinita vocabula unum substantiae nomen includit. Rursus cum dico bipedale, tripedale, sex, quattuor, decem, lineam superficiem, soliditatem, et quaecumque alia ex eodem genere qua infinita sunt, uno quantitas nomine continentur, ut haec omnia sub quantitate ponantur. Rursus cum dico album, vel scientiam, vel bonum, vel malum, vel alia huiusmodi, quaeque in hoc quoquo genere infinita sunt, unum tamen nomen concludens omnia qualitatis occurrit, et de aliis quoque similiter. Rerum ergo diversarum indeterminatam infinitamque multitudinem, decem praedicamentorum paucissima numerositate concludit, ut ea quae infinita sub scientiam cadere non poterant, decem propriis generibus definita scientiae comprehensione claudantur. Ergo decem praedicamenta quae dicimus, infinitarum in vocibus significationum genera sunt sed quoniam omnis vocum significatio de rebus est, quae voce significantur in eo quod significantes sunt, genera rerum necessario significabunt. Ut igitur concludenda sit intentio, dicendum est in hoc libro de primis vocibus, prima rerum genera significantibus in eo quod significantes sunt, dispositum esse tractatum. Sed quoniam de intentione dictum est, breviter huius operis utilitas explicanda est. Nam cum res infinitae infinitis quoque vocibus significarentur, et (ut dictum est) sub scientiam venire non possent, hac definitione, qua decem praedicamentorum divisio facta est, cunctarum rerum et vocum significantium acquirimus disciplinam. Hinc est quod ad logicum tendentibus primus hic liber legendus occurrit, idcirco quod cum omnis logica syllogismorum ratione sit constituta syllogismi vero propositionibus iungantur, propositiones vero sermonibus constent, prima est utilitas quid quisque sermo significet, propriae scientiae definitione cognoscere. Haec quoque nobis de decem praedicamentis inspectio, et in physica Aristotelis doctrina, et in moralis philosophiae 161C cognitione perutilis est, quod per singula currentibus magis liquebit. Quocirca de ordine quoque libri huius eadem ratio est. Nam quoniam res simplices compositis natura priores sunt, quae enim composita sunt, ex simplicibus componuntur. Hic quoniam de simplicibus vocibus res significentibus disputatur, secundum ipsius simplicitatis principalem naturam, primus hic Aristotelis liber inchoantibus addiscitur. Nec illud fere dubium est ad quam partem philosophiae huius libri ducatur intentio, idcirco quoniam qui de significativis vocibus tractat, de rebus quoque est aliquatenus tractaturus. Res etenim et rerum significatio iuncta est sed principalior erit illa disputatio quae de sermonibus est: secundo vero loco illa quae de rerum ratione formatur. Quare quoniam omnis ars logica de oratione est, et in hoc opere de vocibus principaliter tractatur (quamquam enim sit huius libri relatio ad caeteras quoque philosophiae partes) principaliter tamen refertur ad logicam, de cuius quodammodo simplicibus elementis, id est, de sermonibus in eo principaliter disputavi. Aristotelis vero neque ullius alterius liber est, idcirco quod in omni philosophia sibi ipse de huius operis disputatione consentit, et brevitas ipsa atque subtilitas ab Aristolele non discrepat, alioqui interruptum imperfectumque opus edidisse videretur qui de syllogismis scriberet, si aut de propositionibus praetermisisset, aut de primis vocibus tractatum, quibus ipsae propositiones continentur, omitteret. Quanquam exstet 162A alter Aristotelis liber de eisdem disputans, eadem fere continens, cum sit oratione diversus; sed hic proprietatis liber calculum coepit. Archytes etiam duos composuit libros quos *Kathulous logous* inscripsit, quorum in primo haec decem praedicamenta disposuit. Unde posteriores quidam non esse Aristotelem huius divisionis inventorem suspicati sunt, quod Pythagoricus vir eadem conscripsisset, in qua sententia Iamblicus philosophus est non ignobilis, cui non consentit Themistius, neque concedit eum fuisse Archytem, qui Pythagoricus Tarentinusque esset, quique cum Platone aliquantulum vixisset sed peripateticum aliquem Architem, qui nouo operi auctoritatem uetustate nominis conderet. Sed de his alias. Restat inscriptio quae varia fuit. Inscripsere namque 162B alii de rebus, alii de generibus rerum, quos eadem similisque culpa confudit. Namque (ut docuimus) non de rerum generibus, neque de rebus sed de sermonibus rerum genera significantibus in hoc opere tractatus habetur, hoc vero Aristoteles ipse declarat cum dicit: Eorum quae secundum nullam complexionem dicuntur, singulum aut substantiam significat, aut quantitatem. Quod si de rebus divisionem faceret, non dixisset "significat"; res enim significatur, non ipsa significat. Illud quoque maximo argumento est Aristotelem non de rebus sed de sermonibus res significantibus speculari, quod ait: Singulum igitur eorum quae dicta sunt, ipsum quidem secundum se in nulla affirmatione dicitur, horum autem ad se invicem complexione affirmatio fit. Res enim si iungantur, affirmationem nullo modo perficiunt, affirmatio namque in oratione est. Quocirca si praedicamenta iuncta faciunt affirmationem (affirmatio vero nonnisi in oratione est, quae autem iunguntur ut affirmatio fiat, hae sunt rerum significantes voces) praedicamentorum tractatus non de rebus sed de vocibus est; male igitur vel de rebus vel rerum generibus inscripserunt. Annotant alii hunc librum legendum ante Topica, quod nimis absurdum est. Cur enim non magis ante Physica? Quasi vero minor huius sit libri usus in Physicis, cum primi Resolutorii ante Topica legantur, et ante primos Resolutorios Perihermenias liber ad cognitionem veniat inchoantis, cur non magis hunc librum vel ante Perihermenias, vel ante Resolutorios inscripserunt? Quare repudianda est inscriptionis istius quoque ipsa sententia, dicendumque est: Quoniam rerum prima decem genera sunt, necesse fuit decem quoque esse simplices voces, quae de subiectis rebus dicerentur: omne enim quod significat de illa re dicitur quam significat, ergo inscribendus liber est de decem Praedicamentis. Sed forte quis dicat, si de significantibus rerum vocibus ipsa disputatio est, cur de ipsis disputat rebus? Dicendum est, quoniam res semper cum propria significatione coniunctae sunt, et quidquid in res venit, hoc quidem in rerum vocabulis invenitur: quare recte de vocabulis disputans, proprietatem significantium vocum de his quae significabantur, id est de rebus assumpsit. Erit alia quoque fortasse quaestio: Cur enim hic orationem in decem praedicamenta sit partitus, in Perihermenias libro in duas tantum partes divisionem fecit, in verbum videlicet et nomen? Sed hoc interest quod illic figuras vocabulorum dividit, in hoc de significationibus tractat, quare non est sibi ipse contrarius. In Perihermenias enim libro de nomine et verbo considerat quae secundum figuram quamdam vocabuli sunt, quod illud inflecti casibus potest, illud variari per tempora: hic vero non secundum has figuras sed in eo quod voces significantes sunt disputatur: quare diversam in diversis rebus atque tractatibus faciendo divisionem, nulla contrarietate notabitur, neque nunc orationem dividit sed ad multitudinem generum nomina ipsa dispertit: nam quoniam decem rerum genera sunt non secundum orationem sed secundum rerum significationem in decem praedicamenta voces dividit, deque his tractat. Atque ideo necesse fuit quodammodo disputationem de rebus quoque misceri, ita (ut dictum est) ut non aliter nisi ex rebus proprietates in sermonibus apparerent, atque ita non de rebus proprie sed de praedicamentis, id est de ipsis rerum significativis vocibus in eo quod significantes sunt, seriem disputationis orditur. Cur autem, si de praedicamentis disputat, de aequivocis, vel univocis, vel denominativis primus illi tractatus est? Idcirco nimirum quod quaedam semper a disputantibus praemittuntur, quibus positis facilior de sequentibus possit esse doctrina: ut in geometria, prius termini praeponuntur, post theorematum ordo conteritur. Ita quoque hic quidquid ad praedicamentorum disputationem possit esse utile, priusquam ad ipsa predicamenta veniret, exposuit: quare quoniam quae praedicenda erant explicavi, nunc ad ipsius disputationis seriem textumque veniamus. Quid autem aequivoca vel univoca vel denominativa utilitatis habeant, secundum ipsas singulorum rationes definitionesque tractabitur. DE AEQUIVOCIS AEQUIVOCA DICUNTUR QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA, UT ANIMAL HOMO ET QUOD PINGITUR. HORUM ENIM SOLUM NOMEN COMMUNE EST, SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA; SI ENIM QUIS ASSIGNET QUID EST UTRIQUE EORUM QUO SINT ANIMALIA, PROPRIAM ASSIGNABIT UTRIUSQUE RATIONEM. Omnis res aut nomine aut definitione monstratur: namque subiectam rem aut proprio nomine vocamus aut definitione quid sit ostendimus. Ut verbi gratia quamdam substantiam vocamus hominis nomine, et eiusdem definitionem damus dicentes esse hominem animal rationale mortale; ergo quoniam res omnis aut definitione aut nomine declaratur, ex his duobus, nomine scilicet et definitione, diversitates quattuor procreantur. Omnes namque res aut eodem nomine et eadem definitione iunguntur, ut homo et animal, utraque enim animalia dici possunt, et utraque una definitione iunguntur. Est namque animal substantia animata sensibilis, et homo rursus substantia animata sensibilis, et haec vocantur univoca. Alia vero 164A quae neque nominibus neque definitionibus coniunguntur: ut ignis, lapis, color, et quae propriae substantiae natura discreta sunt, haec autem vocantur diversivoca. Alia vero quae diversis nominibus nuncupantur, et uni definitioni designationique subduatur, ut gladius, ensis; haec enim multa sunt nomina sed id quod significant una definitione declaratur, et hoc vocatur multivocum. Alia vero quae nomine quidem congruunt, definitionibus discrepant: ut est homo vivens et homo pictus, nam utrumque vel animalia vel homines nuncupantur. Si vero quis velit picturam hominemque definire, diversas utrisque definitiones aptabit, et haec vocantur aequivoca. Quare quoniam quid sint aequivoca dictum est, singulis Aristotelicae definitionis sententias persequamur. AEQUIVOCA, inquit, dicitur res scilicet, quae per se ipsas aequivocae non sunt, nisi uno nomine praedicentur: quare quoniam ut aequivoca sint, ex communi vocabulo trahunt, recte ait, aequivoca dicuntur. Non enim sunt aequivoca sed dicuntur. Fit autem non solum in nominibus sed etiam in verbis aequivocatio: ut cum dico complector te, et complector a te. In quibus significationibus cum unum nomen sit complector, alia tamen faciendi ratio est, alia patiendi: atque ideo hic quoque aequivocatio est: unum enim nomen quod est complector, diversis faciendi et patiendi definitionibus terminatur. In praepositionibus quoque et in coniunctionibus frequenter aequivocatio reperitur, atque ideo quod ait: QUORUM NOMEN SOLUM COMMUNE EST, 'nomen' accipiendum 164C est omnis rerum per vocem significatio, id est omne vocabulum non proprium solum, aut appellativum, quod ab illud tantum nomen pertinet quod casibus inflecti potest sed ad nomen rerum significationem, qua rebus imposita vocabula praedicamus. SOLUM autem duobus modis dicitur: semel cum aliquid unum esse dicimus, ut si dicamus solus est mundus, id est unus; alio vero modo cum dicimus ad quamdam ab altero divisionem, ut si quis dicat solam me habere tunicam, id est, non etiam togam, ad divisionem videlicet togae. Hic ergo Aristoteles posuit dicens, SOLUM NOMEN COMMUNE EST, quasi hoc voluisset intelligi non etiam definitio, aequivoca enim iunguntur nomine sed definitione dissentiunt. COMMUNE quoque multis dicitur modis. Dicitur commune quod in partes dividitur, et non iam totum commune est sed partes eius propriae singularum, ut domus. Dicitur commune quod id partes non dividitur sed vicissim in usus habentium transit, ut seruus communis vel equus. Dicitur etiam commune quod utendo cuiusque fit proprium, post usum vero in commune remittitur, ut est theatrum, nam cum eo utor, meum est, cum inde discedo, in commune remisi. Dicitur quoque commune quod ipsum quidem nullis divisum partibus, totum uno tempore in singulos venit, ut vox vel sermo ad multorum aures uno eodemque tempore totus atque integer pervenit. Secundum hanc igitur ultimam communis significationem Aristoteles putat aequivocis rebus commune esse vocabulum. Namque in homine picto et in homine vivo, totum in utrisque vocabulum dicitur animalis. SECUNDUM NOMEN VERO SUBSTANTIAE RATIO DIVERSA, hoc hac significatione praemittit, ut si aliter reddantur definitiones quam secundum nomen, statim tota definitio labet ac titubet. Ac primum de definitionis proprietate dicendum est. Illae enim certae definitiones sunt quae convertuntur, ut si dicas, Quid est homo? animal rationale mortale -- verum est. Quid est animal rationale mortale? homo -- hoc quoque verum est. At vero si ita quis dicat, Quid est homo? substantia animata sensibilis -- verum est; quid substantia animata sensibilis? homo -- hoc non modis omnibus verum est, idcirco quod equus quoque est substantia animata sensibilis sed homo non est. Ergo illas constat esse definitiones integras quae converti possunt. Sed hoc fit in iis quae non de communi sed uno tantum, ut cum de hominis nomine redduntur, verbi gratia: Animal est commune nomen, si dixerit quis, Homo est substantia animata sensibilis, procedit: si non convertatur, quia de communi nomine reddita est definitio; sin vero de uno nomine redditur, tunc de ipso nomine facienda est definitio; sic tamen est recta facienda, ut hominis definitio sit animal rationale mortale, non substantia animata sensibilis, illa enim secundum hominis nomen, ista secundum animalis est reddita. Idem etiam in his nominibus quae de duabus rebus communiter praedicantur, si secundum nomen substantiae ratio non reddatur, potest aliquoties fieri, ut ex univocis aequivoca sint, et ex aequivocis univoca; namque homo 165C atque equus cum secundum nomen animalis univoca sint, possunt esse aequivoca, si secundum nomen minime definita sunt. Homo namque et equus communi nomine animalia nuncupatur, si quis ergo hominis reddat definitionem dicens, animal rationale mortale, et equi, animal irrationale hinnibile, diversas reddidit definitiones, et erunt res univocae in aequivocas permutatae. Hoc autem idcirco evenit, quod definitiones non secundum animalis nomen redditae sunt, quod eorum commune vocabulum est sed secundum hominis atque equi. Nam si secundum commune nomen quod est animal definitio redderetur, ita fieret, homo est substantia animata sensibilis, secundum nomen scilicet animalis; et rursus, equus est substantia animata sensibilis, secundum nomen rursus animalis, secundum idem namque animalis vocabulum equus atque homo univoce praedicantur. Rursus ex aequivocis univoca fiunt hoc modo si quis Pyrrhum Achillis filium et Pyrrhum Epiroten dicat esse univocos, idcirco quod uno nomine et Pyrrhi dicantur, et sint animalia rationabilia atque mortalia. Hic secundum nomen hominis reddita definitio, ex aequivocis fecit univoca. Quod si secundum nomen Pyrrhi definitionis ratio iungeretur vel a parentibus vel a patria, diversis eos oporteret definitionibus terminari. Recte igitur additum est, secundum nomen, idcirco quod si aliter facta sit definitio, stabilis esse nou poterit, et frequenter diversos secum ducit errores. RATIO quoque multimodo dicitur. Est enim ratio animae, et est ratio computandi, est ratio natura, ipsa nimirum similitudo nascentium, est ratio qua in definitionibus vel descriptionibus redditur. Et quoniam generalissima genera genere carent, individua vero nulla substantiali differentia discrepant, definitio vero ex genere et differentia trahitur, neque generalissimorum generum, neque individuorum ulla potest definitio reperiri. Subalternorum vero generum, quoniam et differentias habent et genera, definitiones esse possunt. At vero quorum definitiones reddi nequeunt, illa tantum descriptionibus terminantur. Descriptio autem est quae quamlibet rem propria quadam proprietate designat. Sive ergo definitio sit sive descriptio, utraque 166B rationem substantiae designat. Quare cum substantiae rationem dixit, et definitionis et descriptionis nomen inclusit. Aequivocorum alia sunt casu, alia consilio. Casu, ut Alexander Priami filius et Alexander Magnus. Casus enim id egit, ut idem utrique nomen poneretur. Consilio vero, ea quaecumque hominum voluntate sunt posita. Horum autem alia sunt secundum similitudinem, ut homo pictus et homo verus quo nunc utitur Aristoteles exemplo: alia secundum proportionem, ut principium est in numero unitas, in lineis punctus. Et haec aequivocatio secundum proportionem esse dicitur. Alia vero sunt quae ab uno descendunt, ut medicinale ferramentum; medicinale pigmentum, ab una enim medicina aequivocatio ista descendit. Alia quae ad unum referuntur, ut si quis dicat salutaris uectatio est, salutaris esca est, haec scilicet idcirco sunt aequivoca, quod ad salutis unum vocabulum referuntur. Cur autem prius de aequivocis post de univocis tractat? Idcirco quod ipsa decem praedicamenta cum definitionibus diversa sint, uno praedicationis vocabulo nuncupantur; cuncta enim praedicamenta dicimus, ipsa vero praedicamenta quoniam rerum genera sunt, de subiectis rebus univoce praedicantur. Omne enim genus de speciebus propriis univoce dicitur, quare rectius primo de omnibus praedicamentorum communi vocabulo tractat, quasi dehinc quemadmodum singula de speciebus propriis praedicarentur, exprimeret. At si (ut dictum est) non de rebus sed de nominibus libri huius intentio est, cur de aequivocis et non de aequivocatione tractavit? Aequivocae namque res sunt, aequivocatio vero vocabulum. Idcirco, quoniam ipsum nomen nihil in se retinet aequivocationis, nisi diversae sint res de quibus illud vocabulum praedicetur. Quare inde substantiam ipsa aequivocatio trahit, de ipsis dignius inchoatum est. Videtur autem alius esse modus aequivocationis quem Aristoteles omnino non recipit. Nam sicut dicitur pes hominis, ita quoque dicitur pes navis, et pes montis, quae huiusmodi omnia secundum translationem dicuntur. Translatio vero nullius proprietatis est. Quare secundum translationem aequivoca nunquam sunt, nisi propriis et immutabilibus subiectae res vocabulis appellentur. Est autem talis eorum universalis inspectio. Neque enim omnis translatio ab aequivocatione seiungitur sed ea tantum cum ad res habentes positum vocabulum, ab alia iam nominata re nomen ornatus causa transfertur, ut quia iam dicitur quidam auriga, dicitur etiam gubernator, si quis ornatus gratia cum qui gubernator est dicat aurigam, non erit auriga nomen aequivocum, licet diversa, id est, moderatorem currus navisque significet. Sed quoties res quidem vocabulo eget, ab alia vero re quae vocabulum sumit, tunc ista translatio aequivocationis retinet proprietatem, ut ex homine vivo ad picturam nomen hominis dictum est. Et de aequivocis hactenus; nunc de univocis pertractemus. DE UNIVOCIS UNIVOCA VERO DICUNTUR QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET SECUNDUM NOMEN EADEM SUBSTANTIAE RATIO, UT ANIMAL HOMO ATQUE BOS. COMMUNI ENIM NOMINE UTRIQUE ANIMALIA NUNCUPANTUR, ET EST RATIO SUBSTANTIAE EADEM; SI QUIS ENIM ASSIGNET UTRIUSQUE RATIONEM, QUID UTRIQUE SIT QUO SINT ANIMALIA, EANDEM ASSIGNABIT RATIONEM. Post aequivocorum definitionem ad univocorum terminum transitum fecit, in quibus nihil aliud discrepat, nisi quod aequivoca definitione disiuncta sunt, univoca ipso quoque termino coniunguntur sed caetera omnia quaecumque in aequivocorum definitione dicta sunt, in hac quoque univocorum designatione conveniant. Nam quemadmodum in aequivocis secundum nomen aequivocarum rerum definitio fiebat, ita quoque in univocis secundum nomen substantiae ratio assignabitur. Sunt autem univoca aut genera speciebus, aut species speciebus, genera speciebus, ut animal atque homo. Nam cum hominis genus sit animal, dicitur homo animal, ergo et animal et homo animalia nuncupantur. Secundum igitur commune nomen si utrosque definias, dicis animal esse substantiam animatam atque sensibilem, hominem quoque secundum id quod animal est, si substantiam animatam sensibilem dixeris, nihil in eo falsitatis invenies. Species vero speciebus univocae sunt, quae uno atque eodem genere continentur, ut homo, equus atque bos, his commune genus est animal, et communi nomine animalia nominantur. Ergo secundum nomen unum quod illis commune est animalis, una illius ratio definitionis aptabitur, omnia enim sunt substantiae animatae atque sensibiles. Secundum igitur posteriorem univocationis designationem Aristoteles qua speciebus species univocae sunt, ut homo et bos, quae sub eodem sunt genere, sumpsit exemplum. DENOMINATIVA VERO DICUNTUR QUAECUMQUE AB ALIQUO, SOLO DIFFERENTIA CASU, SECUNDUM NOMEN HABENT APPELLATIONEM, UT A GRAMMATICA GRAMMATICUS ET A FORTITUDINE FORTIS. Haec quoque definitio nihil habet obscurum. Casus enim antiqui nominabant aliquas nominum transfigurationes, ut a iustitia iustus, a fortitudine fortis, etc. Haec igitur nominis transfiguratio, casus ab antiquioribus vocabatur. Atque ideo quotiescumque aliqua res alia participat, ipsa participatione sicut rem, ita quoque nomen adipiscitur, ut quidam homo, quia iustitia participat et rem quoque inde trahit et nomen, dicitur enim iustus. Ergo denominativa vocantur quaecumque a principali nomine solo casu, id est sola transfiguratione discrepant. Nam cum sit nomen principale iustitia, ab hoc transfiguratum nomen iustus efficitur. Ergo illa sunt denominativa quaecumque a principali nomine solo casus id est sola nominis discrepantia, secundum principale nomen habent appellationem. Tria sunt autem necessaria ut denominativa vocabula constituantur: prius ut re participet, post ut nomine, postremo ut sit quaedam nominis transfiguratio, ut cum aliquis dicitur a fortitudine fortis, est enim quaedam fortitudo qua fortis ille participet, habet quoque nominis participationem, fortis enim dicitur. At vero est quaedam transfiguratio, fortis enim et fortitudo non eisdem syllabis terminantur. Si quid vero sit quod re non participet, neque nomine participare potest. Quare quaecumque re non participant, denominativa esse non possunt. Rursus quoque quae re quidem participant, nomine vero minime, ipsa quoque a denominativorum natura discreta sunt, ut si quis, cum sit virtus, virtute ipsa participet, nullo cum alio nomine nisi sapientem vocamus. Sed virtus et sapientia nomine ipso disiuncta sunt, hic ergo re quidem participat, nomine vero minime. Quare sapiens a virtute denominatus esse non dicitur sed a sapientia, qua scilicet et participat, et nomine iungitur, et transfiguratione diversus est; rursus si transfiguratio non sit, ut quaedam mulier musica, participat quidem ipsa musicae disciplina, et dicitur musica. Hae igitur appellatio non est denominativa sed aequivoca, uno enim nomine et disciplina et ipsa mulier musica dicitur. Quoniam ergo similis terminus syllabarum est, et nomen simile, et nulla transfiguratio, denominativa esse non poterunt, quare quidquid denominativa esse non poterunt, quare quidquid denominativum esse dicitur, illud et re participabit et nomine, et aliqua transfiguratione vocabuli discrepabit. Haec igitur quae ad praedicamenta necessaria credidit, praemisit. Multivoca vero et diversivoca respuit, quod ad praesentem tractatum utilia non putavit. Breviter tamen utraque definienda sunt. Multivoca sunt quorum plura nomina una definitio est, ut est scutum, clypeus: his enim plura nomina sed una definitio est; et Marcus Porcius Cato, his enim tot nominibus res una subiecta est. Diversifica sunt quorum neque nomen idem est, neque eadem definitio, ut homo, color, et quid. quid omnino a se et nominis nuncupatione et definitionis ratione discretum est. EORUM QUAE DICUNTUR ALIA QUIDEM SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR, ALIA VERO SINE COMPLEXIONE. ET EA QUAE SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR SUNT UT HOMO CURRIT, HOMO VINCIT; EA VERO QUAE SINE COMPLEXIONE, UT HOMO, BOS, CURRIT, VINCIT. Postquam de coniunctione definitionum atque nominum quantum ad praesens attinebat opus, sufficienter exposuit quoniam de primis nominibus prima rerum genera significantibus divisio facienda est, non nomine sed genere discrepantibus, nunc ostendit quid sit sine complexione cuiuslibet vocabuli facta prolatio. Sine complexione enim dicuntur quaecumque secundum simplicem sonum nominis proferuntur, ut homo, equus: his enim extra nihil adiunctum est. Secundum complexionem dicuntur quaecumque aliqua coniunctione copulantur, ut aut Socrates aut Plato, vel quaecumque secundum aliquod accidens coniunguntur. Nam quia, verbi gratia, in Socratem venit ambulatio, dicimus: Socrates ambulat, et est prolatio ista secundum complexionem, idcirco quia cum dico: Socrates ambulat. Socratem sum cum ambulatione complexus. Quod autem ait: EORUM QUAE DICUNTUR, nihil aliud demonstrare vult nisi de primis rerum vocabulis huius libelli disposuisse tractatum. Rerum enim vocabula sunt quae dicuntur, ipsa enim proprie nominamus. EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM DICUNTUR, IN SUBIECTO VERO NULLO SUNT, UT HOMO DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR ALIQUO HOMINE, IN SUBIECTO VERO NULLO EST. Hic Aristoteles sermonum omnium multitudinem in paruissimam colligit divisionem. Nam quod rerum vocabulam decem praedicamenta distribuit, maior hac divisione non potest inveniri, nihil enim esse poterit quod huic divisioni undecimum adiici queat. Omnis enim res aut substantia est, aut quantitas, aut qualitas, aut ad aliquid, aut facere, aut pati, aut quando, aut ubi, aut habere, aut situs; quocirca tot erunt etiam sermones qui ista significent, et haec est maxima divisio, cui ultra nihil possit adiungi: paruissima vero est quae fit in quattuor, in substantiam et accidens, et universale et particulare. Omnis enim res aut substantia est, aut accidens, aut universalis, aut particularis. Sicut ergo decem superioribus nihil addi poterat, ita ex his quattuor nihil demi. Nam neque minor ulla divisio his quattuor fieri potest, nec maior quam si denario limite praedicamenta claudantur. Cum autem in his quattuor divisio facta est, paucis exponam. Prima quidem rerum est omnium divisio in substantiam atque accidens. Sed quoniam substantia proferri non potest nisi aut universaliter aut particulariter intelligatur: nam cum dico homo, rem dixi universalem, idcirco quod nomen hoc de multis individuis praedicatur: cum vero dico Socrates vel Plato, rem dixi particularem; quoniam Socrates de nudo subiecto dicitur: et accidens quoque eodem modo; nam cum dixero scientiam, rem protuli universalem, idcirco quod scientia et de grammatica et de rhetorica, et de aliis omnibus sub se positis praedicatur; si vero dixero Platonis scientiam, quoniam omne accidens quod individua venit individuum fit, particularem scientiam dico, namque Platonis scientia, sicut ipse Plato, particularis est: igitur quoniam neque substantia neque accidens ullo modo proferri potest, nisi in suo nomine aut universalitatis vim, aut particularitatis induat, recte in quattuor divisio facta est, ut si omnis res aut substantia aut accidens, et horum aut universali, aut particularis. Ex his igitur quattuor fiunt complexiones. Nam cum venerit universalitas in substantiam, fit universalis substantia, ut est homo vel animal. Universale autem est quod aptum est de pluribus praedicari, particulare vero quod de nullo subiecto praedicatur. Ergo est una complexio universalitatis et substantiae, ut sit substantia universalis. Si vero particularis substantiae copulatur, fit substantia particularis, ut est Socrates vel Plato, et quidquid in substantia individuum reperitur. At cum miscetur universalitas accidenti, fit accidens universale, ut scientia, quae cum sit accidens, et praeter animam cui accidit esse non possit, tamen universalis est, quod de subiecta grammatica vel aliis speciebus praedicari potest. Cum vero particularitas accidenti coniungitur, fit accidens particulare, ut Platonis vel Aristotelis scientia. Fiunt enim quattuor complexiones, substantia universalis, substantia particularis, accidens universale, accidens particulare. Ut autem accidens in substantiae naturam transeat, vel substantia in accidens, fieri nullo modo potest, et accidens quidem venit in substantiam sed non ut substantia fiat: neque enim quoniam color, quod est accidens venit in substantiam, idcirco color iam substantia est. Nec quoniam substantia suscipit colorem idcirco color iam substantia fit. Quare neque substantia in accidentis, neque accidens in substantiis naturam transit. At vero nec particularitas, nec universalitas in se transeunt. Namque universalitas potest de particularitate praedicari, ut animal de Socrate vel Platone, et particularitas suscipiet universalitatis praedicationem sed non ut universalitas sit particularitas, nec rursus ut quod particulare est universalitas fiat. Ergo quattuor complexiones, universalem substantiam, universale accidens, particularem substantiam, particulare accidens Aristoteles disponere cupiens, non eorum nomina sed descriptiones apposuit. Et quoniam generalissimorum generum definitiones non poterat invenire, descriptionibus usus est his, id substantiam esse dicens quod in subiecto non esset, accidens vero quod in subiecto esset. Omne namque accidens in subiecto est, ut colore in corpore, scientia in anima, et subiectam habet substantiam omne accidens. Si quis enim substantiam tollat, accidens non erit. Quare substantia locus quidam est ubi accidentis valeat natura consistere. Ipsa vero substantia per se constat, atque ideo dicitur substantia, nec ullo subiecto alio nititur sed cunctis ipsa substantia est. Alioqui si substantia in ullo subiecto esse posset, esset accidens. Omne enim accidens in subiecto est, et quidquid in subiecto est, illud est accidens. Quod si substantia esset in aliquo subiecto, continuo fieret accidens sed substantia accidens esse non potest, sicut supra docuimus. Quare quoniam accidens in subiecto est, substantia vero accidens non est, substantia in subiecto non est. Universalitatis vero descriptio est: de subiecto praedicari. Omnis namque universalitas de subiectis particularibus praedicatur, nam quoniam universale est animal, vel homo, de Socrates praedicatur et Platone. Dicitur enim Socrates animal atque homo. Et quoniam universale est accidens scientia, dicitur de subiecta grammatica, grammatica enim scientia est. Particularitas vero quoniam ipsa est rerum ultima et nihil est illi subiectum, de nullo subiecto praedicatur; nam quoniam universalitas de subiecto praedicatur, particularitas vero universalitas non est. Particularitas de subiecto non praedicabitur. Ubi enim res discrepant, et definitio discrepabit; ita quoque in his, nam quoniam discrepat substantia et accidens, definitiones quoque eorum discrepabunt. Ut quoniam est accidens in subiecto, erit substantia non in subiecto. Et quoniam universalitas de subiecto predicatur, particularitas autem ab universalitate discrepat, de subiecto non praedicatur. Has igitur huiusmodi descriptiones Aristoteles ita permiscuit dicens: EORUM QUAE SUNT ALIA DE SUBIECTO QUODAM DICUNTUR, IN SUBIECTO VERO NULLO SUNT, volens scilicet universalem substantiam demonstrare. Nam quod dixit DE SUBIECTO DICUNTUR, universale est, quod vero ait IN SUBIECTO NULLO SUNT, substantia: ergo quod ait quaedam DE SUBIECTO dici, IN SUBIECTO VERO NULLO esse, universalem substantiam demonstrare contendit: ut enim saepius dictum est, quod de subiecto dicitur, universale est; quod in nullo subiecto est, substantia. Haec iuncta, id est de subiecto quodam dici, et in subiecto nullo esse, universalem substantiam demonstrant. Post universalem substantiam particulare accidens posuit dicens:ALIA AUTEM IN SUBIECTO QUIDEM SUNT, DE SUBIECTO VERO NULLO DICUNTUR (IN SUBIECTO AUTEM ESSE DICO QUOD, CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST), UT QUAEDAM GRAMMATICA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO NULLO DICITUR, ET QUODDAM ALBUM IN SUBIECTO EST IN CORPORE (OMNIS ENIM COLOR IN CORPORE EST). Nam quod ait IN SUBIECTO SUNT accidens monstrat, quod vero addidit DE SUBIECTO AUTEM NULLO DICUNTUR particulare. Accidens enim in subiecto est, particularitas de nullo subiecto praedicatur. Ergo quaecumque res ipsa quidem in subiecto est sed si de nullo subiecto praedicatur, accidens est particulare, UT est QUAEDAM GRAMMATICA, id est Aristarchi, vel alicuius hominis individua grammatica: illa enim quoniam individui hominis, ipsa quoque facta est individua et particularis; ergo quoniam QUAEDAM GRAMMATICA IN ANIMA EST accidens est, et quoniam DE NULLO SUBIECTO praedicatur, particularis est; quemadmodum enim ipse Aristarchus de nullo subiecto dicitur, ita quoque eius grammatica de nullo subiecto praedicatur. Non autem dicit quod ipsa grammatica particularis est sed quod quaedam grammatica, id est alicuius hominis individui grammatica, quam scilicet homo particularis propria retinet cognitione. Et quoniam incorporale accidens posuit quod animae accideret, id est grammaticam, quae esset in anima; ponit quoque aliud exemplum corporale; ait enim ET QUODDAM ALBUM IN SUBIECTO EST <IN> CORPORE (OMNIS ENIM COLOR EST IN CORPORE): hic quoque non omne album dicit esse particulare sed quod ad individuum corpus album venit. Probatur quoque particulare album in subiecto esse hoc modo, nam color quod genus est albi vel cuiusdam albi in corpore est, et est in subiecto. Quare cuius genus in subiecto est, ipsum quoque in subiecto est. Omnes enim species vel individua propria genere continentur, et eiusdem habent naturam. Quoniam vero "esse in aliquo" multis dicitur modis, qui velit Aristoteles ostendere esse in subiecto, paucis absolvam. Dicitur enim esse aliquid in aliquo novem modis, dicimus enim esse aliquid in loco, ut in foro vel in theatro. Dicimus quoque esse in aliquo, ut in aliquo uase, ut triticum in modio. Dicitur etiam esse in aliquo velut pars in toto, ut manus in corpore. Dicitur esse in aliquo velut totum in partibus, ut corpus in omnibus suis partibus. Rursus velut in genere species, ut in animali homo, vel genus in speciebus suis. Dicimus quoque esse in aliquo, velut aliquid in fine esse, ut quoniam bonae vitae finis beatitudo est, si quis sit beatus; in fine est, scilicet bonae vitae. Dicimus quoque esse in aliquo ut in quolibet potente, ut in imperatore esse regimen civitatis. Dicimus quoque velut formam in materia, ut similitudinem Achillis in aere vel in marmore. Novem igitur modis aliquid in aliquo esse dicitur, ut in loco, ut in uase, ut pars in toto, ut totum in partibus, ut in genere species, ut in speciebus genus, ut in fine, ut in imperatores, ut in materia forma. Horum igitur Aristoteles tria sola commemorat sed duo in unum coniuncta, aliud separatum. Ait enim: IN SUBIECTO AUTEM ESSE DICO QUOD, CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST. Sensus autem talis est: Hoc, inquit, dico esse accidens quod sit in subiecto, id est quod ita sit in altero, ut pars eius 172D non sit et sine aliquo subiecto esse non possit, ut, verbi gratia, color cum in corpore nulla pars corporis est, et si color a corpore separatur, color nusquam est. Omnis enim color in solo corpore est. Ergo illud est accidens quod semper ita in subiecto est altero ut eius pars non sit, ut cum ab eo in quo est separatur ad nihilum redigatur, ut per se sine alterius subiecto esse non possit. Quod autem ait ut NON SIT SICUT ALIQUA PARS, ab ea scilicet significationem aliquo consistendi dividere voluit, secundum quam partes in toto esse dicimus, non enim tale est subiectum, ut eius accidens pars sit. Quod vero dicit IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST, ab ea scilicet significatione divisit, quae est esse aliquid in uase vel in loco; quod enim in uase vel in loco est a uase vel loco poterit separari, ut triticum quod in modio est potest a modio segregari, et homo a theatro discedere: accidens vero ab eo in quo est segregari non potest. Quare solas tres posuit significationes, id est secundum quam in uase, vel in loco dicitur esse, et secundum quam pars in toto est. Sed ut in uase et ut in loco una sententia distribuit dicens IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST. Sed fortasse quis dicat non esse definitionem veram, illa esse in subiecto quae sic sint in alio non ut sint partes, et sine eo in quo sint esse non possint, Socrates enim vel homo quilibet cum accidens non sit, tamen semper in loco est et sine loco esse non potest. Quibus respondendum est quod Socrates loca poterit permutare, et esse praeter locum in quo fuit: et postremo si intelligentia capiamus, per se subsistit, accidentia vero per se ipsa non constant. Sed si quis quoque obiiciat posse locum accidentia permutare, malum namque si in manu teneatur, manus mali odore completur, adeo odor quod est accidens, in aliud subiectum transire potest. Sed non hoc ait Aristoteles, quoniam mutare accidens locum non potest, nec ita dixit impossibile esse sine eo in quo erat sed sine eo in quo est, hoc enim significat mutare quidem posse locum sed sine aliquo subiecto non posse subsistere. Quare recta est atque integra definitio eius quod in subiecto est, quod ita sint in altero non sicut quaedam pars, et impossibile sit esse sine eo in quo est, secundum autem illam significationem dictum est secundum quam formam in materia esse dicimus. Namque forma, si in materia sit, per seipsam nulla ratione consistit. Postquam igitur particulare accidens quid esset ostendit dicens, quod in subiecto est et de subiecto non praedicatur, et in subiecto consistentis rei definitionem reddit dicens: QUOD CUM IN ALIQUO SIT NON SICUT QUAEDAM PARS, IMPOSSIBILE EST ESSE SINE EO IN QUO EST. Ad universale accidens continenti disputatione reuertitur quod definit hoc modo: ALIA VERO ET DE SUBIECTO DICUNTUR ET IN SUBIECTO SUNT, UT SCIENTIA IN SUBIECTO QUIDEM EST IN ANIMA, DE SUBIECTO VERO DICITUR DE GRAMMATICA; ALIA VERO NEQUE IN SUBIECTO SUNT NEQUE DE SUBIECTO DICUNTUR, UT ALIQUIS HOMO VEL ALIQUIS EQUUS; NIHIL ENIM HORUM NEQUE IN SUBIECTO EST NEQUE DE SUBIECTO DICITUR. Namque post eius rei quae in subiecto est definitionem, et post particularis accidentis exempla, ad universale accidens transitum fecit, inquiens alia esse quae in subiecto sint, et de subiecto praedicentur, quod scilicet accidens universale significet: nam quoniam de subiecto dicitur, universale est, quoniam in subiecto est, accidens; in subiecto ergo esse, et de subiecto praedicari, universale accidens monstrat. Huius quoque complexionis convenientia proponit exempla: ait enim SCIENTIAM IN SUBIECTO ESSE IN ANIMA, nam nisi anima sit in qua scit, scientia nulla est, idcirco quod scientia actus est animae, nam ea quae sunt inanimata nihil sciunt. Hinc sequitur substantiae particularis propositio, quam scilicet ita declarat, quod NEQUE IN SUBIECTO sit, NEQUE DE SUBIECTO praedicetur, nam quod in subiecto non est, substantia est, et quod de subiecto non praedicatur, particularitas. Utraque igitur res de subiecto non praedicari, et in subiecto non esse, particularis est substantia. Res igitur quattuor cum propria complexione non secundum propria nomina sed secundum 174A proprias rationes definitionesque contexuit. Nam pro substantia universali posuit quod in subiecto non est et de subiecto praedicatur; pro accidenti particulari dixit quod in subiecto est et de subiecto non praedicatur. Accidens vero universale per hoc designavit quod ait quod et in subiecto est et de subiecto dicitur; pro particulari substantia interposuit quod nec in subiecto est nec de subiecto praedicatur. Simpliciter autem quae sunt individua et numero singularia de subiecto nullo dicuntur; in subiecto autem nihil ea prohibet esse, quaedam enim grammatica in subiecto est. Omnis particularitas aut substantia erit aut accidens; nam cum dico Socratem, individuam et particulare in significavi substantiam; cum dico quamdam grammaticam, individuum et particulare accidens dixi. Individua autem sunt quae neque in alias species dividi possunt, neque in alia individua. Nam quemadmodum animal dividitur in species, hominem atque equum, homo autem in singulos homines, id est in Socratem et Platonem et caeteros, sic Plato et Socrates non dividuntur in alios. Atque hoc idem de accidentibus dici convenit: nam quemadmodum scientia dividitur in species, grammaticam et rhetoricam; grammatica vero ipsa in particulares grammaticas, quas scilicet particulares homines norunt, sic ipsa particularis grammatica in particulares grammaticas non secatur. Ergo individua sunt quaecumque sunt numero singularia, et in nullas alias multitudines secundum species vel secundum individua dividuntur. Omne individuum, quoniam particulare est, de subiecto non praedicatur; omne autem quod de subiecto non praedicatur, aut substantia erit, ut Plato, aut accidens, ut quaedam grammatica. Ex his ergo particularibus substantia scilicet atque accidenti quae de subiecto non praedicantur, substantia quidem nec in subiecto est, accidens vero in subiecto est. Ita illa individua quae substantiae sunt in subiecto esse non poterunt, alia vero individua quae secundum accidentis naturam dicuntur, illa in subiecto esse nihil prohibet. Atque hoc est quod ait: SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO SINGULARIA NULLO DE SUBIECTO DICUNTUR, IN SUBIECTO AUTEM NIHIL EA PROHIBET ESSE; QUAEDAM ENIM GRAMMATICA IN SUBIECTO EST. Hoc enim maluit demonstrare, et accidentibus substantiis particularibus hoc esse commune, quod de subiecto non praedicantur. Hoc enim dixit: SIMPLICITER AUTEM QUAE SUNT INDIVIDUA ET NUMERO SINGULARIA, DE NULLO SUBIECTO DICUNTUR -- subaudiendo scilicet sive substantiae sint sive accidentia sed non omnia individua non sunt in subiecto. Individua enim accidentia IN SUBIECTO ESSE NIHIL PROHIBET. QUAEDAM ENIM GRAMMATICA, cum sit individua et de subiecto non praedicetur, tamen IN SUBIECTO EST, id est in anima. Sed ut congregatim dicatur, sensus huiusmodi est, omnia quidem quaecumque sunt individua, de subiecto quidem nullo dicuntur sed non omnia non sunt in subiecto. Nam cum particularis substantia in subiecto non sit, ut Plato, particulare tamen accidens in subiecto est, ut quaedam grammatica in anima. Illud quoque magna attentione notandum est, quis sit huius ordo propositi. Nam cum sint quattuor complexiones, factae ex quattuor rebus, quarum duae natura discrepant, ut substantia et accidens, duae quantitate, ut particularitas et universalitas coniunctis compositisque his quattuor omnibus, dissentientem lateribus dispositionem fecit. Posuit enim prius substantiam universalem dicens, quod in subiecto non est et de subiecto dicitur. Post hanc primam positionem totis discrepantem rebus, rem subdit, id est accidens particulare, quod in subiecto esset, et de subiecto non praedicatur. Nam cum accidens dixit, a substantia disgregavit, quod particulare addidit ab universali disiunxit. Rursus ex alio latere disposuit in divisione accidens universale, dicens quod in subiecto est, et de subiecto praedicatur; et ultimo substantiam particularem contrariam superiori accidenti dixit, quod neque in subiecto est, neque de subiecto praedicatur substantia, particularitem universalitati accidentis opponens. Sed ut planius quod dicimus sit, figuram descriptionemque subiecimus in qua superius latus substantia accidentique notavimus, reliquum particularitatis et universalitatis titulo inscripsimus, Arisiotelicam complexionem angulariter et per latera designantes. QUANDO ALTERUM DE ALTERO PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, QUAECUMQUE DE EO QUOD PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR, UT HOMO DE QUODAM HOMINE PRAEDICATUR, ANIMAL VERO DE HOMINE, ERGO ET DE QUODAM HOMINE ANIMAL PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM HOMO ET HOMO EST ET ANIMAL. Cum superius de his quae in subiecto sunt (id est de accidentibus) loqueretur, definitionem constitutae in subiecto rei, et praeter subiectum nullo modo permanentis, in media tractatione disposuit, dicens illud esse quod neque pars esset alicuius nec sine subiecto posset ullo modo permanere. Patefacto igitur quid sit esse in subiecto, nunc quid sit praedicari de subiecto declarat. Duobus enim modis praedicationes fiunt, uno secundum accidens, alio de subiecto: de homine namque praedicatur album, dicitur enim homo albus, rursus de eodem homine praedicatur animal, dicitur enim homo animal. Sed illa prior praedicatio, quae est. Homo albus est secundum accidens est: namque accidens quod est album de subiecto homine praedicatur sed non in eo quod quid sit, nam cum album sit accidens, homo substantia, accidens de substantia in eo quod quid sit praedicari non potest; ergo ista praedicatio secundum accidens dicitur. De subiecto vero praedicari est, quoties altera res de altera in ipsa substantia praedicatur, ut animal de homine; nam quoniam animal et substantia est et genus hominis, idcirco in eo quod quid sit de homine praedicatur. Quare illa sola de subiecto praedicari dicuntur quaecumque in cuiuslibet rei substantia et in definitione ponuntur; ergo quotiescumque huiusmodi fuerit praedicatio, ut ALTERUM DE ALTERO UT DE SUBIECTO PRAEDICETUR, id est ut de eius substantia dicatur, ut animal de homine, hanc proprietatem evenire necesse est, ut si DE EO QUOD PRAEDICATUR, quidpiam UT DE SUBIECTO, id est eius substantia, praedicetur necessario idem hoc quod de praedicato dicitur, dicatur etiam de praedicati subiecto, ut homo praedicatur quidem de Socrate in eo quod quid sit. Interrogantibus enim quid sit Socrates "hominem" respondemus. At vero de ipso homine in eo quod quid sit animal dicitur, in substantia enim hominis animal praedicatur, atque ita fit ut animal quidem de homine, homo vero de Socrate in eo quod quid sit ut de subiecto praedicentur. Ergo quoniam ista consequentia, et animal de Socrate in eo quod quid sit praedicabitur. Potest enim dici interrogantibus quid est Socrates "animal". Ergo manifestum est quod si qua res de alia ut de subiecto praedicetur, ut homo de Socrate, de eadem vero re quae praedicatur, de homine scilicet, alia rursus superior ut de subiecto praedicetur, ut animal necesse erit et hanc eamdem de subiecto eius de quo ipsum dicitur praedicari, ut animal de Socrate, Socrates namque subiectus est homini, de quo animal praedicatur. Ergo constat huiusmodi definitio quae dicit: quoties ALTERUM DE ALTERO PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, si quid sit quod DE EO QUOD PRAEDICATUR in eo quod quid sit dici possit, hoc idem ipsum de eo quod prius subiectum erat possit praedicari. Sed fortasse quisquam dicat minime verum esse quod dictum est, nam cum homo de Socrate praedicetur (Socrates enim homo est), de homine vero species (homo enim species est), Socrates species esse non dicitur. Et rursus cum animal de homine praedicetur, de animali vero genus (animal enim genus est), homo generis vocabulo caret: non enim dicitur homo esse genus, homo enim genus non est sed tantum species. His dicendum est quod minus adverterint illam esse definitionem de subiecto praedicationis, quae in eo quod quid sit unumquodque et in eius substantia praedicaretur, nunc autem species de homine non in eo quod quid sit praedicatur. Neque enim si quis hominis definitionem reddat speciem nominavit sed designativam nomen est tantum, utrum de pluribus speciei differentibus praedicatur hoc nomen quod est homo, an certe tantum de solis individuis. Nam quoniam de individuis solis homo praedicetur, idcirco species dicitur, et quoniam de specie differentibus animal dicitur, idcirco animal genus vocamus. Et sunt quodammodo nominum nomina. Quare neque genus de animali, neque species de homine, in eo quod quid sit praedicatur sed tantum designant, quomodo homo et animal de subiectis (ut dictum est) propriis praedicentur. Ergo non est mirandum si ad eorum subiectum quae de subiecto dicuntur eius predicati quod de subiecto non dicitur praedicatio perveniri non potest. DIVERSORUM GENERUM ET NON SUBALTERNATIM POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET DIFFERENTIAE SUNT, UT ANIMALIS ET SCIENTIAE; ANIMALIS QUIDEM DIFFERENTIAE SUNT UT GRESSIBILE ET VOLATILE ET BIPES, SCIENTIAE VERO NULLA HARUM EST; NEQUE ENIM SCIENTIA AB SCIENTIA DIFFERT IN EO QUOD BIPES EST. Cum multis modis genus dicatur, solum quod nunc tractari convenit assumamus. Dicitur enim genus quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut animal praedicatur de homine, et de equo, et de cane, et de bove, et de caeteris, quae omnia specie ipsa a se discrete sunt. Species vero est quod de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, ut homo praedicatur de Catone, Socrate, Platone, Virgilio, Cicerone, et de singulis hominibus, qui specie ipsa non differunt sed tantum a se numero distant. Differentia vero est quae sub eodem genere positas species propria qualitate disterminat, nam cum equus et homo quantum ad genus unum sint (uterque enim animal est), differentia rationalis et irrationalis utrosque disiungit ac discernit. Qualitate enim quadam rationabilitatis et irrationabilitatis uterque a propriae substantiae definitione dissentiunt. Ergo differentia est quae de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur. Namque haec ipsa differentia quae est irrationabilitas de multis specie differentibus praedicatur, ut de cygno, et equo, et pisce, quae omnia a se cum specie ipsa dissentient, irrationabilitatis tamen qualitate coniuncta sunt. Sed non in omnibus differentia de pluribus specie differentibus praedicatur. Sunt enim quaedam quae non nisi de una specie praedicantur, ut gravitas de sola terra, levitas de solo igne, proprie dicitur. At vero nec species semper de pluribus numero differentibus praedicatur; mundi enim species de uno solo mundo dicitur, et phoenicis species de una tantum phoenice sed idcirco ita definita est quod frequentius differentia de pluribus specie differentibus praedicatur quam de uno. Eodemque modo et species frequentius invenitur de pluribus numero differentibus praedicari, quam de una tantum re ac singulari. His ita positis, sunt quaedam genera, quae generalissima nuncupantur, quibus genus inveniri non possit, sunt species quibus alias subiectas species nullus inveniet. Inter utraque autem sunt alia quae subalterna genera nominantur, quae superiorum quidem species sunt, posteriorum vero genera ut substantia genus quidem est generalissimum, ut eius genus inveniri non possit, homo vero species est, ut eius species alia reperiri non valeat. Animal vero ad substantiam quidem species est, ad hominem vero genus. Decem igitur praedicamentorum significatio nihil aliud demonstrat nisi rerum decem genera quae generalissima nominamus. Ergo quoties genera generalissima discrepant, eorum quoque species discrepabunt; et quoties species discrepant, quoniam differentiis disiunguntur atque informantur, differentiae quoque diversarum specierum discrepabunt. Animal namque et scientia, quoniam est animal substantia, scientia vero ad aliquid, quoniamque genus animalis est substantia, et genus scientiae est ad aliquid, omni substantiae a se ratione discreta sunt, et differentiae quoque scientiae atque animalis omnibus qualitatibus disiunguntur. Est namque differentia animalis, bipes et quadrupes, animal enim ab alio animali differt, quod hoc quidem bipes sit, ut homo vel avis, illud vero quadrupes, ut equus atque bos; illud vero multipes, ut formica vel apis. Sed scientia differentiis huiusmodi non habet, neque enim scientia a scientia differt in eo quod bipes est. Quare constat quoties diversa sunt genera, specierum quoque differentiis esse discretas. At hoc est quod ait: DIVERSORUM GENERUM ET NON SUBALTERNATIM POSITORUM DIVERSAE SECUNDUM SPECIEM ET DIFFERENTIAE SUNT. Et hoc exempli adiectione firmavit dicens: ANIMALIS ET SCIENTIAE diversas esse differentias, nam cum sit bipes animalis differentia, scientiae non est. Et hoc quidem de diversis generibus dictum est, id est quae subalterna non sunt. Quod si subalterna sunt genera, nihil prohibet alias easdem esse differentias, alias diversas, ut avis est species animalis, et rursus est genus corui, et est subalternum genus, avis. Sed animalis differentiae sunt rationalis atque irrationalis, avis vero differentia rationalis non est. Nulla enim avis ab alia avi differt, quod sit rationalis; ergo hoc loco non sunt eaedem subalternorum generum differentiae. Si quis vero has generis, id est animalis differentias dicat, ut animalium alia sunt quae pascantur herbis, alia quae seminibus, alia quae carnibus, hae differentiae conveniunt in subalterno genere, videlicet in avi; namque avium sunt aliae quae seminibus uescuntur, aliae quae herbis, aliae quae carnibus, ut uultur et miluus; ergo in subalternis generibus nihil prohibet easdem esse differentias, et iterum discrepare; hoc autem idcirco evenit, quia quae de praedicato dicuntur possunt de subiecto praedicari. Quare quod dicitur de genere potest etiam dici de specie, atque hoc est quod ait: SUBALTERNORUM VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS; SUPERIORA ENIM DE INFERIORIBUS GENERIBUS PRAEDICANTUR. Sed cum diceret nihil prohibet easdem esse differentias, hoc quodam modo voluit de monstrare esse quasdam easdem differentias, alias vero posse esse diversas, cui rem contrariam intulisse videtur, cum dicit: QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM ERUNT ETIAM SUBIECTI. Nam cum illic dixisset, nihil prohibet esse easdem differentias generum subalternorum, hic omnes easdem esse declarat, dicit enim: QUAECUMQUE FUERINT DIFFERENTIAE PRAEDICATI, EASDEM ETIAM SUBIECTI esse; atque haec res plures maximis illigavit 179A erroribus, ut emendandum crederent locum non ut esset ita. QUARE QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FVERINT, EAEDEM ERUNT ETIAM SUBIECTI sed ut hoc modo. Quare quaecumque subiecti differentiae fuerint, eaedem erunt etiam praedicati. Sed hoc adiiciendum est, neque enim fieri potest ut in rem superiorem praedicatio posterioris redundet. Nam cum dicitur "quaecumque subiecti fuerint differentiae eaedem erunt praedicati", hoc scilicet significatur, ut praedicatio subiecti redeat in praedicatum -- quod fieri non potest. Sed dicendum est quod sunt aliae differentiae quae dicuntur completivae praedicati et cuiuslibet illius speciem informantes, quae communi nomine 'specificae' nominantur. Nam cum dico animatum et sensibile, si substantiae coniungantur, definitionem et speciem mox animalis efficiunt. Animal enim est substantia animata sensibilis, atque hae differentiae dicuntur specificae et completivae. Sunt autem aliae quae ipsae quidem nihil complent nec ullam speciem reddunt sed genus tantum dividunt, ut rationale et irrationale: haec enim dividunt genus, id est animal; animal enim rationali differentia irrationalique dividitur. Ergo illae quae sunt generis divisivae differentiae possunt aliquoties eaedem esse, possunt aliquoties non eaedem, ut animalis, quoniam divisibilis est differentia quae est rationale, potest eam non habere avis, quae est subalternum genus. Et rursus easdem divisibiles habere potest, ut easdem quas superius diximus. Nam cum dividant animal differentiae, quae carnibus, herbis, et seminibus uescuntur, eaedem possunt esse subalterni generis, id est avis; ergo hae divisibiles 179C possunt etiam esse diversae. Illae vero quae completivae et specificae sunt, aliquando non praedicari de subiecto non possunt. Ut quoniam animal habet differentias completivas et suae speciei effectivas, sensibile scilicet et animatum, hae differentiae de homine quod est subiectum animalis non praedicari non possunt. Omnes enim specificae differentiae de his praedicantur quorum speciem complent, ut de animali praedicatur sensibile et animatum, et hoc ut de subiecto. In substantia enim animalis utraque praedicantur sed animal praedicatur de homine ut de subiecto; necesse est ergo animatum atque sensibile de homine praedicari ut de subiecto. Hoc est enim quod superius praemisit cum diceret: QUANDO ALTERUM DE ALTERO 179D PRAEDICATUR UT DE SUBIECTO, QUAECUMQUE DE EO QUOD PRAEDICATUR DICUNTUR, OMNIA ETIAM DE SUBIECTO DICENTUR. Atque hoc in omnibus generibus recte constat intelligi. Ergo divisibiles differentiae possunt aliquando cum subiectis esse communes, aliquando diversae specificae vero et completivae cum subiectis communes non esse non possunt. Quod ergo Aristoteles ait: SUBALTERNORUM VERO GENERUM NIHIL PROHIBET EASDEM ESSE DIFFERENTIAS divisibiles differentias easdem esse nihil prohibere putandum est, quae possunt esse etiam diversae. Quod ait vero: QUAECUMQUE PRAEDICATI DIFFERENTIAE FUERINT, EAEDEM ERUNT ETIAM SUBIECTI de specificis intelligendum est: quae cum speciem cuiuslibet informent, et de eo quod informant, ut de subiecto, praedicentur, ad quodcumque ut subiecto praedicatur illud quod ipsae differentiae informant, de eo ut de subiecto praedicabuntur, et de eo non praedicari non possunt. Quare nihil est in huiusmodi theoremate quod ullo modo debeat emendari. EORUM QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT AUT QUANTITATEM AUT QUALITATEM AUT AD ALIQUID AUT UBI AUT QUANDO AUT SITUM AUT HABITUM AUT FACERE AUT PATI. EST AUTEM SUBSTANTIA QUIDEM UT FIGURATIM DICATUR UT HOMO, EQUUS; QUANTITAS UT BICUBITUM, TRICUBITUM; QUALITAS UT ALBUM; AD ALIQUID UT DUPLUM, MAIUS; UBI VERO UT IN LYCIO; QUANDO AUTEM UT HERI; SITUS VERO UT SEDET, IACET; HABERE AUTEM UT CALCIATUS, ARMATUS; FACERE VERO UT SECARE, URERE; PATI VERO UT SECARI, URI. Post paruissimam in quattuor enumerationem, id est in substantiam, accidens, universalitatem, particularitatem, nunc est de partitione maxima tractaturus, quae fit in decem; hac enim enumeratione maior non potest inveniri, neque enim undecim praedicamenta poterunt inveniri nec ultra decem ullo modo aliquod genus recte excogitari potest; quare 180C facit huiusmodi enumerationem sed non divisionem. Divisio namque fere est generis in species; praedicamentorum vero, quoniam genus unum non habent, divisio esse non potest sed potius enumeratio est. Sunt vero quidam qui contendunt recte enumerationem non esse dispositam, alii namque ut superuacua quaedam demunt, alii ut curto operi addunt, alii vero permutant, quos nimirum non recte sentire alio nobis opere dicendum est; ait autem: EORUM QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR. Adeo non de rebus sed de vocibus tractaturus est, ut diceret DICUNTUR. Res enim proprie non dicuntur sed voces: et quod addidit, SINGULUM AUT SUBSTANTIAM SIGNIFICAT, late patet eum de vocibus disputare; non enim res sed voces significant, significantur autem res. Sine complexione vero dicuntur (ut dictum est) quaecumque 1singulari intellectu et voce proferuntur: secundum complexionem vero quaecumque aliqua coniunctione vel accidentis copulatione miscentur. Sed quid ex iis quae secundum nullam complexionem dicuntur efficitur, ipse demonstrat cum dicit: SINGULA IGITUR EORUM QUAE DICTA SUNT IPSA QUIDEM SECUNDUM SE IN NULLA AFFIRMATIONE DICUNTUR, HORUM AUTEM AD SE INVICEM COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT. VIDETUR ENIM OMNIS AFFIRMATIO VEL FALSA ESSE VEL VERA; EORUM AUTEM QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR NEQUE VERUM QUICQUAM NEQUE FALSUM EST, UT HOMO, ALBUM, CURRIT. Significat ergo et hic ea quae sine ulla complexione dicuntur affirmationis vim non obtinere. Si quis enim dicat homo, vel album, vel decem, vel quidlibet simplici modo, in eo neque verum aliquid inveniet neque falsum sed omnis affirmatio vel vera vel falsa est. Igitur universaliter pronuntiat praedicamenta affirmationis ratione penitus non teneri: sed haec eadem si cum quadam complexione coniuncta sint fieri propositiones necesse est, quae in se verum falsumue contineant, Sed non omnis complexio propositionem facit, nec si dixero: Socrates in foro idcirco iam propositio est; sed si quis dicat: Socrates in foro ambulat tunc fit propositio, quae aut affirmatio est aut negatio. Affirmationes autem et negationes, vel verae videntur esse vel falsae: atque ideo quodcumque neque verum neque falsum est, illud propositio non est. Ergo quadam complexione ex iis quae secundum nullam complexionem dicuntur veritas falsitasque conficitur. Affirmationem autem solam nunc Aristoteles interposuit, idcirco quod omnis affirmatio prior est; hoc enim negatio tollit quod affirmatio ante constituit: prius quidem secundum significationem sed non secundum genus, quod alio liquebit loco. Maxime autem monstrat Aristoteles se non de rebus sed de vocibus tractaturum, quod ait: HORUM AUTEM AD SE INVICEM COMPLEXIONE AFFIRMATIO FIT; non enim rerum complexione fit affirmatio vel negatio sed sermonum, nec in rebus est veritas et falsitas sed in intellectibus atque opinionibus, et post haec in vocibus atque sermonibus. Atque haec hactenus. Secundum complexionem ergo sunt quaecumque ex integris compositis fiunt, ut: Socrates ambulat nam et Socrates et ambulat uterque integer sermo est, et coniunctus affirmationem facit. At vero si quis dicat flammiger, vel multisonus, vel fluctivagus, secundum complexionem non erit ista prolatio, idcirco quod ex neutris integris factum est. Horum autem decem praedicamentorum definitiones inveneri non possunt, idcirco quod ea quae significant generalissima sunt. Substantia enim et quantitas, et qualitas nulli unquam generi videntur esse subiecta. Quare quoniam definitio omnis a genere ducitur, genus quod alii generi subiectum non est a definitione relinquitur. Sed nunc quidem omnium praedicamentorum convenientia dixit exempla, post vero latius de unoquoque tractabitur: et quoniam definitio inveniri nulla potest, quibusdam proprietatibus informantur, quare quoniam de his dictum est plene, ad tractatum substantiae transeamus.SUBSTANTIA AUTEM EST, QUAE PROPRIE ET PRINCIPALITER ET MAXIME DICITUR, QUAE NEQUE DE SUBIECTO PRAEDICATUR NEQUE IN SUBIECTO EST, UT ALIQUI HOMO VEL ALIQUI EQUUS. SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN QUIBUS SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET HARUM SPECIERUM GENERA; UT ALIQUIS HOMO IN SPECIE QUIDEM EST IN HOMINE, GENUS VERO SPECIEI ANIMAL EST; SECUNDAE ERGO SUBSTANTIAE DICUNTUR, UT EST HOMO ATQUE ANIMAL. Quaeritur cur praedicamentorum tractatum a substantiis inchoaverit, nam quoniam omnis res aut in subiecto est aut in subiecto non est, quidquid in subiecto est eget subiecto, quoniam in propriis natura non potest consistere: et quoniam rebus omnibus substantia subiecta est, nihil eorum quae sunt in subiecto praeter substantiam poterit permanere. Sed prior illa natura est sine qua alia esse non possunt, quocirca prior naturaliter videtur esse substantia; non absurde igitur in disputatione quod prius per naturam fuit, prius etiam sumpsit, et definitionem quidem substantiae proferre non potuit sed post exemplum superius datum descriptionem quamdam profert qua quid sit ipsa substantia queamus agnoscere: hoc est autem non esse in subiecto, substantia enim in subiecto non est. Facit autem quamdam substantiarum divisionem cum dicit alias primas esse substantias alias secundas: primas vocans individuas, secundas vero individuarum species et genera: Ergo cum primis secundisque subtantiis commune sit 'non esse in subiecto', additum primis substantiis 'de subiectis non praedicari' primas substantias a secundis substantiis separat; substantia enim individua, in eo quod est substantia, in subiecto non est: quod autem individua est, de subiecto non praedicatur. Sunt ergo primae substantiae quae neque in subiecto sunt neque de subiecto dicuntur, ut est Socrates vel Plato. Hi enim quoniam substantiae sunt, in subiecto nullo sunt. Quoniam vero particulares individuique sunt, de nullo subiecto praedicantur. SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE sunt quibus commune est cum primis substantiis quod in subiecto non sunt, proprium vero quod de subiecto praedicantur, quae secundae substantiae sunt universales, ut est homo atque animal; homo namque et animal in nullo sunt subiecto sed de subiecto aliquo praedicantur. Sunt igitur primae substantiae particulares, secundae universales. PROPRIE autem substantias individuas dicit quod hominem quidem idem ipsam speciem, et animal, quod est genus, non nisi ex individuorum cognitione colligimus. Quare quoniam ex singulorum sensibus generalitas intellecta est, merito "propriae substantiae" individua et singula nominantur. PRINCIPALITER vero individuae substantiae dictae sunt quod omne accidens prius in individua, post vero in secundas substantias venit. Nam quoniam Aristarchus grammaticus est, homo vero est Aristarchus, est homo grammaticus: ita prius omne accidens in individuum venit, secundo vero loco etiam in species generaque substantiarum accidens illud venire putabitur. Recte igitur quod prius subiectum est, hoc substantia PRINCIPALITER appellatur. MAXIME autem substantia prima dicitur, idcirco quod quae maxime subiecta est rebus aliis, ea maxime substantia dici potest: maxime autem subiecta est prima substantia; omnia enim de primis substantiis dicuntur, aut primis substantiis insunt, ut genera et species: namque et genera et species praedicantur de propriis individuis, ut animal atque homo praedicantur de Socrate, id est secundae substantiae de primis: sin vero sint accidentia, in primis substantiis principaliter sunt. Quare quoniam et accidentia in primis substantiis principaliter sunt, et secundae substantiae de primis substantiis praedicantur, primae substantiae secundis substantiis accidentibusque subiectae sunt. Quare quoniam istae maxime subiectae sunt et accidentium subsistentiae et secundarum substantiarum praedicationi, idcirco maxime substantiae nuncupantur. Dicit autem non omnis species neque omnia genera secundas esse substantias sed eas tantum quae primas substantias continerent, UT EST HOMO ATQUE ANIMAL; homo namque continet Socratem, id est aliquam individuam substantiam. Animal vero continet individuum speciemque, id est hominem et aliquem hominem. Quare genera et species quae de primis substantiis praedicantur, ipsas secundas putat esse substantias; hoc autem hoc modo ait: SECUNDAE AUTEM SUBSTANTIAE DICUNTUR, IN QUIBUS SPECIEBUS ILLAE QUAE PRINCIPALITER SUBSTANTIAE DICUNTUR INSUNT, HAE ET HARUM SPECIERUM GENERA et inde convenientia ponit exempla, ac si diceret: Non omnia genera neque omnes substantias dico sed eas tantum species IN QUIBUS individua illa, id est primae substantiae sunt, ET HARUM SPECIERUM, id est quae continent primas substantias, GENERA. Hoc autem idcirco dictum videtur, ne quis colorem quod genus est, vel album quod est species, secundas pPomba esse substantias, ista enim primas sub se non continent. Sed dicat aliquis quemadmodum primae poterunt esse substantiae individuae, cum omne quod prius est sublatum auferat id quod est posterius, posterioribus vero sublatis priora non pereant? Homo namque si pereat, Socrates quoque sit continuo periturus; si vero Socrates interierit, homo continuo non peribit. Si igitur, sublatis generibus et speciebus, individua perimuntur, sublatis individuis, generas, speciesque permanent, magis primas substantias species et genera nominari dignum fuit. Sed hoc modo individuorum natura non recte accipitur. Neque enim cuncta individuorum substantia in uno Socrate est, vel quolibet uno homine sed in omnibus singulis. Genera namque et species non ex uno singulo intellecta sunt sed ex omnibus singulis individuis, mentis ratione concepta. Semper etiam quae sensibus propinquiora sunt; ea etiam proxime nuncupanda vocabulis arbitramur. Qui enim primus hominem dixit, non illum qui ex singulis hominibus conficitur, concepit sed animo quemdam singularem atque individuum cui hominis nomen imponeret. Ergo sublatis singulis hominibus homo non remanet, et sublatis singulis animalibus animal interibit. Quocirca quoniam in hoc libro de vocabulorum significatione tractatus habetur, ea quibus vocabula prius posita sunt, merito primas substantias nuncupavit: prius autem illis vocabula sunt indita quae prius sub sensibus cadere potuerunt. Sensibus vero obiiciuntur prima individua, merito igitur ea prima in divisione posuit. Eodem quoque modo illa quaestio solvitur quae dicit: Cum naturaliter primae intellectibiles sint substantiae, ut Deus et animus, cur non has primas substantias nuncupaverit? Quoniam hic de nominibus tractatus habetur, nomina autem primo illis indita sunt quae principaliter sensibus fuere subiecta, posteriora vero in nominibus ponendis putantur quaecumque ad intelligibilem pertinent incorporalitatem; quare quoniam in hoc opera principaliter de nominibus tractatus est, de individuis vero substantiis quae primae sensibus subiacent prima sunt dicta vocabula in opere quo de vocabulis tractabatur, merito individuae sensibilesque substantiae primae substantiae sunt positae. Cum autem tres substantia sint, materia, species, et quae ex utriusque conficitur undique composita et compacta substantia, hic neque de sola specie, neque de sola materia sed de utrisque mistis compositisque proposuit. Partes autem substantiae incompositae et simplices sunt ex quibus ipsa substantia conficitur, species et materia, quas post per transitum nominat, dicens substantiarum partes et ipsa esse substantias. Atque haec hactenus. Nunc expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT QUONIAM EORUM QUAE DE SUBIECTO DICUNTUR NECESSE EST ET NOMEN ET RATIONEM DE SUBIECTO PRAEDICARI, UT HOMO DE SUBIECTO DICITUR ALIQUO HOMINE, ET PRAEDICATUR NOMEN; NAMQUE HOMINEM DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABIS. RATIO QUOQUE HOMINIS DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABITUR; QUIDAM ENIM HOMO ET HOMO EST. QUARE ET NOMEN ET RATIO PRAEDICABITUR DE SUBIECTO. EORUM VERO QUAE SUNT IN SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO PRAEDICATUR. IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, RATIONEM VERO IMPOSSIBILE EST; UT ALBUM, CUM IN SUBIECTO SIT CORPORE, PRAEDICATUR DE SUBIECTO (DICITUR ENIM CORPUS ALBUM), RATIO VERO ALBI NUMQUAM DE CORPORE PRAEDICABITUR. CAETERA VERO OMNIA AUT DE SUBIECTIS DICUNTUR PRIMIS SUBSTANTIIS AUT IN EISDEM SUBIECTIS SUNT. HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX HIS QUAE SINGULATIM PROFERUNTUR; UT ANIMAL DE HOMINE PRAEDICATUR, QUARE ET DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABITUR; NAM SI DE NULLO ALIQUORUM HOMINUM DICERETUR, NEC DE IPSO HOMINE PRAEDICARETUR OMNINO. RURSUS COLOR IN CORPORE EST; ERGO ET IN ALIQUO CORPORE; NAM SI IN NULLO ESSET CORPORUM SINGULORUM, NEC IN CORPORE ESSET OMNINO. QVOCIRCA CAETERA OMNIA AUT DE SUBIECTIS PRIMIS SUBSTANTIIS DICUNTUR AUT IN SUBIECTIS IPSIS SUNT. SI ERGO PRIMAE SUBSTANTIAE NON SUNT, IMPOSSIBILE EST ALIQUID ESSE CAETERORUM. Omnia quaecumque dicta sunt vel in subiecto sunt vel de subiecto praedicantur sed non omnia quaecumque in subiecto sunt de subiectis propriis dicuntur, namque quod in subiecto aliquo est de proprio subiecto praedicatur: ut album de corpore praedicatur, dicitur enim corpus album. Sed quoniam secundae substantiae primarum substantiarum vel species vel genera sunt (Socratis enim species homo est et animal genus), genus autem de subiectis speciebus et individuis univoce praedicatur, secundae substantiae de subiectis speciebus univoca praedicatione dicuntur. Convenit namque primarum et secundarum substantiarum si sit una facta definitio. Namque anima et homo et Socrates una definitione iunguntur, quod substantiae animatae atque sensibiles sunt. Igitur secundae substantiae ita de subiectis praedicantur propriis, id est de primis substantiis, ut univoce praedicentur. Illorum vero quae sunt in subiecto aliquoties quidem neque nomen ipsum de subiecto dicitur. Nam virtus in anima est sed virtus de animo minime praedicatur; aliquoties autem denominative dicitur, ut grammatica, quoniam est in homine, denominative grammaticus a grammatica dicitur. Saepe autem ipsum nomen de subiecto praedicatur, ut quoniam album est in corpore, corpus album dicitur. Sed sive nomen non praedicetur, sive denominative dicatur sive proprio nomine praedicatio sit, definitio eius quod est in subiecto de proprio subiecto nunquam praedicabitur -- ut album, quoniam est in subiecto corpore, praedicatur quidem albi nomen de corpore, definitio vero albi ad corpus nullo modo dicitur, album namque vel corpus una ratione utraque definiri non possunt. Amplius si omne accidens in subiecto est, et substantia subiectum est, differt ab accidente substantia, differt etiam definitio substantiae atque accidentis, quod eadem definitio subiecti et eius quod est in subiecto esse non potest. Atque hoc est quod ait: EORUM VERO QUAE SUNT IN SUBIECTO, IN PLURIBUS QUIDEM NEQUE NOMEN DE SUBIECTO NEQUE RATIO PRAEDICATUR, ut virtus in anima. Addidit quoque: IN QUIBUSDAM VERO NOMEN QUIDEM NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, et in aliis quidem denominative, in aliis vero recto nomine fit praedicatio. De secundis vero substantiis semper ad primas substantias praedicatio pervenit. Nam si quidam homo et homo est et animal et caetera, una definitio animalis et ad hominem et ad quemdam hominem convenienter aptabitur. Magis tamen esse substantias individuas et particulares ipse significantius monstrat. Nam cum omnis res aut substantia sit aut accidens, et substantiarum aliae sint primae aliae secundae, fit trina partitio, ita ut omnis res aut accidens sit aut secunda substantia aut prima. Horum autem ut sub descriptione divisio fiat, hoc modo dicimus: Omnis res aut in subiecto est aut in subiecto non est; eorum quae in subiecto sunt alia praedicantur de subiecto alia minime; eorum quae in subiecto non sunt alia de nullo subiecto praedicantur alia vero praedicantur. Ergo omnis res aut in subiecto est aut in subiecto non est. Aut in subiecto est et de subiecto praedicatur, aut in subiecto est et de nullo subiecto praedicatur, aut in subiecto non est et de subiecto praedicatur, aut in subiecto non est et de nullo subiecto praedicatur. His igitur sumptis, si primas substantias separemus, remanent secundae substantiae atque accidentia. Sed secundae substantiae sunt quae in subiecto non sunt et de subiecto praedicantur. Ergo esse suum, nisi in hoc quod de aliquo praedicantur, non retinent. Praedicantur autem secundae substantiae de primis, ergo ut secundae substantia sint, praedicatio de primis substantiis causa est. Non enim essent secundae substantiae, nisi de primis substantiis, praedicarentur, illa vero quae in subiecto sunt penitus consistere non valerent, nisi fundamenti quodammodo loco primis substantiis niterentur. Ergo omnia quaecumque sunt praeter primas substantias, aut secundo substantiae erunt aut accidentia. Sed secundae substantiae de primis substantiis praedicantur, accidentia in primis substantiis sunt. Quocirca omnia aut de primis substantiis praedicantur, ut secundae substantiae, aut in primis substantiis sunt, ut accidentia, quod Aristoteles proposuit hoc modo: Alia autem omnis aut de subiectis dicuntur principalibus substantiis, aut in subiectis eisdem sunt, hic quoque verissima sumit exempla. Ait enim: Si accidens in nullo subiecto corpore esset, nec in corpore esset omnino. Nam si in nullo singulorum, in nullo generaliter esse diceretur. Et item animal nisi de singularibus atque individuis hominibus praedicaretur, nec de homine praedicaretur omnino. Quare quoniam idcirco praedicantur secundae substantiae, quoniam sunt primae, et idcirco sunt aliquid accidentia, quoniam eisdem primae substantiae subiectae sunt, si primo substantia, non sint, neque quae de his praedicantur mansura sunt, neque quae in his subiectis permanebunt. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM MAGIS EST SPECIES SUBSTANTIA QUAM GENUS; PROPINQUIOR ENIM EST PRIMAE SUBSTANTIAE. SI ENIM QUIS PRIMAM SUBSTANTIAM QUID SIT ASSIGNET, EVIDENTIUS ET CONVENIENTIUS ASSIGNABIT SPECIEM PROFERENS QUAM GENUS, UT DE ALIQUO HOMINE EVIDENTIUS ASSIGNABIT HOMINEM PROFERENS QUAM ANIMAL;  ILLUD ENIM MAGIS EST PROPRIUM ALICUIUS HOMINIS, HOC VERO COMMUNIUS. ET ALIQUAM ARBOREM ASSIGNANS, EVIDENTIUS ASSIGNABIT ARBOREM NOMINANS QUAM PLANTAM. Constat individuas substantias primas et maxime et proprie esse substantias. Secundae vero substantiae, id est genera et species, sicut non aequaliter a prima substantia distant, ita non aequaliter substantiae sunt; nam quoniam propinquior est species primae substantiae quam genus, idcirco magis est substantia species quam proprium genus, ut homo propinquior est Socrati quam animal, atque ideo magis est homo substantia. Animal vero quamquam et ipsum substantia sit, minus tamen homine; hoc autem idcirco evenit, quod in omni definitione convenientis species ad primam substantiam dicitur, quam genus. Nam si quid sit Socrates aliquis velit ostendere, propinquius substantiam Socratis proprietatemque monstrabit, si dixerit eum esse hominem, quam si animal. Quod enim animal est Socrates, commune est cum caeteris qui homines non sunt, id est cum equo atque bove. Quod vero homo est, cum nullo alio est commune, nisi cum his qui sub eadem specie hominis continentur. Quocirca propinquior erit ad significationem designatio, cum individuo species redditur, quam ei generis vocabulum praedicetur. Rursus si quamlibet individnam arborem designare aliquis volens, arborem dicat, propinquius designabit quid sit id quod definivit, quam si plantam nominet: planta autem genus est arboris; praedicatur enim planta et de iis quae arbores non sunt, ut de caulibus atque lactucis: quare constat species magis esse substantias, eo quod sint primis et maxime substantiis propinquiores. Et quod in eo quod quid sit, assignata species convenientibus et evidentius assignet, genus vero longinquius atque communius. AMPLIUS PRIMAE SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD ALIIS OMNIBUS SUBIACENT ET OMNIA CAETERA VEL DE IPSIS PRAEDICANTUR VEL IN IPSIS SUNT, IDCIRCO MAXIME SUBSTANTIAE DICUNTUR. QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SE HABENT, ITA SESE SPECIES HABET AD GENUS; SUBIACET ENIM SPECIES GENERI; ETENIM GENERA DE SPECIEBUS PRAEDICANTUR, SPECIES VERO DE GENERIBUS NON CONVERTUNTUR. QVOCIRCA ETIAM EX HIS SPECIES GENERE MAGIS EST SUBSTANTIA. Magis esse substantias species validiori rursus argumentatione confirmat, per similitudinem namque hoc ita esse declarat. Nam cum omnes substantiae aut primae sint aut secundae, secundarum autem aut genera aut species, specierum atque generum quidquid similius primis substantiis invenitur, hoc magis substantia merito putabitur. Sed primae substantiae IDCIRCO MAXIMAE SUBSTANTIAE DICUNTUR, quod omnibus ita subiectae sunt, ut aut in ipsis sint caetera ut accidentia, aut de ipsis alia praedicentur ut substantiae secundae. Quod ergo in primas substantias, hoc idem in species venit. Namque species et cunctis subiacent accidentibus, et de speciebus genera praedicantur, de generibus vero species non praedicantur. Quare non similiter genera subiacent, quemadmodum species. Non enim de generibus species praedicantur. Ergo sicut primae substantiae subiectae sunt secundis substantiis et accidentibus, ita species subiectae sunt et accidentibus et generibus. Genera vero quamquam subiecta sint accidentibus, speciebus tamen ipsa non subiacent. Quocirca maior est similitudo speciei ad primas substantias, quam generis, quod si maior est similitudo specierum ad maximas substantias, ipsae erunt magis substantiae. Sed ne quis non arbitretur dicere quod ea quae sunt genera species esse non possunt sed in eo quod sunt genera, species esse non possunt. Nam in eo quod species est, de superioribus non praedicatur sed in eo quod genus, de eo praedicabitur cuius est genus. Quocirca genera ipsa 187D quorum sunt genera his subiacere non possunt, species vero quorum sunt species, de his praedicari non possunt. IPSARUM VERO SPECIERUM QUAE GENERA NON SUNT, NIHILO PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM CONVENIENTIUS PROFERETUR SI QUIS DE ALIQUO HOMINE HOMINEM REDDAT QUAM SI DE ALIQUO EQUO PROFERAT EQUUM. SIMILITER AUTEM ET IN PRIMIS SUBSTANTIIS NIHILO PLUS ALIA AB ALIA SUBSTANTIA EST; NIHIL ENIM MAGIS ALIQUIS HOMO QUAM ALIQUIS BOS SUBSTANTIA EST. Praedictum est quoque, ut Porphyrius in libro de generibus, speciebus, differentiis, propriis, atque accidentibus planissime docuit, alia esse solum genera, quorum genus inveniri non posset, alia solum 188A species, quae in alias species dividi non valerent. Hae autem sunt quae de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicantur, ut homo de singulis hominibus dicitur, et equus de singulis equis, et bos de singulis bobus, qui sub propria specie positi a seipsis propriae naturae figura non discrepant. Ergo huiusmodi species, ut est homo atque equus, quae solis individuis praesunt, quoniam genera esse non possunt, aequaliter semper substantiae sunt. Nam tam propinque redditur de quolibet individuo equo, nomen equi, quam de quolibet individuo homine, hominis nomen, Quocirca ei aequaliter species hae, quae genera non sunt, ad primas substantias sunt, aequaliter esse substantiae merito putabuntur; hoc autem dicit non quod omnes species aequaliter substantia sint sed quae aequaliter a primis substantiis distant. Potest enim fieri ut cuiuslibet superioris generis una quaelibet species sit, quae comparata ad propriam speciem minus illa superior videatur esse substantia: ut animalis si quis dicat speciem esse avem, eiusdem quoquo speciem horninem, avis et homo non aequaliter substantiae sunt, idcirco quod avis homine superior est. Homo namque in alias species non dividitur, est enim magis species. Avis autem potest in alias dividi species, ut in accipitrem et uulturem, quae quamquam aves sunt specie, tamen ipsa dissentiunt. Proprie autem species accipere ac uultur est, hi enim solis individuis praesunt. Quare homo atque accipiter aequaliter a primis substantiis distant, et sunt aequaliter substantiae. Homo vero atque avis, quoniam superior est avis homine, non aequaliter substantiae sunt, magis enim substantia homo est. Ergo quaecumque species aequaliter a suis individuis distant, aequaliter substantiae sunt. Quod quoniam species hae quae genera non sunt aequaliter a primis substantiis absunt, aequaliter substantiae dicuntur. Primum autem est, ut expositione non egeat, primas quoque substantias aequaliter esse substantias, aliquis homo enim atque aliquis equus, quoniam sunt individua, principaliter substantiae sunt, et propriae et maximae. Quocirca in maximis substantiis, neque minus, neque magis substantia poterit inveniri. Individua igitur aequaliter substantiae sunt. RECTE AUTEM POST PRIMAS SUBSTANTIAS SOLAE OMNIUM CAETERORUM SPECIES ET GENERA DICUNTUR SECUNDAE ESSE SUBSTANTIAE; EORUM ENIM QUAE PRAEDICANTUR PRIMAS SUBSTANTIAS SOLAE SIGNIFICANT. ALIQUEM ENIM HOMINEM SI QUIS ASSIGNET QUID SIT, SI SPECIEM QUAM GENUS PROTULERIT, CONVENIENTER PROFERET, ET MANIFESTUM FACIET HOMINEM QUAM ANIMAL PROFERENS; CAETERORUM VERO QUICQUID PROTULERIT, ALIENA ERIT ILLA PROLATIO, UT ALBUM VEL CURRIT VEL QUODLIBET HUIUSMODI SI REDDAT. QUARE RECTE HAE SOLAE PRAETER CAETERA SUBSTANTIAE DICUNTUR. Ordine et convenienter post primas substantias, id est individua, genera et species secundas esse substantias constitutas monstrat Aristoteles, quae est firma atque expedita probatio; ait enim: POST PRIMAS SUBSTANTIAS RECTE GENERA ET SPECIES SECUNDAS SUBSTANTIAS ESSE NOMINATAS. In definitionibus enim ubi substantia cuiuslibet ostenditur, nihil aliud primas substantias monstrat, nisi genus et species. Socrates namque, si quis quid sit interroget, dicitur homo, vel animal, et in eo quod quid sit Socrates interrogatus, recte hominem vel animal esse respondet. Quare quid sint primae substantiae secundae monstrant, quod si quis praeter secundas substantias in interrogatione quid sit prima substantia dicat, id alienissime profert, ut si quid sit Socrates interroganti aliquis respondeat album, vel currit, vel aliquid huiusmodi, quod secunda substantia non sit, nihil convenienter unquam profert, si quid de prima substantia praeter secundas substantias dicat. Quare quoniam nihil eorum quae non sunt secundae substantiae, quid sit prima substantia declarat, secundae autem substantiae 189B genera et species sunt, recte post primas substantias species et genera secundae dicuntur esse substantiae. AMPLIUS PRIMAE SUBSTANTIAE, PROPTEREA QUOD ALIIS OMNIBUS SUBIACENT, IDCIRCO PROPRIAE SUBSTANTIAE DICUNTUR; QUEMADMODUM AUTEM PRIMAE SUBSTANTIAE AD OMNIA CAETERA SESE HABENT, ITA PRIMARUM SUBSTANTIARUM GENERA ET SPECIES AD OMNIA RELIQUA SESE HABENT; DE ISTIS ENIM OMNIBUS CAETERA PRAEDICANTUR: ALIQUEM ENIM HOMINEM DICES GRAMMATICUM, ERGO ET HOMINEM ET ANIMAL GRAMMATICUM PRAEDICABIS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS. Haec quoque est de eadem re probatio, qua recte post primas substantias genera et species esse positas verissima ratione confirmat. Namque individua idcirco primae dicuntur esse substantiae, et quod aliis cunctis subiaceant. Nam quoniam secundis substantiis ad praedicationem suppositae sunt, et de his secundae substantiae dicuntur, et quoniam accidentibus ut possint esse accideutia subduntur, idcirco primae substantiae sunt. Et sicut primae substantiae cunctis subiacent accidentibus, sic etiam secundae. Nam quoniam aliquis homo accidentibus subiacet, et homo et animal accidenti supponitur, et quoniam est quidam homo grammaticus, id est Aristarchus, est homo grammaticus, est etiam animal grammaticum. Quocirca accidentibus primae substantiae principaliter subdurtur, secundae vero secundo loco, et quemadmodum primae substantiae et accidentibus et secundis substantiis subiacent, sic secundae substantiae accidentibus 189D supponuntur sed secundae substantiae species et genera sunt. Recte igitur post primas substantias species et genera secundas substantias esse proposuit. COMMUNE EST AUTEM OMNI SUBSTANTIAE IN SUBIECTO NON ESSE. PRIMA ENIM SUBSTANTIA NEC DE SUBIECTO DICITUR NEC IN SUBIECTO EST; SECUNDAE VERO SUBSTANTIAE SIC QUOQUE MANIFESTUM EST QUONIAM NON SUNT IN SUBIECTO. ETENIM HOMO DE SUBIECTO QUIDEM ALIQUO HOMINE DICITUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NEQUE ENIM IN ALIQUO HOMINE HOMO EST. SIMILITER AUTEM ET ANIMAL DE SUBIECTO QUIDEM DICITUR DE ALIQUO HOMINE, NON EST AUTEM ANIMAL IN ALIQUO HOMINE. Post enumerationem substantiarum et divisionem in qua alias primas, alias secundas esse proposuit, 190A quoniam substantiae definitio nulla est reddita, idcirco, quia generalissimum genus definitionibus non tenetur, proprietatem quamdam cupit exquirere, quasi signum aliquod quo substantiam queamos agnoscere, priusque quid ipsis substantiis communiter possit evenire proponit; post vero quid illis proprium sit quaerit sed idcirco ista praemittit, ut ad illud verum proprium sine ullo errore perveniat, et quod vere est substantiarum proprium ultimum dicat. Tribus autem modis proprium significatur. Est enim proprium quod alicui speciei omni evenit et non soli, ut homini bipedem esse. Omnis enim homo bipes est sed non solus, aves namque et ipsae sunt bipedes. Aut soli et non omni, ut eidem homini evenit ut sit grammaticus sed non omni homini, neque enim omnis homo grammaticus est. Aut vero tertia proprii significatio est, quae omni et soli et semper, ut risibile. Omnis enim homo risibilis est, et solum est animal homo quod rideat. Ex his igitur illa duo superiora quae diximus, ubi omni et non soli, aut soli et non omni, esse quaedam propria dicebamus, quae a propriorum veritate esse videntur aliena. Hoc vero tertium quod omni inest et soli, hoc vere est proprium, illa autem superiora consequentia quidem dicuntur, non tamen vere propria, hoc autem ultimum vere est proprium. Quaecumque ergo talia propria Aristoteles invenerit, quae aut solis et non omnibus substantiis, aut omnibus et non solis eveniant, velut non vere in natura cuiuslibet constituta repudiat. Illud vero ultimum ponit quod et omni substantiae et soli valeat evenire. Illa enim sunt propria quae convertuntur, ut si quid fuerit homo, risibile est, si quid est risibile, homo est: haec autem solum converti possunt, quae omni solique contingunt, nam neque ulli alii magis, neque ulli minus evenient; quare his praedictis ad loci ipsius orationem expositionemque veniamus. Quod ergo dicit hoc est, omnibus substantiis commune est, ut in subiecto non sint, namque primae substantiae, id est individua in subiecto non sunt, quod planissime his demonstratur. Nunquam enim particularis substantia alicui accidens esse potest, secundae vero substantiae habent quamdam imaginem quod sint in subiecto, videntur enim secundae substantiae in subiectis, id est primis substantiis esse sed falso, nam secundae substantiae de primis substantiis solum praedicantur, non in ipsis sunt. Animal enim de quodam homine tantum dicitur, non etiam in aliquo homine consistit, ut in subiecto. Hoc autem illa res probat, quod omnia quaecumque in subiecto sunt, eorum quoque individua in subiecto sunt, color quoniam in subiecto corpore est, et quidam color subiecto corpore nititur, in hoc vero quoniam primae substantiae, id est individua in subiecto non sunt, nec eorum universalia, id est secundae substantiae, quae genera speciesque sunt, possunt aliquo niti subiecto. Quare secundae substantiae primas substantias ad praedicationem tantum subiectas habent, non etiam ut ipsae primis substantiis accidant. Illud quoque maximum argumentum est secundas substantias non esse in subiecto, quoniam omne quod in subiecto est potest mutari, illa quae subiecta est non mutatur, ut color qui est in corpore, eodem corpore manente potest mutari, ut niger fiat ex albo. Manentibus autem substantiis primis, secundae substantiae non mutantur. Quam vero ipse Aristoteles posuit probationem, secundas substantias uan esse in subiecto, huiusmodi est, praedocuit enim quorumdam quae sunt in subiecto nomen de subiectis posse praedicari, rationem vero nunquam. Album enim cum sit in corpore, dicitur corpus album, et praedicatur albedo de corpore sed alia est definitio albedinis, alia corporis. Secundae vero substantiae de primis substantiis et nomine praedicantur, et definitione iunguntur. Nam quidam homo animal est et homo sed quidam homo, et hominis, et animalis ratione definitur. Et ut veracissime sententia concludatur, omne quod est in subiecto, aequivoce de subiecto dicitur. Secundae vero substantia de primis non aequivoce sed univoce nuncupantur, idcirco quod (ut dictum est) et nomine et definitione consentiunt. Quare quemadmodum primae substantiae in sabiecto non sunt, sic secundae subiecto carebunt. Commune est igitur omnibus substantiis, et secundis et primis in subiecto non esse, et quodcumque substantia fuerit, consequens est ut in nullo subiecto sit. Sed quaeritur utrum hoc soli substantiae insit an etiam aliis, nam si soli substantiae inest, quoniam omni substantiae hoc inesse monstravimus, quod in subiecto non sit, verum proprium dicitur esse substantiae, non esse in subiecto. Hoc enim dictum est esse maxime proprium, quod omnibus inesset et solis sed hoc non esse substantiae proprium verissima Aristoteles probatione confirmat dicens: AMPLIUS EORUM QUAE SUNT IN SUBIECTO NOMEN QUIDEM DE SUBIECTO ALIQUOTIENS NIHIL PROHIBET PRAEDICARI, RATIONEM VERO IMPOSSIBILE EST. SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM DE SUBIECTIS RATIO PRAEDICATUR ET NOMEN; RATIONEM ENIM HOMINIS ET ANIMALIS DE ALIQUO HOMINE PRAEDICABIS. QUARE NON ERIT EORUM SUBSTANTIA QUAE SUNT IN SUBIECTO. NON EST AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE HOC; SED DIFFERENTIA EORUM EST QUAE IN SUBIECTO NON SUNT; BIPES ENIM ET GRESSIBILE DE SUBIECTO QUIDEM DE HOMINE PRAEDICATUR, IN SUBIECTO VERO NULLO EST; NON ENIM IN HOMINE EST BIPES NEQUE GRESSIBILE. ET RATIO QUOQUE DIFFERENTIAE DE ILLO DICITUR DE QUO IPSA DIFFERENTIA PRAEDICATUR, UT SI GRESSIBILE DE HOMINE DICATUR, ET RATIO GRESSIBILIS DE HOMINE PRAEDICABITUR; EST ENIM HOMO GRESSIBILE. Non esse proprium hoc substantiae dicit, idcirco quod in differentiis idem sit, in nullo enim differentia subiecto est, ad illud namque recurritur, Si differentia in subiecto esset, nomine tantum de subiecto praedicaretur, non etiam ratione. Differentia vero de eo de quo dicitur univoce praedicatur, ut si quis dicat gressibilem differentiam de homine, ipsius differentiae definitio quoque homini convenienter aptabitur. Gressibile namque est quod per terram pedibus ambulat, et homo est quod per terram pedibus ambulat, ita differentiae et eius de quo ipsa differentia dicitur una poterit esse ratio substantiae, id est unius possunt et nominis nuncupatione, et definitionis determinatione coniungi. Quod si in subiecto esset differentia, nequaquam de subiecto sibi univoce praedicaretur. Quare non proprium est substantia, quod retinet etiam differentia, differentia namque substantia non est. Esset enim proprium substantiae in subiecto non esse. Non est autem diiferentia accidens, esset enim in subiecto. Omnis autem res aut accidens est, aut substantia, id est aut in subiecto est, aut in subiecto non est, et sunt ascidentia quaecumque in substantiam subiecti non veniunt, quaeque permutata naturam substantiae non perimunt. Si quibus vero peremptis subiecta interimantur, illa proprie accidentia non vocamus, differentia vero est quae de pluribus specie differentibus in eo quod quale sit praedicatur. Sed differentia substantia non est, idcirco quod si esset substantia non in eo quod quale sit de subiecto sed in eo quod quid sit praedicaretur. Qualitas vero solum non est, esset enim accidens et in subiecto. An magis ex substantia et qualitate differentia ipsa conficitur, ita ut illud de quo praedicatur, perempta differentia simul interimatur, ut calor, cum est in aqua, perempto calore, potest aqua in sua substantia permanere, et est calor in subiecta aqua, quo interempto, aqua non peribit. Idem tamen calor est in igne sed perempto calore, ignem interire necesse est. Quare haec qualitas caloris substantialiter inest igni, et est propria differentia, id est substantialis. Concludendum est igitur differentiam, nequs solum substantiam esse, neque solum qualitatem, sed quod ex utrisque conficitur substantialem qualitatem, quae permanet in natura subiecti, atque ideo quoniam substantia participat, accidens non est, quoniam qualitas est, a substantia relinquitur. Sed quoddam medium est inter substantiam et qualitatem, quae quoniam in subiecto non est et substantia non est, proprium substantiae non est non esse in subiecto. Post hoc illuc quoque dicit non debere nos conturbari, ne forte substantiarum partes, quae ita sunt in toto quasi in aliquo subiecto, aliquando cogamur non substantias confiteri. Substantiarum partes in subiecto sunt sed non ut accidentia, videmus enim quasdam partes substantiarum ita esse in toto quasi sint in subiecto, ut caput in toto corpore est, et manus in toto corpore est, forma quoque et materia quae sunt partes compositae substantiae in ipsa composita substantia sunt. Ne forte ergo cogamur aliquando partes substantiarum, quoniam sunt in subiecto, suspicari non esse substantias sed accidentia, praemonet dicens: NON NOS VERO CONTURBENT SUBSTANTIARUM PARTES QUAE ITA SUNT IN TOTO QUASI IN SUBIECTO SINT, NE FORTE COGAMUR DICERE NON EAS ESSE SUBSTANTIAS; NON ENIM SIC DICEBANTUR ESSE EA QUAE SUNT IN SUBIECTO UT QUASI PARTES ESSENT. Hoc enim rationis affert cur ista accidentia esse aliquis suspicari non debeat. Illa enim accidentia esse definita sunt in obiecto, quae non essent ut quaedam pars, hoc enim superius ait. In subiecto avem esse dico, quod cum in aliquo sit, non sicut quaedam pars et impossible est esse sine eo in quo est. Quocirca quoniam accidentia ita sunt in subiecto, ut subiecti partes non sint, substantiarum vero partes in toto ita sunt, ut in subiecto non sint, partes substantiarum, partes accidentium esse nullus recte suspicari potest. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS AB HIS OMNIA UNIVOCE PRAEDICARI. OMNIA ENIM QUAE AB HIS PRAEDICAMENTA SUNT AUT DE INDIVIDUIS PRAEDICANTUR AUT DE SPECIEBUS. ET A PRIMA QUIDEM SUBSTANTIA NULLA EST PRAEDICATIO (DE NULLO ENIM SUBIECTO DICITUR), SECUNDARUM VERO SUBSTANTIARUM SPECIES QUIDEM DE IN DIVIDUO PRAEDICATUR, GENUS AUTEM ET DE SPECIE ET DE INDIVIDUO; SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIAE ET DE SPECIEBUS ET DE INDIVIDUIS PRAEDICANTUR. RATIONEM QUOQUE SUSCIPIUNT PRIMAE SUBSTANTIAE SPECIERUM ET GENERUM, 193B ET SPECIES GENERIS (QUAECUMQUE ENIM DE PRAEDICATO DICUNTUR, EADEM ET DE SUBIECTO DICENTUR); SIMILITER AUTEM ET DIFFERENTIARUM RATIONEM SUSCIPIUNT SPECIES ET INDIVIDUA; UNIVOCA AUTEM ERANT QUORUM ET NOMEN COMMUNE EST ET RATIO. QUARE OMNIA A SUBSTANTIIS ET DIFFERENTIIS UNIVOCE PRAEDICANTUR. Quoniam in subiecto non esse differentiis et substantiis commune monstravit, aliam rursus communitatem substantiarum differentiarumque proposuit. Nam cum substantiarum aliae sint primae, aliae secundae, et primae substantiae sint individuae, quoniam nihil individua possunt habere subiectum, ab individuis nulla praedicatio est. Secundae vero substantiae de individuis, id est de primis substantiis, praedicantur, et de his univoce dicuntur. Secundarum enim substantiarum nomen de individuis praedicatur et ratio. Ac de individuo quidem et species praedicatur et genus, ut de Platone, id est de aliquo homine, et homo dicitur, et animal, aliquis enim homo est, et animal, et utriusque de individuo praedicatur ratio. Dicimus enim aliquem hominem animal esse rationale mortale, quae est speciei definitio, id est hominis. Et rursus aliquem hominem dicimus esse substantiam animatam atque sensibilem, quae generis est definitio, id est animalis. Species vero generis sui et definitionem suscipit et vocabulum, de homine enim animal praedicatur, dicitur enim homo animal est, et idem ipse rursus homo rationem suscipit animalis. Dicimus enim esse hominem substantiam animatam atque sensibilem. Constat ergo quoniam et genera et species de individuis, et genera de speciebus univoce praedicantur, id est in omni praedicatione secundae substantire univoca appellatione de subiectis dicuntur, quod his cum differentia commune est. Differentia namque de specie de qua dicitur, et de eius individuo ipsa quoque univoce praedicatur. Nam cum sit gressibilis differentia de aliquo homine praedicatur, dicitur enim quidam homo gressibilis ut Plato et Cicero sed et definitionem differentiae suscipiunt individua, de quibus illa differentia praedicatur. Gressibile namque est quod per terram pedibus ambulare potest. Et quemdam hominem possis ita secundum nomen differentiae definire, ut dices Platonem esse quod per terram pedibus ambulare possit. Et hoc idem evenit de specie cuiusdam hominis, id est de homine: homo namque, id est ipsa species, cum sit gressiblis, potest definiri. Homo est quod per terram pedibus ambulare possit. Ergo et differentia: de his de quibus pradicantur, univoce dicuntur. Quocirca quoniam et secundae substantiae de bis de quibus praedicantur uuivoce dicuntur, et differentiae eodem modo, quaecumque a substantiis vel differentiis praedicationes fuerint, haec et de subiectis univoce praedicabuntur. Quae autem causa sit ut secundae substantiae de primis substantiis univoce praedicentur, illa quam supra docuit Aristoteles nos admonens dixit, omnia enim quaecumque de praedicato dicuntur, eadem etiam dicentur de subiecto. Omnes enim differentiae quae sunt specificae generis praedicantur et de specie et de individuo, ut quoniam animal efficiunt differentiae animatum atque sensibile, eadem et de specie, id est homine, et de individuo, id est aliquo homine, praedicabuntur; quod cum superius dictum est, nunc quantum expositionis brevitas postulat, dixisse sufficiat. OMNIS AUTEM SUBSTANTIA VIDETUR HOC ALIQUID SIGNIFICARE. ET IN PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS INDUBITABILE ET VERUM EST QUONIAM HOC ALIQUID SIGNIFICAT; INDIVIDUUM ENIM ET UNUM NUMERO EST QUOD SIGNIFICATUR. IN SECUNDIS VERO SUBSTANTIIS VIDETUR QUIDEM SIMILITER AD APPELLATIONIS FIGURAM HOC ALIQUID SIGNIFICARE, QUANDO QUIS DIXERIT HOMINEM VEL ANIMAL; NON TAMEN VERUM EST SED QUALE ALIQUID SIGNIFICAT (NEQUE ENIM UNUM EST QUOD SUBIECTUM EST QUEMADMODUM PRIMA SUBSTANTIA, SED DE PLURIBUS HOMO DICITUR ET ANIMAL); NON AUTEM SIMPLICITER QUALITATEM SIGNIFICAT, QUEMADMODUM ALBUM (NIHIL ENIM ALIUD SIGNIFICAT ALBUM QUAM QUALITATEM), GENUS AUTEM ET SPECIES CIRCA SUBSTANTIAM QUALITATEM DETERMINANT (QUALEM ENIM QUANDAM SUBSTANTIAM SIGNIFICANT). PLUS AUTEM GENERE QUAM SPECIE DETERMINATIO FIT: DICENS ENIM ANIMAL PLUS COMPLECTITUR QUAM HOMINEM. Postquam superius geminas dixit substantiae consequentias, id est in subiecto non esse, et cuncta ab his univoce praedicari, et eas a maximae proprio substantiae separavit, idcirco quod differentiis etiam videntur esse communes, aliud adiicit quod idcirco substantiae proprium non sit, quod non sit in omni substantia. Nam quemadmodum quantitas, quantum significat, et qualitas quale, sic etiam substantia videtur  hoc aliquid significare. Nam cum dico Socrates vel Plato vel aliquam individuam substantiam nomino, hoc aliquid significo sed omnibus hoc substantiis non inest. Individuis namque quoniam particularia sunt et numero singularia, verum est hoc aliquid a substantiis significari. In secundis vero substantiis non idem est. Namque secundae substantiae non sunt unae, nec numero singulares sed species intra se plurima individua continent, et multas intra se species genus includit, quocirca cum dico homo, non hoc aliquid significavi, neque enim singulare est hominis nomen, idcirco quod de pluribus individais praedicatur sed potius quale quiddam; qualis enim substantia sit demonstratur, cum dicitur homo. Qualitas autem haec circa substantiam terminatur, nam sicut individua qualitas species et genera qualitatis habet, et sicut singulas quantitates quantitas speciebus et generibus claudit, ita quoque individuarum substantiarum species et genera secundae substantiae sunt. Ergo cum dico homo, talem substantiam significo, quae de pluribus numero differentibus in eo quod quid sit praedicatur, qualem ergo quamdam substantiam significo, cum hominem dixi, talem scilicet quae individuis nominetur, idem quoque de genere est. Nam cum dico animal, talem substantiam significo quae de pluribus speciebus dicatur. Est igitur qualitas, ut album, quae semper sit in substantia sed non ut ipsam substantiam interimat, idcirco quod proprietatem substantiae albedo non habet. Qualitas vero hac quae de substantiis dicitur, circa substantiam qualitatem determinat, qualis sit enim illa substantia demonstrat. Nam si homo est rationalis, et substantia erit rationalis sed rationalis qualitas est. Qualem ergo substantiam monstrant secundae substantiae. Quocirca non est hoc proprium substantiae, hoc aliquid significare. Secundae enim substantiae non hoc aliquid sed quale aliquid (ut dictum est) monstrant, ita tamen quale aliquid monstrant, ut ipsam qualitatem circa substantias determinent. Qualitas enim secundarum substantiarum in individuis est, de ipsis enim naturaliter praedicatur qua, ipsa individuae substantiae sunt. Qualitas igitur secundarum substantiarum circa individua, id est quae prima sunt terminatur. Determinatio vero quoties ipse terminus multa concludit, maior est, et minor quoties pauciora, quocirca genus plurima colligit, species vero non tam plurima. Nam cum dico animal, etiam hominem bovemque, et alia cuncta animalia hoc uno nomine clausi. Cum vero dico homo, solos homines individuos hac nominis significatione conclusi, quocirca maior fit determinatio per genus quam per speciem, et fit determinatio circa substantiam qualitatis, vel quod substantialis qualitas in genere et specie est, vel quod secundum quamdam communionem subiectorum dicitur. Sed per se qualitas, ut album, neque ullius substantiam significat, neque ullam communionem, sicut genus specierum suarum, et individuorum species, ostendit. Quocirca aliud substantiae proprium requirendum est. INEST AUTEM SUBSTANTIIS ET NIHIL ILLIS ESSE CONTRARIUM. PRIMAE ENIM SUBSTANTIAE QUID ERIT CONTRARIUM? UT ALICUI HOMINI; NIHIL ENIM EST CONTRARIUM; AT VERO NEC HOMINI NEC ANIMALI NIHIL EST CONTRARIUM. NON EST AUTEM HOC SUBSTANTIAE PROPRIUM SED ETIAM MULTORUM ALIORUM, UT QUANTITATIS; BICUBITO ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, AT VERO NEC DECEM NEC ALICUI TALIUM, NISI QUIS MULTA PAUCIS DICAT ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM PARUO; DETERMINATORUM VERO NULLUM NULLI EST CONTRARIUM. Adiecit quoque aliud substantiae proprium dicens substantiae nihil esse contrarium, hoc autem ex ea quae sigillatim fit inductione confirmat. Homo enim homini vel equo, vel alicui alii animalium non est contrarius. Sed si quis forsitan dicat, cum ignis atqua aqua substantiae sint, ignem aquae esse contrarium, mentietur. Non enim ignis aquae contrarius est sed qualitates ignis qualitatibus aquae opponuntur. Calor enim et frigus contraria sunt, et humor et siccitas, quae qualitates cum aliae sint in igne, aliae in aqua, ipsas substantias contrarias facere videntur sed non sunt; hoc autem ex omnibus aliis substantiis potest probari, in quibus nihil quisquam poterit invenire contrarium. Sed hoc solius substantiae proprium non est, namque et quantitas definita contrariis caret. Nam neque duo tribus contraria sunt, nec duobus quattuor, nec aliquid huiusmodi: nam si dicamus tres duobus esse contrarios, cur non his duobus etiam quattuor vel quinque contrarios esse ponamus? Nulla enim afferri ratio potest, cum tres duobus contrarii sint, cur quattuor vel quinque duobus contrarii non sint. Quod si hoc est, vel quattuor, vel tres, vel quinque, vel quicumque a duobus distant numeri, contrarii fiant duobus, et erunt uni rei multa contraria, quod fieri non potest. Non est igitur contrarium aliquid quantitati. Sed si quis dicat magnum paruo vel multae paucis esse contraria, haec quidem etiamsi quis quantitates esse confirmat, tamen definitae quantitates non sunt, quantum enim sit magnum vel quantum paruum, non definit qui loquitur, eodem modo, etiam de multis atque paucis. Quare si quis haec quantitates esse dicat, indeterminatas indefinitas quo esse confitebitur. Dicit autem Aristoteles terminata, quantitati nihil esse contrarium, ut duobus vel tribus, vel lineae vel superficiei. Quod si etiam aliae quantitates habent contraria, aliae vero non habent, nihil omnino impedit ad hoc quod dicitur, proprium non esse substantiae, idcirco quod constat quasdam quantitates non habere contraria. Quod si hoc et in quantitatibus evenit; non esse contrarium, substantiarum proprium non est. Atque haec quidem si quis magnum vel paruum in quantitatibus ponat, manifestum ect (ut ipse est posterius monstraturus) haec non esse quantitates sed ad aliquid, magnum enim ad paruum dicitur; sed cum ad ea loca venerimus, propositi ordinem loci diligentius exsequemur. Nunc quoniam declaratum est et substantiae nihil esse contrarium, et hoc ei proprium non esse, quoniam idem etiam in quantitatibus consideratur, ad sequens proprium expositionis semitam convertamus.VIDETUR AUTEM SUBSTANTIA NON SUSCIPERE MAGIS ET MINUS; DICO AUTEM NON QUONIAM SUBSTANTIA NON EST A SUBSTANTIA MAGIS SUBSTANTIA (HOC ENIM DICTUM EST QUONIAM EST) SED QUONIAM UNAQUAEQUE SUBSTANTIA HOC IPSUM QUOD EST NON DICITUR MAGIS ET MINUS; UT, SI EST IPSA SUBSTANTIA HOMO, NON ERIT MAGIS ET MINUS HOMO, NEC IPSE A SE IPSO NEC AB ALTERO. NEQUE ENIM EST ALTER ALTERO MAGIS HOMO, QUEMADMODUM ALBUM EST ALTERUM ALTERO MAGIS ALBUM, ET BONUM ALTERUM ALTERO MAGIS BONUM; ET IPSUM SE IPSO MAGIS ET MINUS DICITUR, UT CORPUS, ALBUM CUM SIT, MAGIS DICITUR NUNC QUAM PRIMO, ET CALIDUM MAGIS ET MINUS DICITUR; SUBSTANTIA VERO NON DICITUR (NEQUE HOMO MAGIS DICITUR NUNC HOMO QUAM ANTEA DICITUR, NEC CAETERORUM ALIQUID QUAE SUNT SUBSTANTIA); QUARE NON SUSCIPIET SUBSTANTIA MAGIS ET MINUS. Hoc proprium non simpliciter dicitur sed cum aliqua distinctione: ait enim substantium neque magis recipere, neque minus, non hoc dicens, quoniam substantia non est magis ab alia substantia. Namque quidam homo cum sit substantia, magis est substantia ab homine, id est ab specie, et homo ab animali, id est a genere. Ergo non hoc dicit, quoniam non inveniuntur substantiae quae a substantiis magis substantiae sint: hoc enim dictum est, quoniam est, id est quoniam inveniuntur. Ait enim superius primas substantias, id est individuas, maxime esse substantias, in secundis vere substantiis, magis esse substantias species quam genera. Ergo non dicit, quoniam nulla substantia ab alia substantia magis substantia est sed hoc ipsam quod est, quaelibet illa substantia non dicitur magis et minus substantia, ut si est substantia homo, non dicit quoniam homo non est magis et minus substantia, individuas enim homo magis est substantia, species vero minus si ad primam, id est individuam, substantiam referatur. Sed hoc dicit, hoc ipsum quod est, id est, homo non erit magis homo vel minus homo; quocirca non dicit quoniam homo non est magis substantia vel minus sed quoniam homo, hoc ipsum quod est, non est magis vel minus homo, non est enim aliquis homo magis et minus homo; et hoc idem in eiusdem comparatione convenit speculari. Nam ipse homo a seipso 197C non est plus homo, at vero nec si ad alterum conferatur, ad alterum vero ita, ut sub eadem coniunctione sint, ut quidam homo individuus ad aliquem individuum hominem comparatus, non erit magis et minus homo, et ipsa species seipsa non erit magis et minus homo; sed hoc palam est in substantiis, in qualitatibus vero potest essc magis et minus, album enim potest fieri magis album seipso, et suscipere magis et minus, ut sit magis album et minus album; potest et alio albo plus esse album, ut lilium lana; et alio albo minus esse album, ut lana lilio, et cygnus nive, atque idem in aliis qualitatibus, ut bono et calido. Namque haec possunt temporibus permutari, et in plus minusue transduci, fit enim aliquoties bono melius et deterius, et calido feruentius et tepidius: homo vero quod est substantia, neque nunc plus erit homo quam fuit antea, neque post magis aut minus erit hormo quam nunc est. Quocirca cum substantia non suscipiat magis et minus, tamen proprium eius hoc non erit. Sed cur non sit proprium ipse Aristoteles velut notum conticuit; nos autem addimus, quoniam non solum substantiae non suscipiunt magis et minus sed et alia multa; circulus enim alio circulc non erit magis circulus aut minus, nec duplum magis duplum vel minus; aequaliter enim duplus est quaternarius: ad binarium, et denarius ad quinarium comparatus, quocirca quoniam etiam in aliis idem est, hoc substantiae proprium non esse putandum est. Sed haec quidem omnia quaecumque sunt 198A in substantiis omnibus, propria tamen substantiae non sunt, eo quod etiam in aliis sint, consequentia substantiae appelluntur. Hanc enim omnia substantias consequuntur, ut ubicumque fuerit substantia, ea quae dicta sunt inveniantur, id est in subiecto non esse, et praedicationes ab his univoce fieri, et quod hoc aliquid significet, et quod nihil sit illis contrarium, et quod non suscipiant magis et minus: illa vero quae non omnibus substantiis insunt accidentia sunt substantiis, quocirca propria non sunt. Quod si propria non sunt, nondum quale sit substantia demonstrant. Cuare ut substantiae qualitatem proprio cognoscamus, talis est huic requirenda proprietas, quae et solis substantiis insit et omnibus, haec autem huiusmodi est, quam ipse proposuit. MAXIME AUTEM PROPRIUM SUBSTANTIAE VIDETUR ESSE QUOD, CUM SIT IDEM ET UNUM NUMERO, CONTRARIORUM SUSCEPTIBILE EST. ET IN ALIIS QUIDEM NULLIS HOC QUISQUAM HABEAT PROFERRE QUAE NON SUNT SUBSTANTIAE, QUOD UNUM NUMERO CONTRARIORUM ERIT SUSCEPTIBILE; UT COLOR, QUOD EST UNUM ET IDEM NUMERO, NON ERIT ALBUM ET NIGRUM, NEC EADEM ACTIO ET UNA NUMERO ERIT MALA ET BONA; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS QUAECUMQUE SUBSTANTIAE NON SUNT. IPSA VERO SUBSTANTIA, CUM SIT UNA ET EADEM NUMERO, CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS EST; UT QUIDAM HOMO, UNUS ET IDEM CUM SIT, ALIQUANDO ALBUS ALIQUANDO NIGER FIT, ET CALIDUS ET FRIGIDUS, ET IMPROBUS ET PROBUS. IN ALIIS VERO NULLIS TALE ALIQUID VIDETUR, NISI QUIS OPPONAT ORATIONEM ET OPINIONEM DICENS HUIUSMODI ESSE; EADEM ENIM ORATIO ET VERA ET FALSA ESSE VIDETUR, UT, SI VERA ORATIO EST ALIQUEM SEDERE, CUM IPSE SURREXERIT EADEM IPSA ERIT FALSA; SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE; SI QUIS ENIM VERE OPINABITUR SEDERE ALIQUEM, CUM IPSE SURREXERIT FALSE OPINABITUR, EANDEM DE EO RETINENS OPINIONEM. QUOD SI QUIS ETIAM HOC RECIPIAT, AT MODO IPSO DIFFERT; EADEM ENIM QUAE SUNT IN SUBSTANTIIS IPSA PERMUTATA CONTRARIORUM SUNT SUSCEPTIBILIA (FRIGIDUM ENIM EX CALIDO FACTUM PERMUTATUM EST, ET NIGRUM EX ALBO ET PROBUM EX IMPROBO, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS SINGULA IPSA PERMUTATIONEM SUSCIPIENTIA CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIA SUNT), ORATIO VERO ET OPINIO IPSA QUIDEM IMMOBILIA OMNINO SEMPERQUE PERMANENT, RE VERO MOTA CONTRARIETAS CIRCA EA FIT; ORATIO ENIM PERMANET EADEM SEDERE ALIQUEM, RE VERO MOTA ALIQUOTIENS QUIDEM VERA FIT ALIQUOTIENS FALSA; SIMILITER AUTEM ET IN OPINIONE. QUAPROPTER HOC MODO PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE UT SECUNDUM PROPRIAM PERMUTATIONEM SUSCEPTIBILIS CONTRARIORUM SIT -- SI QUIS ETIAM HOC SUSCIPIAT, OPINIONEM ET ORATIONEM CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILES. Ait maxime proprium esse substantiae, quod eadem et una numero contrariorum susceptiva sit, nihil contrarium superioribus dicens. Illic enim dixerat substantias substantiis non essecontrarias, hic vero dicit non substantias substantiis esse contrarias sed res in se contrarias posse suscipere, ut unus atque idem homo, nunc quidem sit sanus, alio vero tempore sit aeger, aegritudo autem et sanitas contraria sunt. Ergo quoniam declaratum est substantiam posse contraria suscipere, demonstrandum est quemadmodum hoc solis substantiis insit; hoc enim in nullis aliis invenitur, namque in qualitate qualitas non erit eadem, neque una numero contrariorum susceptiva, idem enim et unum numero non erit album atque nigrum, cum album fuerit et post in nigrum vertitur, tota qualitatis species permutatur, et non erit unum atque idem numero quod contrarium est sed diversum. At vero et actio eadem et una numero non erit bona atque mala sed fortasse una bona, alia mala, ita ut diversae sint, non eaedem numero, hoc etiam in aliis reperitur. Ipsa vero substantia cum una sit et numero singularis, contraria suscipit, ut idem atque unus homo cum fuerit candidus atque albus a sole tactus nigrescit, et album in nigrum convertitur, et in contrarium permutatur, utrasque res in se contrarias suscipiens. Nulli igitur alii inesse hoc nisi solis substantiis, satis superiora demonstrant. Si quis autem opponat orationem et opinionem unam atque eamdem contrariorum esse susceptibilem, ideo quod cum dico Cicero sedet, vel eum sedere opinor, cum vere sedet, vera est et oratio de eodem et opinio quod sedet; cum vero surrexit ille, eadem permanet opinio vel oratio quae dicit vel arbitratur Cicero sedet sed falsa est, quod non sedet, videtur opinio atque oratio eadem et una numero nunc quidem esse vera, nunc autem falsa, et contraria ipsa suscipere sed hoc falsum est, quod oratio et opinio contraria non recipiunt: nam si quis hoc recipiat quod etiam oratio atque opinio contrariorum suscepliva sint, non tamen eodem modo quo substantia. Nam substantia ipsa contraria suscipiens permutatur, Cicero namque ipse in se aegritudinem suscipiens ex sano factus est aeger, et mutatus ipse contraria suscipit; sermo vero vel opinio ipsa quidem immutata permanent sed cum rebus de quibus dicuntur permutatis ipsa, inveniuntur falsae esse vel verae. Et substantia quidem ipsa cum iis quae suscipit contrariis permutatur; oratio vero et opinio, eo quod res de quibus dicuntur vel arbitrantur permntentur, ipsae videntur falsis esse vel verae. Nam cum dico Cicero sedet, si ille surrexit, oratio quidem ipsa nihil passa est sed res de qua fuit ipsa oratio mota est. Qui enim sedebat surrexit, idcirco ex vera oratione facta est falsa. Quocirca substantia ipsa suscipiens (ut dictum est) contraria permatatur, oratio vero vel opinio non mutatur sed re circa eas mota ipsae verae vel falsae sunt. Quare proprium substantiae ita esse putabitur contrariorum susceptibile, ut ipsa permutata contraria suscipiat, non ut, re mutata, ipsa impermutata immutabilisque permaneat. Atque hoc dictum est, si quis orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles pPomba, non autem esse orationem atque opinionem contrariorum susceptibiles. Ipso rursus adiecit. NON EST AUTEM HOC VERUM; ETENIM ORATIO ET OPINIO NON QUOD EA SUSCIPIANT ALIQUID CONTRARIORUM ESSE SUSCEPTIBILIA DICUNTUR SED QUOD CIRCA ALTERAM QUANDAM PASSIONEM SINT. EO ENIM QUO RES EST VEL NON EST, EO ORATIO VEL VERA VEL FALSA DICITUR, NON EO QUOD IPSA SUSCEPTIBILIS EST CONTRARII. SIMPLICITER ENIM NIHIL NEQUE ORATIO MOVETUR NEQUE OPINIO, QUARE NON ERUNT SUSCEPTIVAE CONTRARIORUM NULLO IN EIS FACTO. SUBSTANTIA VERO, QUOD IPSA SUSCIPIAT CONTRARIA, EO DICITUR CONTRARIORUM SUSCEPTIBILIS. AEGRITUDINEM ENIM ET SANITATEM SUSCIPIT, ET ALBEDINEM ET NIGREDINEM; ET UNUMQUODQUE TALIUM IPSA SUSCIPIENS CONTRARIORUM ESSE DICITUR SUSCEPTIBILIS. QUARE PROPRIUM ERIT SUBSTANTIAE, CUM SIT IDEM ET UNUM NUMERO, SUSCEPTIBILEM CONTRARIORUM ESSE. ET DE SUBSTANTIA QUIDEM HAEC DICTA SINT. Ait enim orationem atque opinionem ipso quidem contrarii nullius esse susceptibila, neque enim falsitas veritasque in oratione vel opinione insita est sed idcirco videntur contrariorum esse susceptibilia, quod (ut ipse ait) circa alteram quamdam passionem sint, hoc est circa hoc esse opinionem vel orationem. Nam circa sedere et non sedere. quae sunt contraria, est sedendi aliquem et non sedendi opinio vel oratio, atque ideo quoniam circa alias res sunt quae sibi sunt contrariae, illis permutatis, ista videntur esse contraria, non quod ipsa suscipiant contraria sed quod circa contrarias passiones rerum sint. Nam neque oratio neque opinio permutatur sed sola tantum de quibus est oratio atque opinio, id est sedere et non sedere. Quocirca quoniam nullam ipsa oratio vel opinio suscipiunt passionem, nec quidquam in eis fit, atque evenit contrarium, contrariorum esse susceptibilia non videntur. At substantia eo quod ipsa suscipiat contrarium, contrariorum dicitur esse susceptibilis. Cicero enim suscipiens sanitatem sanus fit, et suscipiens aegritudinem fit aeger. Oratio vero atque opinio (ut dictum est) contraria non suscipiunt. Quare erit hoc proprium substantiae contrariorum esse susceptibilem. Sed si quis forsitan dicat cur cum ignis calidus sit nunquam frigus suscipiat, et cur cum aqua sit humida nunquam suscipiat siccitatem. His enim oppositis, videtur non omnis substantia contrariorum esse susceptibilis, et substantiae hoc proprium infirmabitur, cum non sit in omnibus substantiis. Sed dicendum est quoniam ea contraria suscipere vidantur substantiae quae sunt in eius natura non insita, alioqui non suscipit quidquid illi substantialiter adest. Suscipere enim dicimus aliquid de rebus extrinsecus positis et praeter substantiam constitutis: quoniam igitur in substantia ignis inest calidum esse, ignis calorem non suscipit; quocirca neque est ignis caloris susceptibilis, neque frigoris. Calorem quidem non suscipit, idcirco quod eius naturae substantiaeque immutabiliter adhaesit. Frigus enim non suscipit, quoniam caloris natura ipsius ignis contrarium sponte repudiat. Quocirca si quid est quod suscipiat ignis, id est extrinsecus positum, accipiat necesse est eius quoque contrarium, ipse unus permanens ac singularis. Idem quoque de aqua dicendum est: illa enim sicut ignis calorem, sic non suscipit humiditatem sed est quodammodo et ipsi humiditas naturaliter insita; arque ideo calor ignis, vel humiditas aquae non solum qualitates dicuntur sed etiam substantiales igni et aquae qualitates; namque aqua quoniam in se neque frigidus neque calorem substantialiter habet, susceptibilis et frigoris et caloris esse dicitur. Quocirca non de his contrariis loquitur quae substantialiter insunt sed his qua potest suscipere unaquaque substantia, id est quod potest extrinsecus adhiberi: hoc autem in omnibus esse substantiis manifestum est: nam quoniam Cicero sanus et aeger est, homo sanus et aeger est; et si homo sanus et aeger est, animal sanum atque aegrotum est. Sed cum duobus modis animal atque homo spectentur, uno quod de pluribus praedicentur, altero quod substantiae sint, in eo quod de pluribus praedicautur contrariorum susceptiva non sunt: ut animal in eo quod de speciebus dicitur, neque sapiens est, neque insipiens, et homo in eo quod de individuis dicitur, neque sanus est, neque aeger; in eo vero quod substantiae sunt, et quod individuis substantiis praesunt, contrariorum susceptibiles sunt. Quocirca erit hoc solius proprium substantiae, contrarium esse susceptibilem. Haec de substantia dicta sufficiant. Secundi vero voluminis series ab expositione inchoabitur quantitates. Et si nos curae officii consularis impediunt quominus in his studiis omne otium plenamque operam consumimus pertinere tamen videtur hoc ad aliquam reipublicae, curam, elucubratae rei doctrina cives instruere. Nec male de civibus meis merear, si cum prisca hominum virtus urbium caeterarum ad hanc unam rempublicam, dominationem, imperiumque transtulerit, ego id saltem quod reliquum est, Graecae sapientiae artibus mores nostrae civitatis instruxero. Quare ne hoc quidem ipsum consulis uacat officio, cum Romani semper fuerit moris quod ubicumque gentium pulchrum esset atquelaudabile, id magis ac magis imitatione honestare. Aggrediar igitur et propositi sententiam operis ordinemque contexam. QUANTITATIS ALIUD EST CONTINUUM, ALIUD DISGREGATUM ATQUE DISCRETUM; ET ALIUD QUIDEM EX HABENTIBUS POSITIONEM AD SE INVICEM SUIS PARTIBUS CONSTAT, ALIUD VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. EST AUTEM DISCRETA QUANTITAS UT NUMERUS ET ORATIO, CONTINUA VERO UT LINEA, SUPERFICIES, CORPUS, PRAETER HAEC VERO TEMPUS ET LOCUS. PARTIUM ENIM NUMERI NULLUS EST COMMUNIS TERMINUS AD QUEM PARTES IPSIUS CONIUNGANTUR; UT QUINARIUS, SI EST PARS DENARII, AD NULLUM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR QUINQUE ET QUINQUE SED DISIUNCTI SUNT; ET TRES ET SEPTEM AD NULLUM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; NEQUE OMNINO ALIQUIS HABEBIT IN NUMERO SUMERE COMMUNEM TERMINUM PARTIUM SED SEMPER DISCRETAE SUNT; QUARE NUMERUS DISCRETORUM EST. SIMILITER 201D EST AUTEM ET ORATIO DISCRETORUM; (QUONIAM ENIM QUANTITAS EST ET ORATIO MANIFESTUM EST; MENSURATUR ENIM SYLLABA LONGA ET BREVIS; DICO VERO ILLAM QUAE FIT CUM VOCE ORATIONEM); AD NULLUM ENIM COMMUNEM TERMINUM PARTES EIUS CONIUNGUNTUR; NEQUE ENIM EST COMMUNIS TERMINUS AD QUEM SYLLABAE CONIUNGUNTUR SED UNAQUAEQUE DISCRETA EST SECUNDUM SEIPSAM. Post substantiae tractatum cur de quantitate potius ac non de qualitate proposuerit haec causa est, quod omnia quaecumque sunt, simul atque sunt in numerum cadunt. Omnis enim res aut est una aut plures: unum vero vel plures quantitatis scientia colliguntur. Sed non omnis res simul atque est aliquam accipit qualitatem, ipsa enim materia sub quantitatis quidem principium cadit, quod una est sub qualitatem vero minime; ipsa enim cunctis est iuterim qualitatibus absoluta, superaddita vero forma quadam afffcitur qualitate: per se autem numero quidem una est, qualitate vero nulla; quocirca si res omnis simul atque est cadit in numerum, non autem omnis res mox ut est statim suscipit qualitatem, recte prius de quantitate proposuit. Est quoque alia causa cur prius de quantitatis ratione pertractet. Omne enim corpus ut sit, tribus dimensionibus constat, longitudine, latitudine, altitudine: ut vero sit corpus cum qualitate, tunc erit aut album, aut nigrum, aut quodlibet aliud; et quoniam prius est esse corpus, post vero esse corpus album, prius erit corpori tribus constare dimensionibus 202C quam esse album. Sed tres dimensiones et numero et continuatione spatii quantitates sunt. Longitudo enim et latitudo et altitudo in quantitatibus numerantur, album vero qualitatis est: quocirca si prius est ex tribus constare dimensionibus quam esse album, prior erit quantitas qualitate, quocirca recte est tractatus de quantitate propositus. Item alia causa, quod quantitas plura habet substantiae consimilia: nam quemadmodum substantiae nihil est contrarium, et substantia non recipit magis et minus, sic etiam quantitas: quantitati enim nihil est contrarium, nec quantitas recipit magis et minus, ut paulo post docebimus; qualitas vero et contraria suscipit, ut album et nigrum, et magis et minus, ut candidius et nigrius, et candidissimum et nigerrimum; id enim sumit intentionem quod potest sumere diminutionem. Quod si substantiae similior quantitas est recte post substantiam de quantitate proposuit. Quantitatis autem dicit esse differentias duas: quantitatis namque alia discreta est disgregata, alia vero continua. Post hanc rursus divisionem alio modo partitus est quantitatem: dicit enim quantitatis aliam quae constat ex habentibus positionem ad se invicem suis partibus; aliam vero ex non habentibus positionem. Unam vero rem diverse posse dividi manifestum est, hoc modo, ut si quis dividat animal dicens: Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia; et rursus eamdem ipsam rem alia modo partiamur, ut est, Animalium alia sunt gressibilia, alia non gressibilia, eorumque animalium rursus, alia sunt carnibus uescentia, alia herbis, alia seminibus. Hic ergo una eademque res diverso ordine modoque divisa est. Ita igitur Aristoteles unum idemque quantitatis nomen diverse partitus est in ea scilicet quae discreta essent, et quae continua, et in ea quae haberent positionem partium, et quae non haberent. Sed de secunda divisione posterius dicendum est, nunc prima tractetur. Ait enim de prima divisione hoc modo: Quantitatis aliud est continuum, aliud disgregatum. Disgregatum est cuius partes nullo communi terrrino coniunguntur. Continuum vero cuius partes habent aliquem communem terminum, ad quem videantur esse coniunctae. Discretarum namque quantitatum ipse exempla ponit et species. Oratio enim discreta est quantitas, eodemque modo et numerus, et numerum esse quantitatem nemo dubitat. Discreta vero est, quoniam denarius numerus cum constet ex quinque et quinque, quae res quinarium ad quinarium. iungat ut faciat denarii corpus, non potest inveniri. Nam si tres et septem quis dixerit, quo communi termino tres et septem coniungantur, ut denarii reddatur unum integrum corpus, nullus inveniet, atque hoc quidem in omni numero speculari licet. Nullus enim numerus ita partes habet, ut eas aliquis communis terminus iungat sed semper partes ipsae disiunctae atque discretae sunt, et huiusmodi vocatur quantitas discreta. Numerus ergo discreta quantitas est, orationem vero quantitatem esse dicit, idcirco quod omnis oratio ex nomine constet et verbo sed haec syllabis constant. Omnis autem syllaba vel longa vel brevis est. Longum vero vel breue sine ulla dubitatione quantitas est, quocirca quod ex quantitatibus constat, id quantitatem esse quis dubitet? At vero oratio ipsa cum sit quantitas, illa quoque discreta est. Cum enim dico Cicero, quod orationis est pars, partes huius nominis ci et ce et ro nullo communi termino coniunguntur. Non enim reperiemus quo communi termino iungatur ci syllaba ad ce syllabam, vel rursus ce syllaba ad ro syllabam. Quocirca etiam oratio quantitas videtur esse discreta. Sed si quis fortasse dicat hunc eorum esse communem terminum, quo ita iunguntur, ut aliquid significent, ut in hoc ipso nomine Cicero communis syllabarum terminus ipsa significatio sit. Si enim ce syllaba, quae media est, prima ponatur, et ro, quae ultima est, media, et ci, quae plima est, ultima, nomen quod erat antea, id est Cicero, transuersis per loca syllabis nihil significabit. Illi dicendum est quoniam quaecumque in quadam oratione proferuntur, sive significent, sive nihil significent, syllabarum communis terminus nullus est. Nam si quis dicat, permutatis syllabis, quod est Cicero, ceroci significationem quidem amisit sed aequaliter syllabae ad nullum communem terminum coniunguntur. Quod si quis hunc quidem ipsum sermonem aliquid significare posuerit, ut hoc ipsum Cicero aliquid significat, significatio quidem addita est, nullus tamen syllabis terminus appositus. Quare sive significet, sive nihil significet nomen, partes eius discretae atque disiuncta, sunt, et nullo communi termino con iunguntur; quoniam vero Graeca oratione *logos* dicitur etiam animi cogitatio, et intra se ratiocinatio, *logos* quoque et oratio dicitur, nequis Aristotelem cum diceret *logon*, id est orationem, quantitatem esse discretam, de eo putaret dicere quem quisque *logon*, id est rationem, in propria cogitatione disponeret, hoc addidi. Dico autem illam quae fit cum voce orationem. Apud Romanam namque linguam discreta sunt vocabula orationis atque rationis. Graeca vero oratio utriusque vocabulum et rationis et orationis *logon* appellat. Quare ne quid mendax translatio culparetur, idcirco hoc quoque addidi: Dico vero illam quae fit cum voce orationem, apud Latinos enim nulla alia oratio est praeter hanc solam quae fit cum voce orationem. Apud Graecos vero est alius *logos* qui fit in animi cogitatione. Quocirca nequid deesset, etiam hoc quod Latinam orationem minus esset conveniens, transtuli. Quod quare ita fecerim, hac expositione patefeci, atque haec quidem de discreta quantitate sufficiant. Continua vero quantitas est (ut dictum est) cuius quantitatis partium communis terminus invenitur, ut est linea, superficies, corpus, et praeter haec tempus, et locus, quod ipse Aristoteles designat his verbis: LINEA VERO CONTINUA EST; NAMQUE EST SUMERE COMMUNEM TERMINUM AD QUEM PARTES IPSIUS CONIUNGUNTUR, HOC EST AUTEM PUNCTUM, ET SUPERFICIEI LINEA (SUPERFICIEI ENIM PARTES AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR). SIMILITER AUTEM ET IN CORPORE HABEBIT QUIS SUMERE COMMUNEM TERMINUM, 204C VEL LINEAM VEL SUPERFICIEM, AD QUEM PARTES CORPORIS CONIUNGUNTUR Postquam de discretis explicuit, transiit ad species continuae quantitatis. Continuae autem quantitates sunt (ut dictum est) in quarum partibus quidam communis est terminus, ut linea. Si quis enim dividat lineam, quae est longitudo sine latitudine, duas in utraque divisione lineas facit, et utriusque ex divisione lineae singula in extremitatibus puncta redduntur. Lineae enim termini puncta sunt. Quocirca cum illa linea divisa non esset, utraque puncta quae in utrisque linearum capitibus post divisionem apparent, simul antea fuisse intelliguntur, quae sunt in divisione separata. Intelligitur ergo partium lineae communis terminus, punctum, id est quoddam paruissimum quod in partes dividi secarique non possit: Superficies quoque, quae est latitudo sine altitudine, communem terminum habet in partibus, lineam, corpus vero solidum, superficiem. Eodem enim modo divisa superficies duas per singulas partes lineas efficiet, quemadmodum et in linea divisa duo puncta altrinsecus reddebantur. Corpus quoque solidam cum diviseris, duas in utrisque divisionis partibus superficies facies, quae cum coniuncta sint atque indivisa, punctum quidem partium lineae intelligitar communis terminus. Linea vero superficiei, superficies autem solidi corporis. Est autem signum continui corporis, si una pars mota sit, totum corpus moveri; et si totum corpus movetur, certe simul aliae partes vicinae movebuntur, ut si iaceat virgula vel ex aere, vel ex ligno, vel ex quolibet alio metallo, si quis unum eius caput vel quamlibet eius partem moveat, tota mox virgula commovetur. Hoc autem idcirco evenit quod eius partes quodam communi termino coniunguntur, et ille communis terminus una parte mota caeteras movet. Hoc vero in discretis non est. In numero namque cum sint decem, si unum movero, caeteri non moventur, immoti enim permanent novem; etsi plenus tritico sit modius, si unum tritici granum movero, non omnia continuo grana commovebuntur, idcirco quod discreta est multitudo, nec granum grano ullo communi termino videtur implicitum. At vero si ipsius grani pars una sit mota, totum corpus grani moveatur necesse est. Non autem nunc hoc dicitur, quod linea constet ex punctis, aut superficies ex lineis, aut solidum corpus ex superficiebus sed quod et lineae termini puncta sunt, et superficiei lineae, et solidi corporis superficies, nullaque res suis terminis constat. Quocirca punctum lineae non erit pars sed communis terminus partium. Superficiei linea, et superficies solidi corporis non erunt partes sed partium termini communes. Constat igitur, et lineam et superficiem, et solidi corporis crassitudinem esse continuam quantitatem. His alia rursus apponit. SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS; PRAESENS ENIM COMMUNIS EST TERMINUS AD QUEM CONIUNGUNTUR PRAETERITA VEL FUTURA. RURSUS LOCUS CONTINUORUM EST; LOCUM ENIM QUENDAM PARTES CORPORIS RETINENT, QUAE AD QUENDAM COMMUNEM TERMINUM CONIUNGUNTUR; 205C ERGO ET LOCI PARTES, QUAS TENENT SINGULAE PARTES CORPORIS, AD EUNDEM TERMINUM CONIUNGUNTUR AD QUEM ET PARTES CORPORIS IUNGEBANTUR; QUARE CONTINUUM EST ET LOCUS; AD UNUM ENIM COMMUNEM TERMINUM EIUS PARTES CONIUNGUNTUR. Tempus quoque et locum continuae quantitatis esse pronuntiat. Tempus namque esse quantitatem res illa demonstrat, quod in spatio, id est in longitudine et in brevitate, consideratur. Continuum vero esse res illa demonstrat quod partes temporis habeant aliquem communem terminum ac medium, ad quem coniungantur extrema. Nam cum sint partes temporis praeteritum et futurum, horum praesens tempus communis est terminus, huius namque finis est, illius initium. Locus quoque continuorum est. Locum vero dicimus quodcumque illud sit quod partes corporis tenet, sive supra, sive a latere, seu subter sit. Quod si cunctae partes corporis locum aliquem tenent, et qui circa corpus est locus, per omne corporis spatium partesque diffunditur, omnes corporis partes a loci partibus occupabuntur. Quod si ita est, qui communis terminus coniungebat corporis partes, eius termini locus illa quoque loca quae sunt corporis partium iungit, et est eodem modo locus de continua quantitate, quemadmodum et corpus. Ita enim communis terminus invenitur in loco partium quemadmodum et corporis, idcirco quod corporis locus, per corpus omne diffunditur. Quod autem dixit: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS, quoniam superius de continuis loquebatur, tempus quoque et locum continuis addidit dicens: SUNT AUTEM TALIUM ET TEMPUS ET LOCUS, id est continuorum sed post continuae discretaeque quantitatis divisionem aliam a principio rursus orditur. AMPLIUS ALIA SUNT QUAE EX HABENTIBUS AD SE INVICEM POSITIONEM SUIS PARTIBUS CONSTANT; UT LINEAE QUIDEM PARTES HABENT AD SE INVICEM POSITIONEM (SINGULAE ENIM IACENT ALICUBI, ET POSSIS COGNOSCERE ET DESIGNARE UBI SINGULAE IN SUPERFICIE IACEANT ET AD QUAM CAETERARUM PARTIUM CONIUNGANTUR); SIMILITER AUTEM ET SUPERFICIEI PARTES HABENT ALIQUAM POSITIONEM (SIMILITER ENIM DESIGNABUNTUR SINGULAE UBI IACENT, ET QUAE AD SE INVICEM CONIUNGUNTUR). ET SOLIDITATIS QUOQUE ET LOCI SIMILITER. Rursus digerit quantitatis differentias. Sunt enim quantitatis aliae quidem quae ex habentibus positionem ad seinvicem suis partibus constant, aliae vero quae nullam partium habent positionem. Positionem vero partium retinere dicuntur, quarum triplex ista natura est: primum ut eius partes alicubi sint, deinde ne pereant, tertio vero ut sese partes ipsae coniungant et propria se ordinatione continvent, ut est linea. Posita enim linea in superficie possis agnoscere ubi partes ipsius sint, caput quidem lineae esse ac dexteram, medium medio loco, extremitatem vero ad sinistram, et haec manentibus ipsis partibus dicuntur, partes enim lineae non pereunt sed in loco in quo sunt permanent. Possis quoque monstrare quae pars lineae cui parti continventur, id est ad quam partem caput alterius partis extremitasque coniungitur, ut dices haec pars, verbi gratia medietas, lineae hic finitur, locum ubi desinat monstrans, alia rursus pars lineae totius hic incipit. Ergo linea posita in superficie qualibet et locum aliquem partes eius retinent, et partes ipsae non pereunt, et posset quilibet agnoscere ubi extremitas partium coniungatur, et quo ad se invicem loco continventur. Hoc quoque idem in superficie evenit, partes enim superficiei in aliquo loco sunt, et ipsae quoque non pereunt, et ubi pars parti coniungatur ostenditur, idem quoque soliditas habet, et loci quoque partes continuantur ad eas scilicet partes ad quas corporis partes sibimet continuantur, sicut iam supra dictum est. Quocirca eiusdem naturae erit et locus, cuius tota soliditas erit. Ergo et locus ex eodem genere quantitatis est, quo est et soliditas, id est ex habentibus ad se invicem positionem suis partibus constans. Locus igitur et ipse ex habentibus suis partibus positionem ad se invicem constat. Ergo tria haec (sicut supra dictum est) consideranda sum, ut ad se invicem positionem partes habere videantur, id est locum in quo partes ipsae sint positae, ut partes illae non pereant, ut sit partium continentia atque continuatio. Quod si quis dicat hanc rem loco deesse, eo quod in loco non sit, in loco enim cuncta sunt, locus autem in loco esse ipse non poterit. Dicendum est quoniam idcirco superficies et soliditas et linea habere positionem partium dicuntur, quod in loco siut, et partes permaneant, et sint continuae. Quare multo magis ipse locus, cuius neque partes pereunt, et sibi perpetue continuatimque coniunctae sunt, habere positionem partium dicitur. Et de his quidem quae ex habentibus positionem ad se invicem suis partibus constant haec dicta sint; quae vero non habent positionem ipse rursus adiecit. IN NUMERO VERO NULLUS HABET PERSPICERE QUEMADMODUM PARTES HABEANT AD SE INVICEM ALIQUAM POSITIONEM VEL UBI IACEANT VEL QUAE AD QUAM CONIUNGANTUR; AT VERO NEC TEMPORIS; NIHIL ENIM PERMANET EX PARTIBUS TEMPORIS, QUOD AUTEM NON EST PERMANENS, QUOMODO HOC HABEBIT ALIQUEM POSITIONEM? SED MAGIS ORDINEM QUENDAM DICES RETINERE IDCIRCO QUOD TEMPORIS HOC QUIDEM PRIUS EST, ILLUD VERO POSTERIUS. ET IN NUMERO QUOQUE EO QUOD PRIUS NUMERETUR UNUS QUAM DUO ET DUO QUAM TRES; ET SIC HABEBUNT ALIQUEM ORDINEM, POSITIONEM VERO NON MULTUM ACCIPIES. ET ORATIO SIMILITER; NIHIL ENIM EIUS PARTIUM PERMANET SED DICTUM EST ET NON EST ULTRA HOC SUMERE, QUARE NON ERIT ULLA POSITIO EIUS PARTIUM CUIUS PERMANET NIHIL. IGITUR ALIA EX HABENTIBUS AD SE INVICEM PARTIBUS POSITIONEM CONSTANT, ALIA VERO EX NON HABENTIBUS POSITIONEM. Haec scilicet idcirco nullam positionem ad se invicem partium retinent, quod his aliquid de supradictis rebus deesse manifestum est. Numerus enim ipse discretus est, nec partes eius ad se invicem coniunguntur sed omnino discretae sunt. Atque idcirco non est ex iis quae habent ad se invicem aliquam partium positionem, nec vero possis ostendere qui numerus quo loco iaceat: habere autem positionem dicitur, quod (ut dictum est) et in loco aliquo positum est, et ipsa positio manentibus partibus constat, et ad se invicem coniunuatisque, ut ubiquaeque iaceat, et quae ad quam continvetur possit ostendi; in numero vero nihil horum est. Nam neque in aliquo loco esse positus demonstratur, nec eius partes coniunctae sunt. Quocirca numero ex tribus his quae diximus duae res desunt, loci positio et partium continuatio, tempus etiam quamquam sint eius partes continuae, tamen quoniam non permanent sed semper moventur, semperque praetereunt, habere positionem partium non dicitur. Semper enim veloci agitatione torquetur, et currentis aquae more in nulla unquam statione consistit, quod quia partes eius non permanent, ex habentibus ad se invicem positionem suis partibus constare non dicitur. Sed haec quamquam positione in partium habere non possunt, tamen habent ordinem quemdam, quem praeter positionem partium tantum retinent. Dicimus enim priorem esse binarium quamternarium, atque hunc quam quaternarium, et intempore nimirum idem ordo reuertitur. Posterius enim futurum praesente, praesensque praeterito. Quocirca etsi haec non habent aliquam partium positionem, retinent tamen ordinem. Quod vero dicit, positionem vero non multo accipies, tales est ac si diceret, penitus non accipias. Multum enim pro omnino videtur adiunctum, ac si diceret positionem vero non omnino accipies, idcirco quod ipsa quidem continuatio dat aliquam imaginem, quod possit habere aliquam partium positionem sed hoc minime est, idcirco quod quamvis sint continuae quantitates, si tamen uno careant ex his quae superius dicta sunt, positionem partium habere non possunt. Nam aqua quam fistula euomit, dum cadit quidem retinet positionem; cum vero iam effusae undae se miscuerit, pcsitionem partium perdit: et fluuius quoque quando in pelagus fluit, et positionem videtur habere partium et esse continuus, cum nondum marinae aquae fluuii superficies ipsa permista est; cum vero extremitas amnis marina alluuione contingitur, totam sine dubio positionem videtur amittere. Oratio quoque similiter sese habet; nam nec ipsa ullo loco posita est, nec eius partes ad aliquam coniunguntur sed a seinvicem illae discretae sunt, nec cum eius partes dictae sunt, permanent, atque hoc est quod ait. Sed dictum est, et non est ultra hoc sumi. Mox enim dicitur sermo, mox praeterit, nec ullaratione poterit permanere, quare mox ut aliquid dictum sit, eius partes ostendi et demonstratione sumi non possunt. Constat igitur orationem quoque ex his esse quae positionem partium non habent, de ordine vero dubium est. Nam si quis sermo aliquid significet, ut est Cicero, est in eo quidam ordo quod ci syllaba primum dicitur, secunda vero ce, tertia ro, et potius ex significatione ordinem sumit; si vero nihil significet, nec ordinem dicitur habere, ut scindapsus nihil quidem significat; sed sive secundam syllabam primam ponas, sive ultimam primam, sive quomodolibet syllabarum ordinem seriemque permisceas, idem erit: in significativis enim vocibus idcirco esse dicitur, quod illo ordine permutato vis significationis euertitur, hic vero, ubi nulla est significatio, nihil interest quomodolibet iaceant partes. Quare oratio in aliquibus quidem habet ordinem partium, in aliis vero nec ordo ipse poterit inveniri. An fortasse oratio dici non potest quae nihil significat, et nulla est oratio, quae ordinem non habeat? Ergo secundum priorem quantitatis divisionem, ubi dicebatur quantitatis alia esse continua, alia vero discreta, quinque sunt continua, duo vero discreta. Continua quidem linea, superficies, soliditas, locus, tempus. Discreta vero numerur, et oratio. In hac vero secunda divisione qua dicit alias quantitates ex habentibus ad se invicem positionem constare partibus, quattuor quidem sunt qua, retinent positionem, id est linea, superficies, corpus, locus; tria vero quae positionem non habent sed ex his duo semper ordinem retinent, tempus scilicet et numerus. Oratio vero si quid significet, habet ordinem; si vero nihil significet, inordinata est; si tamen oratio nihil significans dici possit, his dictis ipse concludit dicens: Igitur alia ex habentibus ad se invicem partibus positionem constant, alia vero ex non habentibus positionem. Hac igitur divisione finita 209A transit ad caetera monstrans quae proprie quantitates nuncupatur, quae secundum accidens. PROPRIE AUTEM QUANTITATES HAE SOLAE SUNT QUAS DIXIMUS, ALIA VERO OMNIA SECUNDUM ACCIDENS SUNT; AD HAEC ENIM ASPICIENTES ET ALIAS DICIMUS QUANTITATES, UT MULTUM DICITUR ALBUM EO QUOD SUPERFICIES MULTA SIT, ET ACTIO LONGA EO QUOD TEMPUS MULTUM ET LONGUM SIT, ET MOTUS MULTUS; NEQUE ENIM HORUM SINGULUM PER SE QUANTITAS DICITUR; UT, SI QUIS ASSIGNET QUANTA SIT ACTIO, TEMPORE DEFINIET, ANNUAM VEL SIC ALIQUO MODO ASSIGNANS, ET ALBUM QUANTUM SIT ASSIGNANS SUPERFICIE DEFINIET (QUANTA ENIM FVERIT SUPERFICIES, TANTUM ESSE ALBUM DICET); QUARE SOLAE PROPRIE ET SECUNDUM SE IPSAE QUANTITATES DICUNTUR QUAE DICTAE SUNT, ALIORUM VERO NIHIL PER SE SED, SI FORTE, PER ACCIDENS. Principaliter aliquid esse dicitur, quod per se tale est quale esse demonstratur. Secundum accidens vero illud quod non per se sed per aliud tale est quale esse dicitur, ut albedini per se inest color: secundum naturam enim albi, color esse dicitur albedo; cum vero homo dicitur coloratus, non per se dicitur, idcirco quod homo in eo quod homo est, color non est sed quoniam habet colorem, idcirco dicitur coloratus. Ergo quemadmodum album idcirco color est per se quoniam color naturale quoddam est genus, homo vero idcirco coloratus dicitur quoniam habet colorem; et dicitur album quidem per se et principaliter color, homo vero secundum accidens coloratus. Ita quoque et quantitates; haec enim omnia quae dicta sunt, id est linea, superficies, corpus, numerus, oratio, tempus, per se et secundum et propriam naturam quantitates dicuntur. Si qua vero alia dicuntur secundum aliquam quantitatem, non per se sed secundum accidens nominantur: ut album dicitur multum, non idcirco quod albedo sit quantitas sed quoniam multa sit superfieies, in quo illud album sit. Si enim multum spatium fuerit in quo album sit, multum erit album; quocirca non quoniam ipsa albedo per se aliquam quantitatem habet sed quoniam in aliqua quantitate est constituta, id est in superficie, idcirco secundum superficiem quod est quantitas quas scilicet per se multa est, album multum dicitur, non secundum se, atque ideo album non per se, nec principaliter sed secundum accidens multum dicitur. Actio quoque ideo dicitur longa, quod multo tempore acta sit; multam vero aegritudinem idcirco dicimus, si eadem multo sit tempore; et motum multum idcirco, quod multo tempore factus sit, ut si quis multo tempore eurrat. Si quis vero multum cursum illum dicat esse qui sit velocissimus, ille convenienler sermone non utitur. Velocitas enim non quantitas sed potius qualitas est, quales enim secundum eam dicimur, id est veloces, non quanti. Secundum quantitatem vero multum dicitur, hoc autem monstrat ipsa rerum definitio; si quis enim album multum monstrare desideret, et proprio termino rationis includere, illi dicendum est multum esse album quod in multa iaceat superficie, et motum atque actionem multam quae longo tempore perficiatur; quare quoniam ad proprias quantitates aspicientes, atque ad eas res caeteras referentes, quantitates vocamus, ut album ad superficiem quae vera est quantitas, et cursum, et aliquem motum atque actionem ad tempus, quod ipsum vere quantitas est reducimus, haec non per se quantitates sed per eas quae proprie quantitates dictae sunt nominantur. Quocirca quoniam quod per se non est, secundum accidens est, recte caetera omnia praeter ea quae superius in quantitate numerata sunt per accidens esse, non per se quantitates dicuntur. Solae igitur proprie et secundum se ipsae quantitates dicuntur, hae quae superius comprehensae sunt. Aliae vero per se quantitas non sunt sed (ut ipse ait) forte per accidens. Post divisionem igitur continui atque discreti et habentis positionem partium et non habentis, et quae sunt per se principaliter, et rursus per accidens quantitates, solito more viam inveniendi quantitatum proprietas ingreditur. QUANTITATIBUS VERO NIHIL EST CONTRARIUM (IN HIS ENIM QUAE DEFINITA SUNT MANIFESTUM EST QUONIAM NIHIL EST CONTRARIUM, UT BICUBITO VEL TRICUBITO VEL SUPERFICIEI VEL ALICUI TALIUM -- NIHIL ENIM EST CONTRARIUM), NISI MULTA PAUCIS DICAT QUIS ESSE CONTRARIA VEL MAGNUM MINORI. HORUM AUTEM NIHIL EST QUANTITAS SED AD ALIQUID; NIHIL ENIM PER SE IPSUM MAGNUM DICITUR VEL PARUUM SED AD ALIUD REFERTUR; NAM MONS QUIDEM PARUUS DICITUR, MILIUM VERO MAGNUM EO QUOD HOC QUIDEM SUI GENERIS MAIUS SIT, ILLUD VERO SUI GENERIS MINUS; ERGO AD ALIUD EST EORUM RELATIO; NAM, SI PER SE IPSUM PARURUM VEL MAGNUM DICERETUR, NUMQUAM MONS QUIDEM ALIQUANDO PARUUS, MILIUM VERO MAGNUM DICERETUR. RURSUS IN VICO QUIDEM PLURES HOMINES ESSE DICIMUS, IN CIVITATE VERO PAUCOS CUM SINT EORUM MULTIPLICES, ET IN DOMO QUIDEM MULTOS, IN THEATRO VERO PAUCOS CUM SINT PLURES. AMPLIUS BICUBITUM VEL TRICUBITUM ET UNUMQUODQUE TALIUM QUANTITATEM SIGNIFICAT, MAGNUM VERO VEL PARUUM NON SIGNIFICAT QUANTITATEM SED MAGIS AD ALIQUID; QUONIAM AD ALIUD SPECTATUR MAGNUM ET PARUUM; QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC AD ALIQUID SUNT. AMPLIUS, SIVE ALIQUIS PONAT EA ESSE QUANTITATES SIVE NON PONAT, NIHIL ILLIS ERIT CONTRARIUM; QUOD ENIM NON EST SUMERE PER SE IPSUM SED AD SOLAM ALTERIUS RELATIONEM, QUOMODO HUIC ALIQUID ERIT CONTRARIUM? AMPLIUS, SI SUNT MAGNUM ET PARUUM CONTRARIA, CONTINGIT IDEM SIMUL CONTRARIA SUSCIPERE ET EA IPSA SIBI ESSE CONTRARIA. CONTINGIT ENIM SIMUL IDEM PARUUM ESSE ET MAGNUM (EST ENIM AD HOC QUIDEM PARUUM, AD ALIUD VERO HOC IDEM IPSUM MAGNUM); QUARE IDEM PARUUM ET MAGNUM ET EODEM TEMPORE ESSE CONTINGIT, QUARE SIMUL CONTRARIA SUSCIPIET; SED NIHIL EST QUOD VIDEATUR SIMUL CONTRARIA POSSE SUSCIPERE; UT SUBSTANTIA, SUSCEPTIBILIS QUIDEM CONTRARIORUM ESSE vidETUR SED NULLUS SIMUL SANUS EST ET AEGER, NEC ALBUS ET NIGER SIMUL; NIHILQUE ALIUD SIMUL CONTRARIA SUSCIPIT. ET EADEM SIBI IPSIS CONTINGIT ESSE CONTRARIA; NAM SI EST MAGNUM ET PARUUM CONTRARIUM, IPSUM AUTEM IDEM SIMUL EST PARUUM ET MAGNUM, IPSUM SIBI ERIT CONTRARIUM; SED IMPOSSIBILE EST IPSUM SIBI ESSE CONTRARIUM. NON EST IGITUR MAGNUM PARUO CONTRARIUM NEC MULTA PAUCIS; QUARE SI QUIS HAEC NON RELATIVA ESSE DICAT, QUANTITAS TAMEN NIHIL CONTRARIUM HABEBIT. Definita quantitas est quae alicuius termino numeri coercetur, ut sunt duo, vel tres, et quae ad hunc modum dicuntur, ac si dicas bicubitum, tricubitum, et caetera. Et quae aliquid propria significatione definita sunt, ut est superficies et soliditas, quid enim et quae quantitates dicantur, agnoscitur: quocirca harum, quoniam sunt definitae, nulla ulli contraria est; neque enim bicubito tricubitum contrarium est, sicut neque numerus ulli numero, at vero nec superficies soliditati, nec aliquid horum. Sed quoniam quaedam indefinita imaginem quamdam quantitatis ostendunt ut magnum et paruam, quae videntur esse contraria, haec sibi Aristoteles opponit dicens non esse quantitates sed magis ad aliquid, quod ipsius sermonibus astruamus. Sed non est hoc proprium quantitatis non habere contraria, non enim omnis quantitas contrariis caret sed nobis per singula quaeque currentibus quae quantitatis species contraria non habeant, quaeue habeant, considerandum est linea quidem contrario caret, linea enim lineae contraria non est; sed si quis dicat rectam lineam curuae lineae esse contrariam, fallitur. Non enim in eo quod linea est, curua linea recta? Lineae contraria est sed in eo quod curua est, et in his non lineae videntur esse contrariae sed ipsa rectitudo et curuitas. Quare non in eo quod quantitas est, linea curua rectae lineae contraria est sed in eo quod qualis. Nam quoniam curuitas et rectitudo contraria sunt, secundum id quod curua et recta est linea, non secundum quod lineae sunt, suscipiunt contrarietatem; quocirca linea in eo quod linea est contrario caret. At vero nec superficies superficiei contraria est. Sed forte dicat aliquis albam superficiem nigrae superficici esse contrariam; cui similiter occurrendum est, in co quod superficies sunt non esse contraria sed in eo quod est in his albedo utque nigredo, quae contraria esse quis dubitat? Eadem quoquemodo et lenem et asperam superficiem si quis contrarias dixerit, refellitur, quod non secundum quantitatem superficici sed secundum qualitatem asperitatis lenitatisque ipsae superficies contrarium tenent. At vero nec corpori quidquam ullo modo contrarietatis opponitur, cui si qui dicat incorporale esse contrarium, refutabitur, quod omnis contrarietas propriis nominibus dicitur, ut bonum malum, album nigrum; corporale vero et incorporale non secundum contrarietatem sed secundum privationem habitumque proferuntur. Incorporale enim corporis est privatio. Nec tempori quoque quidquam contrarium est sed si nox diei videtur opposita, non in eo quod tempus est sed in eo quod dies est aer lucidus, nox aer obscurus. Aer vero neque tempus neque quantitas est, lumen quoque et obscuritas qualitates sunt et non quantitates. Oratio etiam quamquam videatur habere contrarium, tamen contrariam non habet oppositionem, videtur etiam vera oratio esse et falsa, quae sunt contraria sed oratio vera et falsa in significatione est. Cum enim quod est oratio significat, vera est; cum vero quod non est designat, tunc falsa est. Oratio vero non secundum id quod significat in quantitate numeratur sed secundum id quod profertur. Secundum enim id quod proferimus orationem, longa syllaba brevique componitur, quae omnem orationem non secundum id quod ipsa significat sed secundum id quod ad prolationem est, metiantur. Illud quoque manifestum est in numero non esse contraria, duo enim tribus, vel tres quaternario contrarli non sunt, nec ullus alter numerus cuilibet alii numero contrarius est. Locus vero habet aliquam contrarietatem, ursum enim et deorsum contrarium est. Sed quidam volunt non esse quantitatis quod sursum dicitur et deorsum sed potius habitudines, quas Graeci *skeseis* vocant: quae enim pars ad caput nostrum est, hunc sursum vocamus; quae pars pedibus subiacet, illa deorsum dicitur; quocirca secundum habitudinem quamdam quodammodo ad nos ipsos relata sursum deorsumque praedicamus. Herminius quoque ait sursum et deorsum non esse loca sed quamdam quodammodo positionem loci. Est enim res sursum atque deorsum, non est autem idem esse aliquid loci, quod locum, loci enim est positio in loco, locus vero ipse positio non est. Sed si quis omnem mundi respiciat figuram, quomodo rerum omnium formam sphaerae ambitus amplectitur, et terra media est, in sphaera vero nihil est ultimum, nisi quod eiusdem terminum medietatis obtinuit, quidquid in extremo caeli convexitatis est, illud sursum esse dicet, quod vero est medium, illud deorsum. Quocirca sunt secundum locum sursum deorsumque contraria, sursum in caelo, deorsum in terra, idcirco quod a se longe disiuncta sunt, unde post quoque contraria hoc modo sunt definita. Contraria sunt quaecumque a se longissime distant: hinc est videlicet tracta definitio, quod quoniam caelum terraque distant, longissime distare videbantur, et illud esse sursum, haec vero deorsum, quoniam deorsum aeque sursum non ob aliam causam contraria dicuntur, nisi quod a se longe disiuncta sunt, quod esse contrarium longissime diatare definiunt, quod Aristoteles hoc modo pronuntiat. MAXIME AUTEM CIRCA LOCUM ESSE VIDETUR CONTRARIETAS QUANTITATIS; SURSUM ENIM EI QUOD EST DEORSUM CONTRARIUM PONUNT, REGIONEM MEDIAM DEORSUM DICENTES PROPTEREA QUOD MULTA DISTANTIA EST MEDIETATIS AD MUNDI TERMINOS. VIDENTUR AUTEM ET ALIORUM CONTRARIORUM DEFINITIONEM AB HIS PROFERRE; QUAE ENIM MULTUM A SE INVICEM DISTANT IN EODEM GENERE CONTRARIA ESSE DEFINIUNT. In omni enim sphaera media terra est, quod ipsa astrorum demonstrat ordinata vertigo, adiecit quoque causam cur huiusmodi loca contraria dicantur, quod multa distantia est medietatis ad mundi terminus. TERMINOS vero MUNDI caeli ultimam convexitatem dicit; ex hac igitur loci contrarietate et caetera definita esse contraria sic demonstrat. Videntur autem et aliorum contrariorum definitionem ab his proferre, quae enim multum a se distant in eodem genere contraria esse definiunt. Sed quoniam ne ordo contrarietate quantitatis impediretur, idcirco superioribus, in quibus singulis quantitatibus nihil esse contrarium dicebamus, has loci contrarietates adiecimus, et quaedam in medio praetermissa sunt, rursus ad superiora redeamus, ut expositionis ordo sese ipse continvet. Ait enim superius, cum quantitati nihil esse contrarium proponeret, bicubito, veltricubito, vel superficiei, vel aliqui talium nihil posse esse contrarium. Definitis enim his quantitatibus, contrarium nihil esse videtur, ut duobus vel tribus sed quadam cum sint indefinita, nec quantitates et contraria videantur, haec rursus adiecit. Nisi multa paucis dicat quis esse contraria, vel magnum paruo. Horum autem nihil est quantitas sed ad aliquid, nihil enim per seipsum magnum dicitur vel paruum sed ad aliquid refertur. Nam mons quidem paruus dicitur, milium vero magnum, eo quod hoc quidem sui generis maius sit, illud vero sui generis minus. Ergo ad aliud est eorum relatio, nam si per seipsum paruum vel magnum diceretur, nunquam mons quidem aliquando paruus, milium vero nunquam magnum diceretur. Rursus in vico quidem plures homines esse dicimus, in civitate vero paucos, cum tamen sint eis multo plures, et in domo quidem multos, in theatro vero paucos, cum sint plures. Amplius bicubitum et tricubitum et unumquodque talium quantitatem significat, magnum vero vel paruum non significat quantitatem sed magis ad aliquid, quoniam ad aliquid spectatur magnum et paruum; quare manifestum est quod haec ad aliquid sunt. Quemadmodum definitae quantitates contrariis non tenentur, ipse superius comprobavit dicens bicubito vel superficiei nihil esse contrarium, indefinitae vero, ut est magnum et paruum, multa et pauca, dant imaginem contrarietatis. Sed illud occurrit, has non esse quantitates. Omnis enim quantitas per se dicitur, bicubitum enim et tricubitum, et duo, et tres, et superficies ad nihil aliud refertur, magnum vero vel paruum sine aliis dici non possunt. Cum enim dicis magnum, ad alicuius alterius comparationem atque aequationem refertur. Eodem quoque modo et paruum, quod ipsa Aristotelica probat inductio. Si enim magnum et paruum per se dicerentur ad alterius relationem, nunquam diceremus montem paruum et milium magnum. Si enim magnum paruumque non ad relationem alterius diceretur, mons semper magnus, semperque paruum milium diceretur. Sed aliquem collem ad Atlantis altitudinem conferentes, dicimus paruum montem, et rursus milium ad minora alia grana milii conferentes, magnum milium nominanus, et simpliciter quidquid magnum vel paruum dicitur ad eiusdem generis speciem referentes, magnum paruumque nominamus, ut monti montem comparamus, milium vero milio, et alia huiusmodi. Multa et pauca eodem modo dicuntur; dicimus enim, si fuerint homines centum in vico, plures esse homines. At vero si in civitate sint, paucos dicimus, nunc ad paruitatem vicorum, nunc ad magnitudinem civitatum conferentes. Rursus si sint in domo quinquaginta multi sunt si in theatro pauci, ideo quod tunc in theatro esse paucos dicimus cum ad eos quanti in theatro esse debebant comparamus. Amplius: quoniam consistit magnum paruumque referri semper ad alterum, singulas vero quantitates nihil ad aliud comparantes, suas ac proprias nominamus, ut tres, duo, quator, lineam, superficiem, magnum paruumque, multa et pauca, a quantitatis divisione disiunota sunt. Sunt enim ista non quantitates sed potius relativa. Amplius: sive aliquis ponat eas esse quantitates, sive non ponat, nihil illis erit contrarium, quod enim non est sumere per seipsum sed ad solam alterius relationem, quomodo huic aliquid erit contrarium. Hoc quoque validissimo argumento probatur quantitatibus his quae praedictae sunt nihil esse contrarium, nisi soli forsitan loco. Nam si quis magnum et paruum, vel multa et pauca in quantitatibus ponat, etiam hoc si concedatur, tamen quoniam semper referuntur ad aliud, contrariis non tenentur. Omne enim contrarium per se consistit, ne illud ad alterius comparationem relationemque profertur, ut bonum non dicitur mali bonuum, nec rursus malum boni malum sed ipsum in propria natura et prolatione consistit. Quaecumque sunt contraria, eodem modo sunt. Magnum vero et paruum quoniam non per se constant sed ad alterius relationem referuntur, contraria esse non possunt. Amplius: si sunt magnum et paruum coniraria, contingit idem simul contraria suscipere et ea ipsa sibi esse contraria. Contingit enim simul idem paruum esse et magnum. Est enim aliquid ad hoc quidem paruum, ad aliud vero hoc idem ipsum magnum. Quare idem paruum et magnum et eodem tempore esse contingit, quare simul contraria suscipiet sed nihil est quod videatur simul contraria posse suscipere, ut substantia, susceptibilis quidem contrariorum videtur esse sed non suscipit in uno eodem tempore, nam nullus simul est sanus et aeger, nec albus et niger simul, nihilque aliud simul contraria suscipiet. Et eadem sibi ipsi contingit esse contraria. Nam si est magnum paruo contrarium, ipsum autem idem simul est paruam et magnum, ipsum sibi erit contrarium, sed impossibile est ipsum sibi esse contrarium. Non est igitur magnum paruo contrarium. Constat hoc et immutabile in propria ratione consistit, unam eamdemque rem uno eodemque tempore contraria non posse suscipere, ut substantia susceptibilis quidem contrariorum est. Homo namque cum substantia sit, et aegritudinem suscipiet et salutem sed non eodem tempore, et albedinem et nigredinem capit sed alio atque alio tempore, ut vero uno eodemque tempore contraria utraque suscipiat, fieri nequit, quodsi magnum paruo aliquis contrarium ponat, eveniet quoddam impossibile, ut una atque eadem res eodem tempore utrasque suscipiat contrarietates, et eadem ipsa sibi possint esse contraria. Ponamus enim magnum paruo esse contrarium sed una atque eadem res, uno eodemque tempore potest magna esse et parua, ut si sit decem pedum mensura collata ad duorum pedum magnitudinem, magna est ad centum vero cubitorum magnitudinem mansuramque collata, eadem parua est. Potest ergo eadem res eodem tempore et magnitudinis esse susceptibilis et paruitatis. Eadem enim res uno eodemque tempore ad maiorem minoremque collata eadem magna et parua est. Quod si magnum paruo contrarium est, eadem vero res eodem tempore et magnitudinem suscipit et paruitatem, eodem tempore contingit ut eadem res contraria utraque suscipiat sed hoc impossibile est. Quocirca quoniam res eadem eodem tempore contrariorum susceptibilis non est, potest vero una atque eadem res magnitudinem paruitatemque suscipere, magnitudo et paruitas contraria non sunt. At vero si quis magnum paruo contrarium ponat, eadem ratione unam eamdemque rem sibi ipsi dicit esse contrariam. Nam si paruum magno est contrarium, eadem vero res (ut docui) parua et magna potest esse ad aliud et ad aliud scilicet comparata. Res quae parua et magna est, eadem sibi potest esse contraria, paruum enim et magnum contrarium dictum est sed est impossibile. Quocirca paruum et magnum contraria non sunt. Post huiusmodi vero rationem et argumentationis firmissimae propositionem de contrarietate disserit loci, de qua superius iam diximus, quocirca praetereunda est, ne repetitae expositionis iteratio, fastidio sit potius quam doctrinae. NON VIDETUR AUTEM QUANTITAS SUSCIPERE MAGIS ET MINUS, UT BICUBITUM (NEQUE ENIM EST ALIUD ALIO MAGIS BICUBITUM); NEQUE IN NUMERO, UT TERNARIUS QUINARIO (NIHIL ENIM MAGIS TRIA DICENTUR, NEC TRIA POTIUS QUAM TRIA); NEC TEMPUS ALIUD ALIO MAGIS TEMPUS DICITUR; NEC IN HIS QUAE DICTA SUNT OMNINO ALIQUID MAGIS ET MINUS DICITUR. QUARE QUANTITAS NON SUSCIPIT MAGIS ET MINUS. Aliud proprium rursus apposuit quod quamvis quantitatis proprium non sit, cur tamen non sit ipse reticuit, nobis tamen est demonstrandum; quod autem dicit tale est: quantitas magis et minus non suscipit, nullus enim numerus alio numero nec magis nec minus est numerus. Nam ternarius si quinario comparetur, nec magis nec minus est numerus, et rursus ipsi tres sibi ipsis comparati, nec magis nec minus sunt tres, nec tempus quoque habet aliquid magis et minus, ut magis aliud tempus sit alio tempore, longius quidem tempus tempore esse potest, ut vero dicatur magis tempus alio tempore vel minus fieri nequit. Hoc quoque etiam in substantia demonstratum est, homo namque alio homine non est magis homo, nec minus. Idem quoque evenit etiam in quantitate. Quod quia etiam in substantia est, proprium quantitatis hoc non est, habet hoc quoque quantitas ut in sequenti ordine ipse monstravit. Quocirca quoniam prius hoc de substantia dixerat, nunc vero idem de quantitate proposuit, idcirco non esse hoc proprium quantitatis, commemorare neglexit. Cuius enim esset alterius non suscipere magis et minus, tunc dixit cum de substantia disputaret. Ait enim quod substantia nunquam magis minusue suscipient, quocira ad maxima propria solita constituendi ratione regressus est. PROPRIUM AUTEM MAXIME QUANTITATIS EST QUOD AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR. SINGULUM ENIM EARUM QUAE DICTAE SUNT QUANTITATUM ET AEQUALE DICITUR ET INAEQUALE, UT CORPUS AEQUALE ET INAEQUALE, ET NUMERUS AEQUALIS ET INAEQUALIS DICITUR, ET TEMPUS AEQUALE ET INAEQUALE; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS QUAE DICTA SUNT E SINGULIS AEQUALE ET INAEQUALE DICITUR. IN CAETERIS VERO QUAE QUANTITATIS NON SUNT, NON MULTUM VIDEBITUR AEQUALE ET INAEQUALE DICI, NAMQUE DISPOSITIO AEQUALIS ET INAEQUALIS NON MULTUM DICITUR SED MAGIS SIMILIS, ET ALBUM AEQUALE ET INAEQUALE NON MULTUM SED SIMILE. QUARE QUANTITATIS PROPRIUM EST AEQUALE ET INAEQUALE NOMINARI. Quantitatis proprium apertissime designat esse, quod secundum quantitatem aequalitas et inaequalitas nuncupatur. Singulae enim quantitates aequales atque ivaequales dicuntur, ut aequalis linea lineae, et rursus inaequalis, et superficiei superficies aequalis atque inaequalis dicitur, et corpus aequale et inaequale dicitur. Numerus quoque et tempus et locus aequalis atque inaequalis dicitur. In aliis autem quae quantitates non sunt, non est facile ut aequalitas vel inaequalitas nominetur dispositiones ergo quae affectiones appellantur, non dicuntur aequales vel inaequales sed magis similes et dissimiles. Dispositio autem vel affectio est ad aliquam rem accommodatio et applicatio, ut si quis grammaticam legens, qui nondum perdidicit, habet ad eam aliquam dispositionem, id est, ea affectus est, et habet aliquid accommodatum, et quasi propinquum. Possunt autem similiter esse duo dispositi et affecti, aequaliter vero minime, ut duo similiter esse albi, aequaliter vero non. Nam si quis de duobus similiter albis aequaliter esse albos dicat, recta nominis nunc usurpatione non utitur. Omne enim aequale et inaequale, in mensura et in quantitate perficitur. Simile vero et dissimile quemadmodum de quantitate non dicitur, ita nec de alia qualibet re nisi de quantitate, recte aequalitas et inaequalitas nuncupantur. Quare proprium est quantitatis aequale et inaequale nominari. Sed quoniam de quantitate dictum est, ad relativorum ordinem transeamus. Post quantitatis tractatum tertium praedicamentum de relativis ingreditor, quare relativa hoc modo definit. AD ALIQUID VERO TALIA DICUNTUR QUAECUMQUE HOC IPSUM QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR, VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD, UT MAIUS HOC IPSUM QUOD EST AD ALIUD DICITUR (ALIQUO ENIM MAIUS DICITUR), ET DUPLEX AD ALIUD DICITUR HOC IPSUM QUOD EST (ALICUIUS ENIM DUPLEX DICITUR); SIMILITER AUTEM ET QUAECUMQUE ALIA TALIA SUNT. Cur autem de his quae sunt ad aliquid disserat, omisso interim de qualitate tractato, haec causa est, quod posita quantitate magis minusue esse necesse est. Quare cum quantitatem continuo ad aliquid consequatur, recte post quantitatem relativorum series ordinata est. Illud quoque est in causa, quod superius com de quantitate tractaret, relativorum mentio facta est, cum de magno paruoque diceretur, ut ergo continens et non esset operis interrupta distinctio, ideo quantitate finita de relatione, proposuit. Quod autem ait, ad aliquid vero talia dicuntur, hoc monstrat, quod non sicut quantitas per se et singulariter intelligi potest, eodem quoque modo substantia et qualitas, et unumquodque aliorum praedicamentorum, sicut per se constat, ita etiam per se et singulariter intelligitur: sic ad aliquid per se et singulariter capi intellectu non potest, ut dicamus esse ad aliquid singulariter. Quidquid enim in natura relationis agnoscitur, id cum alio necesse est consideretur; cum enim dico dominus, per seipsum nihil est, si seruus dicit. Quocirca cum unius relativi nuncupatio mox secum etiam aliud trahat ad aliquid, unum esse per se non potest, atque ideo non dixit Aristoteles: Ad aliquid vero tale dicitur sed, plurali numero, talia dicuntur, inquit, demonstrans relativorum intelligentiam non in simplicitate sed in pluralitate consistere; non esse autem quamdam per se relativorum naturam sine coniunctione aliqua alterius subsistente, ipse Aristoteles monstrat, qui dicit ea esse relativa, quaecumque hoc ipsum quod sunt aliorum dicuntur. Docet enim aliqua coniunctione alterius relativa formari, hoc ipsum enim quod sunt aliorum dicuntur. Quod enim est dominus, hoc alterius dicitur, id est serui. Sive autem relativa dicamus, sive ad aliquid, nihil interest. Ad aliquid enim dicitur quod ipsum quidem cum per se nihil sit, relatum tamen ad aliud constat, ut dominus, sit desit id ad quod dicitur, id est, seruus, non est, dicitur enim ad seruum; munifestum ergo est si seruus desit, dominum dici non posse, quare dominus ad aliquid dicitur, id est ad seruum. Relativa quoque dicuntur idcirco, quod eorum nuncupatio semper ad aliquid referatur, ut domini ad seruum, quare nihil interest quolibet modo dicatur. Huiusmodi autem definitio Platonis esse creditur, quae ab Aristotele paulo posterius emendatur. Relativorum autem alia eisdem casibus referuntur, alia diversis, alia vero omni sunt casu carentia. Qued scilicet monstrans addidit, vel quomodolibet aliter ad aliud. Quid autem est, ipsius pene textus sermone moustratur. Cum enim dico dominus serui dominus, ad genitivum casum reddidi nominativum, et rursus ad eumdem si convertero. Dico enim seruus domini seruos, et hic quoque nominativus ad genitivum relatos est. Eodem quoque modo sese habet pater filii pater, et filios patris filius, et magister discipoli magister, et discipulus magistri discipulos, haec ergo id quod sunt, similiter aliorum dicuntur. Nam quod aliorum dicuntur secundum gentiivum redditur casum, alia vero non secundum eumdem casum consequentiam reddunt. Sensus enim ad aliquid est, sensibilis enim rei est sensus. Quod enim sensibile est sentiri potest, quod senliri potest, sensibile est, et nunc quidem sensus sensibilis rei sensus genitivo accommodatus est. Huius enim rei sensibilis dictum est, at si convertas, 218A fiet. Sensibilis res sensu sensibilis est. Sed cum sic casui septimo redditur nominativus in hac relatione, quae dicit sensibile sensu sensibile est, non eodem casu quo superius dictum est convertitur. Dicimus enim sensus sensibilis rei sensus est, et hic nominativus redditur ad genitivum. Haec enim relatio ad septimum casum se aptari non patitur. Scientia quoque scibilis rei scientia est, siquidem hoc scitur quod sciri potest et quod sciripotest, scibile est sed non eadem ratione, nec ad eumdem casum relatio ista convertitur. Dicimus enim scibilis res scientia scibilis est. Est enim prima relatio ad genitivum, secunda conversio ad septimum. Haec quoque relatio secundum eosdem convertitur casus, cum dicimus maius minore esse maius, et minus maiore esse minus.  Duplum quoque et medium relativa sunt sed et eisdem casibus convertuntur. Duplum namque dimidii duplum est, dimidium vero dupli dimidium est. Sunt autem alia quoque relativa quae ipse sic addidit. AT VERO SUNT ETIAM ET HAEC AD ALIQUID, UT HABITUS, AFFECTIO, SCIENTIA, SENSUS, POSITIO; HAEC ENIM OMNIA QUAE DICTA SUNT HOC IPSUM QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR ET NON ALITER; HABITUS ENIM ALICUIUS HABITUS EST, ET SCIENTIA ALICUIUS SCIENTIA, ET POSITIO ALICUIUS POSITIO, ET ALIA QUIDEM SIMILITER. De sensu quidem et scientia dictum est superius, nunc vero de habitu, dispositione, et positione dicendum est. Dispositio est ad aliquam rem mobilis applicatio, ut si quisquam flammae propinquus calcat, ille dispositus dicitur ad calorem, id est, habens aliquam applicationem coniunctionemque ad calorem. Idem vero est affectio quod dispositio, ne nouo nomine error oriatur: et ideo dispositio cum eit quaedam ad aliam rem coniunctio, vel ab alia affectio, facile mobilis est, celerius etenim permutatur. Habitus autem est dispositionis vel affectionis firma et non facile permutabilis accessio, ut si quisquam in sole ambulans fuscior fiat, dispositus ad nigredinem dicitur et nigredine affectus. Sin autem illa nigredo fortius et immutabiliter corpus infecerit, habitus nominatur: quocirca habitus est inveterata affectio. Unde omnis habitus dispositio vel affectio est, non autem omnis dispositio vel affectio habitus. Et ne multa dicenda sint, hoc quoque constat in habitu et dispositione, quod habitus immutabilis passio est, dispositio vero non similiter sed affectio quaedam est, et ad aliquam rem coniunctio, quae potest facile permutari. Positio vero est alicuius rei collocatio, ut est statio, sessio, inclinatio, accubatio, et alia huiusmodi. Nam et qui stat quodammodo positus esse dicitur et collocatus. et qui sedet, et qui accumbit, et qui secundum caeteras positiones est positus appellatur. Quocirca et statio et sessio et accubatio positiones erunt. Sed quoniam quid essent dictum est, nunc si sunt ad aliquid videamus, habitum relative dici ea res probat, quae aliis quoque rebus documento fuit esse relativis, ut est in sensu atque in scientia. Idcirco enim dictum est sensum sensibilis rei esse sensum, quod res sensibilis est quae sentiri potest; est ergo habitus habilis rei habitus. Habilis enim res est quae haberi potest, illius enim rei habitus est quae haberi potest. Quocirca erit habitus habilis rei habitus sed res quoque habilis habitu erit habilis, ipso enim habita res quae haberi possunt habemus. Dispositio quoque eodem modo. Dispositio namque dispositae rei dispositio est, et disposita res dispositione disposita est. Caloris enim dispositio calentis, id est, ad calorem dispositi, dispositio est. Eodem modo dispositus ad calorem caloris dispositione dispositus est: velut si hoc modo sit dictum, omnis affectio affecti affectio est, et omne affectum affectione affectum est. Et calor calentis fit calor, et calens calore fit calidum. Positio quoque relativa est, nam positio positae rei positio est, et posita res positione posita est, et hoc intelligi convenit secundum priorem habitus et dispositionis modum. Illa quoque res probat positionem esse ad aliquid, quod eius species relativae sunt; statio enim stantis rei statio est, et qui stat statione stat; et de sessione quidem et de accubitu idem dici potest. Quocirca et habitus et dispositio vel affectio, et positio relativa sunt, et haec omnia vel similibus vel dissimilibus convenientibus tamen praedicationi casibus convertuntur. Eorum autem quae secundum casus convertuntur, alia sunt quae eodem nomine praedicantur, alia vero quae dispari: cum enim dico simile simili simile est, et aequale aequali aequale est, et dissimile dissimili dissimile est, eisdem vocabulis 219C eisdemque nominibus tota fit praedicatio. Cum autem dico duplum medii duplum, vel maius minore maius, disparibus vocabulis facta est praedicatio. Quoniam vero relativorum definitionem ita proposuit, ut diceret: ad aliquid vero talia dicuntur quaecumque hoc ipsum quad sunt aliorum dicuntur, vel quomodolibet, aliter ad aliud; quid esset hoc ipsum quod sunt aliorum dicuntur, iam diximus nunc quid sit; quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud, requirendum est. Quod ipse Aristoleles couvenientibus in ordine probat exemplis; ait enim: AD ALIQUID ERGO SUNT QUAECUMQUE ID QUOD SUNT ALIORUM DICUNTUR VEL QUOMODOLIBET ALITER AD ALIUD; UT MONS MAGNUS DICITUR AD MONTEM ALIUM (MAGNUM ENIM AD ALIQUID DICITUR), ET SIMILE ALICUI SIMILE DICITUR, ET OMNIA 219D TALIA SIMILITER AD ALIQUID DICUNTUR. EST AUTEM ET ACCUBITUS ET STATIO ET SESSIO POSITIONES QUAEDAM, POSITIO VERO AD ALIQUID EST; IACERE AUTEM VEL STARE VEL SEDERE IPSA QUIDEM NON SUNT POSITIONES, DENOMINATIVE VERO EX HIS QUAE DICTAE SUNT POSITIONIBUS NOMINANTUR. Quoniam accubitus et statio et sessio positiones dicuntur, et quonism omnis positio ad uliquid est, sufficienter superius comprehensum est. Nunc vero quid sit quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud, expediemus, in relatione per quam dicimus filius patris filius, nulla coniunctio mista est, nisi tantum sola casuum vis praedicationis huius membra coniungit. Cum autem dico montem magnum, ad alium referens paruam, ita propono, mons magnus, ad montem paruum, et mons paruus ad magnum, hic nullorum casuum vis: quamquam enim accusativus videtur esse permistus, tamen ille huius relationis vim non tenet sed praepositio quae ad accusativum datur; cum enim dico, mons magnus ad paruum montem, praepositio sola est quae vim huius continet relationis, ut si quis dicat magnus mons paruum montem, nihil significet definitum. Quocirca quamvis accusativus casus in hac propositione sit, non tamen hic vim casus tenet sed praepositio; atque hoc est quod ait, vel quomodolibet aliter ad aliud, ut quoniam superius secundum casus relationes fieri dixerat, erant autem quaedam relationes quae nullis casibus tenerentur, adiecit hoc, vel quomodolibet aliter ad aliud, ac si diceret: Omnis relatio aut casibus fit, quod per hoc demonstravit quod ait, quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, aut praeter casus sunt, quod haec sententia docet, vel quomodolibet aliter ad aliud, atque haec hactenus. Sed cum positio sit ad aliquid, et sint species eius relativae (sessio enim et statio relativa sunt) sedere et stare nulla relatio est. Stare namque et sedere de statione et sessione denominative dicuntur. Omnis autem denominatio non est id quod est ea res de qua nominatur, ut grammaticus, non enim idem est quod grammatica de qua nominatus est. Quocirca si sedere de sessione, et stare de statione denominativum est, sessio vero et stati relativa sunt sedere et stare, quae a relativis denominativa sunt, relativorum genere non tenentur. Et universaliter, quidquid ex quibuslibet positionibus 220C denominatur, illud non ad relativa sed ad praedicationem quae situs dicitur reduci potest. INEST AUTEM ET CONTRARIETAS IN RELATIONE, UT VIRTUS MALITIAE CONTRARIUM EST, CUM SIT UTRUMQUE AD ALIQUID, ET SCIENTIA INSCIENTIAE. NON AUTEM OMNIBUS RELATIVIS INEST CONTRARIETAS; DUPLICI ENIM NIHIL EST CONTRARIUM, NEQUE VERO TRIPLICI NEQUE ULLI TALIUM. Quemadmodum in substantia vel quantitate si eorum esset proprium contraria suscipere rimatus est, ita quoque nunc in relativis de contrarietate considerat, utrum relativorum sit proprium contraria posse suscipere, et quoniam virtus et vitia utraque sunt habitus, virtus enim est mentis affectio in bonam partem, et difficile commutabilis, vitium affectio in malam partem, ipsa quoque difficile mobilis et diuturnitate perdurans: quoniam igitur et vitium et virtus habitus sunt, omnis autem habitus ad aliquid esse monstratus est (habilis enim rei habitus est) erunt virtus atque vitium relativa sed haec contraria sunt, igitur relativa contraria suscipere non recusant. Sed si dicat quis: quid causae est ut virtutem atque vitium ipsumque habitum paulo post inter qualitates numeret? Atqui ut alia significatione una res diversis generibus supponatur, nihil prohibet, Socrates namque in eo quod est Socrates substantia est, in eo quod pater vel filius ad aliquid; ita ad aliud atque ad aliud ducta praedicatione eamdem rem sub diverso genere nihil poni prohibet. Habitus quoque et virtus et vitium eodem modo est. Potest enim in 221A qualitate poni habitus quod ex eo quales homines nuncupentur, habentes enim dicimus aliquos rei habitus retinentes. Virtus quoque qualitas est idcirco quod ex eo boni homines dicuntur et secundum illam qualitatem, id est bonitatem, quales homines, id est bonos homines nuncupamus; similiter autem et vitium. Ipse quoque habitus ad aliam praedicationem dictus fit iterum relativus: quod enim habitus habilis rei habitus est, ad aliquid est; et quod alicuius virtus est, ad aliquid virtus est, et quod alicuius vitium est, ad aliquid quoque ipsum est. Ergo nihil impedit easdem res ad aliud atque aliud versas diversae praedicationi substitui. Ipsum vero ad aliquid praeter ullum aliud praedicamentum intelligere non possumus, ut patrem et filium, dominum et servam secundum 221B substantiam consideramus. Nam et qui dominus et qui seruus est, substantia est. Duplum et triplum secundum quantitatem, haece nim in quantitate consistunt, scientia vero et inscientia secundum qualitatem. Secundum enim has quales dicimur, scientes scilicet atque inscii. Quocirca quoniam praeter aliud praedicamentum per se relativa nullus intelliget, secundum ea praedicamenta de quibus intelligitur relatio, secundum ea dicitur contraria posse suscipere: ut Socrates ipse quidem substantia est sed substantia contrarium non recipit. Pater vero alque filius secundum substantiam praedicatur, non est enim pater atque filius nisi in substantia sit. Quocirca quoniam secundum substantiam dicitur, contrarietate caret. Rursus duplum vel dimidium secundum quantitatem dicitur, quantitas vero contraria non habere monstrata est; igitur nec duplum atque dimidium contrariis pugnat. Qualitas vero recipit contrarietatem; bonum enim et malum secundum qualitatem opponuntur, bonum igitur et malum contrariis non carent. Igitur secundum quae praedicamenta relativa dicuntur, si illa suscipiunt contraria, et relatio suscipit. Sin vero illa prius repudiant contrarietatem, nec illud ad aliquid quod secundum ea dicitur ulla unquam contrarietate dividitur. Quare habere contraria relationis proprium non est, nam neque in sola relatione est (habet enim hoc quoque qualitas), nec in omnibus ad aliquid considerari potest. Quae enim secundum talia praedicamenta dicuntur ad aliquid quae non recipiunt contrarietatem, ut secundum substantiam pater et filius, vel secundum quantitatem duplum et medium, in talibus relativis contraria nullo modo reperiuntur. Quod vero neque soli neque omnibus inest, hoc proprium non est; non est igitur proprium relationis habere contraria. VIDENTUR AUTEM ET MAGIS ET MINUS RELATIVA SUSCIPERE; SIMILE ENIM MAGIS ET MINUS DICITUR, ET INAEQUALE MAGIS ET MINUS DICITUR, CUM UTRUMQUE SIT RELATIVUM (SIMILE ENIM ALICUI SIMILE DICITUR ET INAEQUALE ALICUI INTEQUALE). NON AUTEM OMNIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; DUPLEX ENIM NON DICITUR MAGIS ET MINUS DUPLEX, NEC ALIQUID TALIUM. Quaeritur nunc an relationis sit proprium suscipere magis et minus; sed in hoc illa ratio servatur, quemadmodum in contrariis dictum est. Quoniam quaecumque secundum ea dicuntur quae contraria non recipiunt, ipsa quoque contrariis carent. In hoc vero cum secundum quantitatem dicatur aequale et inaequale, suscipit et magis et minus. Dicitur enim magis aequale et minus aequale. Eodem modo et simile, magis simile et minus simile dicitur. Sed si forte quis dicat: cur cum quantitatis sit dici aequale et inaequale, et quantitas magis atque minus non suscipiat, aequale et inaequale et intensione crescat et remissione minuatur? Dicendum est quoniam quemadmodum substantia ipsa per se in eo quod substantia est non est proprium, ipsi tamen proprium est contraria posse suscipere, ita et in quantitate consideratur, proprium enim est, non hoc ipsum cuius est proprium sed quaedam alia extrinsecus qualitas passioque. Passio enim qualitatis est, et quaedam qualitas aequale et inaequale dici potest: quod quoniam non est idem proprium quod est illud cuius est proprium, et aequale vel inaequale dici, non est quantitas cuius est proprium sed quaedam qualitas et passio quantitatis. Haec autem dicitur ad aliquid, ipsum enim quod est alterius dicitur, aequale enim aequali aequale dicimus, et similiter simile similis simile. Sed non capiunt omnia relativa magis et minus. Nullus enim potest dicere magis et minus duplum esse aliquid: nam sive denarius ad quinarium comparetur, sive quaternarius ad binarium, aeque uterque duplus est, aeque uterque medietas. Qualitas quoque recipit magis et minus, dicimus enim magis album et minus album. Quare quoniam neque omni relationi neque soli inest suscipere magis et minus, et per qualitatem relatio suscipit et magis et minus, relationis proprium non est suscipere magis et minus. OMNIA AUTEM RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR, UT SERUUS DOMINI SERUUS DICITUR ET DOMINUS SERUI DOMINUS, ET DUPLUM DIMIDII DUPLUM ET DIMIDIUM DUPLI DIMIDIUM, ET MAIUS MINORE MAIUS ET MINUS MAIORE MINUS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS. SED CASU ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM, UT SCIENTIA SCIBILIS REI DICITUR SCIENTIA ET SCIBILE SCIENTIA SCIBILE, ET SENSUS SENSIBILIS SENSUS ET SENSIBILE SENSU SENSIBILE. Clara haec est proponentis et non inuoluta sententia. Dicit enim omnia relativa ad convertentia dici, quod ipse propriis patefecit exemplis. Omne enim ad aliquid ita ad aliud praedicatur, ut illud ad quod praedicatur videatur posse converti, et hoc est quod ait: OMNIA RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR. Converti autem est, ut si prima res dicitur ad secundam, secunda rursus dicatur ad primam. Ponatur enim primus pater, secundus filius, et dicatur hoc modo, pater filii pater est; id rursus converti potest, ut prius ponamus filium, et talis sit praedicatio, filius patris filius. Ergo pater ad talem dicitur, id est ad filium qui convertitur: et filius qui dicitur ad patrem, ad talem rem dicitur, quae ipsa quoque convertitur, ut de filio praedicetur. Omniaque relativa hoc modo sunt, omne enim relativum ad tale aliquid praedicatur quod ipsum in praedicatione converti possit. Sed nec omnia dicuntur secundum eamdem vocis prolationem. Alia enim sunt quae eisdem casibus convertuntur, ut dictum est, pater enim filii pater est, et filius patris filius est. Alia vero quae non eisdem, ut scientia scibilis rei scientia est: hic genitivus est medius. Scibile autem scientia scibile est: hic septimus praedicationem tenet. Alia vero nullo (ut supra dictum est) casu coniuncta sibimet convertuntur, ut mons magnus ad paruum dicitur, et paruus ad magnum. Ergo OMNIA RELATIVA AD CONVERTENTIA DICUNTUR, quamvis non eisdem casibus convertantur, quod ipse ait dicens: SED CASU ALIQUOTIENS DIFFERT SECUNDUM LOCUTIONEM. Quod vero addidit nimis diligenter adiectum est. AT VERO ALIQUOTIENS NON VIDEBITUR CONVERTERE NISI CONVENIENTER AD QUOD DICITUR ASSIGNETUR SED PECCET IS QUI ASSIGNAT; UT ALA SI ASSIGNETUR AVIS, NON CONVERTITUR UT SIT AVIS ALAE; NEQUE ENIM CONVENIENTER PRIUS ASSIGNATUM EST ALA AVIS; NEQUE ENIM IN EO QUOD AVIS, IN EO EIUS ALA DICITUR SED IN EO QUOD ALATA EST (MULTORUM ENIM ET ALIORUM ALAE SUNT, QUAE NON SUNT AVES); QUARE SI ASSIGNETUR CONVENIENTER, ET CONVERTITUR; UT ALA ALATI ALA, ET ALATUM ALA ALATUM. ALIQUOTIENS AUTEM FORTE ET NOMINA FINGERE NECESSE ERIT, SI NON FVERIT POSITUM NOMEN AD QUOD CONVENIENTER ASSIGNETUR; UT REMUS NAVIS SI ASSIGNETUR, NON ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO (NEQUE ENIM IN EO QUOD EST NAVIS, IN EO EIUS REMUS DICITUR; SUNT ENIM NAVES QUARUM REMI NON SUNT); QUARE NON CONVERTITUR; NAVIS ENIM NON DICITUR REMI. SED FORTE CONVENIENTIOR ASSIGNATIO ERIT SI SIC QUODAM MODO ASSIGNETUR, REMUS REMITAE REMUS, VEL ALIQUO MODO ALITER DICTUM SIT (NOMEN ENIM NON EST POSITUM); CONVERTITUR AUTEM SI CONVENIENTER ASSIGNETUR (REMITUM ENIM REMO REMITUM EST). SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, UT CAPUT CONVENIENTIUS ASSIGNABITUR CAPITATI QUAM SI ANIMALIS ASSIGNETUR; NEQUE ENIM IN EO QUOD ANIMAL EST CAPUT HABET (MULTA ENIM SUNT ANIMALIUM CAPITA NON HABENTIA). Supra iam de relativorum conversione proposuit, dixitque quidquid est ad aliquid, vel eisdem casibus vel dissimilibus, tamen ad convertentia dici: hoc vero idcirco evenit quod omne ad aliquid esse suum ex alterius habitudine et comparatione trahit; quodsi utraque secundum ad aliquid sint opposita, ad aliquid nuncupantur aequam vim vocabuli nuncupationemque sortita. Nam si pater et filius utrique ad aliquid sunt, si pater ad filium praedicatur, quoniam ad aliquid est, fllius quoque, quia ad aliquid est, ad quoddam aliud praedicabitur sed nullius est filius nisi patris. Ergo haec vocabula ex alterutra nuncupatione principium sumunt. Quocirca quae sibi invicem substantiam donant, recte ad se invicem praedicantur, et hoc quidem in omnibus relativis constat intelligi. Sed huiusmodi conversio non uno modo, nec quomodolibet fieri potest; nisi enim convenienter quaelibet illa res ad id quod dicitur praedicetur, huiusmodi conversio nulla ratione convertitur. Cum enim dicatur caput animalis caput dici non potest, animal capitis animal. Ergo ita redditum nulla ratione convertitur. Atque hoc est quod ait, non videri in omnibus relativis posse converti, nisi convenienter ad quod dicitur assignetur. Si enim peccet is qui assignat, ut non convenientem praedicationem faciat, conversio non procedit; quae tamen est ipsa convenientia qua possint semper relativa converti, huiusmodi est. Cum enim dico alam avis esse alam, non convertitur, ut avis ala sit avis, idcirco quod non est convenienter facta praedicatio: non enim in eo quod avis est, in eo habet alam; multa enim sunt quae habent alam, aves tamen nullo modo nominantur, ut apes sunt et uespertitiones, et quidquid est aliud tale, habere quidem dicimus alas, eas tamen aves non dicimus. Quare non in eo quod avis est, in eo est eius ala sed in eo quod alata est; idcirco enim alam habet, quoniam alata est: et quidquid fuerit alatum, alas habebit. Quare ita facta praedicatio illam conversionem retinet atque custodit, ala enim alati ala est, et alatum ala alatum est. Eodem quoque modo de capite: si quis dicat caput animalis est caput, non convenienter vim praedicationis aptabit; non enim in eo quod animal est, in eo habet caput, multa enim sunt animalia quae capite carent, ut ostrea, et conchylia, et caetera huiusmodi. Igitur dicendum est caput capitatae rei esse caput, et capita tam rem capite esse capitatam. Videsne quemadmodum conveniens praedicatio aiternam in se vocabuli conversionem reuersionemque reddiderit? Ita quoque speculandum est et de alio exemplo quod ipse proposuit. Remus enim si navis remus dicatur, nullo modo convertitur, ut navis remi navis esse nominetur. Sunt enim quaedam naves quae remis penitus non utuntur, ut lintres quas solo subigunt conto, et idcirco non convertitur. Dicendum est igitur remum remitae rei esse remum, et remitam rem remo esse remitam. Necesse quoque erit nomen fingere, ei positum non sit: nam quemadmodum filius patris filius, et pater filii pater, reciproca conversione praedicantur, et utrumque nomen in usu est, sic, si defuerit nomen, ipse tibi aliquid debebis effingere, ut in eo quod est, ala alati ala; alatum enim noviter factum est, et nunquam antedictum. Quo autem modo possimus nomina ipsa confingere, quoniam necessarium esse posuimus, artem quoque componendi sequenti ordine demonstremus. Sed hoc faciendum est, si prius illud purgavero, quod quidam contra Aristotelem culpandi studio ponunt. Aiunt enim non esse solius relationis ad convertentiam dici. Si quis enim sic dicat: cum sol super terram est, dies est, et cum dies est super terram, sol est, recipiunt haec quoque conversionem, quae confessa, a relativorum definitione segregata sunt. Non igitur in solis relativis, inquiunt, cadit ista conversion Sed Iamblicus duas huius rei protulit solutiones, unam peruacuam, aliam vero perforem. Ait enim nihil officere ad Aristotelis sententiam, si et alia convertantur; non enim inquit Aristoteles solis hoc relativis esse sed, omnibus namque hoc relativis inest, nec ulla ratione negari potest: quocirca quoniam non dixit Aristoteles solis hoc inesse relativis, illorum quaestio huius praeclari philosophi sententiam non moratur. Sed hoc potius accidentis est quam naturae, et ad aliud quodammodo refugium concurrentis potius quam ex ipsa Aristotelis auctoritate dictorum eius aliquod propugnaculum comparantis. Aliam vero attulit causam prorsus gravem: ait enim proprium esse hoc relativorum, non secundum suam nuncupationem sed secundum aliquam habitudinem, eodem modo converti. Qui enim dicit cum sol est super terram, dies est, et cum dies est, sol est super terram: nullam habitudinem monstrat sed tantummodo consequentiam ostendit. Consequitur enim super terram solem esse cum dies est, et cum sol super terram cursus agat, diem esse; cum vero aliquis dicit filius patris filius, et pater filii pater, habitudinem et comparationem et quodammodo continentiam utrorumque declarat. Atque hoc quoque in alia quavis relatione spectare licet. Quocirca quoniam omnia ad aliquid secundum quamdam ad se invicem habitudinem continentiamque dicuntur, secundum continentiam quoque et habitudinem eorum conversio facienda est, qua in re nos quoque graviter dicentis Iamblici auctoritati concedimus. Nunc vero quae sit ars fingendi nomina sicubi desunt, dicendum videtur, quam ipse Aristoteles his verbis tradit. SIC AUTEM FACILIUS FORTASSE SUMETUR QUIBUS NOMEN NON EST POSITUM, SI AB HIS QUAE PRIMA SUNT ET AB HIS AD QUAE CONVERTUNTUR NOMINA PONUNTUR, UT IN HIS QUAE PRAEDICTA SUNT AB ALA ALATUM, A REMO REMITUM. OMNIA ERGO QUAE AD ALIQUID DICUNTUR, SI CONVENIENTER ASSIGNENTUR, AD CONVERTENTIA DICUNTUR. Quoniam sunt quae ita dicuntur ad aliquid, ut nisi convenienter aptentur conversio nulla sit, in omnibus autem ad aliquid conversionem exspectari necesse est, quae sit haec convenientia, et quemadmodum assignari relationes oporteat, ipse demonstrat. Si quid enim dicitur ad aliquid quod converti non possit, ab ipso quod dicitur si denominatio fit, mox convertitur: ut ala dicitur avis, et recta quidem est haec praedicatio sed ad naturam relationis incongrua. Nunc igitur quoniam dici non potest avis alae, dicitur autem ala avis, ab ipsa praedicatione, quae ad aliud praedicatur, si denominatio fit, mox redit consueta conversio relativis. Nam cum dicitur ala avis, ut dicatur avis alae, inconveniens est; si vero ex ala fiat denominatio, ut dicatur ala alati, sic conversio manet. Alatum enim ala alatum esse dicimus, sicut alam alati esse alam. Et hoc idem in remo evenit. Nam quoniam remus navis dicitur, et remi navis ut sit ulla ratione convertitur, si ex remo sit denominatio, statim reddit ex more conversio. Dicimus enim esse remum remitae rei esse remum, et hoc illi convertitur. Remita enim res remo remita est. Ergo ex eo quod prius dicitur, nomen fingendum est, sicut ex eo quod est ala, quoniam prius ad avem non dicitur, quia avis ad alam non convertitur, denominatio facta est, ut diceretur alatum. Atque hoc est quod ait, si ab his quae prima sunt his ad quae convertuntur nomina ponantur. Prima namque praedicatio est ab ala. Dicimus enim alam avis, et hoc quaerimus ut ad alam praedicatio convertatur. Ergo ab eo quod prius dicitur, illi ad quod convertitur nomen fingendum est, ut ea quae prius dicitur ala, rei ad quam convertitur sic ut convenienter aptetur, fingendum est nomen alatum, quod ipsum ex ala denominatum est, atque hoc idem et in caeteris relativis licet intelligi. NAM SI AD QUODLIBET ALIUD ASSIGNENTUR ET NON AD ILLUD DICANTUR, NON CONVERTUNTUR. DICO AUTEM QUONIAM NEQUE IN HIS QUAE CONFESSE CONVERSIM DICUNTUR ET IN QUIBUS NOMEN EST POSITUM, NIHIL CONVERTITUR, SI AD ALIQUID EORUM QUAE SUNT ACCIDENTIA ASSIGNETUR ET NON AD ILLUD DICATUR; UT SERUUS SI NON DOMINI ASSIGNETUR SED HOMINIS VEL BIPEDIS VEL ALICUIUS TALIUM, NON CONVERTITUR (NON ENIM ERIT CONVENIENS ASSIGNATIO). Aliud quoque argumentum dedit, si relatione convenieiiter non reddantur, non posse converti. Fortasse enim quis dicat alam et caput non esse ad aliquid: quod si quis hoc quoque concedat, illud tamen nullus negare poterit, quin seruus aut filius semper ad aliud praedicentur. Ergo in hac quoque re, quas confessae relativa est, perit relationis propria conversio, si non convenienter et ad illud ad quod proprie dicitur assignetur. Nam cum sit ad aliquid seruus, nisi domini reddatur, id est, ad id ad quod convenienter dicitur, nulla hac ratione conversio est. Dicatur ergo seruus hominis, vel seruus bipedis, non convertitur, ut dicat quis bipedem esse serui, aut hominem esse serui. Eodem quoque modo de filio. Ergo quaecumque sunt extrinsecus, si ad ea id quod est ad aliquid praedicetur, nulla conversio est. Quod autem ait accidentia, non quod homo sit accidens, aut bipes, differentia hominis accidenter insit sed interdum consuetudinis Aristotelicae est, quae secundo loco et extrinsecus praedicantur, dicere secundum accidens praedicari. Seruus autem prius ad hominem est, secundo vero loco ad hominem. Idcirco enim quod dominus homo est, ideo seruus ad hominem dicitur. Et idcirco quia dominus bipes est, ideo seruus bipedis dicitur. Ergo secundum accidens dixit secundo loco, volens ostendere extraneam et non convenientem fieri praedicationem, si quis ad hominem vel bipedem servam et non ad dominum referat. Manifestum igitur est quoniam in bis quoque quae confessa, sunt ad aliquid, et in quibus nomina sunt. Nomen enim et serui et domini in usu est, non quemadmodum in remo aut in ala, ubi neque alatum neque remitum nomen fuit, nisi ipse fingeret Aristoteles. Cum ergo haec ita sint, manifestum est quoniam si non convenienter aptarentur, conversionem praedicatio non teneret. AMPLIUS, SI CONVENIENTER ASSIGNETUR AD ID QUOD DICITUR, OMNIBUS ALIIS CIRCUMSCRIPTIS QUAECUMQUE ACCIDENTIA SUNT, RELICTO VERO SOLO ILLO AD QUOD ASSIGNATUM EST, SEMPER AD IPSUM DICETUR; UT SI SERUUS AD DOMINUM DICITUR, CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS QUAE SUNT ACCIDENTIA DOMINO, UT ESSE BIPEDEM VEL SCIENTIAE SUSCEPTIBILEM VEL HOMINEM, RELICTO VERO SOLO DOMINUM ESSE, SEMPER SERUUS AD ILLUD DICETUR; SERUUS ENIM DOMINI SERUUS DICITUR. SI AUTEM NON CONVENIENTER REDDATUR AD ID QUOD DICITUR CIRCUMSCRIPTIS OMNIBUS ALIIS, RELICTO VERO SOLO AD QUOD REDDITUM EST, NON DICETUR AD ILLUD; ASSIGNETUR ENIM SERUUS HOMINIS 227A ET ALA AVIS, ET CIRCUMSCRIBATUR AB HOMINE ESSE DOMINUM; NON ENIM IAM SERUUS AD HOMINEM DICITUR (CUM ENIM DOMINUS NON SIT, SERUUS NON EST); SIMILITER AUTEM ET DE AVI, CIRCUMSCRIBATUR ALATAM ESSE; NON ENIM IAM ERIT ALA AD ALIQUID (CUM ENIM NON SIT ALATUM, NEC ALA ERIT ALICUIUS). QUARE OPORTET ASSIGNARE AD ID QUOD CONVENIENTER DICITUR; ET SI SIT NOMEN POSITUM, FACILIS ERIT ASSIGNATIO; SI AUTEM NON SIT, FORTASSE ERIT NECESSARIUM NOMEN FINGERE. QUOD SI ITA REDDANTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM OMNIA RELATIVA CONVERSIM DICUNTUR. Aliud quoque validum addidit argumentum in omni secundum ad aliquid, praedicatione solam esse assignationis convenientiam requirendam. Quo enim permanente cunctis aliis pereuntibus relativorum praedicatio constat, et quo pereunte cunctis aliis permanentibus, ad aliquid praedicatio non manet, illud est ad quod convenienter nominis relatio referatur. Qui enim dominus est, idem ei homo est, idemque bipes, idem quoque scientiae perceptibilis. Ad quodlibet igitur horum seruus non praedicabitur, si dominus non sit; quod si dominus sit, etiamsi quodlibet horum pereat, nihil impedit praedicationem. Praedicetur enim seruus ad dominum, et ab eo caetera perimantur. Pereant enim ab eo quod est homo, ac bipes, quod scientiae perceptibilis, his omnibus pereuntibus, dominus solus permaneat; caeteris igitur pereuntibus, seruus tamen nihilominus dicitur ad dominum, ad hominem vero non dicitur, pereunte enim domini nomine, serui ad hominem nulla praedicatio est, quod si ad dominum seruus non referatur, pereatque domini nomen, omnibus aliis manentibus, non erit praedicatio. Auferatur enim dominus maneat homo, et bipes, et scientiae perceptibilis, non potest dici seruus hominis, vel seruus bipedio. Domino enim non manente seruus interit: quare manente domino ad quod seruus convenienter aptatur, cunctis aliis pereuntibus, praedicatio manet; sublato vero domino, ad quem est conveniens praedicatio, cunctis aliis manentibus praedicatio non est. Eodem modo etiam de ala; nisi enim ad alatum referatur, cunctis aliis manentibus integra praedicatio non est. Adeo non solum non convertitur sed nec praedicatio ulla erit, nisi relatio ei ad quod convenienter dicitur assignetur. Simul etiam haec quoque ars est et via noscendi, cum in naturamulta sunt, ad quod potissimum relatio praedicetur. Nam cum in domino sit, et homo, et animal, et disciplinae perceptibile, et bipes, in seruo quoque idem, ad quod horum aut domini nomen aut serui referre possimus, sic ostenditur. Qua enim re manente sublatis caeteris praedicatio valet, et qua re sublata creteris manentibus, intercipitur praedicatio ad illud relatio rectissime praedicatur. His igitur positis totius argumenti vim sententiumque concludit, ait enim: omnia quaecumque ad aliquid sunt aequa praedicatione converti: hoc autem huiusmodi est. Quaecumque enim ad se invicem aequaliter praedicantur, et conversione facta retorquentur, illa aequali natura et dimensione fundata sunt, ut sunt propria et species. Relativa quoque ut convertantur, aequalia esse oportet. Nam si una res amplior, alia fuerit minor, conversionem non habent, nam in eo quod est ala avis, minus est avis ala, multa enim sunt quae alas habent, et aves non sunt, atque ideo conversio non fit. Et in eo quod est remus navis, maior est navis remo, multae enim naves sunt quarum remi non sunt; quare in his nulla potest esse conversio. Si vero sint aequalia ut filius alque pater, conversio non fugit. Nunquam enim est filius nisi patris, et rursus nunquam pater est nisi filii. Quocirca aequalia esse oportet quaecumque ad aliquid praedicantur. Horum vero si nomen sit pusitum, positis nominibus uti oportet. Si vero nomen positum non sit, ex his quae in prima praedicatione sunt (ut superius dictum est) nomen oportet effigere. Quod si ita reddantur ut omne ad aliquid convenienter ad quod dicitur praedicetur, et aequalis erit praedicatio, et mox conversionis reciproca natura subsequitur. Constat igitur omnia relativa ad convertentia dici. His aliud proprium iungit. VIDETUR AUTEM AD ALIQUID SIMUL ESSE NATURA. ET IN ALIIS QUIDEM PLURIBUS VERUM EST; SIMUL ENIM EST DUPLUM ET DIMIDIUM, ET CUM SIT DIMIDIUM DUPLUM EST, ET CUM SIT SERUUS DOMINUS EST; SIMILITER AUTEM HIS ET ALIA. SIMUL AUTEM HAEC AUFERUNT SESE INVICEM; SI ENIM NON SIT DUPLUM NON EST DIMIDIUM, ET SI NON SIT DIMIDIUM DUPLUM NON EST; SIMILITER ET IN ALIIS QUAECUMQUE TALIA SUNT. Illa simul esse dicuntur quaecumque talia sunt, ut uno posito quolibet aliud necessario subsequatur, st uno quolibet perempto aliud modis omnibus interimatur, ut pater et filius. Nam cum pater est, filium quoque esse necesse est; cum sit filius, pater est. Rursus si pereat filius, patrem quoque perire manifestum est, non quod pareat ipsa substantia, ut pereunte Hectore Priamus pereat sed perit ipsa relatio. Ergo quoniam vel interempto patris nomine, filii nomen perit, sublato quoque filli nomine nomen patris perit. Posito etiam patre in substantiaque constituto, filii quoque nomen infertur, et posito filii nomine sequitur patris et a patris nomine nunquam separatur, idcirco pater et filius simul esse dicuntur. Ergo simul ea sunt quae se invicem vel interimunt vel inferunt, et de his quidem ipse posterius tractat. Nunc autem hoc quoque inesse relativis exposuit, dicens relativis quoque esse ut simul sint; nam cum duplum sit, dimidium est, et cum dimidium, duplum. Huius autem argumentum est, quod interempto duplo dimidium perit. Rursus quoque duplo constituto, dimidium constituitur. Igitur quoniam duplum atque dimidium relativa sunt, et haec simul sunt natura, id est ipsa essentia, et hoc manifestum est quoque relativis accidere, ut simul natura ease videantur. Idem quoque est in eo quod est seruus et dominus. Nam quoniam alterutris interemptis uterque deperit, et alterutro constituto uterque subsistit, constat seruum atque dominum cum sint ad aliquid simul esse natura. Sed haac ita sunt, ut sint quidem in relativis sed omnibus his quae sunt ad aliquid non aequentur. Sunt enim quaedam relativa quorum unum prius natura sit, quod ipse rursus adiecit. NON AUTEM IN OMNIBUS RELATIVIS VERUM VIDETUR ESSE SIMUL NATURALITER; SCIBILE ENIM SCIENTIA PRIUS ESSE VIDEBITUR; NAMQUE IN PLURIBUS SUBSISTENTIBUS IAM REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS; IN PAUCIS ENIM VEL IN NULLIS HOC QUISQUE PERSPICIET, SIMUL CUM SCIBILI SCIENTIAM FACTAM. Proposuit non in omnibus relativis esse hoc, ut videantur simul esse natura; hoc autem probat ex his, quod quoniam scientia ad aliquid est (scibilis enim rei scientia dicitur), non poterit esse scientia, nisi sit res aliqua quae sciri possit. Hanc autem primam esse necesse est, ut in matheseos disciplina. 229B Scimus enim triangulum tres interiores angulos duobus rectis angulis aequos habere. Unde necesse est prius fuisse quod sciri posset, postea vero ad hanc rem aptam fuisse notitiam. Atque hoc est quod ait: NAMQUE IN PLURIBUS SUBSISTENTIBUS REBUS SCIENTIAS ACCIPIMUS. Prius enim rebus constitutis et quasi praepositis scientiae ratio sequitur. Quare non est in omnibus relativis simul esse natura. Nam cum scientia et scibile relativa sint, antiquius est scibile quam scientia. Quod vero interposuit, in pauois enim vel nullis hoc quis perspiciet simul cum scibili scientiam factam, tale est. Quasdam namque res animus sibi ipse confingit, ut chimeram, vel centaurum, vel alia huiusmodi, quae tunc sciuntur, cum ea sibi animus finxerit. Tunc autem esse incipiunt, quando primum in 229C opinione versantur. Tunc igitur sciuntur, cum in opinione versata sint, et haec simul habent esse et sciri. Nam quoniam in opinione nascuntur, mox esse incipiunt sed cum in ratione sunt, tunc eorum scientia capitur. Igitur mox ut fuerint, mox sciuntur, et est eorum scientia cum eorumdem essentia coniuncta. Namque antequam chimera fingeretur, sicut ipsa in nulla opinione fuerat, ita quoque eius scientia non erat. Postquam vero ipsa animarum imaginatione constituta est, eius quoque cum ipsa imaginatione scientia consecuta est: atque ideo ait in paucis hoc posse perspici, ut simul cum scientia scibile sit, ut in hac eadem chimera, quae cum sit scibilis, cum scientia nata est. Sed quoniam nihil quod in substantia non permanet, neque in veritate consistit, sciri potest (scientia enim est rerum quae sunt comprehensio veritatis), et quidquid sibi animus flngit, vel imaginatione reperit, cum in substantia atque veritate constitutum non sit, illud posse sciri non dicitur, atque ideo non est eorum scientia ulla quae sola imaginatione subsistunt. Idcirco itaque dubitans dixit, in paucis enim vel nullis. Haec enim ipsa pauca ita quisque reperiet, ut si ad veram rationem examinationemque contenderit, nulla esse perpendat. Quod si quisquam chimerae aliqua esse scientiam dicat, quae non est, quamquam hoc falsum sit, tamen hoc quoque concesso pauca erunt in quibus scientia cum scibili simul natura sit. Multis enim antepositis et constitutis scientia nascitur. Quocirca non in omnibus relativis verum est, ut simul esse natura dicantur: et sicut falsum illud est, in nullis hoc esse relativis, ita falsum est rursus in omnibus. Sed hunc tractatum longius lexit. AMPLIUS SCIBILE SUBLATUM SIMUL AUFERT SCIENTIAM, SCIENTIA VERO NON SIMUL AUFERT SCIBILE; NAM, SI SCIBILE NON SIT, NON EST SCIENTIA, SI SCIENTIA VERO NON SIT, NIHIL PROHIBET ESSE SCIBILE; UT CIRCULI QUADRATURA SI EST SCIBILE, SCIENTIA QUIDEM EIUS NONDUM EST, ILLUD VERO SCIBILE EST. Diximus illa esse simul, quaecumque alterutro constituto, vel alterutro interempto, simul utraque constituerentur, vel etiam perimerentur. Constituto enim ut sit pater, constituetur esse filius, et pater simul infert substantiam filii. Eodem quoque modo filius simul infert vocabulum patris, non est enim filius nisi patris. Eodem quoque modo altero interempto utrumque perire necesse est, alterum autem altero prius multis dicitur modis; sed quod nunc quaerimus tale est. Nam priora illa esse dicuntur, quae ipsa quidem peremptares alias tollunt, ipsa vero illata atque constituta simul res alias non inferunt, ut est unus atque duo. Interempto enim uno, duo quoque pereunt. Unde enim est unius in duobus geminatio, si unus intereat? Constituto vero atque posito ut sit unus, nondum duo sunt. Nondum est enim facta unius geminatio. Ergo dicuntur illa priora esse quaecumque alia simul quidem illata non inferunt sed perimunt interempta. Scibile ergo et scientiam non esse simul illa res probat, quod si quis rem scibilem tollat, scientiam quoque sustulerit. Nulla potest enim scientia permanere, si res quae sciri possit intereat. At si scibile esse constituas, non omnino scientia consequitur. Infantibus enim ea nobis quae nunc novimus erant, et in suae naturae substantia permanebant sed eorum apud nos scientia non erat. Multae quoque sunt artes quas esse quidem in suae naturae ratione perspicimus, quarum neglectus scientiam sustulit. Multumque ego ipse iam metuo ne hoc verissime de omnibus studiis liberalibus dicatur. Quocirca si et scientiam sublatum scibile perimit, et illatum scibile scientiam non infert, neque constituit, prius est id quod sciri potest quam illud quod comprehendere videlicet atque complecti notitia. Ipse autem ad hanc rem obscurissimum commodavit exemplum. Solet enim in geometria huiusmodi esse propositio. Iubemur enim proposito quattuor laterum spatio, aequale triangulum constituere, et facimus hoc modo. Sit quattuor laterum spatium a b, oportet ergo a b spatio aequale triangulum constituere, et ut sit duplum a b spatio c d e f spalium. Ducatur angularis c t, dico quoniam c d f triangulum aequale est a b spatio, quoniam c d e f spatium duplum est a b spatio: ab igitur c d e f spatii medietas est, angularis enim f c totum c d e f spatium medium dividit. Quae autem eiusdem sunt media, sibi aequalia sunt, c d t igitur et c e f triangulum a b spatio aequale est. Proposito igitur spatio a b, aequum triangulum constitutum est c d f, quod oportebat facere. Eodem quoque modo quaesitum est si sit propositum circulo aequum fieri quadratum. Quadratum ergo est quod aequalibus lateribus omnes quattuor angulos aequos habet, id est rectos, et Aristotelis quidem temporibus non fuicse inventum videtur. Post vero repertum est, cuius quoniam longa demonstratio est, praetermittenda est. Atque hoc est quod ait: VELUT CIRCULI QUADRATURA: nam sicut manente quadrato, linea per obliquum ducta triangula figura producitur; ita circulo non mutato circumpositis angulis, qui et ipsius circuli laleribus; aequaliter diriguntur, quadrati forma consurgit, quod (ut potuimus) coniectura depinximus. Cum enim alicui circulo aequum quadratum constituitur, in quadraturam circuli illius mensura redigitur. Nunc ergo hoc est quod dicit: UT CIRCULI QUADRATURA, id est aequi quadrati ad circulum constitutio si fieri potest, et si res est quae sciri possit, scientia quidem eius nondum inventa est. Nondum enim quisquam sub Aristotele equum quadratum circulo constituerat. Quod si est aliqua eius scientia quae nondum reperta est, certe prius est quod sciri possit, post vero scientia. Nam cum posset Aristotele vivo sciri circuli quadratura, nulla tamen adhuc eius scientia reperta est, atque ideo prius erat quod sciri posset, quam ipsius rei ulla notitia. AMPLIUS ANIMALI QUIDEM SUBLATO NON EST SCIENTIA, SCIBILIUM VERO PLURIMA ESSE CONTINGIT. Addit aliud validius argumentum, prius esse scibile scientia. Illud enim notum est si per desidiam disciplina depereat, interire quidem scientiam sed scibile permanere. Scibile autem dico quod sciri possit. Quod si omnino animal non sit, cum quis scire possit omnino non fuerit, scientia quidem ipsa funditus interibit: nihil tamen probibet esse ea quae permanente animali possit inquirentis animus scientim ratione complecti. SIMILITER AUTEM HIS SESE HABENT ET QUAE IN SENSU SUNT; SENSIBILE ENIM PRIUS SENSU ESSE VIDETUR; SUBLATUM ENIM SENSIBILE SIMUL AUFERT SENSUM, SENSUS VERO SENSIBILE NON SIMUL AUFERT. SENSUS ENIM CIRCA CORPUS ET IN CORPORE SUNT; SENSIBILI ERGO SUBLATO AUFERTUR CORPUS (SENSIBILIUM ENIM ET CORPUS EST), CUM AUTEM CORPUS NON SIT SUBLATUS EST SENSUS; QUARE SIMUL AUFERT SENSIBILE SENSUM. SENSUS VERO SENSIBILE NON; SUBLATO ENIM ANIMALI SUBLATUS EST SENSUS, SENSIBILE AUTEM PERMANET, UT CORPUS, CALIDUM, DULCE, AMARUM, ET ALIA OMNIA QUAECUMQUE SUNT SENSIBILIA. Id namque proponit sensibus inveniri. Dicit enim sensu prius esse sensibile, quod communi priorum definitione probabile esse constituit. Dictum est namque illa esse priora quae simul quidem interempta perimerent, non autem simul aliis inferemptis ipsa deperire, ut orbem solis prius dicimus proprio lumine, Sublato enim orbe, lumen illud quod ab eo est penitus non manebit; subluto lumine solis, orbis manebit. Ita quoque nunc in sensibilibus, atque in ipso sensu esse proposuit, sublato quod sentiri possit, sensus omnino sublatus est. Neque enim esse poterit sensus, cum quod possit sentire non invenit. Quod si sensus omnino depereat, sensibile permanebit; et hoc evidentibus firmat exemplis. Nam cum ea quae sunt in rebus, vel incorporea sint, vel certe corporea, et quidquid ad corporis materiam referri potest, hoc sensuum varietati subiaceat, quidquid ad incorporalia intellectus ratione et speculatione teneatur. Cum sit sensus omnis in corpore, si corpus intereat, cum omnino corpus non sit, quoniam quae sunt incorporea sentiri non possunt, et quae sentiri poterant interempta sunt, omnino sensus euertitur. Sed si sensus auferatur, sensibilia permanebunt: et quoniam sensus animalium effectivus est, aequa est utrorumque perditio; sive enim sustuleris animal, sensus peribit, sive sensus euertantur, animalia quoque sublata sunt. Sed euersis atque interemptis animalibus cum propriis sensibus, permanent corpora quae anima non utuntur, quod si sublatis animalibus sensibusque deperditis, corpora inanimata subsistunt, cum corpora sint quae sentiri possunt, animalia quae sentire valeant si interempta sint, manente sensibili sensus euersus est. Non igitur sicut sensibilis interemptio sensus interimit, sic sensuum perditionem exstinctio sensibilium comitatur. Id vero etiam hoc probabitur argumento, ante enim quam actu ipso aliquid sentiamus, sensus non est. Nam priusquam dulce aliquid degustemus, gustatio ipsa dulcedinis non est; quod autem gustari possit, id est, mel, vel quodlibet aliud propriae naturae ratione consistit. Quocirca prius esse quod sentiri possit, post vero sensus Aristotele auctore firmatur. AMPLIUS SENSUS QUIDEM SIMUL CUM SENSATO FIT (SIMUL ENIM ANIMAL FIT ET SENSUS), SENSIBILE VERO ANTE EST QUAM ESSET SENSUS (IGNIS ENIM ET AQUA ET ALIA HUIUSMODI, EX QUIBUS IPSUM ANIMAL CONSTAT, ANTE SUNT QUAM ANIMAL SIT OMNINO VEL SENSUS); QUARE PRIUS QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDEBITUR. In compositis rebus atque ex aliis iunctis priores sunt hae res quae componunt aliquid ipsa substantia quam componunt. Namque cum corpus animalis sit ex igne, aere, aqua et terra, priora haec esse necesse est quam ipsum sit animal quod illa elementa coniungunt. Hoc quoque etiam in aliis patet, nam cum sit liber ex versibus, prior est versuum natura quam libri. Cumque versus constet verbis atque nominibus, et caeteris quas grammatici partes orationis vocant, haec ex quibus ipse versus constat versu ipso priora esse necesse est. Quocirca sensus quoque ipsis, iam compositis animalibus supervenit. Nam cum animal constet ex quattuor elementis, et cum sensus semper naturam animalium comitetur, cum ipsis animalibus sensus fieri et nasci necesse est. Quodsi cum animalibus, id est compositis rebus, sensus nascitur, sicut animali propria sunt ea ex quibus ipsum animal constat, sic quoque sensu qui cum animali nascitur, illa priora sunt, ex quibus animalis natura coniungitur. Coniungitur autem animal atque componitur ex quattuor elementis. Quattuor igitur elementa sensu priora sunt sed quattuor elementa corpora sunt, corpus vero omne sensibile est. Prius igitur sensibile quam sensus est. Sensus enim cum re composita nascitur, illa vero quae componunt et sensibilia sunt, et priora ipso composito. Universaliter enim si quae duae res sint simul, cum quaelibet res una earum prior sit, et altera prior erit, ut animal atque sensus, cum utraque simul sunt, simulque nascuntur, cum quattuor elementa quae sunt sensibilia priora sint quam animal, sensu quoque esse priora necesse est, quocirca conclusit dicens: QUARE PRIUS QUAM SENSUS SENSIBILE ESSE VIDETUR. Sed quidam, quorum Porphyrius quoque unus est, astruunt in omnibus verum esse relativis, ut simul natura sint, veluti ipsum quoque sensum et scientiam non praecedere scibile atque sensibile sed simul esse, quam quoniam brevis est oratio, non grauabor opponere. Ait enim: Si cuiuslibet scientia non sit, ipsum quod per se poterit permanere scibile esse non poterit, ut si formarum scientia pereat, ipsae fortasse formae permaneant, atque in priore natura consistant, scibiles vero non sint. Cum enim scientia quae illud comprehendere possit, non sit, ipsa quoque sciri non potest res. Namque omnis res scientia scitur, quae si non sit sciri non possit. Porro autem res quae sciri non potest scibilis non est. Hoc idem de sensu gustantis si gustus enim pereat, mel forsitan permanebit, gustabile autem non erit. Ita quoque omnino si sensus pereat, res quidem quae sentiri poterant sint, sensibiles vero non sint sensu pereunte. Et fortasse neque scientia neque sensus secundum sentientes speculandus est sed secundum ipsam naturam quae sensu valeat comprehendi. Namque res quaecumque per naturam sensibilis est, eam quoque in natura sua, proprium sensum quo sentiri possit, habere necesse est. Et quodcumque sciri potest per naturam, nunquam possit addisci, nisi quaedam eius in natura scientia versaretur. Haec Porphyrius. Sed nos ad Aristotelis ordinem textumque veniamus. Namque ille adiecit quoque alias quaestiones. HABET AUTEM DUBITATIONEM AN ULLA SUBSTANTIA AD ALIQUID DICATUR, QUEMADMODUM VIDETUR, AN HOC QUIDEM CONTINGIT SECUNDUM QUASDAM SECUNDARUM SUBSTANTIARUM. NAM IN PRIMIS QUIDEM SUBSTANTIIS VERUM EST; NAM NEQUE TOTAE NEQUE PARTES AD ALIQUID DICUNTUR; NAM ALIQUIS HOMO NON DICITUR ALICUIUS ALIQUIS HOMO, NEQUE ALIQUIS BOS ALICUIUS ALIQUIS BOS. SIMILITER AUTEM ET PARTES; QUAEDAM ENIM MANUS NON DICITUR ALICUIUS QUAEDAM MANUS SED ALICUIUS 234A MANUS, ET QUODDAM CAPUT NON DICITUR ALICUIUS QUODDAM CAPUT SED ALICUIUS CAPUT. SIMILITER AUTEM ET IN SECUNDIS SUBSTANTIIS, ATQUE HOC QUIDEM IN PLURIBUS; UT HOMO NON DICITUR ALICUIUS HOMO, NEC BOS ALICUIUS BOS, NEC LIGNUM ALICUIUS LIGNUM SED ALICUIUS POSSESSIO DICITUR. ATQUE IN HUIUSMODI QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM NON EST AD ALIQUID; IN ALIQUIBUS VERO SECUNDIS SUBSTANTIIS HABET ALIQUAM DUBITATIONEM; UT CAPUT ALICUIUS CAPUT DICITUR ET MANUS ALICUIUS MANUS DICITUR ET SINGULA HUIUSMODI; QUARE HAEC ESSE FORTASSE AD ALIQUID VIDEBUNTUR. Contra ea quae superius disputata sunt huiusmodi nodum quaestionis opposuit, quoniam enim prima definitio relativorum fuerat, illa esse relativa quaecumque hoc ipsum quod essent aliorum dicerentur, secundum hanc definitionem possunt quaedam substantiae videri esse relativae: quod si sit, substantiae in definitionem accidentium transeunt. Nam cum sint accidentia relativa, si quas substantias relativas esse concedimus, in accidentium numero ponendas esse censebimus sed hoc contrarium est. Si enim substantia in subiecto non est, accidens autem in subiecto est, qui fieri potest ut idem et in subiecto sit et in subiecto non sit? Utrum autem possit quaedam substantia accidentium suscipere rationem, hoc modo quaerendum est. Primae namque substantiae ipsae quidem ad aliquid non dicuntur, neque partes primarum substantiarum quas ipsas quoque in primis substantiis numeramus. Socrates enim non dicitur alicuius aliquis Socrates, nec homo alicuius aliquis homo, nec bos alicuius aliquis bos, neque partes primarum substantiarum quae ipsae quoque sunt primae substantiae. Caput enim non dicitur alicuius aliquod caput sed tantum alicuius caput, et manus non dicitur alicuius aliqua manus sed tantum alicuius manus. Quare neque primae substantiae, neque primarum substantiarum partes ad relationem dici poterunt. Quod si secundas quoque substantias speculemur, nec ipsae quoque ad aliquid dicentur. Neque enim dicitur animal alicuius esse animal, aut homo alicuius esse homo. Quod si quis dicat posse esse animal alicuius, ut equum meum, vel quodlibet aliud, non in eo quod animal est sed in eo quod est possessio dicitur alicuius, et sic non dicitur animal alicuius animal sed animalis possessio, alicuius possessio. Ergo neque primae substantiae, neque partes primarum substantiarum, neque secundae substantiae ad aliquid dicuntur. Partes autem secundarum substantiarum ad aliquid hoc ipsum quod sunt dicuntur. Caput enim alicuius caput dicitur, si quidem capitati caput dicemus, et manus alicuius manus. Si quidem ex manu nomen fingere volumus, ad quod manus referri possit, sicut caput ad capitatum, et in aliis quidem rebus eodem modo. Sed si partes secundarum substantiarum accidentes sint, et ipsae secundae substantiae accidentes erunt, aut si hoc non placet, constabunt secundae substantiae ex partibus accidentibus, quod fieri nequit. Quid igitur dicendum est? aut enim definitio relativorum reprehendenda est, aut aliter soluenda dubietas. Sed posita atque constituta priori'definitione, quae dicit illa esse relativa quae id quod sunt aliorum dicuntur, hic quaestionis nodus solvi non poterit, quod ipse Aristoteles hac adiunctione testatur. SI IGITUR SUFFICIENTER EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITIO ASSIGNATA EST, AUT NIMIS DIFFICILE AUT IMPOSSIBILE EST SOLVERE QUONIAM NULLA SUBSTANTIA EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DICITUR; SI AUTEM NON SUFFICIENTER SED SUNT AD ALIQUID QUIBUS HOC IPSUM ESSE EST AD ALIQUID QUODAM MODO HABERE, FORTASSE ALIQUID CONTRA ISTA DICETUR. PRIOR VERO DEFINITIO SEQUITUR QUIDEM OMNIA RELATIVA, NON TAMEN HOC EIS EST QUOD SINT AD ALIQUID QUOD EA IPSA QUAE SUNT ALIORUM DICUNTUR. Proposita ergo atque firmata priore relativorum definitione difficile defendi poterit, aut fortasse nunquam, quasdam substantias non esse relativas. Nam si ad aliquid illa sunt, quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, ut id quod est caput capitati dicitur caput, habebit igitur substantia quae est caput ad aliquid relationem, et ita erit substantia relativa atque accidens, quod est impossibile. Quare quoniam proposita atque constituta priore definitione haec incommoditas in dispositione consequitur, ut constet ratio non integrae definitionis, assignatio permPombaur. Ait enim non esse integram definitionem quae supra sit reddita, nec magis illa esse ad aliquid, quae id quod sunt aliorum dicuntur, potiusquam ea quibus ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere. Sed fortasse videatur quibusdam inconsulte legentibus et minime considerantibus, id quod definiri oportuerat, hoc in definitione esse sumptum, quod est vitiosissimum. Si enim idcirco definitio sumitur, ut res de qua quaeritur assignetur, quae magis est apertior definitio, si re ipsa quam definit in assignatione definitionis utatur? Definitio namque idcirco redditur, ut res de cuius quidem esse dubitatur, definitione patefiat. Quod si rem ipsamquam definit, in definitione protulerit, nihilo planior definitio sit, ut si quis hominem definire volens dicat, hoc ipsum esse hominem quod hominem. Ita quoque non considerantibus, Aristoteles relativorum definitionem reddidisse videbitur. Ait enim esse ad aliquid, quibus hoc ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere, ac si diceret: Ea sunt ad aliquid, quae se ad aliquid quodammodo habent. Sed minutius atque scutius considerantibus, vis integra definitionis prompte atque veraciter apparebit; non enim in eo quod est dici, ad aliquid consideramus sed in eo quod est esse; ea namque sunt relativa, quae in quadam comparatione et relationis habitudine consideramus, ut quaternarius numerus, et hoc ipsum quod est esse dicitur, id est quattuor, et aliud quoddam, id est duplum, ut si ad binarium conferatur. Sed quod de quaternario numero dicimus, quaternarium hoc ad ipsius quaternarii numeri naturam refertur. Quod vero duplum, non est hoc quaternarii sed duorum ad quod duplum dicitur, et ad quod propria relatione duplum est. Binarius quoque numerus et binarius est, et medietas, binarius quidem secundum suam naturam, medietas vero secundum quaternarius relationem. Quocirca in comparatione quadam atque in habitudine ea quae sunt ad aliquid speculamur; quaternarius enim in eo quod quaternarius est ad aliquid non dicitur, in eo vero quod est duplus, duorum relativus est, scilicet ad binarium comparatus. Binarius quoque in eo quod sunt duo, ad aliquid non refertur sed in eo quod est medietas, scilicet ad quaternarium comparatus. Ergo, ut sit duplus quaternarius, non duobus sed medietate eget, ut si medietas biniarius, non quaternario sed duplo opus est. Videsne ut habitudine quadam et comparatione res aliud in natura retinentes, aliud tamen ad se invicem sint? et hoc non ex propria sed ex invicem natura mutuentur, nam quod est duplus numerus ex medio trahit, quod est medietas ex duplo, atque hoc iis quae sunt ad aliquid extra evenit, et ideo nihil patientibus neque permutatis ipsis quae ad aliquid referuntur, ipsa ad aliquid fiunt, nihil enim permutato de quaternario duplus ipse est, sit ad binarium referatur, et nihil de binario permutato, medietas est binarius, si ad quaternarium dicitur. Ergo relativorum hoc est esse, id est haec eorum natura atque substantia est, ut id quod sunt ad aliquid referantur, id est non solum referri dicantur sed etiam referuntur. Atque hoc est quod ait sed sunt ad aliquid quibus hoc ipsum esse est ad aliquid quodammodo se babere, ac si diceret quorum substantia est ad aliquid aliud referri, et qua ita sunt ut ipsa id quod sunt ad aliud referantur, et esse eorum sit ad aliquid aliud referri, sed non omnia quae dicuntur ad aliud, et esse de alio mutuantur. Illa namque definitio prior, maius est, definitionem namque relativorum supergressa est, includit enim ea quoque quae relativa non sunt, et quemadmodum hominem cum dico, mortalem eum esse necesse est, cum dico mortalem, non necesse est esse hominem, ita quoque ea quae hoc ipsum quod sunt ex altero trahunt, et esse habent ad alterius relationem, et esse suum ad alterius referunt nuncupationem. Quae vero ad aliud tantum dicuntur, non necesse est, ut esse suum ad aliquid habeant relatum, quo posteriorem definitionem suscipiant, et ista sententia breviter includatur, ut quaecumque hanc definitionem susceperint, ut hoc ipsum esse sit ad aliquid quodammodo se habere, habeant eam quoque definitionem, quae est relativa esse quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, quae vero hanc habuerint definitionem illam non necessario habeant, ut ea quae sunt ad aliquid, etiam ad aliquid dicantur. Sed ea quae dicuntur ad aliquid, non omnino ad aliquid sint, quod si ista definitio posterior recipiatur, quae dicit ea esse ad aliquid, quibus hoc ipsum esse est ad aliquid quodammodo se habere, poterit superior solvi dubitatio, quod dicamus id quod ipse posteriore disputatione secutus est. Quod autem ait: Prior vero definitio sequitur quidem omnia relativa, non tamen hoc eis est esse, quod sint ad aliquid, quod ea ipsa quae sunt aliorum dicuntur, hoc est quod non idcirco aliquid relativum esse dicitur, quoniam alterius esse 237A dicitur. Sed tunc merito res aliqua relationis nomine continebitur, quoties non solum ad aliquid dicitur sed hoc ipsum esse eius ad aliquid est quodammodo se habere. Quare quid hanc definitionem proprium consequatur, ipse addidit. EX HIS ERGO MANIFESTUM EST QUOD, SI QUIS ALIQUID EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITE SCIET, ET ILLUD AD QUOD DICITUR DEFINITE SCITURUS EST. SI MANIFESTUM QUIDEM ETIAM EX IPSO EST; NAM SI QUIS NOVIT QUONIAM HOC EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID EST, RELATIVIS AUTEM HOC EST ESSE, AD ALIQUID QUODAMMODO HABERE, ET ILLUD NOVIT AD QUOD HOC ALIQUO MODO HABET. Proprium relativis secundum eam quae superius dicta est definitionem hoc esse confirmat, quod si quis id quod est ad aliquid definite scit, quoniam 237B relativam est, et illud ad quod referri potest, definite sciturus est quid sit, nam relativa easunt quibus hoc est esse ad aliquid quodammodo se habere, quoniam ut sit quaternarius duplum a binario trahit. Si quis novit esse quaternarium numerum duplum, et binarium necessario sciturus est esse dimidium, ad quem quaternarius duplus est fieri; enim nullo modo potest, ut cum quis noverit aliquam rem esse relativam definite, non illud quoque sciat ad quod illa res dicitur definite; huius autem rei una probatio est quae ex definitione venit. Definita enim sunt illa esse ad aliquid, quorum ea esset substantia, ut quodammodo se ad aliquid haberent, quod si scio quaternarium numerum esse duplum, eo quod ad binarium quodammodo coniungatur, nullus quaternarium duplum 237C esse poterit scire, nisi qui sciet medietatem esse binarium, et hoc quidem in omnibus consideretur. Nam si nesciat quis ad quid aliquid referatur eorum quae relativa sunt, illud quoque ignorabit, utrum ommino ad aliquid referatur, quod his verbis Aristoteles dicit: NAM SI OMNINO NESCIT AD QUOD ALIQUO MODO HABET, NEC SI AD ALIQUID QUODAMMODO HABET SCITURUS EST. ET IN PARTICULARIBUS HOC MANIFESTUM EST; UT, SI HOC AD ALIQUID SCIT DEFINITE QUONIAM DUPLUM EST, ET CUIUS DUPLUM EST DEFINITE NOVIT (NAM SI NULLIUS DEFINITE NOVIT ILLUD ESSE DUPLUM, NEC SI OMNINO DUPLUM EST NOVIT); SIMILITER AUTEM ET HOC AD ALIQUID SI NOVIT QUONIAM MELIUS EST, ET QUO MELIUS ERIT DEFINITE EUM SCIRE NECESSE EST PROPTER HAEC IPSA QUAE DICTA SUNT (NON AUTEM INFINITE QUONIAM HOC EST PEIORE MELIUS, OPINIO ENIM IAM FIT HUIUSMODI, NON SCIENTIA; NEQUE ENIM SCIET INTEGRE QUONIAM EST PEIORE MELIUS; NAM FORTASSE CONTINGIT NIHIL EO ESSE PEIUS); QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM NECESSE EST QUOD QUIS NOVERIT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID DEFINITE, ETIAM ILLUD AD QUOD DICITUR SCITURUM ESSE DEFINITE.Huius quoque rei exempla persequitur dicens: Si duplum ad aliquid esse novimus, scimus quoque id cuius duplum est; quod si nescimus id cuius est duplum, duplum autem esse cuiuslibet rei ex hoc est, quod ei sit medietas, ipsam quoque rem quae dupla sit, utrum dupla sit scire non possumus. Si igitur definite novimus quamlibet illam rem esse duplam, etiam cuius dupla est definite nos scire necesse est. Ut si novit quis Anchisem patrem definite esse Aeneae, et Aeneam definite filium esse agnoscet, vel si indefinite novit quoniam pater est, indefinite etiam sciturus est quoniam filii pater est. Et rursus si Aeneam quis indefinite novit quoniam filius est, sciturus quoque est indefinite quoniam patris est filius. Manifestum est ergo quoniam ea quae sunt ad aliquid, si definite ad aliquid esse sciantur, etiam illud definite sciendum est ad quod illa referuntur. Quod in substantiis non eodem modo esse Aristotele probamus auctore, qui huius quaestionis serierm ita concludit. CAPUT VERO ET MANUM ET EORUM SINGULA QUAE SUBSTANTIAE SUNT, HOC IPSUM QUIDEM QUOD SUNT POTEST SCIRI DEFINITE, AD QUOD AUTEM DICANTUR NON NECESSE EST; CUIUS ENIM HOC CAPUT VEL CUIUS HAEC MANUS NON EST 238B DICERE DEFINITE; QUARE HAEC NON ERUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID; QUOD SI NON SUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID, VERUM ERIT NULLAM ESSE SUBSTANTIAM RELATIVAM In capite, inquit, et in manu, et in aliis substantiis non est verum, quoniam si quis aliquid horum alicuius esse novit, et ad aliquid aliud referri, idcirco et ad quam referatur definite scituras est. Si quis enim operto capite atque omnibus membris manum foras exerat, manifestum est quoniam manus illa alicuius manus est, cuius autem manus sit, dici definite non potest. Similiter quoque opertis oculis, facieque velata si cuiuslibet caput aspicias, illud quidem caput alicuius esse non dubitas, cuius autem sit definite non proferes. Quare quoniam haec huiusmodi sunt, ut si quis ea definite sciat esse alicuius, cuius sint, definite scire non poterit, a relativorum definitione, quorum si una res quaelibet definite sciatur esse ad aliquid, illa quoque res ad quam dicitur, definite scitur, substantiae segregantur. Subiiciendum tamen est illud quoque, quod omnino verum est, in definitionibus rem ipsam quae diflinitur sumi non oportere. Multa enim sunt quae aliter proferuntur et definiuntur, et aliter accipiuntur, ut si quis dicat album esse colorem nigro contrarium, potest hoc et in corpore accipi, namque et color album dicitur, et corpus quod albo participat, album nominatur. Quocirca ne quis pPomba tale album esse definitum, quod ad participationem albi et corporis referatur, ita dicendum est: Album est quod cum in aliquibus est, tum color nigro contrarium. Atque ita rem ipsam in sua definitione sumimus, quod scilicet Aristoteles, id est rem ipsam qua definitur in definitione sumi non oportere, inter verisimilia topicorum posuit argumenta. Nunc autem post relativorum disputationem, ad maiorem nos de his rebus tractatum studiosus doctor hortatur, dicene: FORTASSE AUTEM DIFFICILE SIT DE HUIUSMODI REBUS CONFIDENTER DECLARARE NISI SAEPIUS PERTRACTATA SINT; DUBITARE AUTEM DE SINGULIS NON ERIT INUTILE. Quod scilicet nunquam diceret, nisi nos ad maiorem acuminis exercitationem considerationemque reuocaret. Quod quoniam eius est adhortatio, nos quoque in aliis de his rebus dubitationes solutionesque ponere minime grauabimur. Consueta in principio quaestio est cur post relationis predicamentum disputationem qualitatis aggressus est, quod nimis curiosum est. Mirabile enim fuerat cur post quantitatis ordinem non statim de qualilate coepisset sed quoniam quantitati quaedam relationis admiscuit, et disputationem de relatione continuavit, idcirco non est mirabile post expeditam relationis interpositionem ad qualitatis eum ordi nem reuertisse, quamquam etiam ex hoc quoque recta sit series. Nam post magnum paruumque statim proportio et quaedam ad aliud comparatio consequitur, ut sit aut maius aut minus, aut aequale vel inaequale, quae sunt ad aliquid. Post haec autem innasci quasque necesse est passiones, quae a qualitatis natura non discrepant, ut album, vel nigrum, vel calidum vel frigidum, vel quaecumque his sunt consimilia, quae praedicatio qualitatis includit. Est vero titulus huius propositi de quali et de qualitate. Quaeritur enim cur ei non aut de quali dixisse, aut de qualitate suffecerit, quod hoc modo solvitur. Dicimus enim quale non uno modo, qualitatem vero simpliciter. Quale enim dicimus et ipsam qualitatem, et illam rem quae qualitate illa participat, ut albedo quidem qualitas est, qui vero participat albedinem albus dicitur. Sed et albedinem ipsam communiter quale dicimus, id est ipsam proprie qualitatem, et album dicimus quale, illud scilicet quod superius comprehensa qualitate participat. Ita ergo et ipsam qualitatem et rem quae qualitate participat, qualia communiter appellamus, qualitas vero simpliciter dicitur. Res enim ipsa quae participari potest, sola qualitas nominatur. Res vero quae participat, qualitatis vocabulo non tenetur, ut, albedo qualitas quidem est, albus vero qualitas non est. Differunt ergo hoc quod dicimus quale et qualitas, quod illud dupliciter, illa simpliciter appellatur. Quocirca quamquam quidam negent hunc titulum Aristotelis esse, idemque confirment posteriores adiectione signatum, nos tamen dicimus proprer quamdam nominum similitudinem demonstrandam utrumque posuisse, ut nihil distare videatur utrum quale an qualitas, id quod appositum est praedicamentum dicatur; quale enim ipsam aliquoties rem (ut diximus) qualitatemque significat. Sit ergo ex rebus sumpta definitio qualitatis. Quod vero inquam definitionem, quodque superius in aliis quoque praedicamentis, eodem sumus usi vocabulo, nullus arbitretur generalem me definitionem voluisse signare sed definitionis nomen in rem descriptionis accipiat. In his enim qua generalissima genera sunt, definitio quaeri non debet sed descriptio quaedam naturae, non enim potest inveniri definitio eius rei quae genus ipsa sit, et quae genus nullum habeat. Quocirca his propositis, atque antea constitutis, incipiendum est de qualitate. QUALITATEM VERO DICO SECUNDUM QUAM QUALES QUIDAM DICIMUR. Hic quaeritur cur omnium in disceptatione doctissimus tam culpabili qualitatem termino definitionis incluserit. Volentibus enim nobis quid sit qualitas scire, illa respondet: qualitas est secundum quam quales quidam dicuntur. Nihil enim minus erit obscurius atque ignorabilius quod ait: SECUNDUM QUAM QUALES DICUNTUR, quam si de ipsa sola qualitate dixisset. Nam si illi sunt quales, qui qualitatem habent, ut sciantur quales, prius qualitas cognoscenda est. Amplius quoque nihil differt dixisse eam qualitatem secundum quam quales quidem dicuntur, tanquam si diceret eam esse qualitatem quae qualitas sit. Nam sic qualitatem definire volens ait: secundum quam quales quidam sunt. Rursus si quis quales aliquos definire voluerit, eodem modo dicere poterit, qui in se retinent aliquam qualitatem. Quod si qualitas quidem quid sit per quale, quid autem sit quale, superiore qualitate monstratur, nihil intererit dicere qualitatem esse, qualitatem, quam qualitatem esse, secundum quam quales dicuntur. Sed si ordinata definitio generalis et in hoc generalissimo genere poni potuisset, recte culpabilis determinatio videretur. Nunc autem frustra contenditur, cum iam (ut saepe dictum est) descriptionis potius loco hunc terminum quam alicuius definitionis addiderit. Quocirca si designatio tantum quaedam, et quodammodo adumbratio rei eius de qua quaeritur, et non definitio est, absurda calumnia est, rebus notioribus res ignotiores probantem non ante perspecta descriptionis ratione culpare. Illud autem quis dubitet notiores esse eos qui quales sunt, illa ipsa ex qua quales dicuntur qualitate, ut quilibet albus notior est ipsa albedine? Nam si albedo qualitas est, albus vero ab albedine, id est a qualitate, denominatus est, albus erit qualis nominatus ab albedine qualitate. Quod si, ut dictum est, notior albus est albedine, qualis notior erit qualitate, sicut grammaticus quoque notior est grammatica. Grammaticus quoque qualis est denominatus, scilicet a grammatica qualitate. Omnia enim quae sensibus subiecta sunt notiora sunt nobis quam ea quae sensibus non tenentur. Quare nihil impedit describentem et quodammodo naturam rei eius de qua quaeritur designantem, res ignotiores notioribus approbare. EST AUTEM QUALITAS EORUM QUAE MULTIPLICITER DICUNTUR. ET UNA QUIDEM SPECIES QUALITATIS HABITUS AFFECTIOQUE DICANTUR. DIFFERT AUTEM HABITUS AFFECTIONE QUOD PERMANENTIOR ET DIUTURNIOR EST; TALES VERO SUNT SCIENTIAE VEL VIRTUTES; SCIENTIA ENIM VIDETUR ESSE PERMANENTIUM ET EORUM QUAE DIFFICILE MOVEANTUR, SI QUIS VEL MEDIOCRITER SCIENTIAM SUMAT, NISI FORTE GRANDIS PERMUTATIO FACTA SIT VEL AB AEGRITUDINE VEL AB ALIQUO HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM ET VIRTUS, ET IUSTITIA VEL CASTITAS ET SINGULA TALIUM NON VIDENTUR FACILE POSSE MOVERI NEQUE FACILE PERMUTARI. AFFECTIONES VERO DICUNTUR QUAE SUNT FACILE MOBILES ET CITO PERMUTABILES, UT CALOR ET INFRICTIO ET AEGRITUDO ET SANITAS ET ALIA HUIUSMODI; AFFECTUS EST ENIM QUODAMMODO CIRCA EAS HOMO, CITO AUTEM PERMUTATUR UT EX CALIDO FRIGIDUS FIAT ET EX SANITATE IN AEGRITUDINEM; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS, NISI FORTE IN HIS QUOQUE CONTINGIT PER TEMPORIS LONGITUDINEM IN NATURAM CUIUSQUE TRANSLATA ET INSANABILIS VEL DIFFICILE MOBILIS, QUAM IAM QUILIBET HABITUDINEM VOCET. Proponit qualitatem multipliciter dici, quae res traxit aliquos in errorem, ut eis suspicio nasceretur Aristotelem credere qualitatem aequivoce nominari. Nam si omnis aequivocatio multipliciter dicitur, qualitas autem secundum Aristotelem ipsa quoque multipliciter appellatur, secundum Aristotelem nomen qualitatis aequivocum est. Nos vero defendimus multipliciter dici, esse non una tantum significatione nominari. Dicitur enim aliquid multipliciter dici, cum et aequivoce dicitur, et diverso modo de suis speciebus multipliciter praedicatur. Et communis est multiplex appellatio, etiam in his nominibus quae veluti genera de speciebus dicuntur, velut aequivoca de subiectis. Namque et animal multipliciter dicitur. Nam si multae sint species quae animali subiectae sunt, ipsum quoque multipliciter quodammo denominatur. Istam autem multiplicationem, non ad aequivocationem retulisse Aristotelem sed potius ut qualitatem genus esse proponeret, illa res monstrat, quod ait, et una quidem species qualitatis habitus affectioque dicitur. Nam qui speciem dicit esse qualitatis habitum et affectionem, quis eum dubitet ipsam qualitatem vim obtinere generis arbitrari? Cur vero dicit unam speciem esse qualitatis, cum geminas proposuerit, habitudinem scilicet et affectionem, quaeritur. Nam si unum idemque sit habitus et aflectio, superflua est eiusdem rei repetita propositio, sin vero differact, quare differant investigandum est. Genere enim ne distent, illa res praevenit, quod utraque sub qualitate constituit. Restat ergo ut aut specie discrepent, aut numero; sed si specie discreparent, non ab Aristotele pro una specie ponerentur. Reliquum est igitur ea neque genere neque specie differre sed numero. Habitus namque dispositio idem est secundum speciem sed numero tantum et propria quadam qualitate dissentiunt. Dispositionem vero indiscrete idem quod affectionem voco. Nam sicut Socrates a Platone nihil quidem secundum ipsam humanitatis speciem discrepat, sola tamen propriae personae qualitate disiuncti sunt, ita quoque dispositio atque habitus, nec potius hoc modo distant; sed quemadmodum ipse Socrates dum esset paruulus, post vero pubescens a seipso distabat, eodem quoque modo habitus et dispositio: namque habitus firma est dispositio, affectio infirmus est habitus, ut quemadmodum distat albus color ab albo colore, si in pictura hic quidem permaneat, ille vero statim periturus sit, nisi quod is qui permanentior est, in habitu est, ille vero qui facile periturus est, in affectione, ita nihil aliud interest inter habitum atque dispositionem. Nam quamvis permanentior sit habitus, facile vero mobilis dispositio, non nisi tantum dinturnitate differunt permanendi. Unde fit ut genere et specie habitus a dispositione non discrepet. Quocirca recte quae numero solo distabant, non specie sub unius speciei nuncupatione utraque sunt ab Aristotele proposita sed est horum propria differentia, quod habitus diutissime permanentes dispositiones sunt. Dispositio autem facile mobilis habitus sed si borum exempla quaeramus, haec poterunt inveniri. Habitudines sunt ut artes, disciplinae, virtutes. Nam ars non facile mobilis videtur et diutissime permanet. Hoc enim ars ipsa meditatur ut usu atque exercitatione non pereat. Quis enim est qui sciens recte grammaticam nulla vi interveniente validioris passionis amisit? Fertur enim quidam summus orator aegritudine febribusque decoctus, omnem litterarum amisisse doctrinam, in aliis vero rebus sanus ac sibi constans et in omni re uegetus permansisse. Disciplina quoque etiam ipsa est in permutatione difficilis. Quis enim sciens triangulum, duobus directis angulis, tres interiores similes habere angulos, hanc scientiam praeter vim (ut dictum est) fortioris passionis amisit? Virtutes quoque in eodem genere ponendae sunt. Virtus enim nisi difficile mutabilis non est, neque enim quod semel iuste iudical iustus est, neque qui semel adulterium facit, est adulter sed cum ista voluntas cogitatioque permanserit. Aristoteles enim virtutes non putat scientias, ut Socrates sed habitus in Ethicis suis esse declarat. Quocirca constat esse habitus stabiliter permanentes, difficileque mutabiles, hoc tantum excepto, ut non eas vis aliqua maior alicuius permutationis impellat et destruat. Affectionis vero species sunt, ut calefactio atque perfrictio, et aegritudo atque sanitas, cum ad eas quodammodo sit homo dispositus atque affectus, non tamen immutabiliteraut caloris qualitatem habeat aut frigoris, sicut nec perpetuo sanitatis aut perpetuo aegritudinis. Quin etiam si qua sunt quae per longi temporis aegritudinem corporibus immutabiliter indurantur, ut ea iam in naturam quodammodo corporis cuiusque transierint, ut si quis percussus cicatricem faciat insanabilem, illi ex dispositione et 242D affectione quidam factus est habitus. Quocirca recte dictum est dispositiones inveteratas habitus facere. Nam cum quaelibet dispositio permanens et difficilc mobilis facta sit, illa iam non dispositio aut affectio sed habitus vocandus est. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM HAEC VOLUNT HABITUS NOMINARI, QUAE SUNT DIUTURNIORA ET DIFFICILE MOBILIA; NAMQUE IN DISCIPLINIS NON MULTUM RETINENTES SED FACILE MOBILES DICUNT HABITUM NON HABERE, QUAMVIS SINT AD DISCIPLINAM PEIUS MELIUSUE DISPOSITI. QUARE DIFFERT HABITUS AFFECTIONE, QUOD HOC QUIDEM FACILE MOBILE EST, ILLUD VERO DIUTURNIUS ET DIFFICILE MOBILE. Habitus esse qualitates difficile mobiles et diuturnissime permanentes hoc argumento confirmat, quod eos quibus quaelibet scientia traditur, si ab eis non fortiter addiscatur, eius rei quam discunt habitum retinere non dicimus. Qui enim litteras discens nondum soluto cursu sermonis sed syllabatim quodammodo atque intercise per imperitiam legerit, eum quidem dispositum esse atque affectum dicimus ad scientiam litterarum, non tamen adhuc illum habitum retinere. Quare idem quoque est in aliis rebus. Omnes enim quicumque ad aliquam rem dispositi, eius rei qua sunt aliquo modo affecti, non diuturnam in se receptionem habent, eos ad illam rem dispositos quidem esse arbitramur, habitum vero habere non dicimus. Recte igitur habitus diuturnior, et permanentior, dispositio vero facile mobilis deque perdurabilis ab Aristotele proponitur. SUNT AUTEM HABITUS ETIAM AFFECTIONES, AFFECTIONES VERO NON NECESSARIO HABITUS; QUI ENIM RETINENT HABITUM ET QUODAMMODO AFFECTI SUNT AD EA VEL PEIUS VEL MELIUS; QUI AUTEM AFFECTI SUNT, NON OMNINO RETINENT HABITUM. Sensus quidem talis est, quod omnis quicumque habeat habitum, habet quoque in eodem habitu dispositionem. Si quis vero habeat dispositionem, non necesse sit eum etiam habitum retinere. Habitus ab habendo dictus est. Idcirco quod ab aliquo immutabiliter vel difficile immutabilitur habeatur, ut glauci oculi, vel aduncae nares, vel alicuius artis scientia atque doctrina, quae si quis habeat, etiam dispositus ad ea esse dicitur. Si quis autem dispositus ad aliquam rem sit, non eum necesse est etiam habitum habere, ut si quis negligentius opertus algore quatiatur, dispositus quidem tunc ad frigus est, non tamen eius retinet habitum. Videtur autem eamdem similitudinem servare genus. Nam genus amplius praedicatur, et ubicumque species sit, mox quoque nomen generis praesto est. Ubi autem sit genus, non necessario speciei vocabulum consequitur, ut si quis est homo, eum animal esse necesse est. Si quis est animal, non statim homo dicitur. Quocirca cum quidquid est habitus, dispositio sit, quidquid dispositio non omnino sit habitus, videtur genus esse quoddam habitus dispositio sed illud verius, ubi intentio est atque remissio, genus intentionis, remissione esse non posse. Num sicut in eo quod est album et magis album, magis albi genus album esse non potest, idem namque est album et magis album, nisi forte quod sola discrepant intentione, quod magis album quadam quasi intentione augmentoque crescit atque porrigitur, sic etiam habitus atque dispositio cum idem sint, utraque sola differunt intentione, quod auctior quodammodo, et incremento quodam permanentior firmiorque est habitus dispositione; quocirca dispositio habitus genus non est, eodem quoque modo nec dispositionis species, habitus. Sed nunc quidam ita est habitus, ut non per dispositionem creuerit, neque per aliquam nondum durabilem qualitatem ad perfectum venerit statum, ut est nasi curuitas, vel caecitas oculorum, si subita facta sit. Haec enim ab ipso habitu nulla praecedente dispositione coeperunt; forte enim nunquam ad ea dispositiis fuit aliquis, qui adhuc non haberet. Alii vero habitus intentione fiunt atque inveteratione dispositionis, ut ea quae in artibus doctrinisque versantur. Prius enim quis ad ea dispositus est, post vero habitum capit, alia vero non intentione sed quadam permutatione ad habitum veniunt, ut lac quod ex liquido defigitur et constipatur in caseum, et vinum quod ex dulci atque suavi in acidum gustum saporemque convertitur; neque enim plus tunc vinum est quam fuit ante cum esset suave sed cum quadam permutatione in aliam qualitatem habitudinemque transgressum est. Ac de prima quidem qualitatis specie sufficienter est dictum. ALIUD VERO GENUS QUALITATIS EST SECUNDUM QUOD PUGILLATORES U EL CURSORES VEL SALUBRES VEL INSALUBRES DICIMUS, 244B ET SIMPLICITER QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM VEL IMPOTENTIAM DICUNTUR. NON ENIM QUONIAM SUNT AFFECTI ALIQUO MODO, UNUMQUODQUE HUIUSMODI DICITUR SED QUOD HABEANT POTENTIAM NATURALEM VEL FACERE QUID FACILE VEL NIHIL PATI; UT PUGILLATORES VEL CURSORES DICUNTUR NON QUOD SINT AFFECTI SED QUOD HABEANT POTENTIAM HOC FACILE FACIENDI, SALUBRES AUTEM DICUNTUR EO QUOD HABEANT POTENTIAM NATURALEM UT NIHIL A QUIBUSLIBET ACCIDENTIBUS PATIANTUR, INSALUBRES VERO QUOD HABEANT IMPOTENTIAM NIHIL PATIENDI. SIMILITER AUTEM ET DURUM ET MOLLE SESE HABENT; DURUM ENIM DICITUR QUOD HABEAT POTENTIAM NON CITIUS SECARI, MOLLE VERO QUOD EIUSDEM IPSIUS HABEAT IMPOTENTIAM. Secundam vero speciem qualitatis esse commemorat, quae ex quadam naturali potentia impotentiaque proveniat; hoc autem huiusmodi est, ut cum aliquos validi corporis intuemur nondum pugiles, neque huius peritia artis imbutos sed sic eos pugillatores dicimus, non in eo quod iam sint pugiles sed eo quod esse possint, et si quorum leue corpus aspicimus, surasque non magnas, eos facile moveri cursuque veloces existimamus, quamquam nondum ad cursus certamen aspirent, nec sint cursores, eos tamen cursores secundum potentiam nominamus, non quod iam currant sed quod possint currere, non absurde vocabimus. Eodem quoque modo eos vocamus salubres vel insalubres, quos valenti corpore vel fragiliore, vel ad sanitatem aptos, vel ad aegritudinem credimus. 244D Unde fit ut quosdam aegrotos possimus salubres vocare, quosdam vero sanos insalubres dicere: non enim, quod iam actu vel sani vel aegroti sint, salubres vel insalubres dicuntur sed quod vel sani diutius esse possint vel aegroti. Sed quaestio est cur cum de qualitatis speciebus propositum sit, secundum genus dixerit qualitatis et non speciem; ita enim ait: Aliud vero genus qualitatis est secundum quod pugillalores vel cursores, vel salubres et insalubres dicimus. Sed qui hoc quaerunt ignorare videntur illud esse solum genus, quod super se aliud genus non habeat. Illud veros solum speciem, quod sub se nullas species claudat, illa vero quae inter genera generalissima speciesque specialissimas sunt, communi posse generis et speciei nomine nuncupari. Quocirca quoniam de ea specie qualitatis Aristoteles tractat, quae nondum sit species specialissima sed magis generis prima species, et huiusmodi species quaa possit esse et genus, nihil absurdum est eamdem et speciei et generis loco ponere. Sed ut sunt quaedam qualitates, a quibus denominatione quadam facta quaelibet illa res dicitur, ut ab albedine album, vel a luxuria luxuriosum, vel quidquid huiusmodi est, in his quae sunt secundum potentiam naturalem non ita est. Ars enim ipsa pugillatoria non est proposita, a qua pugillatores dicamus. Pugillatores enim non dicuntur ab eo quod usum pugillatoriae artis exerceant sed ab eo quod ad eam secundum potentiam naturalem affecti sunt; quocirca quos dicimus pugillatores a pugillatoria dicti non sunt, neque ab ea denominari possunt sed magis a pugillatoria arte pugiles appellantur. Pugilis enim est qui pugillatoria arte utitur, atque hoc idem in caeteris licet videre. In his ergo nulla certa qualitas est a qua caetera nominentur. Sed si qua tamen invenienda atque exprimenda sit, talis est quam ipse Aristoteles hoc modo denuntiat, quae sit secundum potentiam aliquid faciendi, vel impotentiam aliquid patiendi. Pugillatores enim et cursores idcirco dicimus, quod habeant potentiam faciendi, id est currere atque esse pugiles. Salubres vero denominamus, quod et ipsi habeant aliquam quodammodo im potentiam aliquid patiendi; qui enim minus ab extrinsecus accidentibus patitur, hic de sanitate securus est, et qui de sanitate securus est, illum salubrem esse re vera possumus praedicare. Alia vero est qualitas quae secundum nihil patiendi impotentiam dicitur, ut eos quos insalubres vocamus; hi enim impotentiam habent nihil patiendi, idcirco quod habeant potentia mali quid cito patiendi: quod si quis est qui ab extrinsecus accidentibus aliquid facile patiatur, ille potens est facillime aegritudini subiacere, secundum quam potentiam insalubres dicimus, etiamsi sint sani. Eodem quoque modo durum dicitur et molle. Durum enim est quod habet potentiam non citius secari, quod enim durum est, difficillime aliqua sectione dividitur. Molle autem quod habeatimpotentiam difficilius secari, quod quoniam molle secatur facile, secundum impotentiam difficilius secari molle dicimus. Et haec est secunda species qualitatis. Nunc transeamus ad tertiam. TERTIUM VERO GENUS QUALITATIS EST PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES. SUNT AUTEM HUIUSMODI UT DULCEDO VEL AMARITUDO ET OMNIA HIS COGNATA, AMPLIUS CALOR ET FRIGUS ET ALBEDO ET NIGREDO. ET QUONIAM HAE QUALITATES SUNT, MANIFESTUM EST; QUAECUMQUE ENIM ISTA SUSCEPERINT QUALIA DICUNTUR SECUNDUM EA; UT MEL, QUONIAM DULCEDINEM SUSCEPIT, DICITUR DULCE, ET CORPUS ALBUM QUOD ALBEDINEM SUSCEPERIT; SIMILITER AUTEM SESE HABET ETIAM IN CAETERIS. Tertium genus qualitatis proponit, quod nos in partem qualitatis speciemque convertimus passibiles qualitates et passiones. Haec autem a se plurimum distant, tamen cum utraque qualitates sint, utraque prius docet, post vero quae eorum distantia esse videatur edisserit, et prius eorum convenientia proponit exempla. Nam quid sint passibiles qualitates docens ait. ut dulcedo vel amaritudo, calor et frigus, nigredo et albedo, et alia his cognata, haec quae superius comprehensa sunt qualitates esse illa ratione confirmat, quam in primordio de qualitatis disputatione ipsius qualitatis esse reddiderat. Definitionem enim qualitatis esse praedixerat, secundum quam quales vocamur. Quod si secundum qualitatis quales vocamur, ab amaritudine vero vel a dulcedine amarum vel dulce dicitur. A nigredine atque albedine nigrum atque album, quis dubitet has esse qualitates in quibus qualitatis convenit definitio? Illa enim semper eiusdem naturae esse creduntur, quaecumque eiusdem descriptionis finibus terminantur, ut si qua res definitionem hanc, quae est animal rationale mortale susceperit, eam hominem esse manifestum est. Quocirca si hae quas passibiles qualitates vel passiones dixerat, suscipiunt qualitatis defnitionem, eo quod qualia dicuntur quae illa susceperint, has etiam constat esse qualitates. PASSIBILES VERO QUALITATES DICUNTUR NON QUO EA QUAE ILLAS SUSCEPERINT QUALITATES ALIQUID PATIANTUR; NEQUE ENIM MEL, QUONIAM ALIQUID PASSUM SIT, IDCIRCO DICITUR DULCE, NEC ALIUD ALIQUID HUIUSMODI; SIMILITER AUTEM HIS ET CALOR ET FRIGUS PASSIBILES DICUNTUR NON QUO EA QUAE EAS SUSCIPIUNT QUALITATES ALIQUID PATIANTUR SED QUONIAM SINGULUM EORUM QUAE DICTA SUNT SECUNDUM SENSUS QUALITATUM PASSIONIS PERFECTIVA SUNT, PASSIBILES QUALITATES DICUNTUR; DULCEDO ENIM PASSIONEM QUANDAM SECUNDUM GUSTUM EFFICIT, ET CALOR SECUNDUM TACTUM; SIMILITER AUTEM ET ALIA. Passibilium qualitatum exempla constituerat dulcedinem vel amaritudinem, frigus atque calorem, albedinem atque nigredinem, quae cum passibiles qualitates sint, non tamen uno eodemque modo passibiles qualitates dicuntur; sed longe distant rationes quibus haec omnia qualitates passibiles appellantur, ut prius dulcedo vel amaritudo, calor et frigus passibiles qualitates dicuntur, non quod ea quae sunt dulcia aliquid extrinseous patiantur, vers quod ea quae sunt amara, ex aliqua passione saporem asperum amaritudinemque susceperint. Neque enim mel aliquid passum est, ut ei dulcedo esset in natura, nec vero absinthium ab ulla aliqua extrinsecus passione amaritudinis horror infecit; quocirca haec atque his similia non idcirco dicuntur esse passibiles qualitates, quod ipsae aliquid passae sint sed quod ex his passiones quaedam in sensibus dimittantur. Namque ex melle quod dulce est, dulcedo quaedam in gustu relinquitur, simulque etiam calor et frigus passionem quamdam sensibus facinat. Patimur dulcedinem, cum aliquid dulce gustamus, simulque secumlum caloris et frigoris qualitatem, talium sensuum passionem subimus. Quocirca calor et frigus, amaritudo atque dulcedo, idcirco passibiles qualitates dicuntur, quod secundum sensuum qualitatem, aliquam in nobis efficiunt passionem, non quod ipsa extrinsecus aliquid patiantur. ALBEDO AUTEM ET NIGREDO ET ALII COLORES NON SIMILITER HIS QUAE DICTA SUNT PASSIBILES QUALITATES DICUNTUR SED HOC QUOD HAE IPSAE AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS INNASCUNTUR. Quoniam vero passibiles qualitates etiam colores esse dicuntur, id est albedo et nigredo. Non autem eodem modo passibiles qualitates dicuntur, quemadmodum amaritudo atque dulcedo, calor et frigus, nunc quae eorum distantiae esse possint, exponit. Amaritudo enim atque dulcedo non quod ipsa aliquid extrinsecus paterentur sed quod ipsa efficerent passiones, passibiles qualitates vocabantur, albedo vero et nigredo contrarie. Non enim quod ipsae aliquas 247B sensibus passiones importent sed quod ex aliis quibusdam passionibus innascantur. Hoc autem videtur Aristoteles eo quodammodo considerasse, quod post proposuit hoc modo: QUONIAM ERGO FIUNT PROPTER ALIQUAM PASSIONEM MULTAE COLORUM MUTATIONES, MANIFESTUM EST; ERUBESCENS ENIM ALIQUIS RUBICUNDUS FACTUS EST ET TIMENS PALLIDUS ET UNUMQUODQUE TALIUM. Hoc autem ex non longi temporis passionibus ad passibiles qualitates et diutissime permanentes, acutissima consideratione transfertur, fit enim rationis probabilitas hoc modo. Monstrantur enim colorum qualitates ex passionibus nasci, quod cum verecundia passio quaedam sit, ex ea rubor ex oritur, et cum timor loco passionis habeatur, ab ea pallor metuentis 247C uultum atque ora defigit. Quare quoniam hi colores ex quadam passione videntur innasci, etiam in naturali colore eamdem verisimile est evenisse rationem. Nam quoniam cum verecundia fit, in os omnis sanguis egreditur, et velut delictum tecturus effunditur, ita quoque fit rubor ex sanguinis progressione, atque in apertum effusione. Quocirca si hoc ex innaturali passione contigerit, naturali facies rubore perfunditur. Pallor vero fit, quoties a facie sanguis ad praecordiorum interiora ingreditur. Quod si haec quoque naturalis passio det, verisimile est eodem infectum calore procreari. Quocirca sive per aegritudinem pallor fit, quod naturale non est, sive per aliquem naturalem euentum passionis accidat, caeteraque ad eumdem modum, passibiles qualitates dicuntur, eo quod ex aliquibus passionibus sint, quod ipse Aristoteles hao voce testatur: QUARE VEL SI QUIS NATURALITER ALIQUID TALIUM PASSIONUM PASSUS EST, SIMILEM COLOREM EUM HABERE OPORTET; QUAE- ENIM AFFECTIO NUNC AD VERECUNDIAM CIRCA CORPUS FACTA EST, ET SECUNDUM NATURALEM CONSTITUTIONEM EADEM AFFECTIO FIT, QUARE NATURALITER COLOR SIMILIS FIT. Nam sive aliquis vel nondum natus aliquid patiatur, quo faciem sanguis reiinquat, sive quolibet alio modo sanguis ex infantis uultu ad interiora migravit, faciem naturalis infecit pallor, et quae nunc non naturales passiones dispositionesque sunt, ut cum hi colores faciem vel totum corpus inficiunt, hi si naturaliter contigerint eisdem, similibus signatus coloribus uultus aspicietur. Nunc enim cum aestus in superficie uultus sanguinem impositum decoxerit, nigredinis perusti sanguinis rubor reddit colorem. Quodsi idem aliqua passione in faciem nondum geniti infantis acciderit, eamdem verisimile est affectionem coloris corpus suscipientis inficere. Quare quae in coloribus sunt idcirco passibiles qualitates dicuntur, non quod ipsae aliquid paliantur sed quod ex aliquibus passionibus in cuiuslibet corpus atque ora proveniunt. QUAECUMQUE IGITUR TALIUM CASUUM AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS DIFFICILE MOBILIBUS ET PERMANENTIBUS PRINCIPIUM CEPERUNT, QUALITATES DICUNTUR; SIVE ENIM VEL SECUNDUM NATURALEM SUBSTANTIAM PALLOR AUT NIGREDO FACTA EST, QUALITAS DICITUR (QUALES ENIM 248B SECUNDUM EAS DICIMUR), SIVE PROPTER AEGRITUDINEM LONGAM VEL PROPTER AESTUM CONTINGIT VEL NIGREDO VEL PALLOR, ET NON FACILE PRAETERIT ET IN VITA PERMANET, QUALITATES ET IPSAE DICUNTUR (SIMILITER ENIM QUALES SECUNDUM EAS DICIMUR). Dat quoddam signum quo perspecto valeamus agnoscere, quas harum omnium quae supradictae sunt, qualitates oporteat appellari. Si enim ita vel casu aliquo, vel natura hae qualitates euenerint, ut eorum sit tardus exitus permutatioque difficilis, qualitates vocantur. Si quis enim vel per aegritudinem, vel per naturam pallidus fiat, sitque in eius corpore permanens pallor, tunc qualitas appellatur, et hoc non in corporalibus solum vitiis sed etiam in animi quoque affectionibus invenitur. Si quis enim vel per naturam, vel quolibet alio postea casu assiduis comessationibus delectetur, et hoc illi quodammodo in ipsa mentis dissolutione per maneat, ab eoque difficile moveatur, passibilis qualitas effecta est, idcirco quod secundum eam quales dicuntur quibus illa provenerit. Niger enim dicitur in quo nigredo permanserit; comessator, cui voluptas perpetuo comessandi est. Est ergo signum in passibilibus qualitatibus hoc eas esse immobiles et permanentes. Quae autem huiusmodi sunt quae facillime permutantur, et temporali statu sunt, de his talis Aristotelis videtur esse sententia. QUAECUMQUE VERO EX HIS QUAE FACILE SOLUUNTUR ET CITO TRANSEUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR; NON ENIM DICIMUR SECUNDUM EAS QUALES; NEQUE ENIM QUI PROPTER VERECUNDIAM RUBICUNDUS FACTUS EST RUBICUNDUS DICITUR, NEC CUI PALLOR PROPTER TIMOREM venIT PALLIDUS SED MAGIS QUOD ALIQUID PASSUS SIT; QUARE PASSIONES HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO MINIME. SIMILITER AUTEM HIS ET SECUNDUM ANIMAM PASSIBILES QUALITATES ET PASSIONES DICUNTUR. QUAECUMQUE ENIM MOX IN NASCENDO AB ALIQUIBUS PASSIONIBUS FIUNT, QUALITATES DICUNTUR, UT DEMENTIA VEL IRA VEL ALIA HUIUSMODI; QUALES ENIM SECUNDUM EAS DICIMUR, ID EST IRACUNDI ET DEMENTES. SIMILITER AUTEM ET QUAECUMQUE ALIENATIONES NON NATURALITER SED AB ALIQUIBUS ALIIS CASIBUS FACTAE SUNT DIFFICILE PRAETEREUNTES ET OMNINO IMMOBILES, ETIAM HUIUSMODI QUALITATES SUNT; QUALES ENIM SECUNDUM EAS DICIMUR. QUAECUMQUE ENIM EX HIS QUAE 249A CITIUS PRAETEREUNT FIUNT, PASSIONES DICUNTUR, UT SI QUIS CONTRISTATUS IRACUNDIOR EST; NON ENIM DICITUR IRACUNDUS QUI IN HUIUSMODI PASSIONE IRACUNDIOR EST SED MAGIS ALIQUID PASSUS; QUARE PASSIONES QUIDEM HUIUSMODI DICUNTUR, QUALITATES VERO MINIME. Quid de his affectionibus iudicaret, quae ad prasens tempus atque ad momentum animis vel corporibus inhaererent, ipse non obscura oratione uulgavit. Nam cum prius eas esse passibiles qualitates pronuntiaret, quae ex aliquibus passionibus gignerentur, et tamen in subiectis immutabiliter permanerent, nunc illas affectiones quae ita sunt in subiectis ut cito praetereant, non qualitates sed passiones vocat. Si quis enim propter verecundiam rubore infectus est, quoniam rubor ille non permanet, rubeus von vocatur; 249B qui si rubeus discerelur, esset quoque ipse rubor passibilis qualitas, quoniam in subiecto corpore diutissime permaneret. Nunc autem quoniam nullo modo rubeus dicitur, cui a verecundia rubor venit, qualitates autem sunt secundum quas quales vocamur, verecundiae rubor non qualitas sed quaedam passio est; nam si esset qualitas, ab eo rubore rubei dicerentur, id est quales sed hoc non ita est. Non igitur huiusmodi affectiones quae haud multo durant tempore qualitates vocantur sed potius passiones. Passus enim aliquid dicitur, qui propter verecundiam rubeus fit. Eadem ratio est etiam in animi passionibus. Nam si ad momentum quis iratus est, non idcirco eum iure aliquis iracundum vocet sed si huiusmodi vilium in cuiuslibet animo constanter inhaeserit. Nam si quis vel per naturam vel per aegritudinem sit laesus corpore, ut vel perpetuam dementiam, vel immobilem incurrat iracundiam, ille vel demens vel iracundus dicitur. Et quaecumque alienationes (ut ipse ait) vel secundum naturam, vel per casum permanentes fuerint, illae in passibili qualitate numerantur, idcirco quod secundum eas quales dicimur. Quae autem (ut dictum est) non permanent sed facile transeunt, eas non qualitates sed solum vocamus passiones. Sed quoniam tres species qualitatis enumeravit, unam secundum quam habitus dispositionesque dicerentur, alteram secundum quam naturalis potentia vel impotentia ad aliquid faciendum vel patiendum subiectarum rerum naturas paruret, tertiam secundum quam passibiles qualitates dicerentur, et hanc tali duplicitate partitus est, ut alias idcirco diceret passibiles esse qualitates, quod ipsae aliquas gignerent passiones, alias vero quod ab aliquibus ipsae passionibus nascerentur. Quaeri potest quomodo hae quoque passibiles qualitates distenta prima illa specie qualitatis, quae secundum habitum dispositionemque posita est. Nam si quis calorem frigusque persenserit, habet quidem qualitatem passibilem sed tamen in eiusdem ipsius dispositione atque affectione versatur; dispositus namque est ad eumdem calorem atque frigus, quem sumpsit atque habuit, quod scilicet ipse Aristoteles videns calorem frigusque in utraque specie numeravit; namque et dispositionem dixit calorem atque frigus, et passibilem qualitatem. Huius quaestionis talis solutio est. Nihil impedit, secundum aliam scilicet atque aliam causam, unam eamdemque rem gemino generi speciei suae supponere, ut Socrates in eo quod pater est ad aliquid dicitur, in eo quod homo, substantia est, sic in calore atque frigore, in eo quod quis secundum ea videtur esse dispositus, in dispositione numerata sunt; secundum vero quod ex aliquibus passionibus innascuntur, passibiles qualitates dictae sunt. Ipsae vero ab habitu distant, id est passibiles qualitates, quod in plurimis ad habitus rebus per artes atque scientias pervenitur, ita ut ipse habitus ordine et filo quodam perficiatur. Passibiles vero qualitates eo modo minime. Quo vero distent hae passibiles qualitates a secunda specie, qua secundum naturalem potentiam vel impotentiam dicitur, quaeritur, cuius perplana distantia est. Dicimus enim secundum potentiam naturalis speciem aliquid dici, non secundum praesentem actum sed secundum id quod ad hoc esse potest; frigus vero calorque, et dulcedo vel amaritudo non secundum quod possit esse sed secundum id quod iam sit consideratur; quocirca distat haec tertia species a secunda, quod hic secundum possibilitatem dicitur, tertia vero secundum actum. Sed quod dudum promiscue passiones affectionum nomine vocabamus, haec quoque non longa quaestio alia est. Sic enim inveniemus quod passio ab affectionibus discrepare videatur. Si qua enim corpora ita calefacta sint, ut ex se quoque ipsa aliquem calorem emittere valeant, illa ad calorem affecta nuncupantur. Si qua vero tantum calorem momento susceperint, passiones dicimus, et ab affectionibus segregamus, ut hic sit integrum passionum affectionum quae habitus augmentum, ut amplificata passio in affectionem transeat, augmentata affectio in habitum permatetur. Et haec quidem de tertia specie qualitatis pronuntiasse sufficiat; nunc quarte speciei vim naturamque veracissima disputatione confirmat usque quo progressa qualitatis distributio conquiescit. Nobis quoque disputationum prolixitas moderanda est. Providendum quoque est ut sufficiens brevitas ordini expositionis adhibeatur, ne aut brevitatem comitetur obscuritas, aut planitiem minus moderata oratio, odioso fastidio et longinquitate deformet. QUARTUM VERO GENUS QUALITATIS EST FORMA ET CIRCA ALIQUID CONSTANS FIGURA; AD HAEC QUOQUE RECTITUDO VEL CURUITAS, ET SI QUID HIS SIMILE EST; SECUNDUM ENIM UNUMQUODQUE EORUM QUALE QUID DICITUR; QUOD ENIM EST TRIANGULUM VEL QUADRATUM QUALE QUID DICITUR, ET QUOD EST RECTUM VEL CURUUM. ET SECUNDUM FIGURAM VERO UNUMQUODQUE QUALE DICITUR. Quarta est species qualitatis quae secundum unamquamque formam figuramque perspicitur. Est autem figura, ut triangulum vel quadratum, forma autem ipsius figurae quaedam qualitas est, ut figura quidem est triangulum vel quadratum, forma autem ipsius trianguli vel quadrati quaedam qualitas, unde etiam formosos homines dicimus. Figura enim quaedam vel 251A pulchrior, vel mediocris, vel alio quodammodo constituta, qualitas formaque nominatur. Has autem esse qualitates nullus dubitat. Siquidem et a figura dicitur figuratus, et a forma formosus. Amplius quoque triangulum etiam a triangulatione denominatum est, et quadratum a quadratura. Quod si illae sunt qualitates, secundum quas quale aliquid appelletur, non est qui dubitet formam figuramque esse qualitates, quoniam omnia quae his participant ex ipsis qualia nominantur sed quoniam in continuae quantitatis speciebus et triangulum et superficies enumerata est, ipsa quidem superficies quantitas est, ipsius vero superficiei compositio qualitas, est enim figura (ut geometrici definiunt) quae sub aliquo vel aliquibus terminis continetur. Sub aliquo quidem, ut circulus, sub aliquibus vero, ut triangulus vel quadratus. Quare spatium quidem ipsum, quod a supra dictis lineis continetur, superficies dicitur, quae est quantitas. Superficies namque quoniam in dilatione quadam et spatio constat, quantitas est sed compositio ipsius superficiei, qualitas. Nam quoniam tres lineae convenienter in se iunctis terminis unum spatium conclusere, quod tribus angulis a tribus lineis continetur, hoc ipsum spatium quod concludunt ad quantitatem referri potest, quod vero tribus lineis, hoc est qualitas, figura enim est triangula. Hoc idem quoque dici potest etiam in linea: nam quoniam longitudo sive latitudine est, quantitas dicitur, quod recta sive curua est, redditur rursus ad qualitatem. RARUM VERO ET SPISSUM VEL ASPERUM VEL LENE PUTABITUR 251C QUIDEM QUALITATEM SIGNIFICARE, VIDENTUR AUTEM ALIENA ESSE HUIUSMODI A QUALITATIS DIVISIONE; QUANDAM ENIM QUODAMMODO POSITIONEM VIDETUR PARTIUM UTRUMQUE MONSTRARE; SPISSUM QUIDEM EO QUOD PARTES SIBI IPSAE PROPINQUAE SINT, RARUM VERO QUOD DISTENT A SE INVICEM; ET LENE QUIDEM QUOD IN RECTUM SIBI PARTES IACEANT, ASPERUM VERO CUM HAEC QUIDEM PARS SUPERET, ILLA VERO SIT INFERIOR. ET FORTASSE ALII QUOQUE APPAREANT QUALITATIS MODI SED QUI MAXIME DICUNTUR HI SUNT. QUALITATES ERGO SUNT HAEC QUAE DICTA SUNT, QUALIA VERO QUAE SECUNDUM HAEC DENOMINATIVE DICUNTUR, VEL QUOMODOLIBET AB HIS. Quaedam sunt quae videntur esse qualitates, quoniam ex his aliqua denominative dicuntur, ut lene quoniam dicitur alenilate, et asparum quoniam dicitur 251D ab asperitate, spissum quoque et rarum a raritate et spissitate nominantur; videntur ergo haec quoque in qualitatibus posse numerari. Sed rectam rationem perspicientibus nec solum auribus quae dicuntur sed etiam mente atque animo iudicantibus, in qualitatibus haec poni non oportere manifestum est. Nam quod dicimus rarum, positio quaedam partium est, non qualitas. Nam quia ita partes a se separatae distant, ut inter eas alieni generis corpus possit admitti, ideo rarum vocatur, ut spongiae pumicesque, quoniam in eorum cavernis surculus vel aliud aliquid immitti potest, ita ut inter rimas partium sit, idcirco rarum dicitur. Porro autem spissum, quoniam ita sibi partes vicinae sunt atque ad se invicem strictae, ut intereas nullum corpus possit incidere, atque ideo spissum vocatur, ut est ferrum vel adamas. Positio ergo quaedam partium his inest, non qualitas, nec vero illud quoque distat, quod dicitur lene. Nam quoniam partes ita sunt positae, et neutra superet, neutra sit minor sed aequalibus extremitatibus iunctae sunt, idcirco quaedam lenitas est, ut adducta manus illam quae ex aequalitate iunctis partibus nata est, sentiat lenitatem, ut est argentum. Asperitas vero est partium non aequalis positio sed aliarum eminentium, aliarum vero depressarum, ut lima cuius aliae partes eminent, aliae vero depressae sunt. Ergo secundum unamquamque partium positionem, vel raritas, vel spissitudo, vel asperitus, vel lenitas, corporibus est. Non igitur haec secundum qualitatem dicuntur sed potius secundum positionem. Positio autem in relationis genere nominata est. Non igitur hae qualitates sed potius relativa sunt, et enumerationes quidem specierum qualitatis Aristoteles hic terminat Non sunt tamen putandae solum esse qualitates quas supra posuit. Ipse enim testatur esse quoque alias qualitates, quas modo omnes enumerare neglexit sed cur neglexerit multae sunt causae. Prima quod elementi vicem hic obtinet liber, nec perfectam scientiam tradit sed tantummodo aditus atque pons quidam in altiora philosophiae introitum pandit. Quocirca si hoc ita est, tantum dicere oportuit, quantum ingredientibus salis esset, ne eorum animos nondum ad scientiam firmos multiplici doctrina, subtilitate confunderet. Quae vero hic desunt in libris qui *Meta ta physika* inscribuntur apposuit. Perfectis namque opus illud non ingredientibus praeparabitur. Est quoque alia causa ut nos ad exquirendas alias qualitates, non solum propriorum doctorum sed etiam nostrorum aliquid inveniendi incitator, admitteret. Quocirca concludit eas quae maxime dicerentur, quas supra proposuit, esse qualitates; illa vero dici qualia, quae secundum praedictas qualitates dicerentur: sed quoniam addidit, vel quomodolibet ab his quae sit huiusce propositionis sententia, prius appositis Aristotelis verbis sequens expositionis ordo contexit. IN PLURIBUS QUIDEM ET PAENE IN OMNIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR, UT AB ALBEDINE ALBUS ET A GRAMMATICA GRAMMATICUS ET A IUSTITIA IUSTUS, SIMILITER AUTEM ET IN CAETERIS. IN ALIQUIBUS VERO PROPTEREA QUOD QUALITATIBUS NOMINA NON SUNT POSITA IMPOSSIBILE EST AB HIS DENOMINATIVE DICI, UT CURSOR VEL PUGILLATOR, SI SECUNDUM POTENTIAM NATURALEM DICITUR, A NULLA QUALITATE DENOMINATIVE DICITUR; NEQUE ENIM POSITUM EST NOMEN ILLIS POTESTATIBUS: SECUNDUM QUAS ISTI QUALES DICUNTUR, QUEMADMODUM ETIAM IN DISCIPLINIS SECUNDUM QUAS VEL PUGILLATORES VEL PALAESTRICI SECUNDUM AFFECTIONEM DICUNTUR (PUGILLATORIA ENIM DISCIPLINA DICITUR ET PALAESTRICA, QUALES VERO AB HIS DENOMINATIVE QUI AD EAS SUNT AFFECTI DICUNTUR). ALIQUANDO AUTEM ET POSITO NOMINE DENOMINATIVE NON DICITUR ID QUOD SECUNDUM IPSAM QUALE QUID DICITUR, UT A VIRTUTE PROBUS DICITUR; HOC ENIM QUOD HABET viRTUTEM PROBUS DICITUR SED NON DENOMINATIVE A VIRTUTE; NON EST AUTEM HOC IN MULTIS. QUALIA ERGO DICUNTUR QUAECUMQUE EX HIS QUAE DICTAE SUNT QUALITATIBUS DENOMINATIVE DICUNTUR VEL QVOLIBET ALIO AB IPSIS MODO. Multae, inquit, sunt qualitates, quibus positis et proprio nomine nuncupatis, ab his alia denominative dicuntur, ut ea quae ipse planissime adiecit exempla. Nam cum albedo cuiusdam nomen sit qualitatis, ab eo dicitur albus. Eodem quoque modo et grammatica, cum rei sit nomen, ab ipso quales dicuntur. Grammatici enim a grammatica nominantur, atque hoc est in pluribus, ut posito nomine si quid secundum ipsas qualitates quale dicitur, exhis ipsis qualitatibus appellatio derivetur. Aliae vero qualitates sunt, in quibuscum nomen positum non sit, tamen quales dicuntur, quales quidem quia alia qualitate participant, sed non secundum eam qualitatem quales dicuntur, ex qua si his esset qualitatibus nomen impositum poterant appellari, ut in ea qualitate quae secundum potentiam naturalem dicitur. Illi enim quamquam quales dicantur, hi qui secundum ipsam potentiam nominantur, ipsi tamen (ut dictum est) nullo proprio nomine nuncupantur. Nam qui pugiles appellantur ab arte pugillatoria, idcirco ab ea pugiles dicuntur, quod ad eamdem ipsam artem pugillatoriam quodammodo affecti eunt. Hi enim pugiles ab arte pugillatoria praedicantur. Qui vero nondum pugiles sunt sed esse possunt, non secundum ipsam artem, id est pugillatoriam sed secundum potentiam pugillatoriae artis, pugillatores vocantur. Ipsi autem potentiae nomen proprium positum non est. Nam quemadmodum a cursu cursores, a palaestra palaestrici, a pugillatoria pugiles, distinctis qualitatum vocabulis, appellantur, non eodem modo est etiam in uniuscuiusque rei potentia naturali, cursus enim potentia naturalis secundum quam cursores vocamus, et rursus potentia pugillandi, vel potentia palaestrizandi, suo nomine distincta non est. Cur enim dicitur cursor, si interrogemur de eo qui nondum est cursor? Dicimus secundum potentiam naturalem. Cur palaestricus? Eodem quoque modo naturalem potentiam respondemus. Quare pugillator qui nondum est pugillis, ab eadem quoque potentia naturali nominatur. Si igitur haberet haec naturalis potentia proprium nomen, ita, distinctis vocabulis, appellaretur, ut in his qualitatibus in quibus proprienomen est positum, ut in cursu, palaestra et arte pugillatoria, et hoc est quod ait. In aliquibus vero propterea quod qualitatibus nomina non sunt posita, impossibile est ab his aliquid denominative dici. Ut hoc scilicet demonstraret cursorem quidem qui iam curreret a cursu esse dictum, cursorem vero qui secundum potentiam currendi diceretur non vocari a cursu sed tantum a potentia, cuius potentiae nomen proprium non esset positum. Quare haec omnia quae secundum potentiam naturalem dicuntur, a nulla qualitate denominativa sunt. Idcirco quod hae qualitates a quibus denominari possunt, propriis nominibus carent, quae vero ita sint, ut non ex potentia sed ex affectione dicantur, ab his qualitatibus ad quas sese aliquo modo habent, denominative dicuntur, quod Aristoteles hoc protulit modo dicens: Non ita esse secundum potentiam naturalem, quemadmodum et iam in disciplinis secundum quas, vel pugillatores, vel palaestrici secundum affectionem dicuntur. Pugillatoria enim disciplina dicitur et palaestrica, quales vero ab his denominative, qui ad eas sunt continentes, dicuntur. Docuit igitur omniaquae a quibusdam qualitatibus dici putarentur, vero quoque a qualitatibus non praedicari, ut in his qualitatibus quibus nomen proprium non est. Illud quoque monstravit hoc in pluribus evenire, ut de propositis qualitatibus qualia denominative dicerentur. Restat ergo quod reliquum est, ut dicat esse quasdam qualitates, quarum cum nomen sit positum, ab his ipsis tamen quae illarun rerum participant denominative non dici, ut virtus; nam cum virtus qualitas sit (est enim habitus quidam, omnis vero habitus qualitas), ergo quicumque virtute participat, non secundum eam denominative dicitur. In denominatione enim quaerendum est ut semper idem permaneat nomen. In eo autem qui virtute participat, nulla virtutis denominatio est, ut qui bonitate participat bonus dicitur, qui iustitia, iustus, et alia huiusmodi. Qui vero virtute participat, aut probus nominatur, aut sapiens; sed neque probus, neque sapiens a virtute denominativa sunt, idcirco quod utrumque nomen a virtute longe dissimile est, quod ipse sic ait: Aliquando autem posito nomine denominative non dicitur id quod secundum ipsum quale dicitur. Et eius rei proponere non omisit exemplum sed hoc in multis non potest inveniri, pauca enim sunt (ut ipse ait) in quibus posito qualitatis nomine quae his participant, a superiori qualitate qualia non dicantur. Dat autem his qualitatibus pluralitatis calculum, ex quibus qualia nominantur ea quae his participant. Nam (ut ipse ait superius) in pluribus et pene in omnibus denominative dicuntur. Quocirca recta definitio est et proprio ordine constituta. Namque in principio hoc solum dictum est, esse qualitatem secundum quam qualia dicerentur. Sed quoniam sunt quaedam quorum qualitates ipsae propriis nominibus carent, quae vero his participant suis vocabulis appellantur, ut in naturali potentia. Et rursus sunt quaedam quae in qualitatibus quidem habeant propria nomina, in his vero quae ad eas ipsas qualitates essent affecta, nulla ex propositis qualitatibus denominatio fieret, hoc addidit, ab omnibus qualitatibus aut denominative dici qualia, quae illis qualitatibus participaret, aut quomodolibet, aliter, id est sive posito nomine qualitatis de eo non dicerentur, quae illa partieiparent, ut in eo quod est virtus, sive ipsi qualitati positum nomen non esset, ut in eo quod est potentia naturalis. Quare quoniam in his duabus qualitatis, in quibus vel posito nomine non secundum nomen quae sunt, qualia denominative dicuntur, vel eum ipsis qualitatibus nomen positum non sit, neutra ipsorum praedicatio denominative fit. Ad concludendum omnem terminum qualitatis ait, aut denominative qualia a qualitatibus appellari, aut quomodolibetaliter ab ipsis, ut non denominative sed aliquoties quidem secundum potentiam, aliquoties vero secundum eamdem qualitatem virtutis; eamdem enim qualitas est virtutis et sapientiae. Quocirca concludit, ita qualia dici quaerumque ex his qualitatibus denominative dicerentur, vel quomodolibet alio ab ipsis modo. Digestis in ordine prius omnibus qualitatibus et eorum conclusione reperta, consueto ordine unaquaeque proprietas uestigatur. INEST AUTEM ET CONTRARIETAS SECUNDUM QUALITATEM, UT IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM EST ET ALBEDO NIGREDINI ET ALIA SIMILITER; ET SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR, UT IUSTUM INIUSTO ET ALBUM NIGRO. NON AUTEM HOC IN OMNIBUS EST; RUBEO ENIM ET PALLIDO ET HUIUSMODI COLORIBUS NIHIL EST CONTRARIUM CUM QUALITATES SINT. Dicit in qualitatibus quaedam esse contraria, atque hoc probat exemplis, albedo namque et nigredo contraria sunt, et quaecumque albedine nigredineque participant; hoc est enim quod ait, et secundum eas qualia quae dicuntur; nam sicut albedo nigredini contraria est, ita quoque albus nigro; sed hoc qualitatis proprium non est, nam cum rubrum et pallidum qualitates sint, aliique etiam colores huiusmodi, in his contrarium non est; nullus enim dicit aliquid rubro vel pallido esse contrarium: nam quoniam album et nigrum extremitates quaedam colorum sunt, et longissime a se distant, contraria sunt, medietates vero contraria non habent: Namsi quis ponat rubrum nigro esse contrarium, longissimeque distant quae sunt contraria, longissime igitur nigredo a rubore distabit, et rursus albedo a nigredine plurimum distat; igitur nigredini rubor est atque albedo contraria, uniusque rei duo contraria inveniuntur, quod fieri non potest. Non est igitur nigredi contrarius rubor. Similiter autem monstrabimus et in aliis mediis coloribus contrarium non esse. Quocirca si huiusmodi coloribus contrarium nihil est, non in omni qualitate contrarietas reperietur; quod si ita est, suscipere contraria qualitatis proprium non est. At vero nec in ipsis quoque formis quae manifeste qualitates sunt, contrarietas invenitur; nam neque ciroulus quadrato, neque quadratus triangulo, nec ulla figura ulli figurae potest esse contraria. Quocirca manifestum est, suscipere contrarium non esse proprium qualitatis. Sed quoniam sunt quaedam in qualitate quae sibimet videantur esse contraria, ut iustitia et iniustitia, hinc quaedam quaestio solet oriri. Dicunt enim quidam iustitiae iniustitiam non esse contrariam, putant enim quod dicitur iniustitia privationem esse iustitiae, non tamen contrarietatem. Contraria enim propriis nominibus, non contrarii privatione nominari, ut album nigro, habere tamen iustitiam aliquam contrarietatem, cuius adhuc proprium nomen non sit inventum, quod omnino falsum est. Multae enim habitudines privationis vocabulo proferuntur, ut illiberalitas et imprudentia, quae nunquam virtutibus opponerentur, quae sunt habitus, nisi ipsae quoque habitus essent, et in animis habentium immutabiliter permanerent. At vero neque illud verum est, omnes privationes negatione proferri. Surditas enim, cum sit auditus privatio, sine negatione profertur; eodem quoquemodo caecitas. Nullus enim dicit inauditio, neque inuisio, nec aliquid huiusmodi sed tantum surditas caecitasque nominantur propriis nominibus, cum sint illa in habitu, visus, auditus, illa in privatione ponenda. Igitur iustitia iniustitiae contraria est. Tradit ergo regulam, ea quae contraria sunt, sub quo genere convenienter aptentur, quam regulam his verbis ipse praescribit: AMPLIUS: SI EX CONTRARIIS UNUM FVERIT QUALE, ET RELIQUUM ERIT QUALE. HOC AUTEM MANIFESTUM EST OMNIA ALIA PRAEDICAMENTA PROFERENTI, UT SI EST IUSTITIA INIUSTITIAE CONTRARIUM, QUALITAS EST AUTEM IUSTITIA, NIHILOMINUS QUALITAS ERIT INIUSTITIA; NULLUM ENIM ALIUD PRAEDICAMENTUM CONVENIT INIUSTITIAE, NEC QUANTITAS NEC RELATIO NEC UBI NEC OMNINO ALIQUID HUIUSMODI, NISI SOLA QUALITAS; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS SECUNDUM QUALITATEM CONTRARIIS. Si ex duobus, inquit, contrariis manifestum fuerit unum eorum contrariorum sub qualitate poni, simul manifestum erit quod etiam eius contrarium convenienter qualitati supponatur, simulque demonstrat iniustitiam esse qualitatem. Nam si iustitia apertissime qualitas est idcirco quod neque qualitas, neque ad aliquid, neque ubi, nec quando, nec aliud ullum praedicamentum est, nec sub ullo alio genere poni potest, nisi sub sola qualitate, cum ei contraria sit inustitia, non est dubium iniustitiam quoque qualitati subnecti, quod ipse quoniam 256C planius dixit, ut ipsa exemplorum luce uulgavit, ad aliud nobis est transeundum. SUSCIPIT AUTEM QUALITAS MAGIS ET MINUS; ALBUM ET ENIM MAGIS ET MINUS ALTERUM ALTERO DICITUR, ET IUSTUM ALTERUM ALTERO MAGIS. ET IDEM IPSUM SUMIT INTENTIONEM (ALBUM ENIM CUM SIT, CONTINGIT ILLUD FIERI ALBIUS); HOC AUTEM IN OMNIBUS NON EST SED IN PLURIBUS; DUBITABIT ENIM QUIS AN IUSTITIA MAGIS ESSE IUSTITIA DICATUR; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS AFFECTIONIBUS. QUIDAM VERO IN HOC DUBITANT; DICUNT ENIM IUSTITIAM IUSTITIA NON NIMIS MAGIS VEL MINUS DICI, NEC SANITATEM SANITATE; MINUS AUTEM HABERE ALTERUM ALTERO SANITATEM DICUNT, ET IUSTITIAM MINUS ALTERUM ALTERO HABERE, SIMILITER ET GRAMMATICAM ET ALIAS DISCIPLINAS. SED SECUNDUM EAS QUALIA QUAE DICUNTUR INDUBITATE SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS; MAGIS ENIM GRAMMATICUS ALTER ALTERO DICITUR ET IUSTIOR ET SANIOR, ET IN ALIIS SIMILITER. Aliud quoque proprium protulit, quod tractata ratione ab integra proprietate qualitatis exclusit. Ait enim qualitates posse vel intendi vel minui. Posse enim dicit alterum altero plus album appellari, ut nix argento, et quae candidiora sunt marmora, et iustum alterum altero magis et minus dicimus. Namque iustius aliquid factum, necnon etiam iustissimum est. In quibus autem comparationes sunt, in his magis minusque dici manifestum est; hoc quoque modo ipsum album, vel alia qualitas non solum contra alterum eiusdem speciei comparata intentione crescit, et relaxatione minuitur sed etiam a seipsa recipit comparationem: Dicitur enim nunc quidem argentum candidius esse quam antea, cum fuerit detersum. Sed cum haec ita sint, non est magis minusque suscipere proprium qualitatis; neque enim sola qualitas magis minusque suscipit, haec enim intentio et relaxatio in his quoque quae sunt ad aliquid invenitur, ut in eo quod est aequale et inaequale possumus dicere plus aequale vel minus, et in caeteris huiusmodi; nec vero omnes qualitates suscipiunt magis et minus, quod ipse sic ponit: Non autem in omnibus hoc est sed in pluribus. Dubitabit enim quis an iustitia magis esse iustitia dicatur, similiter autem et in aliis affectionibus. Quidam vero in hoc dubitant: dicunt enim iustitiam iustitia non magis vel minus dici, nec sanitatem sanitate; minus autem habere alterum altero sanitatem dicunt, et iustitiam minus alterum altero habere. In hoc tres fuere sententiae. Quidam namque dicebant, in omnibus secundum materiae habitudinem reperiri posse magis et minus. Proprium namque esse materiae corporumque intentione crescere et minui relaxatione, quae quorumdam Platonicorum sententia fuit. Alia vero quae secundum certissimas verissimasque artes atque virtutes non diceret esse magis et minus, secundum autem medias dici posse, ut haec ipsa grammatica atque iustitia non dicitur magis grammatica neque magis iustitia. Esse autem quasdam alias mediocres artes, in quibusidipsum posset evenire. Tertia est de qua Aristoteles loquitur, quod ipsas quidem habitudines nulla intentione crescere, nec diminutione decrescere putat sed eorum participantes posse sub examine compositionis venire, ut de his magis minusue dicatur. Sanitatem namque ipsam et iustitiam, alteram altera magis minusue non esse. Neque enim quispiam dicit magis esse sanitatem alia sanitate. Sed hoc solum dicere possumus magis habere sanitatem aliquem, id est esse saniorem, et magis sanum, et minus sanum. Dicimus ergo quod ipsae quidem qualitates non suscipiunt magis et minus. Qui vero secundum eas quales dicuntur, ipsi sub comparatione cadunt, ut iustior, et sanior, et grammat. cior. Namque ipsa grammatica, id est litteratura, non suscipit magis et minus, nullus enim dicit alteram altera magis esse grammaticam sed eum qui grammatica ipsa participat. Dicimus litteratum, quem a litteratura scilicet denominamus, litteratus autem suscipit magis et minus, ut Donatus grammaticus plus erat aetate iam provecta grammaticus, id est litteratus, quam cum primum ad huiusmodi studia devenisset. Sed quamquam se haec ita habeant, tamen invenimus aliquas qualitates quibus indubitate comparatio inveniri non possit, ut sunt quas ipse supposuit. TRIANGULUM VERO ET QUADRATUM NON VIDETUR MAGIS SUSCIPERE, NEC ALIQUID ALIARUM FORMARUM. Haec enim quae ex quarta specie qualitatis dicta sunt, magis minusue nullaratione suscipiunt, nullus enim dicit plus esse alium circulum quam alium, nec magis esse illud triangulum quam illud, dicitque fortasse  maiorem, magis autem non dicit. Huius autem rei haec ratio est, ut cum sit trianguli definitio, figura quae sub tribus rectis lineis continetur, si qua sunt quae hanc definitionem in se suscipiant, ut et ipsa tribus rectis lineis contineantur, proprie triangulae formae sunt, eodem quoque modo et circulus ita definitur: Circulus est figura plana, quae sub una linea continetur, ad quam ex uno puncto qui intra ipsam est, omnes quae excunt lineae aequae sibi sunt. Rursus quadrati defnitio talis est: Quadratum est quod quattuor aequalibus lineis et quattuor rectis angulis continetur. Quaecumque igitur vel circuli definitionem suscipiunt, vel quadrati, aequaliter vel circuli vel quadratae formae sunt; si qua vero non suscipiunt, nullo modo sunt. Si qua vero sunt quae neque quadrati suscipiunt definitionem, neque circuli, neque quadrati sunt, neque circuli ut est figura quae parte altera longior dicitur. Illa enim ita definitur, parte altera longior figura est quae sub quattuor lineis continetur, rectisque angulis, quam quattuor lineae aequae sibi quidem non sunt, contra se vero positae binae sibi aequae sunt. Ergo quia huiusmodi figura neque circuli definitionem capit, neque quadrati aequaliter, neque circulus, neque quadratus est. Si qua enim cuiuslibet forma definitionem suscipiunt, omnino eadem sunt. Ut qui circuli circulus, qui quadrati quadratus, qui trianguli triangulus, qui parte altera longioris, parte altera longior, et in caeteris eodem modo. Si qua vero non suscipiunt, ut triangulum, circuli definitionem non capit neque omnino circulus est, nec potest dici inter quadratum et triangulum, 258C quoniam utraque circuli definitionem non capiunt, quadratum quidem plus esse circulum, triangulum vero minus, omnino enim utraque a circuli ratione disiuncta sunt, quod his verbis ab Aristotele tractatur: QUAECUMQUE ENIM DEFINITIONEM TRIANGULI SUSCIPIUNT ET CIRCULI, OMNIA SIMILITER TRIANGULA VEL CIRCULI SUNT, DE HIS AUTEM QUAE NON SUSCIPIUNT NIHIL MAGIS ALTERUM ALTERO DICITUR; NIHIL ENIM QUADRATUM MAGIS QUAM PARTE ALTERA LONGIOR FORMA CIRCULUS EST; NULLUM ENIM IPSORUM SUSCIPIT CIRCULI RATIONEM. SIMPLICITER AUTEM, SI UTRAQUE NON SUSCIPIUNT PROPOSITI RATIONEM, NON DICITUR ALTERUM ALTERO MAGIS. NON IGITUR OMNIA QUALIA SUSCIPIUNT MAGIS ET MINUS. EX HIS ERGO QUAE DICTA SUNT NIHIL EST PROPRIUM QUALITATIS. Nam si hoc definitio facit, ut demonstret rationem cuiusque substantiae, quaecumque definitione discrepant, illa etiam ipsa natura substantiae discrepabunt. Recte igitur si quae cuiuslibet rei propositae sive trianguli, sive quadrati definitionem non capiunt, ab eiusdem natura disiuncta sunt. Quocirca neque triangulum, neque quadratum, neque circulus, neque quidquid horum est, suscipiant magis et minus. Sed cum haec qualitates sint, non omnes qualitates aeque magis minusue suscipiunt. Quod si neque in omni qualitate intentio diminutioque provenit, neque in sola, quod haec eadem in relatione reperias, non est magis minusue suscipere proprium qualitatis. Quodnam igitur qualitatis proprium esse dicendum est, id ipse planissime subterposuit. SIMILE AUTEM ET DISSIMILE SECUNDUM SOLAS DICUNTUR QUALITATES; SIMILE ENIM ALTERUM ALTERI NON EST SECUNDUM ALIUD NISI SECUNDUM HOC QUOD QUALE EST. QUARE PROPRIUM ERIT QUALITATIS SECUNDUM EAM SIMILE ET DISSIMILE DICI. Simile inquit et dissimile solae retinent qualitates. Nam quamvis simile ad aliquid sit, tamen hoc ipsum quod dicimus, simile non dicimus, nisi quod quale est. Nam si eadem qualitas sit in duobus, illa in quibus est similia sunt, nec est aliud praedicamentum quod secundum simile et dissimile dici possit, et de aiiis quidem omnibus notum est, quoniam de nullo dicitur. Quod si quis de quautitate affirmet, dici posse secundum eam simile atque dissimile, monstratum est secundum quantitatem non simile et dissimile sed aequale et inaequale praedicari. Quocirca quoniam per singula quaeque pergentibus, et in omnibus idem qualitatibus invenitur, et in nullo alio predicamento esse perspicitur, recte hoc proprium qualitatis esse firmavit. Sed quoniam cum de his quae referuntur ad aliquid tractaretur, affectus atque habitus in his quae sunt ad aliquid numeravit, nunc vero eosdem quoque qualitati supposuit, ipse sibi quamdam obiecit quaestionem, cur si prius sub iis quae ad aliquid referuntur, ista subiecerit, nunc sub qualitatibus ea ipsa posuerit. Superius namque monstravit ea quae essent a se diversa, easdem species habere non posse, cum dicit diversorum generum et non subalternatim positorum diversae species et differentiae sunt. Quocirca cum relatio atque qualitas diversa sint genera, easdem utrique supponi species non oportet, hoc est enim quod dicit: AT VERO NON DECET CONTURBARI NE QUIS NOS DICAT DE QUALITATE PROPOSITIONEM FACIENTES MULTA DE RELATIVIS INTERPOSUISSE; HABITUDINES ENIM ET AFFECTIONES EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID ESSE DIXIMUS. PAENE ENIM EA QUAE SUNT IN OMNIBUS HIS GENERIBUS AD ALIQUID DICUNTUR, EORUM VERO QUAE SUNT SINGULATIM NIHIL; SCIENTIA ENIM, QUAE GENUS EST, HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR (ALICUIUS ENIM SCIENTIA DICITUR), SINGULORUM VERO NIHIL HOC IPSUM QUOD EST ALTERIUS DICITUR, UT GRAMMATICA NON DICITUR ALICUIUS GRAMMATICA NEC MUSICA ALICUIUS MUSICA SED SI FORTE SECUNDUM GENUS PROPRIUM ET ISTAE DICUNTUR ALICUIUS; UT GRAMMATICA ALICUIUS DICITUR SCIENTIA, NON 259D ALICUIUS GRAMMATICA, ET MUSICA ALICUIUS SCIENTIA, NON ALICUIUS MUSICA; QUARE SINGULA NON SUNT RELATIVA. Quam quaestionem validissima argumentatione dissolvit, his scilicet verbis: Pene enim ea quae sunt in omnibus his generibus ad aliquid dicuntur. Eorum vero quae sunt singulatim, id est epecies, nihil huiusmodi sunt. Haec enim est argumentatio quam Graeci *epikeirema* vocant. In huiusmodi affectionibus atque habitudinibus, quae inter ea sunt genera, eas solas ad aliquid posse reduci, quae vero species essent illorum generum posse in relativis sed in qualitatibus numerari, ut scientia cum sit habitudo 260A habet sub se alias habitudines, grammaticam et geometriam. In hoc igitur scientia ipsa quod genus est, ad aliquid semper refertur, dicimus enim scientiam alicuius scientiam. Grammaticam vero quae eius species est, nullus dicit alicuius esse grammaticam; dicatur enim si fieri potest grammaticam, Aristarchi esse grammaticam. Sed omnia quaecumque dicuntur ad aliquid, convertuntur. Dicitur ergo et Aristarchus, grammaticae Aristarchus, quod fieri non potest. Non igitur grammatica Aristarchi, ut ad aliquid dicitur. Est etiam argumentum, non species sed huiusmodi genera, ad aliquid appellari, ut cum ipsae quidem species ad aliquid non dicantur, ut grammatica non dicitur alicuius grammatica, si quando tamen est ut species ad aliquid referatur, id non secundum se sed 260B secundum genus, ut grammaticae quoniam genus est scientiae quae relativa est, si quis grammaticam ad aliquid referre contendat, non potest secundum ipsam grammaticam, eam ad aliquid praedicare sed secundum scientiam, id est secundum genus suum. Non enim dicitur grammatica alicuius grammatica sed fortasse grammatica alicuius scientia. Non ergo grammatica secundum grammaticam ad aliquid dicitur sed secundum scientiam. Et hoc est quod ait, ut grammatica non dicitur aliovius grammatica, nec musica sed fortasse secundum genus proprium istae dicuntur alicuius, ut grammatica alicuius dicitur scientia, non alicuius grammatica. Ergo singularum specierum nihil est quod aliqua relatione praedicetur. Genera vero harum specierum relativa sunt, quae paulo superius dixi; quod enim ait: Pene enim in 260C omnibus qualitatibus genera ad aliquid dicuntur, non autem aliquid eorum quae sunt singula, hoc demonstrare voluit, genera ipsa habitudinem dispositionumque esse relativa, species vero generum quas singulatim esse dixit, ad aliquid nullo modo praedicari. Quas idcirco esse singulatim vocavit, quia grammatica una est, et rursus musica una; scientia vero non una. Recte igitur species scientiae singulatim esse nominavit. Constat igitur quod genera huiusmodi habitudinem dicantur ad aliquid, species vero ad nihil aliud propria praedicatione referanlur. Quocirca quoniam huiusmodi species relativas non esse demonstravit, nunc quod reliquum est qualitates esse confirmat. DICIMUR AUTEM QUALES SECUNDUM SINGULA; HAEC ENIM ET HABEMUS (SCIENTES ENIM DICIMUR QUOD HABEMUS SINGULAS SCIENTIAS); QUARE HAEC ERUNT ETIAM QUALITATES, QUAE SINGULATIM SUNT, SECUNDUM QUAS ET QUALES DICIMUR; HAEC AUTEM NON SUNT EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID. Illas esse qualilates superius confirmatum est ex quibus aliqui quales vocarentur, nos autem idcirco grammatici dicimur, non quod universalem scientiam sed quod ipsam grammaticam habeamus, et hoc vere dicitur, idcirco nos dici scientes, quia grammatici sumus, potius quam idcirco grammaticos quod aliquam scientiam retinemus. Nullus enim a generali scientia grammaticus, aut sciens, nisi a singulatim scientia sciens, grammaticusque perhibetur. Igitur quoniam ex his habitudinem speciebus quales vocamur, ipsae species in qualitate numerandae sunt. Sed cum quis grammatica participat, de ea etiam genus dicitur, et secundum eam non solum ad grammaticam sed ad scientiam quoque coniungitur. Dicitur enim idcirco sciens. Ergo quoniam habens grammaticam, et sciens, et grammaticus dicitur, non potest ulla scientia participare, qui singulas non habuerit. Qui enim cunctis speciebus caret, illi quoque genere ipso carendum est. Quare quoniam has species hahemus et secundum eas quales dicimur, a grammatica scientes et grammatici nuncupamur, has autem ipsas species monstratum est ad aliquid non referri. Recte igitur huiusmodi habitudines quae in alterius relativis species sunt, in qualitate numeratae sunt. Quod si quis hoc quoque inuitus accipiat, aliud addit quo totum quaestionis vinculum soluetur; ait enim: AMPLIUS SI CONTINGAT IDEM ET QUALE ESSE ET RELATIVUM, NIHIL EST INCONVENIENS IN UTRISQUE HOC GENERIBUS ANNUMERARE. Nam cum sit verum unam eademque rem duobus diversis generibus suppositam esse non posse, illud tamen convenit secundum aliud atque aliod unam eamdemque speciem duobus generibus posse subnecti, ut in eo quod supra iam dictum est, cum Socrates substantia sit, pater vero ad aliquid, cumque substantia discrepet atque relatio, nihil tamen est inconveniens eumdem ipsum Socratem in eo quod homo est, substantiae supponi, in eo quod habet filium, relationi. Quocirca si secundum aliam atque aliam rem duobus generibus eadem res quaelibet diversissimis supponatur, nihil inconveniens cadit. Ita quoque et habitudines in eo quod alicuius rei habitudines sunt, in relatione ponuntur, in eo quod secundum eas quales aliquid dicuntur, in qualitate numerantur. Quare nihil est inconveniens unam atque eamdem rem, secundum diversas natura, suae potentias, geminis et si contingat pluribus, annumerare generibus Qnocirca quoniam de qualitate tractatum est, nos quoque orationis cursum ad reliqua praedicamenta vertamus. DE FACERE ET PATI SUSCIPIT AUTEM ET FACERE ET PATI CONTRARIETATEM ET MAGIS 261D ET MINUS; CALEFACERE ENIM ET FRIGIDUM FACERE CONTRARIA SUNT, ET CALEFIERI ET FRIGIDUM FIERI, ET DELECTARI ET CONTRISTARI; QUARE SUSCIPIT CONTRARIETATEM FACERE ET PATI. ET MAGIS AUTEM ET MINUS; EST ENIM CALEFACERE ET MAGIS ET MINUS, ET CALEFIERI MAGIS ET MINUS, ET CONTRISTARI. SUSCIPIUNT ERGO ET MAGIS ET MINUS FACERE ET PATI. AC DE HIS QUIDEM HAEC DICTA SUNT. Decursis quattuor praedicamentis quae aliqua quaestione et consideratione ergo videbantur, tenuiter caetera breviterque perstringit. Et de facere quidem et pati nihil in hoc libro, nisi quod contraria suscipiant, et intentionem imminutionemque ab Aristotele est disputatum, in aliis vero eius operibus plene ab eo perfecteque tractata sunt, ut hoc ipsum de facere et pati in his libris quos *Peri geneseos kai phthopas* inscripsit, de aliis quoque praedicamentis non illi minor in aliis operibus disputatio fuit, ut de eo quod est ubi et quando in physicis, et de omnibus quidem altius subtiliusque in libris quos *Meta ta physika* vocavit, exquiritur. Ac de fecere quidem et pati ipse planissime posuit posse ea suscipere contrarietates. Dicimus enim ignem calefacere et frigefacere, quod scilicet ad faciendum refertur. Dicimus aquam calefieri et frigefieri, quod nihilominus ad patiendi ducitur praedicamentum. Magis quoque et minus suscipere, apertissimis demonstrat exemplis. Sic enim magis calefacere et minus, et magis calefieri et minus dicitur. Atque haec hactenus, ipse enim haec apertissime posuit. Est autem horum descriptio talis, quod in faciendo quidem, actus quidam a quolibet in aliam rem veniens, consideratur a quo veniat. In patiendo autem in eo ille actus consideratur, in quem venit. Actus enim et passio simul in physicis esse monstrata sunt. Ac de facere quidem ac pati, ad praesens tempus haec dicta sufficiant. DICTUM EST AUTEM ET DE SITU IN RELATIVIS, QUONIAM DENOMINATIVE A POSITIONIBUS DICITUR. DE RELIQUIS VERO, ID EST QUANDO ET UBI ET HABERE, PROPTEREA QUOD MANIFESTA SUNT, NIHIL DE HIS ULTRA DICITUR QUAM QUOD IN PRINCIPIO DICTUM EST, QUOD HABERE SIGNIFICAT CALCIATUM ESSE VEL ARMATUM, UBI VERO IN LYCIO, VEL ALIA QUAECUMQUE DE HIS DICTA SUNT. IGITUR DE HIS GENERIBUS QUAE PROPOSUIMUS SUFFICIENTER DICTUM EST. Positio quidem quoniam ipsa est alicuius, in iis quae sunt ad aliquid, numerata est sed quoniam omnis res quae ab alio denominatur, aliud est quam id ipsum a quo denominata est, ut aliud est, qui est grammaticus, atque grammatica, quamvis grammaticus a grammatica denominelur. Ita cum sit positio relativa, quidquid denominative a positionibus dicitur, hoc relativorum genere non tenetur. Positio autem ipsa relativa est, positum vero est a positione denmninatum. Statio enim cuiusdam statio est. Stare vero quoniam a statione denominatum est, non ponitur in eo genere in quo statio fuit. Quare sub relatione hoc praedica nentum non invenitur. Sed quoniam nihil est ad quod hoc reducere genus atque aptare possimus, dicendum est suum esse genus. Ut accumbere ab accubitu, stare a statione, et caetera quidem quae idcirco se Aristoteles exsequi denegat, quoniam planissima sunt; ait enim: De reliquis vero id est, quando, et ubi, et habere; propterea quia manifesta sunt, nihil de his ultra dicitur, quam quod in principio dictum est, et eorum praedicta ponit exempla. Dicendum autem est breviter de praedicatione quae est ubi et quando. Sicut ipsum ad aliquid per se esse non potest nisi ex alio aliquo naturam trahat, ita et quando et ubi, esse non potest, nisi locus ac lempus fuerit. Locum enim ubi, tempus vero quando, comitatur. Non est autem idem tempus, et quando, nec ubi et locus sed proposito prius loco si qua res in eo sit posita, ubi esse dicitur. Rursus si certa res in tempore est, quando esse perhibetur, ut Apollinares ludi, oum sint in tempore, quando eos esse dioimus. Habent autem haec quoque proprias diversitates, ubi quidem, quod aliquoties infinite dicitur. Alicubi enim esse dicimus aliquem, ut Socratem, aliquoties autem definite, ut in Lyceo vel in Academia. Habet quoque ubi, secundum ipsum locum in quo est, aliquas contrarietates. Sursum enim esse, et deorsum ubi esse dicitur. Temporum quoque varietates in eo praedicamento, quod est quando, esse manifestum est. Futura enim et praesentia praeteritaque in quando praedicamento veniunt. Dicimus enim fuisse aliquando Scipionem consulem Romanum, nunc esse Orientis imperatorem, qui nunc Anastasius appellatur. Futurum autem esse aliquem, quae scilicet secundum quando praedicamentum dicuntur. Habere autem est quoddam extrinsecus veniens, neque innatum ei a quo habetur, aliudque quam est illud ipsum a quo habetur, in se retinere, ut armatum esse vel uestitum esse. Habere enim est uestes atque arma tenere, quae cum eo nata non sunt, neque aliqua cum eo qui habet, communi natura proprietateque iunguntur; sed quoniam de his Aristoteles tacuit, nobis quoque nunc eorum longior tractatus omittendus est. Expeditis omnibus praedicamentis, cur praeter propositum operis in hanc oppositorum disputationem sit ingressus, a multis ante quaesitum est sed Andronicus hanc esse adiectionem Aristotelis non putat, simulque illud arbitratur, idcirco ab eo fortasse hanc adiectionem de oppositis, et de his quae simul sunt, et de priore, et de motu et de aequivocatione, habendi non esse factam, quod hunc libellum ante Topica scripserit, quodque haec ad illud opus non necessaria esse putaverit, sicut ipse Categoria possunt ad sensum Topicorum, non ignorans scilicet quod sufficienter in Topicis, quantum ad argumenta pertinebat, et de his omnibus quae adiecta eunt, et de praedicamentis fuisse propositum. Sed haec Andronicus. Porphyrius vero hanc adiectionem uacare et carere ratione non putat. Cuius hanc prodidit causam. Ut enim multa sunt quae quod communibus animi conceptionibus esse suggererent, in huius libri principiis ab Aristotele praedicta sunt, ut de aequivocis, et univocis, et denominativis, et de his omnibus, quaecumque usque ad substantiae disputationem ad ipsorum praedicamentorum utilitatem cognitionemque praedicta sunt, ita quaedam fuisse quae essent quidem in communibus sensibus, egerent tamen subtilioris divisionis modo, haec diligenter supposita sunt, ut quid essent proprie teneretur, ne falsis opinionibus traductus non firmus animus luderetur. Docet autem hoc, inquit, etiam ipse ordo congruus rationique conveniens titulorum, hanc adiectionem fuisse perutilem atque necessariam. Prius enim de oppositis, post vero de his quae simul sunt, et de his quae posteriora sunt. Post autem de motu, ad postremum de habendi aequivocatione sermonem faciens, libri seriem terminavit. Idcirco quod in omnibus quidem praedicamentis ante quaesivit, utrum possint habere contraria. In his vero quae sunt ad aliquid, dixit magnum paruo non posse esse contrarium sed oppositum. Quid vero esse oppositum dicere praetermisit, ne ordo disputandi continuus rumperetur. Hic igitur recte quod illic praetermiserat, prius edocuit. In relativis quoque de his quae sunt prius, quaeque simul natura gignuntur, strictim tetigit, quod nunc diligenter explicat. Faciendi vero patiendique praedicamenta sunt, in quibus quidam quasi motus agitatioque consideratur; necesse igitur fuit motu dicere, qui naturam faciendi atque patiendi vellet ostendere. Quis autem dubitet cuiuslibet sermonis aequivocationem monstrare, esse perutile? Quare quoniam habere quoque praedicamentum est, non fuit inconveniens neque perfluum de habendi aequivocatione tractasse. DE OPPOSITIS QUOTIENS SOLENT OPPONI, DICENDUM EST. DICITUR AUTEM ALTERUM ALTERI OPPONI QUADRUPLICITER, AUT UT AD ALIQUID, AUT UT CONTRARIA, AUT UT HABITUS ET PRIVATIO, AUT UT AFFIRMATIO ET NEGATIO. OPPONITUR AUTEM UNUMQUODQUE ISTORUM, UT SIT FIGURATIM DICERE, UT RELATIVA UT DUPLUM MEDIO, UT CONTRARIA UT BONUM MALO, UT SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM UT CAECITAS ET VISUS, UT AFFIRMATIO ET NEGATIO UT SEDET Ñ NON SEDET. Illud quoque quaeritur utrum oppositionis nomen aequivoce praedicetur. Dicimus enim quattuor modis opponi, aut ut contraria, aut ut aliquid, aut ut habitum et privationem, aut ut affirmationem et negationem. Hic ergo contenditur utrum aequivocatio quaedam circa has quattuor diversitates sit, an id ipsum quod dicimus oppositum generis vice praedicetur, ut sit univocum. Sed in hoc Stoicorum Peripateticorumque diversa sententia fuit, et ut ipsi inter se Peripatetici, diverse sectati sunt. Stoicorum quoniam longa sententia est, praetermittatur, aliis autem Peripateticis placet nomen hoc oppositi de subiectis aequivoce praedicari, ita affirmantibus, quoniam Aristoteles ita dixit: De oppositis quoties solent opponi dicendum est hoc, id est quoties ad multiplicitatem pertinet aequivocationis. Sed qui melius iudicavere, si oppositionis nomen generis loco dicunt debere praedicari, idcirco quod cum nomen opposilionis de subiectis quattuor oppositionibus praedicetur, ab his quoque definitio non oberret. Sunt enim opposita quae in eodem, secundum idem, in eodem tempore, circa unam eamdemque rem, simul esse non posunt, quod per singula quaeque pergentibus in singulis oppositis invenitur. Namque album et nigrum, quae sunt contraria, unu eodemque tempore circa unum idemque corpus partemque corporis simul esse non possunt, nec seruus atque dominus eiusdem, eodem tempore idem seruus idem dominus est, nec habitus et privatio; quis enim dicat in eodem oculo uno eodemque tempore et visum posse esse et caecitatem? Iam vero affirmatio et negatio quam repugnantes sint, quamque in eodem simul esse non possint, nulli dubium est. Quare si ea quae sub oppositione ponuntur oppositionis nomen definitionemque suscipiunt, quid est dubium oppositionem non aequivoce praedicari? His igitur positis, ad eorum distantias differentiasque veniamus. QUAECUMQUE IGITUR UT RELATIVA OPPONUNTUR, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM DICUNTUR, AUT QUOMODOLIBET ALITER AD EA; UT DUPLUM MEDII, HOC IPSUM QUOD EST, DICITUR DUPLUM; ET SCIENTIA SCIBILIS REI SCIENTIA UT AD ALIQUID OPPONITUR, ET DICITUR SCIENTIA, HOC IPSUM QUOD EST, SCIBILIS; ET SCIBILE, HOC IPSUM QUOD EST, AD OPPOSITUM DICITUR, SCILICET SCIENTIAM (SCIBILE ENIM ALIQUA SCIENTIA SCIBILE DICITUR). QUAECUMQUE ERGO OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, EA IPSA QUAE SUNT OPPOSITORUM VEL ALIO QVOLIBET MODO AD SE INVICEM DICUNTUR. Ea quidem huius oppositionis quae secundum relationem dicuntur, et per seipsa plana atque uulgata sunt et superiori relationis disputatione iam cognita. Illa enim sunt ad aliquid quaecumque id quod sunt aliorum dicuntur, vel quomodolibet aliter ad ea, ut seruus domini seruus, et dominus serui dominus, et magnum ad paruum dicitur, et rursus paruum refertur ad magnum. Quod si hoc in relativis omnibus invenitur, nulla est dubitatio quin etiam in his hoc deprehendi possit, quae secundum ad aliquid opponuntur, ut ea ipsa id quod sunt oppositorum dicantur vel quomodolibet aliter ad opposita, ut si est seruus domino oppositus, dominus serui dicatur, id est oppositi sui, et rursus si dominus seruo oppositus est, domini seruus dicatur. Paruum vero ad magnum, et magnum ad paruum, id est ad oppositum sibi. Atque hoc quidem in omnibus secundum ad aliquid oppositionibus inveniri necesse est. Quocirca sit haec proprietas eorum quae secundum ad aliquid opponuntur, quod ea ipsa quae sunt ad opposita referuntur, et ipsorum esse dicuntur. His ergo ante constitutis docet differentiam qua inter se ea quae secundum contrarietatem dicuntur, vel ea quae secundum ad aliquid, discrepant atque dissentiunt; ait enim. ILLA VERO QUAE UT CONTRARIA, IPSA QUIDEM QUAE SUNT NULLO MODO AD INVICEM DICUNTUR, CONTRARIA VERO SIBI INVICEM DICUNTUR; NEQUE ENIM BONUM MALI DICITUR BONUM SED CONTRARIUM; NEC ALBUM NIGRI ALBUM SED CONTRARIUM. QUARE DIFFERUNT ISTAE OPPOSITIONES INVICEM. Dictum est in his quae secundum ad aliquid opponuntur, quod ea ipsa id quod sunt ad id quod sibi est oppositum dicerentur. Contraria vero et ipsa quidem opponuntur sibi sed id quod sunt ad opposita non dicuntur, contraria autem dicuntur. Hoc autem huiusmodi est. Bonum malo contrarium dicimus esse, et rursus malum bono. Nigrum quoque albo contrarium putamus, nihilominus quoque album nigro. Sed cum hoc arbitramur, non tamen dicimus ea id quod sunt esse oppositorum. Si enim diceremus ea id quod est bonum esse oppositi sui, non diceretur bonum malo esse contrarium sed bonum esse mali bonum. Nec ila praedicationem quis faceret nigrum albo esse contrarium sed nigrum albi esse nigrnm. Hoc est enim id quod est nigrum dici ad oppositum suum, si quis dicat nigrum albi esse nigrum; quod quoniam non dicitur, ea ipsa quae sunt non dicuntur oppositorum, ea scilicet quae sibi ut contraria videntur opponi. Sed quoniam dicimus bonum malo contrari uni, et nigrum albo contrarium, quamquam id quod sunt oppositorum non dicantur, tamen ad opposita ut contraria nominantur. Atque hoc est quod ait: Ipsa quidem quae sunt nullo modo ad seinvicem dicuntur. Contraria vero sibi invicem dicuntur. Non enim dicitur bonum mali bonum, hoc est enim id quod est opposili praedicare sed dicimus bonum malo cootrarium. Quocirca differunt ea quae similiter ad aliquid opponuntur his quae secundum contrarietatem sibi sunt opposita, quod ea quidem quae secundum relationem opposita sunt id quod sunt oppositorum dicuntur. Illa vero quae ut contraria, ipsa quidem quod sunt oppositorum nomine minime sed tantum contraria praedicantur, ut bonum contrarium esse dicatur oppositi sui non boni. Dicimus enim bonum malo contrarium, eum non dicamus bonum mali bonum. Sed quoniam differentiam secundum ad aliquid oppositionis contrariorumque monstravit, ipsorum inter se contrariorum differentiam discrepantiamque persequitur. QUAECUMQUE VERO CONTRARIORUM TALIA SUNT UT IN QUIBUS NATA SUNT FIERI ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR, NECESSARIUM SIT ALTERUM IPSORUM INESSE, NIHIL EORUM MEDIUM EST (QUORUM AUTEM NON EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM OMNIUM EST ALIQUID MEDIUM); UT AEGRITUDO ET SANITAS IN CORPORE ANIMALIS NATA EST FIERI, ET NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE ANIMALIS CORPORI, AUT AEGRITUDINEM AUT SANITATEM; ET PAR QUIDEM ET IMPAR DE NUMERO PRAEDICATUR, ET NECESSE EST HORUM ALTERUM NUMERO INESSE, VEL PAR VEL IMPAR; ET NON EST HORUM ALIQUID MEDIUM, NEQUE AEGRITUDINIS NEQUE SANITATIS, NEQUE IMPARIS NEQUE PARIS. QUORUM AUTEM NOR EST NECESSARIUM ALTERUM INESSE, HORUM EST ALIQUID MEDIUM; UT ALBUM ET NIGRUM IN CORPORE NATUM EST FIERI, ET NON EST NECESSE ALTERUM EORUM INESSE CORPORI (NON ENIM OMNE CORPUS VEL ALBUM VEL NIGRUM EST); ET PROBUM ET IMPROBUM DICITUR QUIDEM DE HOMINE ET DE ALIIS PLURIBUS, NON EST AUTEM NECESSE ALTERUM INESSE HIS DE QUIBUS PRAEDICATUR; NON ENIM OMNIA AUT PROBA SUNT AUT IMPROBA. ET EST ALIQUID HORUM MEDIUM, UT ALBI ET NIGRI venETUM VEL PALLIDUM VEL QUICUMQUE ALII COLORES SUNT, FOEDI VERO ET PULCHRI QUOD NEQUE PULCHRUM EST NEQUE FOEDUM. IN ALIQUIBUS QUIDEM MEDIETATIBUS POSITA SUNT NOMINA, UT ALBI ET NIGRI venETUM ET PALLIDUM; IN ALIQUIBUS VERO NON EST NOMINE ASSIGNARE MEDIETATEM, UTRIUSQUE VERO NEGATIONE DEFINITUR, UT NEC BONUM NEC MALUM, NEC IUSTUM NEC INIUSTUM. Brevis contrariorum partitio hoc modo facienda est. Contrariorum alia sunt habentia medietatem, alia vero non habentia, et eorum quorum est aliquid medium, in aliis plures medietates, in aliis vero una tantum medietas invenitur. Atque horum aliquae medietates propriis nominibus appellantur in aliquibus 267B vero ipsae quidem medietates propriis appellationibus carent, contrariorum vero negatione signantur. Sed haec quae dicta sunt a primordio repetentes propriis probemus exemplis. Illa vero contraria quae medio carent talia sunt, ut necesse sit alterum eorum proprio inesse subiecto, ut est aegritudo et sanitas. Omne enim corpus in quo aegritudo sanitasque versatur, aut aegrum aut sanum est. Atque ideo quoniam aegritudo et sanitas medietate carent, alterutrum eorum inerit ei subiecto, in quo utraque nata sunt fieri, et de quo praedicantur. Nam quoniam in corpore animalis sanitas et aegritudo fieri nata est, id est ita fieri solet, et ita omne natum est aninial, ut aut sanum esse possit aut aegrum. Et quoniam de animalis corpore aut sanum, aut aegrum praedicatur, necesse est quoniam haec medio carent in omni corpore animalis aut aegritudinem, aut sanitatem esse. Quocirca eorum quae medio carent, necesse alterum interesse subiecto, et quaecumque talia sunt, ut alterum ipsorum subiecto inesse necesse sit, nulla inter ea medietas clauditur. Illa vero contraria in quibus aliqua medietas est non sunt talia, ut eorum necesse sit alterum inesse subiecto. Nam in illis quae medio carent idcirco alterutrum subiecto inesse necesse est, quod eorum medietas nulla est quae possit interea subiectae inesse substantiae, ut in numero quoniam paritas et imparitas medium nihil habenti (omnis enim numerus aut par aut impar est nec est quod propterea numero inesse possit), ideo omnis numerus aut par aut impar est. In his vero quae inter se medietatem aliquam complectuntur, non est necesse semper alterum contrariorum inesse. Potest namque inesse medietas, ut in colore, quoniam album atque nigrum contrarietatis vice diversa sunt, habent autem medium quod est rubrum vel pallidum, idcirco non omne corpus vel album vel nigrum est, quoniam potest aliquando in subiectis corporibus albi atque nigri medietas inveniri. Videmus namque rubrum corpus, ut rosam multosque praeterea flores, quos verni temporis clementia parturit. Recte igitur dictum est, eorum quorum non sunt aliquae medietates, alterum semper inesse subiectis, et in quibus necesse est alterum inesse, fieri non posse quin illic medietas ulla sit. Eodem quoque modo et quae medietates habent, non necessario alterutra subiectis inesse, et quae non est necesse alterutra subiectis inesse, non est dubium quin illic quaedam possit esse medietas sed in aliquibus quidam plures, in aliquibus autem una est medietas, ut in colore inter album alque nigrum plures medietates sunt. Est enim (ut dictum est) rubrum, et quoque pallidum, eodem quoque modo venetum, et multa praeterea huiusmodi. In calido vero atque frigido una medietas est, quae dicitur tepor. Horum autem quibus una medietas est, in aliis nornen est positum, in aliis non. Et positum quidem nomen est, ut inter calidum frigidumque, hanc enim medietatem tepidum esse praedicamus. Non est vero positum in eo quod Aristoteles ipse sic dixit: Improbi vero et probi, quod neque probum est, neque improbum. Nam quoniam bonum atque in ulum sibi sunt contraria, non autem necesse est omne quod boni malive susceptibile est, vel bonum esse vel malum, idcirco dixit bonum malumque, cum sint contraria, habere quamdam medietatem, cui nomen positum quidem non sit sed nihilominus eam quis inter has contrariorum naturas inveniet. Nam quod dictum est a posterioribus inter bonum malam qua esse ea quae dicantur indifferentia, ut interest virtutem atque turpitudinem, quae utraque sibi sunt contraria, divitiae et pulchritudo, quae (ut Stoici putant) neque mala neque bona sunt, atque idcirco indifferentia nominavere sed hoc ipsum quod dicimus indifferens apud priores nomen non erat, et a posterioribus inventum est. Aristoteles autem qui hoc nomine usus nunquam est, ait probum atque improbum habere quidem aliquam medietatem, verumtamen eam nullo nomine nuncupari sed eam utriusque contrarii negotiatione definivit. Ait enim medietatem probi atque improbi esse, quod neque probum esset neque improbum, ut iusti atque iniusti medietas est, quod neque iustum, neque iviustum est. Sed ne videatur inconveniens aliquid negationibus definiri, ipse ait: In aliquibus vero non est nomine assignare medietatem, utriusque vero negatione definitur. Namque ubi est una medietas, si utraque contraria sint remota, sola tantum medietas permanebit, ut in eo quod est bonum et malum, quoniam his una medietas est, sublato bono atque malo, solum quod neque bonum, neque malum est relinquitur. Quocirca tota rursus divisio breviter assumenda est. Eorum quae sunt contraria quorum necesse est semper alterum inesse in his, in quibus ea secundum propriam naturam inesse contingunt, ea nullam inter se retinent medietatem, ut in corpore sanitas et aegritudo, in numero paritas atque im paritas. Quaecumque vero in his in quibus esse possunt, non ita sunt, ut eorum necesse si alterum inesse, haec aliquam inter se qualitatem medietatis amplectuntur, ut albedo atque nigredo, rubrum, frigidum atque calidum teporem. Horum autem alia sunt quae unam solam continent medietatem, alia vero quae multas, et multas, ut inter album atque nigrum, pallidum, venetum, quae medietates sunt. Inter calidum atque frigidum una sola est medietas, tepor. Horum autem quae unam retinent medietatem, in aliis nomina sunt posita, ut in eo ipso calore ac frigore. Est enim tepor medietas caloris atque frigoris. In aliquibus vero nomen positum non est, ut in eo quod est bonum atque malum, iustum atque in iustum. In his enim medietas nomen positum non habet sed utrorumque contrariorum negationibus definitur, ut dicamus eam esse boni atque mali medietatem, quod neque bonum est malum, eamque esse iusti et iniusti medietatem, quae utraque contrarietate summota, utrorumque negatione relinquitur, ut est neque iustum, neque iniustum. PRIVATIO VERO ET HABITUS DICUNTUR QUIDEM CIRCA IDEM ALIQUID, UT VISIO ET CAECITAS CIRCA OCULUM; UNIVERSALITER AUTEM DICERE EST IN QUO NASCITUR HABITUS FIERI, CIRCA HOC DICITUR UTRUMQUE EORUM. Ordine tertiam speciem propositae oppositionis exsequitur eam quae secundum habitum privationemque dicitur, atque in ea unam similitudinem posuit quae illi est cum contrarietate coniuncta. Nam sicut ea quae sunt contraria circa idem sunt, ut album, quoniam semper in corpore est, nigrum quoque semper est in corpore, et iustitia, quoniam semper animo inserta est, iniustitia quoque mentis est vitium, ita quoque ea quae secundum privationem habitumque dicuntur, circa idem semper necesse est inveniri, ut quoniam visus habitus est (habemus enim visum) et visus est in oculos circa oculum, caecitas quoque, quae privatio visus est, praeter oculum non est. Auditus etiam, qui habitus est, quoniam circa aures est, eius quoque privatio quae surditas dicitur, ab auribus non recedit; ita quoque et circa quod fuerit habitus, circa idem ipsum illius habitus privatio consideratur. Atque hinc regulam dat. Universaliter enim dicit in quo sit in eo fieri privationem. Quid vero sit privari, continuata dispositione subiunxit: PRIVARI VERO TUNC DICIMUS UNUMQUODQUE HABITUS SUSCEPTIBILIUM, QUANDO IN QUO NATUM EST INESSE VEL QUANDO NATUM EST HABERE NULLO MODO HABET. Quid sit privatio hac Aristoteles definitione conclusit. Neque enim quaecumque non habent visum, caeca dicuntur, nec vero surdum est omne quod non sentit auditum, nemo enim neque parietem caecum dixerit, nec surdum lapidem, neo quidquid huiusmodi est. Sed ea sola privari dicimus habitu, quaecumque aut habuere habitum eoque caruere, aut habere potuere et non habent. Parietem autem idcirco non dicimus caecum, quod in eo visus naturaliter venire non potuit. Paruos vero catulos quibus visus non est, non satis digne aliquis caecos esse pronuntiet. Eo enim tempore nondum naturaliter visum habere possunt. Si vero exhaustis diebus quibus his oculi patefieri et lucem haurire naturaliter possunt, non habeant visum, eos caecos esse manifestum est. At vero neque ostrea dicuntur edentula, quoniam naturaliter non habeant dentes sed nec infantulos quibus adhuc nondum huiusmodi aetas est, ut habeant dentes, vocamus edentulos sed si aut is qui ante habuit, dentes amiserit, aut quo iam tempore habere naturaliter debet, dentes non habet, ut si quis puerorum septimo anno omnino nullum creaverit, illos iure edentulos appellamus, atque hoc est, quod ait: EDENTULUM ENIM DICIMUS NON QUI NON HABET DENTES, NEC CAECUM QUI NON HABET VISIONEM SED QUI, QUANDO CONTIGIT HABERE, NON HABET (MULTA ENIM EX NATIVITATE NEQUE DENTES HABENT NEQUE VISIONEM SED NON DICUNTUR EDENTULA NEQUE CAECA). Hoc est, non omne quod non videt caecum, nec quod dentes non habet edentulum appellamus. Plura enim sunt quae aut omnino aut certo tempore naturaliter haec habere non possunt sed est illa privatio quoties si habitum non habet, qui habere naturaliter potest, et eo tempore cum iam per naturam illius 270B esse compos habitus possit, vel si habens quis retinensque habitum, illum cuiuslibet incursione casus amiserit, ut in pueris iam adultis si non habeant dentes. Nam quoniam homines sunt, possunt habere; quod si habentes amiserint, edentuli dicuntur; si vero omnino non creuerint dentes, quoniam iam pueris aeque adultis ut dentes haberent, naturaliter poterat evenire, id quo casu aliquo vel aegritudine officiente factum est, eos edentulos et habitudentium privatos esse nominamus. PRIVARI VERO ET HABERE HABITUM NON EST HABITUS ET PRIVATIO; HABITUS ENIM EST VISUS, PRIVATIO VERO CAECITAS, HABERE AUTEM VISUM NON EST viSUS, NEC CAECUM ESSE CAECITAS (PRIVATIO ENIM QUAEDAM EST CAECITAS, CAECUM VERO ESSE PRIVARI, NON PRIVATIO EST). Hic verissima ratione monstratur utrum ea que sub privatione atque habitu cadant privationes sint atque habitus an minime: nam quoniam habitus est visus, privatio vero caecitas, sub habitu vero est habere visum, et sub privatione esse caecum, utrum habere visum idem sit quod ipse qui habetur visus, et utrum idem sit caacum esse quod caecitas, perspicaciter intuentibus aliud quoddam est habere aliquid quod habetur. Tres namque res sunt in eo in quo est habitus, is qui habet ea res quae habetur, et habere, ut est is qui videt, et ipse visus, et hoc ipsum quod ex utrisque, fit ex eo scilicet qui videt et visu, quod est videre. Distat autem et videre ab eo qui videt, et hoc ipsum videre rursus a visu. Aliud est enim id quod fit quam is qui facit. Videre autem videns operatur, aliud est igitur videre quam videns. Distat autem videre etiam a visu, aliud namque est id quod fit quam id per quod aliquid geritur, videre autem per visum fit. Distat ergo videre ab eo ipso (qui ipsum videre efficit) visu sed videre visum habere est, visum autem habere habitum retinere est, et visus habitus est. Non est igitur idem habitus et quid est sub habitu, id est quemlibet habitum retinere. Eodem quoque modo etiam in privatione, et illic quoque tres sunt res, is qui privatur, hoc ipsum quod fit, id est privari, et ipsum quo quis privatur, id est ipsa privatio. Quod si distat is qui habet eo ipso quod est habitum habere, distat et is qui privatur eo quod est privari. Quod si etiam distat quod est habere habitum  illo ipso habitu qui habetur. Distat necessario id quod est privati illa ipsa scilicet privatione qua quisque privatur. Quare neque id quod sub habitu est habitus appellari potest neque id quod sub privatiove privatio. Recte igitur dictum est habitum habere non esse habitum privarique non esse privationem: cui rei aliqua quaedam validior vis argumentationis adiungitur, quam Aristoteles ita pronuntiat. NAM SI IDEM ESSET CAECITAS ET CAECUM ESSE, UTRAQUE DE EODEM PRAEDICARENTUR; NUNC VERO MINIME SED CAECUS QUIDEM DICITUR HOMO, CAECITAS VERO NULLO MODO DICITUR. Si idem inquit esset caecitas quod est esse caecum, de quocumque caecum esse diceretur, de eo quoque caecitas praedicaretur sed caecum dicimus esse hominem, caecitatem vero ipsum hominem nullus dicit: quare quoniam in utrisque diversa est praedicatio, et de quo caecitas dicitur, non de eo dicitur caecum, rursumque de quo caecum esse praedicatur, is caecitas dici non potest, non est dubium quin aliud sit caecum esse quam caecitas, id est privationem esse aliud quam privari: sed quamvis distent, aequali tamen oppositionis vice funguntur, quod ipse loquitur sic: OPPONI QUIDEM ET ISTA VIDENTUR, PRIVARI SCILICET ET HABERE HABITUM, QUEMADMODUM PRIVATIO ET HABITUS; IDEM ENIM MODUS EST OPPOSITIONIS; Aequa namque proportione sibi privatio atque habitus opponuntur, et ea quae sub privatione habituque clauduntur. Cur enim si privatio atque habitus, id est visus et caecitas sibi sunt opposita, non etiam videre atque esse caecum eodem modo invicem sibimet opponantur. Quare quamquam haec distent, tamen modus in his oppositionis aequalis est. NON EST AUTEM NEC QUOD SUB AFFIRMATIONE VEL NEGATIONE EST NEGATIO VEL AFFIRMATIO; AFFIRMATIO ENIM ORATIO EST AFFIRMATIVA ET NEGATIO ORATIO NEGATIVA, EORUM VERO QUAE SUNT SUB AFFIRMATIONE YEL NEGATIONE NIHIL EST ORATIO. DICUNTUR AUTEM ET ISTA SIBI OPPONI UT AFFIRMATRO ET NEGATIO; NAM ETIAM IN HIS MODUS OPPOSITIONIS IDEM EST; QUEMADMODUM ENIM AFFIRMATIO AD NEGATIONEM OPPONITUR, UT SEDET - NON SEDET, SIC RES QUAE SUB UTRISQUE EST SIBI OPPONITUR SEDERE ET NON SEDERE. Ad quartam oppositionis speciem transitum fecit, quae secundum affirmationem negationemque dicitur. Affirmatio autem est quae aliquam rem alicui quadam participatione coniungit, negatio vero quae aliquam rem ab aliqua re quadam separatione disiungit, ut est: Omnis homo est animal animal enim ad hominem haec oratio iungit. Participat enim homo proprio genere, scilicet animal, negatio vero: Homo lapis non est. Disiungit enim naturam lapidis ab humanitate qui negat sed multa de his in libro de interpretatione dicenda sunt. Quare plenior horum disputatio in tempus aliud differatur. Aristoteles vero simplicissime et pene incuriose propter eos qui instituuntur definitiones affirmationis negationisque signavit, dicens negationem affrmationemque, affirmativas esse negativasque orationes. Quod si examinatius ac subtilius definisset, affirmationem per affirmativam orationem non definiret. Nam si dubium est quid sit affirmatio, nihilo magis clarum atque perspicuum est quid sit affirmativa oratio. Idcirco quod si quis nescit quid sit affirmatio, idem sine dubio nesciturus est quid oratio sit affirmativa. Sed idcirco hic indulgentius terminavit, quod in libro Perihermeneias utriusque veram plenamque vim definitionis aptavit. Eadem quoque in his ratio est qua sunt sub affirmatione et negatione, quae in his quae sub privatione atque habitu ponebantur, nam sicut non est idem habitus atque privatio quod habere habitum atque privari, ita non idem est affirmationem et negationem esse quod est sub affirmatione et negatione. Affirmatio est, verbi gratia sedet Socrates, negatio vero, non sedet Socrates. Sub affirmatione autem hoc ipsum sedere Socratem, id est hoc quod sub affirmatione dicit facere. Sub negatione vero non sedere Socratem, id est non facere id quod negatio submovet. Hoc autem ita probatur, quod omnis affirmatio omnisque negatio orationes sunt, sicut eorum supradicta definitio determinatioque monstravit. Sedere autem et non sedere, id est facere et non facere, orationes non sunt, quod si affirmatio et negatio orationes sunt, dicitur id quod sub affirmatione et negatione est, ea ipsa affirmatione et negatione distare. Sed in hoc servant illam quoque similitudinem quod ea ipsa sibi sunt opposita, quae secundum affirmationem negationemque dicuntur. Sicut enim ipsa affirmatio quae dicit sedet Socrates, et quae dicit, non sedet Socrates, ita quoque id ipsum quod est sedere Socratem, et non sedere, certa ratione similitudinis opponuntur. Sed quoniam quattuor species oppositionis dictae sunt, nunc Aristotelis uestigia persequentes, earum differentias colligamus, quae sunt numero sex: nam si quae res sint quattuor, easque differre a se ac distare volumus, sex solas differentias invenimus. Cum enim primam differre a secunda ac tertia atque quarta ponimus, tres sunt differentiae. Item secundam rem a prima re differre ostendere atque demonstrare superfluum est. Cum enim primae rei ad secundam distantiam colligeremus, quid secunda distaret a prima docuimus. Relicta igitur primae ad secundam rem differentia, secundae et tertiae, item secundae quartaeque differentiae monstrabuntur, quae sunt duae, quae tribus superioribus iunctae quinque solas efficiunt. Restat tertiae rei quartaeque distantia. Nam primae ad secundam atque tertiam demonstrata est discrepantia, cum prima a secunda distaret, atque eodem modo a tertia monstrabamus. Id his probatur exemplis. Nam cum oppositio ea quae est secundum ad aliquid, ab his oppositionibus quae sunt secundum contrarietatem, privationem atque habitum, atque affirmationem et negationem, distare proponitur, tres sunt differentiae. Cum vero ea quae secundum privationem atque habitum oppositio est, a contrariis et ab affirmatione negationeque discrepat, duae sunt differentiae quae iunctae superioribus quinque perficiunt. Idcirco enim quid distaret habitus atque privatio, ea oppositione quae relativa est praetermisimus, quoniam prius monstravimus quid relativa oppositio ab habitu privationeque differret; non est enim dubium aequam esse in utrisque differentiam, cum una ab alia discrepaverit. Restat una sola differentia, quae est contrariorum ad affirmationem scilicet et negationem; praetermissa namque est contrariorum differentia, de relativa scilicet et secundum habitum privationemque oppositione, quid haec superius a contrarietate distaret, monstratum est. Quare quoniam quot sunt horum differentiae cognitum est, ad sequentis operis ordinem veniamus. QUONIAM AUTEM PRIVATIO ET HABITUS NON SIC OPPONUNTUR UT AD ALIQUID, MANIFESTUM EST; NEQUE ENIM DICITUR HOC IPSUM QUOD EST OPPOSITI; VISUS ENIM NON EST CAECITATIS VISUS, NEC ALIO ULLO MODO AD IPSUM DICITUR; SIMILITER AUTEM NEC CAECITAS DICITUR CAECITAS VISUS SED PRIVATIO VISUS CAECITAS DICITUR. AMPLIUS OMNIA QUAECUMQUE AD ALIQUID DICUNTUR CONVERSIM DICUNTUR, QUARE ETIAM CAECITAS, SI ESSET EORUM QUAE SUNT AD ALIQUID, CONVERTERETUR ILLUD AD QUOD DICITUR; SED NON CONVERTUNTUR; NEQUE ENIM DICITUR VISUS CAECITATIS. Et caetera quidem quae sunt differentia perspicue superius in contrariorum differentia relativa oppositione ante praemissa sunt. Unam namque differentiam contrariorum relativorumque dixit esse, quod contraria non ita ut ea quae sunt ad aliquid converterentur. Neque enim quis pronuntiat malitiam bonitatis esse malitiam, neque bonitatem malitiae esse bonitatem, velut filium patris esse filium, rursusque patrem filii patrem. Eadem quoque et in his quae secundum privationem habitumque redduntur, dicitur differentia. Nam sicut ea qua sunt ad aliquid opposita, adversum semetipsa redduntur, et omnia ad opposita praedicantur, non eodem modo in habitu atque privatione est. Nullus enim dicit caecitatis esse visum, nec rursus visus esse caecitatem. Quocirca si ea quae sunt relativa ad opposita praedicantur, conversimque dicuntur -- cum enim sit oppositus filio pater, pater filii dicitur, scilicet ad oppositum, rursusque convertitur ut patris filius appelletur -- quoniam hoc in his quae sunt secundum privationem et habitum non dicitur. Neque enim cum sit visus oppositus caecitati, secundum privationem atque habitum dicitur visus caecitatis, id est nunquam secundum hanc oppositionem aliquid oppositi praedicatur neque convertitur, neque enim dicitur caecitas visus, recte privatio atque habitus non in eadem qua relativa sed in alia specie numerata sunt. QUONIAM AUTEM NEQUE UT CONTRARIA OPPONUNTUR EA QUAE SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM DICUNTUR, EX HIS MANIFESTUM EST. QUORUM ENIM CONTRARIORUM NIHIL EST MEDIUM, NECESSE EST, IN QUIBUS NATA SUNT FIERI AUT DE QUIBUS PRAEDICARI, ALTERUM IPSORUM INESSE SEMPER; HORUM ENIM NIHIL ERAT MEDIUM, QUORUM NECESSE ERAT ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, UT IN AEGRITUDINE ET SANITATE ET IMPARI ATQUE PARI. QUORUM AUTEM EST ALIQUID MEDIUM NUNQUAM NECESSE EST OMNI INESSE ALTERUM; NAM NEQUE ALBUM AUT NIGRUM NECESSE EST OMNE ESSE EORUM SUSCEPTIBILI, NEC FRIGIDUM NEC CALIDUM (NIHIL ENIM PROHIBET ALIQUAM IPSORUM INESSE MEDIETATEM); ERAT ETIAM ISTORUM MEDIETAS, QUORUM NON NECESSE ESSET ALTERUM INESSE EORUM SUSCEPTIBILI, NISI FORTE ALIQUIBUS NATURALITER CONTIGERIT UNUM IPSORUM INESSE, UT IGNI CALIDUM ESSE ET NIVI ALBUM (IN HIS AUTEM NECESSE EST DEFINITE UNUM IPSORUM INESSE, ET NON HOC AUT ILLUD; NEQUE ENIM POTEST IGNIS ESSE FRIGIDUS NEC NIX ESSE NIGRA); QUARE NON NECESSE EST OMNIBUS EORUM SUSCEPTIBILIBUS ALTERUM HORUM INESSE SED SOLIS HIS QUIBUS NATURALITER UNUM INEST, ET HIS DEFINITE UNUM, NON AUTEM HOC AUT ILLUD. Prolixitatem textus idcirco contraxi quod et ea ipsa quae dicuntur supra iam dicta sunt, nec longior ordo possit aliquod creare fastidium, quod nos hac textus divisione seiunximus. Et prius quidem proponit ante oculos omnes inter se contrariorum differentias, quas ipse quantum potero brevissime commemorabo; ait enim contrariorum quae mediis carent semper alterum inesse ei quod illas contrarietates 274C suscipere potest, ut aegritudo et sanitas, quoniam semper in animalis corpore reperitur, et ea sine ullo est adversus suum contrarium medio. Idcirco omne corpus animalis semper aut aegrotat aut sanum est, et semper alterum aut sanitatis aut aegritudinis inest ei quod has suscipit contrarietates. Eorum vero contrariorum quae habent aliquam medietatem, non necesse est semper alterum inesse ei cui accidunt, ut album atque nigrum, cum sint utraque contraria, quoniam habent aliquam medietatem, ut rubrum, veniunt autem semper in corpora, non necesse est omne corpus fieri, aut album aut nigrum, quoniam potest aliquando contingere ut illa eorum medietas corpori cuilibet eveniat. Atque hoc ita est in iis quae medio non carent, quae ipsa mediata vocamus, exceptis his quibus una contrarietas est insita per naturam, ut nix alba est, ignis calidus. In his enim unam semper necesse est evenire non aliam, nec utrumlibet sed definite unam. Id enim non venit in ignem, ut aliquando sit calidum, aliquando frigidum, aliquando vero quod horum medietas est tepidum sed semper naturali calore succenditur; nec nix aliquando fit nigra, nec rursus rubea, nec ullis aliis coloribus permutatur sed solum semper alba est. Cum haec ita sint, ea quae secundum habitum privationemque opponuntur, si et ab his contrariis distare monstrata sint quae mediis carent, et ab his quae intra se quamdam medietatem qualitatis includunt, et ab his quoque quae, cum mediate sint, tamen definite alicui insunt, perfecte monstratum est ea quae secundum habitum et privationem sunt a contrariis discrepare. Quare quid distent Aristotele teneamus auctore. IN PRIVATIONE VERO ET HABITU NEUTRUM VERUM EST EORUM QUAE DICTA SUNT, NEQUE ENIM SEMPER EORUM SUSCEPTIBILI NECESSE EST ALTERUM IPSORUM INESSE; QUOD ENIM NONDUM NATUM EST HABERE VISUM NEQUE CAECUM NEQUE viSUM HABERE DICITUR, HABENS VISUM DICITUR; ET HORUM NON DEFINITE ALTERUM SED AUT HOC AUT ILLUD (NEQUE ENIM NECESSE EST AUT CAECUM AUT HABENTEM VISUM ESSE SED AUT HOC AUT ILLUD); IN CONTRARIIS VERO, QUORUM EST MEDIETAS, NUMQUAM NECESSE EST OMNI ALTERUM INESSE SED ALIQUIBUS, ET HIS DEFINITE UNUM. QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NEUTRUM MODUM QUEMADMODUM CONTRARIA OPPONUNTUR ITA SIBI SUNT EA QUAE SUNT SECUNDUM PRIVATIONEM ET HABITUM OPPOSITA. Dat primo differentias quibus ea quae sunt secundum habitum et privationem opposita, ab iis quae sunt immediata contrariis distent. In his enim contrariis quae medium non habent, semper necesse est ipsorum alterum inesse ei quod his ipsis subiectum est. In habitu vero et privatione non ita est. Non enim semper quaelibet res aut habitum habet aut privationem sed est tempus quando utrumque non habeat, ut catuli quibus nondum per naturam oculi patent. Illos enim nec habere habitum dicimus, quoniam non vident, nec privatos visu, quoniam paruuli adhuc visum per naturam habere non possunt Igitur horum quae sibi secundum privationem habitumque sunt opposita, non semper alterum subiecto inest eorum. Sed eorum quae sunt contraria immediata, id est medio carentia, semper alterum susceptibili inest. Distat igitur ea quae secundum habitum et privationem est oppositio, iis quae secundum contraria putantur opponi. Sed quoniam sunt quaedam contraria quae insunt alicui per naturam, ut nivi album, igni calidum, coruo nigrum, etiam ab his discrepat oppositio privationis et habitus. Ea enim quae per naturam insunt definita sunt et nullo modo permutantur, ut est album nivi. Non enim nix aut alba aut nigra est sed tantum alba, et coruus non aut albus aut niger sed solum niger. In privatione vero et habitu una res esse non potest definita sed semper aut privatio contingit, aut habitus, et hoc est quod ait, et horum non definite alterum sed aut hoc aut illud. Neque enim necesse est aut caecum esse aut habentem visum definite subaudiendum est, catulus enim qui per naturam non dum videt, aut habitum habiturus est, id est visum, aut eo privandus est, ut sit caecus sed non definite unum sed aut hoc aut illud indefinite contingit. Distat igitur haec oppositio his contrariis quae aliquibus per naturam immutabiliter accidunt. Restat igitur ut his contrariis quae mediata sunt hanc oppositionem differre doceamus. In illis enim non semper necesse erit contraria inesse subiecto, idcirco quod eorum medietates possint subiectis evenire substantiis, ut album vel nigrum quod non est alicui per naturam sed tantum secundum accidens. Possunt enim utraque non esse in corporibus, quoniam his vel rubrum vel pallidum, quae sunt eorum medietates eveniunt. In privatione vero id et habitu non est. Quando enim poterit per naturam habere habitum, utrisque quae ea suscipiunt, carere non possunt. Catulus enim cum per naturam videre potuerit, aut habitum habere dicitur, et est videns, aut privationem, si fuerit caecus. Ita semper ab eo tempore 276B quo illi per naturam utrumlibet habere concessum est, alterutrum retinebit, id est aut privationem retinebit, aut habitum. Quocirca si in his contrariis quae medio non carent, potest fieri ut utraque contraria in subiecto non sint, in privatione vero et habitu ab eo tempore quo per naturam potest utrumque retinere, fieri non potest nisi eorum habeat alterum, distant haec quoque mediata ab his quae secundum vim privationis atque habitus opponuntur. Sed ante monstratum est et his contrariis quae per naturam essent, et iis quae medio carerent, hanc oppositionem esse dissimilem. Recte igitur positum est privationis atque habitus oppositionem ab his quae opponuntur ut contraria, discrepare. AMPLIUS IN CONTRARIIS, CUM SIT EORUM SUSCEPTIBILE, POTEST FIERI IN ALTERNA MUTATIO, NISI 276C CUI NATURALITER UNUM INSIT, UT IGNI CALIDO ESSE; QUOD ENIM SANUM EST POTEST AEGRESCERE, ET ALBUM NIGRUM FIERI, ET FRIGIDUM CALIDUM, ET EX PROBO IMPROBUM ET EX IMPROBO PROBUM FIERI POTEST (IMPROBUS ENIM IN MELIOREM CONSUETUDINEM SERMONEMQUE PERDUCTUS VEL PARUM SESE DABIT IN MELIUS; SIN VERO VEL SEMEL PARUAM INTENTIONEM SUMAT, MANIFESTUM EST QUONIAM AUT PERFECTISSIME PERMPOMBAUR AUT MAGNAM SUMAT INTENTIONEM; SEMPER ENIM MOBILIOR AD VIRTUTEM FIT, SI QUAMLIBET A PRINCIPIO SUMPSERIT INTENTIONEM, QUARE ERIT POSSIBILE MAIOREM ILLUM INTENTIONEM SUMERE; ET HOC SAEPIUS FACTUM PERFECTE IN CONTRARIAM HABITUDINEM CONSISTERE, NISI TEMPORE PROHIBEATUR). IN PRIVATIONE VERO ET HABITU IMPOSSIBILE EST AD INVICEM FIERI MUTATIONEM; AB HABITU ENIM AD PRIVATIONEM FIT PERMUTATIO, 276D A PRIVATIONE VERO AD HABITUM IMPOSSIBILE EST; NEQUE ENIM FACTUS ALIQUIS CAECUS RURSUS vidIT, NEC CALUUS RURSUS CRINITUS FACTUS EST, NEC EDENTULUS DENTES CREAVIT. Aliam rursos contrariorum et huius oppositionis quae secundum habitum privationemque dicitur, discrepantiam ponit. Ea enim quae contraria sunt, possunt in alterna variatis vicibus permutari. Quod enim calidum est potest effici frigidum, rursusque quod frigidum est potest in caloris verti qualitatem. His tamen (ut dictum est) solis exceptis, quibus una quaelibet res contrariorum naturaliter insita est, in his enim solis fieri non potest alterna mutatio: in his vero quae accidenter et non per naturam subiectis eveniunt, fit semper in contraria permutatio, ut ex sano aegrum, ex aegro rursus sanum corpus efficitur animalis. Iam vero illud verum est, ex bono proclivior semper semita videtur ad malum, et facillima esse ex probitate ad malitiam permutatio, quod Terentiano docetur exemplo: A labore proclivem ad libidinem. Sed quamquam difficilis sit transitus ad virtutes a turpitudine vitiorum, Aristoteles tamen fieri posse hunc transitum confirmat. Huius enim philosophi sententia est, virtutes non esse scientias, ut Socrates ait, neque ut Stoici naturaliter eas esse sed discibiles, et per quamdam boni consuetudinem hominum mentibus inseriri. Atque ideo si quis sit quibuslibet prioribus vitiis obnoxius, si eum melior sermo susceperit, et sapientium consuetudine confabulationeque comatur, aliquid ex ante actis vitiorum illecebris emendabitur, et sese aliquantulum exuet, et paululum liberior ad meliora procedet. Ita ut sit primo quidem minus malus, post vero non malus, deinde iam iamque aliquantulum bonus. Cui si huiusmodi intensio frequentissime fiat, nec paruitate temporis praeveniatur, aut ei terminus mortis offecerit, non est dublum illum ex pessimo per probas consuetudines confabulationesque sapientum, in perfectam virtutis habitudinem permutari. Est igitur ex bono in malum, et ex malo in bonum rursus permutatio, atque hoc quidem fit in contrariis. In habitu vero et privatione non fit, est namque permutatio sed haec una tantum, nulla ratione sese convertens; ait enim: Ab habitu ad privationem 277C permutatio, a privatione vero ad habitum impossibile est. Et hoc planissime docet exemplis. Quis enim unquam ex caeco factus est videns? quis aliquando caluus crinitus efficitur? cui amissis aetate dentibus rursus alii procreantur? Quare si in contrariis fit alterna mutatio, in privatione vero atque habitu non fit, distat haec oppositio ab ea scilicet oppositione quae fit secundum contrarias qualitates. QUAECUMQUE VERO UT AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPONUNTUR, MANIFESTUM EST QUONIAM SECUNDUM NULLUM MODUM EORUM QUI DICT SUNT OPPONUNTUR; IN HIS ENIM SOLIS NECESSE EST HOC QUIDEM ESSE VERUM ILLUD VERO FALSUM. NAM NEQUE IN CONTRARIIS NECESSE EST SEMPER ALTERUM ESSE VERUM, ALTERUM VERO FALSUM, NEC IN RELATIVIS, NEQUE IN HABITU ET PRIVATIONE; UT SANITAS ET AEGRITUDO CONTRARIA SUNT SED NEUTRUM IPSORUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST; SIMILITER AUTEM ET DUPLUM ET MEDIUM QUAE UT AD ALIQUID OPPONUNTUR, NON EST EORUM ALTERUM FALSUM ALTERUM VERUM; NEC VERO EA QUAE SECUNDUM HABITUM ET PRIVATIONEM SUNT, UT VISUS ET CAECITAS. OMNINO AUTEM NIHIL EORUM QUAE SECUNDUM NULLAM COMPLEXIONEM DICUNTUR AUT VERUM AUT FALSUM EST; OMNIA AUTEM QUAE DIXIMUS SINE COMPLEXIONE DICUNTUR. Expositis his differentiis quibus vel contrariis relativa, vel privatio et habitus relativis, vel rursus privatio et habitus contrariis discreparent, nunc sequitur quid his omnibus secundum affirmationem negationemque opposita distent, et dat signum proprium affirmationis et negationis, ut eas semper quaeramus agnoscere, ut si qua sint quae hoc signo minime teneantur, illa ab affirmationis negationisque oppositione deferre dicamus. In affirmatione enim et negatione fieri non potest, ut si affirmatio vera sit, statim falsa negatio non sit; si negatio vera, aftirmatio mendacii nota carere possit, ut si qu is dicat. Socrates ambulat, Socrates non ambulat. Si verum est Socratem ambulare, falsum est non ambulare, et rursus si verum est non ambulare, falsum est ambulare. Hanc autem veri falsique divisionem nullus unquam in aliis oppositionibus poterit invenire. Nam in his quae sunt ad aliquid non solum non est necesse oppositionem ipsam sibi verum falsumque dividere sed in his nulia omnino neque veritas, neque falsitas invenitur. Si quis enim dicat hoc tantum, pater, vel rursus, filius, neque verum aliquid neque falsum pronuntiat. Et in contrariis quoque idem est, nam cum bono malum sit contrarium, si quis nominet bonum, et si quis rursus simpliciter pronuntiet malum, nulla in hac praedicatione neque falsitas, neque veritas est. Eodem quoque se modo habet etiam in his quae secundum habitum privationemque dicuntur. Similiter evim nihil neque verum, neque falsum est, si quis visum nominet vel caecitatem, hoc autem idcirco evenit, quia omnia, quaecumque sunt, in quibus aut falsitas, aut veritas invenitur, secundum aliquam complexionem dicuntur. Ea vero quae simpliciter proferuntur, veri atque falsi prolatione carent, ut ipse ait, cum in principio omnia praedicamenta numeraret, dicens singula eorum quae essent dicta in nulla affirmatione dici, quadam vero complexione inter se horum praedicamentorum veritatem falsitatemque gigni, de quibus Aristoteles edocuit praeter complexionem aliquam in sermonibus veritatem falsitatemque inveniri non posse. Si quidem exemplo quoque hoc manifestum est. Si enim dixero, Socrates homo est, aut verum aut falsum est. Quod si hoc tantum dicam Socrates, aut rursus, homo, nihil in eo neque veritatis neque falsitatis est. Quocirca quoniam omnis affirmatio cum complexione profertur, potest in ea, aut veritas, aut falsitas inveniri. Ea vero quae sunt ad aliquid simpliciter et sine ulla complexione dicuntur. Similiter autem et contraria, et ea quae sunt secundum habitum privationemque sibimet opposita, ut est pater filius, bouum malum, visus caecitas, qua, quoniam sine complexione dicuntur (ubi autem complesio non est, illic nec falsitas neque veritas est. In affirmationibus vero solis et negationibus quae secundum complexionem dicuntur, aut veritas aut falsitas reperitur, secundum affirmationem et negationem oppositio a cunctis aliis superioribus distat. AT VERO MAGIS HOC VIDETUR CONTINGERE IN HIS QUAE SECUNDUM COMPLEXIONEM DICUNTUR (SANUM ENIM ESSE SOCRATEM ET AEGROTARE SOCRATEM CONTRARIA SUNT) SED NEC IN HIS QUOQUE NECESSE EST SEMPER ALTERUM VERUM ESSE, ALTERUM AUTEM FALSUM; CUM ENIM 279A SIT SOCRATES, EST HOC QUIDEM VERUM ILLUD VERO FALSUM, CUM AUTEM NON SIT, UTRAQUE FALSA SUNT; NAM NEQUE AEGROTARE NEQUE SANUM ESSE VERUM EST CUM IPSE SOCRATES NON SIT OMNINO. IN PRIVATIONE VERO, CUM NON SIT, NEUTRUM VERUM EST, ET CUM SIT, NON SEMPER ALTERUM VERUM EST; VISUM ENIM HABERE SOCRATEM ET CAECUM ESSE SOCRATEM OPPONUNTUR UT HABITUS ET PRIVATIO, ET CUM SIT, NON EST NECESSE ALTERUM VERUM ESSE VEL FALSUM (QUANDO ENIM NON EST NATUS UT HABEAT, UTRAQUE FALSA SUNT), CUM AUTEM NON SIT OMNINO SOCRATES, SIC QUOQUE UTRAQUE FALSA SUNT, ET HABERE EUM VISUM ET EUM ESSE CAECUM. Quoniam videntur quaedam contraria secundum complexionem dici, in quibus aut falsitas reperitur aut veritas sed neque ut affirmatio sit neque ut negatio, de his quoque dicit, quid distent his complexionibus, quae secundum affirmationem negationemque dicuntur. Nam sicut aegritudo est contraria sanitati, ita quoque aegrotum esse Socratem, ei quod est sanum esse contrarium est. Oratio quoque quae dicit Socrates sanus est, contraria est ei quae pronuntiat Socrates aegrotat. In his ergo et veritas invenitur et falsitas. Quod igitur haec distant ea oppositione quae secundum vim affirmationis aut negationis opponitur, hoc scilicet quod subsistente re, de qua utraque dicuntur, utrumlibet eorum verum est, si tamen ea contraria praedicantur, quae mediis carent, nam vivente et subsistente Socrate, quoniam aegritudo et sanitas immediata contraria sunt, si quis de Socrate dicat: Socrates sanus est, rursusque alius pronuntiet: Socrates aegrotat, unam veram, unam falsam esse necesse est. Socrates enim vivens aut aegrotat aut sanus est, et si verum est eum aegrotare, sanum esse falsum est, et si falsum est aegrotare, sanum esse verum est; si vero Socrates ipse non subsistat neque omnino sit, utrumque de eo falsum est dicere, quoniam aegrotat et sanus est. Qui enim omnino non est, neque omnino poterit aegrotus esse nec sanus. Ergo in contrariis subsistente re de qua praedicantur, semper una praedicatio vera est, alia falsa, in his scilicet contrariis quae secundum complexionem dicuntur et carent medio. Non subsistente autem re, contrarietates utraeque sunt falsae. Illa vero quae secundum privationem habitumque dicuntur, si cum complexione praedicentur, et subsistat res, non necesse est aliam veram esse, aliam falsam, et eum res omnino non sit, utraeque sunt falsae. Socrates enim cum sit iam in suae matris aluo, et nondum sit genitus in lucem quidem editus non est, ipse tamen est atque vivit sed tunc neque videns est neque caecus, et videns quidem non est; quoniam nondum in lucem est editus. Caecus vero idcirco non dicitur, quoniam adhuc videre non poterat. Ergo cum sit atque subsistat res de qua habitus et privatio praedicantur, potest fieri ut de ea falsa utraque praedicentur; si vero res de qua dicitur non sit, omnino utrasque falsas esse necesse est, ut cum Socrates omnino non est, falsum est eum dicere vel videntem 280A esse vel caecum. Ille enim videt atque caecus est qui vivit atque subsistit, cum vero de quo dicitur non sit omnino, utraque de eo falso dicuntur. In catulis quoque idem est, nam cum iam sunt editi, subsistunt quidem; sed neque caeci sunt neque videntes, quia nondum per naturam visum habere potuerunt. Sin vero omnino non sint, rursus falsum est de his utrumque praedicari. In affirmatione vero et negatione non ita est, ut ipse pronuntiat. IN AFFIRMATIONE VERO VEL NEGATIONE SEMPER, VEL SI SIT VEL SI NON SIT, ALTERUM IPSORUM VERUM, ALTERUM FALSUM ERIT; AEGROTARE ENIM SOCRATEM ET NON AEGROTARE SOCRATEM, CUM SIT IDEM IPSE, MANIFESTUM EST QUONIAM ALTERUM EORUM VERUM VEL FALSUM EST, CUM NON SIT, SIMILITER (NAMQUE AEGROTUM ESSE, CUM NON SIT, FALSUM EST, NON AEGROTARE VERO VERUM EST). QUARE IN SOLIS HIS ERIT SEMPER ALTERUM IPSORUM VERUM ESSE VEL FALSUM, QUAECUMQUE UT AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPONUNTUR. In affirmatione, inquit, et negatione sive res subiecta subsistat, sive non sit omnino, semper in una veritas, in alia falsitas inveniuntur. Non esse enim idem dicere aegrotare aliquem quod non esse sanum, neo idem caecum esse quod non videre perspicacissime docet. Nam qui aegrotat nisi subsistat non potest aegrotare. Non esse autem sanum, non ita est, nam etiamsi non sit omnino aliquis, potest de eo qui non est haec negatio praedicari. Quod enim omnino non est, sanum esse non potest, quod sanum esse non potest non est utique sanum. Eodem quoque modo est et de caecitate et de visu, neque enim idem est dicere caecum esse aliquem quod non videre; qui enim caecus est, subsistit vivitque, ut sit caecus, non videre vero etiam de omnino non subsistente dici potest. Qui enim non subsistit omnino videre non potest, et qui videre non potest non videt. Quocirca in affirmatione et negatione sive sit de quo dicitur sive non sit, una semper vera est, altera falsa. Nam cum sit Socrates et vivat, si de eo verum est dicere, quoniam videt, falsum est dicere, quoniam non videt, et si de eo verum est dicere, quoniam sanus est, falsum est dicere de eo quoniam non est sanus. Si negationes verae sunt, falsae sunt affirmationes. Si vero res subiecta non subsistat omnino, de ea quidem affirmatio falsa est, negatio semper vera. Nostro enim tempore cum Socrates non est neque subsistit, si quis dicat Socrates videt, et alius dicat Socrates non videt, falsum quidem est de eo dicere, quoniam videt, verum autem quoniam non videt. Qui enim omnino non est, videre non potest, qui videre non potest, non videt. Ita firmum immutabileque semper manet in affirmationibus et negationibus alteram semper veram, alteram falsam in praedicatione constitui. Quocirca quoniam in contrariis et in iis quae secundum privationem habitumque sunt, si cum complexione utraque dicantur de re non subsistente, falsa sunt utraque quae praedicantur. Cum hoc idem in affirmationibus et negationibus non sit, omnes caeterae oppositiones ab affirmatione et negatione dissentiunt. Monstratae sunt igitur oppositiones quattuor et sex differentiae: una quidem contrariorum et eius quae est ad aliquid; secunda contrariorum et eorum quae sunt secundum habitum et privationem; tertia contrariorum et eius oppositionis quae est secundum affirmationem et negationem; quarta relativorum et eius quae est secundum habitum et privationem; quinta relativorum et eius quae est affirmationis et negationis; sexta privationis et habitus ad negationem et affirmationem. Sed post has oppositionum differentias quaedam de contrariis ad multas proficientia quaestiones ab Aristoteles traduntur. CONTRARIUM AUTEM EST BONO QUIDEM EX NECESSITATE MALUM (HOC AUTEM MANIFESTUM EST EX UNAQUAQUE INDUCTIONE, UT SANITATI AEGRITUDO ET IUSTITIAE INIUSTITIA ET FORTITUDINI 281B TIMIDITAS, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS), MALO VERO ALIQUOTIENS BONUM CONTRARIUM EST, ALIQUOTIENS MALUM (DIMINUTIONI ENIM, QUAE MALA EST, SUPERFLUITAS QUAE ET IPSA MALA EST CONTRARIUM EST). IN PAUCIS AUTEM HOC ALIQUIS VIDEBIT, IN PLURIBUS AUTEM SEMPER MALO BONUM CONTRARIUM EST. Hoc loco monstratur quod omne bonum semper malo contrarium est, non autem omni malo semper bonum, nam quodcumque fuerit bonum, solum illi malum contrarium est, malo autem et bonum potest esse contrarium et malum. Sanitati enim quae bona est, aegritudo quae est mala, contraria est. Rursus felicitati quae est bona, infelicitas quae ipsa quoque est mala, contraria est. Est autem invenire malum quod duas habet contrarietates, boni scilicet et alterius mali. Nam cum ea sunt contraria quae a se plurimum distent, cum sit timiditas habitus animi pessimus, duas habet contrarietates, temeritatem scilicet et fortitudinem, nam qui omnia timet et est timidus et qui nihil timet omnino in quo est temeritas, longe a sese distant et discrepant, quocirca sibi contraria sunt, cum utraque sint mala. Rursus quoniam bonum malo contrarium, et fortitudo bona est, timiditas mala erit, et erit fortitudini contraria oppositaque timiditas. Duae igitur contrarietates opponuntur timiditati, temeritas et fortitudo; sed temeritas contraria est secundum longissimam distantiam quantitatemque discrepantis habitus atque contrarii. Timiditas vero fortitudini videtur opposita, secundum qualitatem bonitatis atque malitiae. Quare sufficienter est demonstratum bona semper malis esse contraria, mala vero etiam malis. Inductio autem est singulorum exemplorum collectio, et ad universalem per ea cognitionem collectionemque reductio, ut si quis dicat qui musicam novit musicus est, et ab ea denominatur, et medicus qui medicinam, rursus qui grammaticam grammaticus, et ex his singulis rebus colligat universaliter, et quicumque aliquam artem novit eiusdem denominatione signatur, ut a grammatica grammaticus, a medicina medicus, et caetera huiusmodi. Quocirca hoc quod supra diximus de contrariis, Aristoteles exemplorum planissima inductione 282A firmavit Illud quoque addidit mala posse malis esse contraria, in paucissimis inveniri, semper autem mala bonis esse contraria. Nam et in his ipsis in quibus mala malis contraria sunt, inest tamen ut etiam simul bonis contraria esse videantur, ut timiditas, quoniam temeritati contraria est, simul est etiam fortitudini contraria. Sed non necesse est, ut quodcumque malum bono est contrarium, mox etiam mali esse contrarium, ut aegritudo sanitati quidem, quod est bonum contraria est, alii vero malo contraria non est. Recte igitur dictum est, malum malo contrarium in paucioribus inveniri. AMPLIUS IN CONTRARIIS NON EST NECESSE, SI ALTERUM FVERIT, ET RELIQUUM ESSE; SANIS ENIM OMNIBUS, SANITAS QUIDEM ERIT, AEGRITUDO VERO MINIME; SIMILITER ET ALBIS OMNIBUS ALBEDO QUIDEM ERIT, NIGREDO VERO NON ERIT. AMPLIUS SI SOCRATEM SANUM ESSE ET SOCRATEM AEGROTARE CONTRARIUM EST, ET NON CONTINGIT SIMUL EIDEM UTRAQUE INESSE, NUMQUAM CONTINGET, CUM ALTERUM CONTRARIORUM SIT, RELIQUUM ESSE; NAM CUM SIT SANUM ESSE SOCRATEM, NON ERIT AEGROTARE SOCRATEM. Dictum est in relatione, quaedam relativa simul esse naturaliter, ut cum sit filius, pater est, cum vero sit pater, sine filio esse non posse. Quocirca simul semper sunt pater et filius, hoc vero in contrariis non est. Ait enim non necesse est simul semper esse contraria. Si enim nullus aegrotet et sint omnes sani, cum sit sanitas, non erit aegritudo, et una contrarietate manente, alia omnino non erit, ut si quis hoc idem dicat de cygnis, etenim omnes cygni sunt albi, in cygnis nigredo non erit. Atque hoc idem ad universalia referendum est. Nam si omnia quae sunt alba sunt, omnino nigredo non erit. Tractum autem hoc videtur esse sigillatim a partibus. Nam quod duo contraria in eodem uno eodemque tempore esse non possunt, ut Socrates cum sanus est, aegrotus non est, et cum sanus est, manente sanitate, non esse poterit aegritudo. Et non erit necessarium uno contrario posito, mox subsequi alterum. Nam si necesse esset uno contrario constituto, mox aliquid sequi, posset idem Socrates uno eodemque tempore, et sanus esse et aeger, quod fieri non potest. Non est igitur necesse cum sit una contrarietas mox aliam sequi. Quocirca fieri potest ut cum unum contrarium sit, 282D aliud non sit. Idque in singularibus etiam necesse est, ut in eo quod est Socratem esse sanum, non est Socratem aegrotare, quod Socratis sanitati est contrarium Socrates enim quamquam contrariorum susceptibilis sit, quoniam substantia est, tamen uno eodemque tempore contraria utraque non suscipit. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM CIRCA IDEM VEL SPECIE VEL GENERE NATA SUNT FIERI CONTRARIA; AEGRITUDO NAMQUE ET SANITAS CIRCA CORPUS ANIMALIS, ALBEDO VERO ET NIGREDO SIMPLICITER CIRCA CORPUS, ET IUSTITIA ET INIUSTITIA IN ANIMA. Docet circa quae semper possint esse contraria. Ait enim circa eas res quae aut genere eadem sint aut specie, ut est corpus quidem animalis unum secundum genus, omnium enim animalium unum genus est, et circa hoc aegritudo vel sanitas invenitur. Similiter et circa corpus omne indiscrete, vel animalia vel inanimati, albedo et nigredo est, quod scilicet omne corpus et ipsum secundum genus est, unum, namque his genus est substantia. Iustitia quoque et iniustitia in anima est. Omnis autem anima quae iustitiam iniustitiamque suscipit, rationalis est, id est hominis; sed omnes homines idem sunt secundum speciem, omnes igitur animae eaedem secundum speciem sunt; iustitia ergo et iniustitia circa easdem res secundum speciem reperiuntur. Quocirca recto iam conclusum est, omnia contraria circa easdem res vel secundum genus, vel secundum speciem iveniri. NECESSE EST AUTEM OMNIA CONTRARIA AUT IN EODEM GENERE ESSE AUT IN CONTRARIIS GENERIBUS, VEL IPSA ESSE GENERA; ALBUM QUIDEM ET NIGRUM IN EODEM GENERE (COLOR ENIM IPSORUM GENUS EST), IUSTITIA VERO ET INIUSTITIA IN CONTRARIIS GENERIBUS (HUIUS ENIM VIRTUS, HUIUS VITIUM GENUS EST); BONUM VERO ET MALUM NON SUNT IN ALIQUO GENERE SED IPSA SUNT GENERA. Monstrat id quod reliquum est, id est ubi possunt remper contraria uestigari, omnia enim quae sunt contraria, aut sub eodem genere sunt, aut sub contrariis generibus, aut ipsa sunt genera. Sub eodem genere sunt contraria, ut album et nigrum sub uno genere, id est colore, color enim albedinis et nigredinis est genus. Haec igitur sub uno sunt genere. Alia vero contraria in contrariis generibus inveniuntur, ut iustitia et iniustitia. Iustitiae enim genus est bonum, iniustitia a vero malum, malum vero bono contrarium est, iustitiae ergo et iniustitia sub contrariis generibus sunt. Rursus alia ipsa sunt genera, ut bonum et malum, utraque sunt genera sub se malorum bonorumque positorum, et non hoc nunc dicitur quod bonitas et malitia nulli alii generi subduntur, ponuntur enim sub qualitate. Sed particularium bonorum et malorum non esse alia genera, nisi ipsum bonum et malum generaliter. Recte igitur bonum et malum aliorum particularium bonorum, malorumque genera sunt numerata. Quare rectissime dictum est omnia contraria, aut sub eodem esse genere, ut album et nigrum sub colore, aut in contrariis generibus, ut iustitia atque iniustitia sub bono et malo, aut ipsa esse genera, ut est ipsum bonum et malum, qua genera iustitiae atque iniustitiae numerata sunt. DE MODIS PRIORIS. PRIUS ALTERUM ALTERO DICITUR QUADRUPLICITER. PRIMO QUIDEM ET PROPRIE SECUNDUM TEMPUS, SECUNDUM QUOD SCILICET ANTIQUIUS ALTERUM ALTERO ET SENIUS DICIMUS (EO ENIM QUOD PLUS EST TEMPORIS LONGAEVIUS ET ANTIQUIUS DICITUR). Postquam vero de oppositis disputationem quantum ad praesens tempus attinebat explicavit, nunc quae priora dici possint, quae posteriora disserit. Et ait, primo quidem et proprie, et quod in usu prius 284A dicimus, hoc est quando aliquam rem alia res tempore praecedit, et superat, et dum proprie loquimur secundum temporis praecessionem, aliud antiquius dicimus, aliud senius. Antiquius quidem in iis quae inanimata sunt, ut Porphyrio placet, senius vero in iis quae anima non carent: ut si quis dicat antiquius fuisse bellum Thebanorum atque Graecorum Troiae excidio, idcirco quod tempore praecedat, filii namque ducum qui Thebano perire praelio, Troiae praeliis interfuerunt, ut Diomedes Tydaei filius, et Stenelus filius Capanei. Atque hoc quidem ita, quoniam est et in rebus inanimatis quod antiquius dicitur, ut eum dicimus antiquiorem esse dominationem regum in civitate Romana, quam consulum et magistratuum. In rebus vero animatis senius vocamus. Seniorem namque dicimus Pythagoram Socrate, Socratem Aristotele, idcirco quod se temporibus antecedant. Ergo prius alterum altero dicitur proprie secundum tempus, prioris autem quattuor fuere distantiae, ut ipse Aristoteles dicit, cum ait: Prius alterum altero dicitur quadrupliciter. Easque sigillatim breviter enumerat, ad quae ipse addidit quintam, quae priscis philosophis esset incognita. Et quoniam de primo prioris modo dictum est, de secundo dicemus. SECUNDO QUOD NON CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, UT UNUS DUOBUS PRIUS EST (CUM ENIM DUO SINT, CONSEQUITUR MOX UNUM ESSE, CUM VERO SIT UNUM NON EST NECESSE DUO ESSE; QUARE NON CONVERTITUR AB UNO CONSEQUENTIA ALTERIUS SUBSISTENTIAE); PRIUS AUTEM VIDETUR ESSE ILLUD A QUO NON CONVERTITUR SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIA. Secunda, inquit, significatio prioris est quae non tempore intelligitur sed natura, et hoc ait a quo non convertitur subsistendi consequentia. Nam si duae res ita sint oppositae, ut si una sit necesse sit esse aliam, et si alia sit non necesse sit esse aliam, illa prior est qua posita ut sit, non est aliam esse necesse, et hoc quidem universaliter dictum est. Planius vero his fiet exemplis. Binarius enim numerus et unitas eam retinet naturam, ut si quis duo esse proponat, unum quoque esse monstraverit, unum enim in ipsis duobus concluditur, nec praeter duas unitates poterit esse binarius. Quocirca si quis binarium numerum esse posuerit, unum quoque esse consequitur, idcirco binarius ut sit indiget unitate. At vero si quis ponat esse unitatem, nondum necesse est esse binarium. Ergo ab unitate subsistendi consequentia non convertitur. Posita enim unitate necesse non fuit binarii numeri subsequi quantitatem, idcirco quod binario non indiget unitas, sicut indigens erat unitate binarius. Quare prior est unitas binario: quod si ita est, et quidquid ita fuerit, ut ab eo subsistendi consequentia non convertatur, prius Aristotele auctore probabitur, ut in eo quod est homo et animal. Cum dico hominem, mox dixi animal; cum animal dixero, nihil adhuc de homine dictum est. Omnis enim homo animal est, non omne animal homo. TERTIO VERO SECUNDUM QUENDAM ORDINEM PRIUS DICITUR, QUEMADMODUM ET IN DISCIPLINIS ET IN ORATIONIBUS; IN DEMONSTRATIVIS ENIM DISCIPLINIS INEST PRIUS ET POSTERIUS SECUNDUM ORDINEM (ELEMENTA ENIM PRIORA SUNT DESCRIPTIONIBUS SECUNDUM ORDINEM, ET IN GRAMMATICA ELEMENTA PRIORA SUNT SYLLABIS), ET IN ORATIONIBUS SIMILITER (EXORDIUM ENIM NARRATIONE PRIUS EST ORDINE). Ponit tertiam prioris significationem, ut in geometria priora sunt, inquit, elementa descriptionibus. Elementa vero ait quos terminos appellamus, id est ubi quid punctum sit, quid linea, quid figura praedicitur. His enim cognitis et fideliter animo apprehensis, postea omnes geometriae descriptiones fiunt, quae problemata et tbeoremata nuncupantur. Ergo quoniam prius discuntur elementa, post ad descriptiones est transitum, priora sunt elementa descriptionibus, ordine scilicet, quoniam ut descriptio possit intelligi, prius elementa traduntur, et in grammatica quoque prius singulae traduntur litterae quam quae ex his syllabae coniungitur, quocirca ipso quoque ordine prior ea sunt syllabis. Rhetores vero non saepe a narratione sed ab exordio agere causas incipiunt, ideo quod exordia narrationibus priora sunt ordine, quare tertius modus prioris iste est qui secundum nexum cuiusdam ordinis in qualibet arte est constitutus. AMPLIUS PRAETER HAEC OMNIA, QUOD MELIUS ET HONORABILIUS EST, PRIUS NATURA ESSE VIDETUR; SOLENT AUTEM PLURES HONORATIORES MAGIS ET QUOS IPSI MAXIME venERANTUR PRIORES ESSE DICERE; EST AUTEM HIC MODUS PAENE ALIENISSIMUS. ATQUE HI QUIDEM QUI DICUNTUR MODI PRIORIS ISTI SUNT. Dicit prius videri, quod neque secundum tempus aliquoties neque secundum subsistendi consequentiam nec secundum ordinem sit sed quodcumque pretiosius fuerit, prius esse videatur, ut sol, luna prior est, et anima corpore, et animus anima. Hoc vero tali argumento probat, quod hi qui aliquos venerantur, et honorabiliores existimant, dicant eos apud se esse priores, et hi qui in rebus publicis plurimum possunt, priores dicuntur ab his qui eos maxime venerantur. Sed ut ipse ait, alienissimus est a significatione prioris hic quartus in nunc est dictus modus, etenim de his melius dici potest, ut dicantur venerabiliores et honorabiles, ut vero priores dicantur, abusio potius quam ulla proprietas est. Quintus modus quem ipse addidit huiusmodi est: VIDETUR AUTEM PRAETER EOS QUI DICTI SUNT ALTER ESSE PRIORIS MODUS; EORUM ENIM QUAE CONVERTUNTUR SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, QUOD ALTERIUS QUOMODOLIBET CAUSA EST DIGNE PRIUS NATURA DICITUR. QUONIAM AUTEM SUNT QUAEDAM TALIA, MANIFESTUM EST; NAM ESSE HOMINEM CONVERTITUR SECUNDUM SUBSISTENTIAE CONSEQUENTIAM AD VERUM DE EO SERMONEM; NAM, SI EST HOMO, VERUS SERMO EST QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO, ET CONVERTITUR (NAM, SI VERUS EST: SERMO QUO DICIMUS QUONIAM EST HOMO, HOMINEM ESSE NECESSE EST); EST AUTEM VERUS SERMO NULLO MODO CAUSA SUBSISTENDI REM, RES AUTEM VIDETUR QUODAMMODO CAUSA ESSE UT SERMO VERUS SIT; NAM, QUONIAM EST RES VEL NON EST, VERUS SERMO VEL FALSUS DICITUR. QUARE SECUNDUM QUINQUE MODOS PRIUS ALTERUM ALTERO DICITUR. Novimus quasdam res in praedicatione posse converti. Quod si una earum quae convertuntur alteri causa est, et veluti naturalem subsistentiam subministrat, illa naturaliter prius esse perhibetur. Ipse autem aptissimo quod proposuit affirmavit exemplo. Nam si est aliqua res, verum est de ea dicere, quoniam est. Rursus si de ea verum est dicere quoniam est, illam ipsam rem esse necesse est: ut quoniam est homo, verum est dicere quoniam est homo. Quod si verum est dicere quoniam est homo, nulla est dubitatio quin homo sit. Ergo quoniam duo haeo sibimet convertuntur, respiciamus nunc quae sit harum causa alteri, ut subsistere valeat, atque ut essa possit. Video autem rem dicto vero subsistentiae dare principium, nam quia homo est, idcirco verum est dicere de eo quoniam est sed non idcirco homo est, quoniam de eo vere dici potest, quoniam est. Res enim ut veritas adsit, dicto principium est sed non ut res subsistat, vero efficitur dicto. Quocirca prius est, esse hominem, posterius, verum de eo esse dictum. Idcirco quoniam quamvis convertantur, tamen una harum rerum alteri subsistendi causa est. Ait enim id esse prius inter ea quae convertuntur secundum essentiae consequentiam, quod alterius quomodolibet causa est. Ut in hoc ipso sermone de homine, convertuntur utraque quidem sed homo ut sit sermo verus, causa est atque principium. Quod Aristoteles ita ait: Est autem verus sermo nullo modo causa subsistendi rem. Res autem videtur quodammodo causa esse ut sermo verus sit. Neque enim idcirco res est, quoniam sermo est sed idcirco verus est sermo, quoniam res ipsa subsistit. Quocirca quinque hi prioris modi sunt, quorum superius quattuor dixit, secundum tempus, scilicet secundum id quod non convertitur ad subsistendi consequentiam, secundum ordinem, secundum reuerentiam, et secundum conversionem, cum altera res alii subsistendi causa est. Sed quoniam de priori dictum est, nunc de his quae simul sunt incipit. DE MODIS SIMUL SIMUL AUTEM DICUNTUR SIMPLICITER ET PROPRIE 286D QUORUM GENERATIO IN EODEM TEMPORE EST; NEUTRUM ENIM NEUTRO PRIUS EST AUT POSTERIUS; SIMUL AUTEM SECUNDUM TEMPUS ISTA DICUNTUR. Cum de prioribus disputaret, illa propria priora esse contenderat, quae secundum vim praecedentis temporis dicerentur, quare cum de his quae simul sun. disputat, idem reuocat, et recte. Nam si maximum modum prioris solum efficiet tempus, cur quoque non simul editam naturam tempus efficiet? Ait ergo, et simpliciter et proprie dici simul esse ea, quae unius temporis ortu prolata sint, ut si illa sint antiquiora atque priora, quaecumque non aequali sed praecedenti tempore proferuntur, quae se temporibus non praecedunt, rectissime simul esse ponuntur. Quae enim uno tempore edita atque prolata sunt, illa secundum tempus simul esse dicuntur, id est simul naturale principium substantiamque sortitu, atque haec quidem secundum tempus simul esse dicuntur. Secundum naturam vero simul esse perhibentur, quaecumque invicem ad se convertuntur, cum altera res alteri subsistendi, neque causa sit, neque principium, ut sunt huiusmodi, duplum et medium: nam cum sit duplum, medium est; cum rursus sit medium, duplum est. Seruus quoque et dominus eodem modo sunt, filius quoque et pater. Haec enim quaecumque illata quidem inferunt alia, sublata vero aut erunt simul, sibimet semper invicem convertuntur: nam si dicam patrem, filium quoque intelligi necesse est; si dixero filium, pater mox sub intelligentiam cadit. Quod si alterum sustulero, utraque perimo: nam si tollam filium, pater non est; si patrem abstulero, filium quoque perire necesse est. Atque haec ita sibimet ipsa convertuntur, ut tamen altera res alteri causa penitus non sit: nam quoniam pater filio in praedicatione convertitur manifestum est sed neque pater fiiio causa est ut sit, nec filius patri, hoc autem huiusmodi est. Si Aeneas habuit Ascanium filium, non dicimus, quoniam non fuit Aeneas causa ut esset Ascanius sed non fuit pater causa ut esset filius. Nam quod dico Ascanius, quaedam propria substantia est, quod dico filius, esse non potest, nisi ad aliquid referatur, et cum Aeneam nomino, substantiam dixi, si patrem appello, nulla ratione constat, nisi ad filium referatur.  Igitur causa fuit Aeneas ut esset Ascanius sed non est causa pater ut esset filius. Pater namque tunc fit cum filius fuerit. Quod si haec tempore ipso priora non sunt, causa autem cuiuslibet rei prior est quam illa cuius causa est, ut oriatur, nulla dubitatio est, quin pater atque filius, quae utraeque praedicationes aequales sunt tempore, neutra neutri causa sit, cum tamen substantiae ipsae sibi ut sint, causa sint praedicationis. Nec ullo modo simile debet videri ei quod paulo ante dictum est de homine, esse verum de eo sermonem, scilicet quoniam est. Illic enim cum res esset, tunc poterat esse verus de ea sermo. Prius enim est ut sit aliquid, post vero ut de eo verum aliquid esse dicatur. Nunc vero non ita est ut prius aliquis sit pater, post vero filius. Mox enim ut pater est, filium esse necesse est, mox ut est filius, patris sine dubio praedicatio consequitur, quemadmodum ergo iste modus fit, qui scilicet simul secundum naturam est, Aristoteles ita pronuntiat. NATURALITER AUTEM SIMUL SUNT QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM SUBSISTENDI CONSEQUENTIAM, SI NULLO MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA SIT, UT DUPLUM ET MEDIUM; CONVERTUNTUR ENIM ISTA (NAM CUM SIT DUPLUM EST MEDIUM, ET CUM SIT MEDIUM EST DUPLUM), NEUTRUM VERO NEUTRI SUBSISTENDI CAUSA EST. In his quae ita priora esse dicebatur, ut couuerterenlur, quamvis secundum essentiam eorum consequentia esset, tamen quia in his alia res alii causa atque principium est, hoc erat quod una prior esse 288A videretur, ea quidem cuius causa erat. Quod distat ab iis quae convertuntur, et se invicem auferunt, quae cum neutra neutri causa sit, et tamen convertuntur, digne simul naturaliter esse perhibentur.ET EA QUAE EX EODEM GENERE IN CONTRARIUM DIVIDUNTUR SIMUL NATURA ESSE DICUNTUR. IN CONTRARIUM VERO DIVIDI DICUNTUR SECUNDUM EANDEM DIVISIONEM, UT VOLATILE, GRESSIBILE ET AQUATILE; HAEC ENIM IN CONTRARIUM DIVIDUNTUR, CUM EX EODEM GENERE SINT; ANIMAL ENIM DIVIDITUR IN VOLATILE, GRESSIBILE ET AQUATILE, ET NULLUM HORUM PRIUS EST VEL POSTERIUS SED SIMUL HAEC VIDENTUR ESSE NATURA. Tertium modum eorum quae simul sunt hunc addidit, illa quoque simul esse, quae aequali divisione sub genere ponantur, ut si ponat quis animal genus hominis et equi, hominem vero et equum a genere, id est ab animali dividat, homo vero et equus quoniam sub eodem genere sunt, simul esse natura dicuntur. Et conveniens regula est in omnibus quibuscumque generibus, cum enim specierum divisiones fiunt, illic species natura simul sunt, et si sub his ipsis speciebus quaedam alia ponantur, inter se etiam ipsa simul esse natura dicuntur. Dividatur enim genus, id est animali in volatile atque in gressibile, et quoniam sunt sub eodem genere, simul natura sunt. Et si quid horum in subiectas partes speciesque solvatur, ut volutile quidem in his avibus quae seminibus uescuntur, et in iis quae carnibus, et in his quae herbis, hae tres species rursus, quae sub volatili sunt, simul esse naturaliter appellantur, quod Aristoteles ita dicit. DIVIDITUR AUTEM ET UNUMQUODQUE EORUM IN SPECIES ITERUM SECUNDUM EANDEM DIVISIONEM, UT GRESSIBILE ANIMAL ET VOLATILE ET AQUATILE. ERUNT IGITUR ET ILLA SIMUL NATURA, QUAECUMQUE EX EODEM IPSO GENERE SECUNDUM EANDEM SUBDIVISIONEM SUNT, GENERA AUTEM SEMPER PRIORA SUNT; NON ENIM CONVERTUNTUR SECUNDUM SUBSTANTIAE CONSEQUENTIAM, UT AQUATILE QUIDEM CUM SIT EST ANIMAL, ANIMAL VERO CUM SIT, NON NECESSE EST ESSE AQUATILE. SIMUL ERGO NATURA ESSE DICUNTUR QUAECUMQUE CONVERTUNTUR QUIDEM SECUNDUM ESSENTIAE CONSEQUENTIAM, NULLO AUTEM MODO ALTERUM ALTERI SUBSISTENDI CAUSA EST, ET EX EODEM GENERE QUAE IN CONTRARIUM SIBI DIVIDUNTUR; SIMPLICITER AUTEM SIMUL SUNT QUORUM GENERATIO IN EODEM TEMPORE EST. Atque idcirco fieri non potest ut genus habeat unam speciem. Nam si quaecumque sub genere sunt, simul sunt. Simul autem nisi plura esse non possunt, genus igitur sub se unam speciem habere non potest Si enim una fuerit, fieri non potest ut simul esse dicatur, quia illud est, quod eub eodem genere quaedam res solent quae simul sint naturaliter inveniri. Sed haec de speciebus. Genera autem semper priora sunt, non enim convertuntur secundam subsistentiae consequentiam. Prioris unus modus est secundum quem illa priora esse dicerentur quaecumque ad subsistendum nullo modo converterentur, quod hoc idem in generibus cadit. Genera enim non convertuntur ad eubsistentiae consequentiam hoc modo. Sit enim animal genus, homo vero species. Cum vero dico hominem esse, animal quoque esse consequitur. Si animal dixero, ad hominem subsistentiae consequentia non convertitur. Potest enim esse animal, non tamen homo. Quocirca ab animali ad hominem non convertitur subsistentiae consequentia. Quod si posito homine animal constat, animali vero nominato non est necesse hominem esse, animal est prive homine. Illa quoque priorum descriptio est, quod ea quae sunt priora sublata quidem auferunt, illata non inferunt Animal enim sublatum secum quoque hominem tollet, illatum vero ut dicatur esse animal, non secum statim hominem infert. Posteriora vero et diverso sunt. Illata enim simul inferunt, sublata non auferunt. Dictus quidem homo, simul secum animal infert, omnis namque homo animal est. Quod si homo substantialiter auferatur, non est necesse animal quoque autem, quod hoc nomen animalis in pluribus speciebus valet aptari. Quod si ita contingit, sublato homine permanebit animal. Quocirca concludit tres esse species eorum quae simul sunt secundum tempus, secundum naturam cum ulraque ita convertuntur, ut neutra neutri causa sit. Tertium genus est secundum eamdem sub eodem genere divisionem. Quoniam in faciendo atque patiendo inerat quidam motus, facere autem et pati praedicamentis ad iunxerat, idcirco nunc de motibus tractat, et sex numero esse pronuntiat. DE SPECIEBUS MOTUS MOTUS VERO SUNT SPECIES SEX: GENERATIO, CORRUPTIO, CREMENTUM, DIMINUTIO, COMMUTATIO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO. ALII QUIDEM MOTUS MANIFESTUM EST QUONIAM A SE INVICEM DIVERSI SUNT; NEQUE ENIM EST GENERATIO CORRUPTIO, NEC CREMENTUM DIMINUTIO NEC SECUNDUM LOCUM TRANSLATIO; SIMILITER AUTEM ET CAETERAE. In physicis Aristoteles motus species alia ratione partitus est. Ait enim aliud esse permutationem, aliud motum, et permutationis quidem duas esse species ait generationem et corruptionem. Motus verotres secundum quantitatem, secundum qualitatem, secundum locum. Igitur, quoniam hic liber ad introductionem quodammodo factus est, noluit nimis divisionis attenuare rationem, ne ingredientium animos subtiliori divisione confunderet: facit igitur divisionem motus hoc modo. Est enim una species motus secundum substantiam, alia secundum quantitatem, alia secundum qualitatem, alia secundum locum. Et secundum substantiam quidem est generatio et corruptio, haec enim utraque in substantia fiunt. Nam et secundum substantiam generatur aliquid, et secundum substantiam corrumpitur. Secundum quantitatem vero, ut crementum et diminutio. Etenim secundum quantitatem vel aucta crevisse, vel detracta diminuta esse dicuntur. Secundum qualitatem vero quae dicitur commutatio, secundum aliquas scilicet passiones, quas qualitates esse manifestum est. Secundum locum vero, ut intus in longitudinem, vel in curuaturam flexus; et intus quidem in longitudinem est ut a sursum in deorsum, a prioribus retrorsum, a dextra in sinistram; et rursus si haec convertas et in directum pergas, idem motus 290A erunt. Illud quoque verum est has esse omnes species motus, nullo namque sibi participant, nisi solo generis nomine, quod motus dicuntur nam neque generatio idem est quod corruptio, namque generatio est in substantia ingressus, corruptio vero ex substantia egressus. Nec diminutio idem quod crementum, nec secundum locum translatio alicui superiorum consimilis est. Commutatio autem habet forte aliquam dubitationem, quod non videatur a superioribus discrepare, quam quaestionem ita proposuit. IN COMMUTATIONE VERO EST ALIQUA DUBITATIO, NE FORTE NECESSE SIT QUOD COMMUTATUR SECUNDUM ALIQUEM RELIQUORUM MOTUUM COMMUTARI. HOC AUTEM NON EST VERUM; PAENE ENIM SECUNDUM OMNES PASSIONES VEL 290B MULTAS COMMUTARI NOBIS CONTINGIT NULLO ALIORUM MOTUUM COMMUNICANTE; NAM NEQUE CRESCERE NECESSE EST QUOD SECUNDUM PASSIONEM MOVETUR NEC DIMINUI, SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS: QUARE DIVERSUS ERIT MOTUS AB ALIIS COMMUTATIONIBUS (NAM SI IDEM ESSET, OPORTERET OMNE QUOD COMMUTATUR MOX AUT CRESCERE AUT MINUI AUT ALIQUEM ALIORUM MOTUUM CONSEQUI; SED NON EST NECESSE). SIMILITER AUTEM ET QUOD CRESCIT VEL SECUNDUM QUEMLIBET ALTERUM MOTUM MUTATUR. In commutatione vero est aliqua dubitatio, ne forte necesse sit quod commutatur secundum aliquem reliquorum motaum commutari. Nam si omne quod commutatur, aut generatur, aut corrumpitur, aut minuitur aut crescit, aut id secundum locum transferri 290C necesse est, dubium non est nihil a superioribus caeteris hanc differe speciem, qua secundum commutationem dicitur; quod Aristoteles respuit, dicens: HOC AUTEM NON EST VERUM. Sed quoniam quod oommutatur non omnino neque generatur, neque corrumpitur: ut qui in sole diutius stetit, si ex candido niger est factus, commutatus quidem secundum colorem dicitur, non tamen generatus est aut corruptus, nec vero illi aliquod vel crementum factum est vel diminutio sed nec loci translatio nulla est, potest enim aliquis uno eodemque loco consistens, aliquibus extrinsecus venientibus passionibus permutari, potest quoque et crescere et decrescere, praeter qualitatis commutationem: quod ipse Aristoteles ita pronuntiat. SED SUNT QUAEDAM QUAE CRESCUNT ET NON COMMUTANTUR, UT QUADRATUM CIRCUMPOSITO GNOMONE CREVIT QUIDEM SED COMMUTATUM NON EST; SIMILITER AUTEM ET IN ALIIS HUIUSMODI. QUARE A SE INVICEM MOTUS ISTI DIVERSI SUNT. Quod dicit tale est: Si quadrato, inquit, addatur gnomo, crescit quidem quadratus, non tamen commutatur. Ideoque sublato gnomone quadratus diminuitur sed non commutatur. Si enim quadratus a b c d, et ducatur ei angularis b c, et dividantur quattuor latera a c, a b, b d, a c, in aequalia g e h f punctis, et ducantur g h f e lineae. Divisus igitur quadratus a d in quattuor quadratos qui sunt e g, f g, e h, h f, quorumlibet tres qui circa eamdem angularem sunt si demantur, figura ipsa gnomo vocatur. ut si quis tollat hos tres, e g, g f, f h, invenitur m n 291A gnomo, qui m n gnomo separatur a b e h quadrato. Totus quidem a d quadratus imminutus est, qui ex tam magno factus est paruus, non tamen formam tetragoni commutavit. Quod si e h tetragonus solus sit, et ei circumponatur gnomo, qui est m n, crevit quidem tetragonus, et maior factus est sed non commutatus est. Omnes enim tetragoni sibi sunt propria qualitate consimiles. Quod si commutatio huiusmodi motus esset, ut non omnino a superioribus separaretur, nulla esset dubitatio quin semper oporteret quidquid commutatur secundum aliquem priorum motuum modum commutari. Ita ut aut nasceretur, aut corrumperetur, aut minveretur, aut cresceret, aut secundum locum fieret aliqua permutatio. Quod quoniam non est, ab omnibus superioribus 291B motibus haec motus species distat. Sed monstratum superius est quinque superiores motus species a se omni ratione substantia, discrepare. Quocirca distant a se similiter hi sex motus, atque diversi sunt. SIMPLICITER AUTEM MOTUS QUIETI CONTRARIUS EST; SINGULIS VERO MOTIBUS, GENERATIONI QUIDEM CORRUPTIO, DIMINUTIO VERO CREMENTO, SECUNDUM LOCUM TRANSLATIONI SECUNDUM LOCUM QUIES. MAXIME AUTEM VIDETUR OPPONI IN CONTRARIUM LOCUM PERMUTATIO, UT DE EO QUOD EST DEORSUM AD ID QUOD EST SURSUM ET DE EO QUOD EST SURSUM AD ID QUOD EST DEORSUM. Nunc iam motuum contrarietates exsequitur, et ipsi 291D quidem generi, id est motui, dicit quietem esse contrariam, habet enim motus quietem contrariam. Singulis vero speciebus motuum motus ipsi contrarii sunt, ut generationi corruptio, et cum generatio sit motus atque corruptio, utraque tamen sibimet contraria sunt, cremento quoque diminutio contraria est. Quare diverso modo hae species motus contrarietstem habent, quam genus dudum babere monstravimus: motus enim ipse habet quietem contrariam. Specierum vero motibus non quies tantum sed alii motus contrarii sunt, ut generationi corruptio et cremento diminutio, secundum vero locum translationis contrarietas similis est generi. Nam et ipsa habet contrariam secundum locum quietem, contrarium namque est moveri de loco in locum, et 292A non moveri, et est non moveri quidem secundum locum quies, moveri vero secundum locum translation. Maxime autem, inquit, secundum locum mutationi, contraria est in contrarium locum permutatio. Ut si qua res sursum sit atque ibi maneat, et sit quieta, postea sit ei motus talis, ut deorsum moveatur, quamquam ipsi superiori motui quies contraria sit, multo magis quidem huiusmodi motus, qui in contrarium fit locum, illi superiori motui contrarius est. Atque hoc quidem et in aliis motibus accidit: ut si quis sit ad dexteram, si ei in sinistram motus sit, in contrarium locum factus dicitur motus. Atque hoc idem id aliis motibus licet videre; sed Aristoteles dubitat si reliquo motui, id est commutationi, aliquid possit esse contrarium, quam quaestionem ita proponit: RELIQUO VERO DE HIS QUI ASSIGNATI SUNT MOTUI NON EST FACILE ASSIGNARE QUID SIT CONTRARIUM, VIDETUR AUTEM NEQUE ESSE ALIQUID EI CONTRARIUM, NISI QUIS OPPONAT SECUNDUM QUALITATEM QUIETEM SECUNDUM QUALITATEM TRANSLATIONI QUAE IN CONTRARIUM, QUEMADMODUM ETIAM IN EA QUAE EST SECUNDUM LOCUM TRANSLATIONE SECUNDUM LOCUM QUIETEM VEL IN CONTRARIUM LOCUM TRANSLATIONEM (EST ENIM COMMUTATIO TRANSLATIO SECUNDUM QUALITATEM). Ex similitudine motuum contrarietates quoque colligimus. Nam quoniam superius motui secundum locum contrariam reperit secundum locum quietem, et quoniam omnis commutatio quae secundum aliquam passionem fit secundum qualitatem commutatur, 292C motus eius contrarietatem posuit secundum qualitatem quietem: ut si lapis cum frigidus est, si ita permaneat, qualitas illa mansit et quievit, quod si tepeat, qualitas illa commutat est, et est ipsa commutatio contraria, et factus est quidem motus, et in tepore lapidis secundum qualitatem facta est permutatio, fuit autem in frigore quies secundum eamdem qualitatem. Quocirca licet videatur hic motus quidem omnino contrarium non habere, tamen, sicut superius dictum est secundum locum translationi contrariam esse secundum locum quietem, cur non quoque secundum qualitatem commutationi dicatur quies secundum qualitatem esse contraria? Definitio namque commutationis est translatio secundum qualitatem, cum enim qualitas cuiuslibet rei movetur, fit translatio, scilicet secundum qualitatem. Quod si maxime videatur secundum locum translationi esse contraria, non solum secundum locum quies sed etiam in contrarium locum translatio, secundum qualitatem quoque mutationi non solum erit contraria secundum qualitatem quies sed maxime in contrariam qualitatem commutatio: ut ei quid cum est album, si rubrum fiat, quieti quidem ei quae in albo colore poterat permanere contraria fuit qualitatis ipsa mutatio, ut ex albo in rubrum mutaretur; si quid enim ex albo vertatur in nigrum, illud maxime permutatur, et illud superiori mutationi contrarium est, quoniam permutatum est in contrariam qualitatem. Atque hoc est quod ait: QUARE OPPONITUR EI SECUNDUM QUALITATEM QUIES VEL IN CONTRARIUM QUALITATIS TRANSLATIO, UT ALBUM FIERI QUOD EST NIGRUM; COMMUTATUR ENIM, IN CONTRARIUM QUALITATIS FACTA TRANSLATIONE. Id quoque apertissimo uulgatur exemplo. Quare quoniam de motibus expeditum est, habendi aequivocationem quae sequitur explicemus. DE MODIS HABERE HABERE SECUNDUM PLURES MODOS DICITUR AUT ENIM UT HABITUM VEL AFFECTIONEM VEL ALIAM ALIQUAM QUALITATEM (DICIMUR ENIM SCIENTIAM HABERE ET VIRTUTEM); AUT UT QUANTITATEM, UT QUAM QUISQUE HABET MAGNITUDINEM (DICITUR ENIM BICUBITAM VEL TRICUBITAM HABERE MAGNITUDINEM); AUT CIRCA CORPUS UESTITUM AUT TUNICAM; AUT IN PARTE (UT IN MANU ANULUM); AUT PARTEM (UT MANUM VEL PEDEM); AUT IN UASE (UT MODIUS TRITICUM VEL DOLIUM VINUM; VINUM ENIM DOLIUM HABERE DICITUR, ET MODIUS TRITICUM; HAEC IGITUR HABERE DICUNTUR UT IN VASE); VEL UT POSSESSIONEM (HABERE ENIM DOMUM VEL AGRUM DICIMUR). DICIMUR VERO ET HABERE UXOREM ET UXOR VIRUM; VIDETUR AUTEM ALIENISSIMUS ESSE HABENDI MODUS QUI NUNC DICTUS EST; NIHIL ENIM ALIUD HABERE UXOREM SIGNIFICAT QUAM COHABITARE. FORTASSE AUTEM ET ALII HABENDI MODI vidEBUNTUR; QUI AUTEM SOLENT DICI PAENE OMNES SUNT ANNUMERATI. Aequivocum esse habendi modum manifestum est, 293C habere enim ita multis dicitur modis, ut tamen aequivoce praedicetur. Dicimur enim habere aliquam qualitatem, ut habitum vel dispositionem. Dicimur quoque habere scientiam vel virtutem; quantitatem quoque habere perhibemur, dicimur enim in mensura habere quinque vel quattuor pedes. Necnon etiam in ipsis partibus corporis aliquid, et ipsas partes habere praedicamur, dicimur enim et habere digitos, et in digito annulos. Circa corpus quoque aliquid habere dicimur, ut tunicam, vel quodlibet aliud uestimentum. Necnon etiam in uase haberi aliquid dicitur, ut triticum in modio, et vinum in dolio; haec, scilicet, ita haberi dicuntur, ut in uase. Dicitur etiam quis habere uxorem, quae, scilicet significatio nulli supradictae communis est sed (ut ipsi Aristoteli videtur) longe diversa est haec significatio ab habendi praedicamento; non enim proprie habemus uxores sed quod habere quis dicatur uxorem, hoc significat habitare cum eo uxorem, habere enim habitare dicimus, ut est Socratem habent, id est cum Socrate habitant atque eum colunt. Quare ipse quoque Aristoteles inquit esse aliquos fortasse praeter eos qui dicantur habendi modos, hortaturque nos ad ulteriorem aliquam inquisitionem, ut nos quoque quaeramus per quos, praeter priores dictos modos, alios possit habere praedicari. Et de hac aequivocatione quidem habendi sufficienter dictum est. Sed forte quis dubitet cur cum habere superius in genere nominaverit, nunc id ipsum aequivocum ponat sed haec quaestio ita solvitur. Non absurdum est idem praedicamentum nunc univoce, nunc aequivoce praedicari. Univoce quidem ut superius cum eiusdem specierum exempla proposuit, ut est calceatum esse vel armatum, horum enim talium genus est. Aequivoce vero ut in his modis quos superius exposuimus. Quod si et habet aliquas proprias species habendi praedicatio, dicitur autem et ipsum nomen multipliciter, nihil est incongruum in genere numerari, sufficit enim ad demonstrandum genus esse et habendi praedicationem quod sub se aliquas partes speciesque contineat. EXPLICIT FELICITER.  Alexander in commentariis suis hac se impulsum causa pronuntiat sumpsisse longissimum expositionis laborem, quod in multis ille a priorum scriptorum sententiis dissideret: mihi maior persequendi operis causa est quod non facile quisquam vel transferendi vel etiam commentandi continuam sumpserit seriem – nisi quod Vetius Praetextatus priores ƿ postremosque analyticos non vertendo Aristotelem Latino sermoni tradidit sed transferendo Themistium, quod qui utrosque legit facile intellegit; Albinus quoque de isdem rebus scripsisse perhibetur, cuius ego geometricos quidem libros editos scio, de dialectica vero diu multumque quaesitos reperire non valui, sive igitur ille omnino tacuit, nos praetermissa dicemus, sive aliquid scripsit, nos quoque docti viri imitati studium in eadem laude versabimur. Sed quamquam multa sint Aristotelis quae subtilissima philosophiae arte celata sint, hic tamen ante omnia liber nimis et acumine sententiarum et verborum brevitate constrictus est. Quocirca plus hic quam in decem praedicamentis expositione sudabitur. Prius igitur quid vox sit definiendum est. Hoc enim perspicuo et manifesto omnis libri patefiet intentio. Vox est aeris per linguam percussio quae per quasdam gutturis partes, quae arteriae vocantur, ab animali profertur. Sunt enim quidam alii soni, qui eodem perficiuntur flatu, quos lingua non percutit, ut est tussis. Haec enim flatu fit quodam per arterias egrediente sed nulla linguae impressione formatur atque ideo nec ullis subiacet elementis, scribi enim nullo modo potest. Quocirca vox haec non dicitur sed tantum sonus. Illa quoque potest esse definitio vocis, ut eam dicamus sonum esse cum quadam imaginatione significandi. Vox namque cum emittitur, significationis alicuius causa profertur. Tussis vero cum sonus sit, nullius significationis causa subrepit ƿ potius quam profertur. Quare quoniam noster flatus ita sese habet ut si ita percutitur atque formatur ut eum lingua percutiat, vox sit: si ita percutiat ut terminato quodam et circumscripto sono vox exeat, locutio fit quae Graece dicitur *lexis*. Locutio enim est articulata vox – neque enim hunc sermonem (id est *lexin*) dictionem dicemus, idcirco quod *phasin* dictionem interpretamur, *lexin* vero locutionem – cuius locutionis partes sunt litterae, quae cum iunctae fuerint unam efficiunt vocem coniunctam compositamque, quae locutio praedicatur. Sive autem aliquid quaecumque vox significet, ut est hic sermo 'homo'; sive omnino nihil; sive positum alicui nomen significare possit, ut est 'blityri' (haec enim vox per se cum nihil significet, posita tamen ut alicui nomen sit significabit); sive per se quidem nihil significet, cum aliis vero iuncta designet, ut sunt coniunctiones – haec omnia locutiones vocantur, ut sit propria locutionis forma vox composita quae litteris describatur. Ut igitur sit locutio, voce opus est – id est eo sono quem percutit lingua, ut et vox ipsa sit per linguam determinata in eum sonum qui inscribi litteris possit. Sed ut haec locutio significativa sit, illud quoque addi oportet, ut sit aliqua significandi imaginatio, per quam id quod in voce vel in locutione est proferatur: ut certe ita dicendum sit: si in hoc flatu, quem per arterias emittimus, sit linguae sola percussio, vox est; sin vero talis percussio sit ut in litteras redigat sonum, locutio; quod si vis quoque quaedam imaginationis addatur, ƿ illa significativa vox redditur. Concurrentibus igitur his tribus: linguae percussione, articulato vocis sonitu, imaginatione aliqua proferendi fit interpretatio. Interpretatio namque est vox articulata per se ipsam significans. Quocirca non omnis vox interpretatio est. Sunt enim caeterorum animalium voces, quae interpretationis vocabulo non tenentur. Nec omnis locutio interpretatio est, idcirco quod (ut dictum est) sunt locutiones quaedam quae significatione careant et cum per se quaedam non significent, iunctae tamen cum aliis significant, ut coniunctiones. Interpretatio autem in solis per se significativis et articulatis vocibus permanet. Quare convertitur, ut quidquid sit interpretatio, illud significet, quidquid significat, interpretationis vocabulo nuncupetur. Unde etiam ipse quoque Aristoteles in libris quos de poetica scripsit locutionis partes esse syllabas vel etiam coniunctiones tradidit, quarum syllabae in eo quod sunt syllabae nihil omnino significant, coniunctiones vero consignificare quidem possunt, per se vero nihil designant. Interpretationis vero partes hoc libro constituit nomen et verbum, quae scilicet per se ipsa significant, nihilominus quoque orationem, quae et ipsa cum vox sit ex significativis partibus iuncta significatione non caret. Quare quoniam non de oratione sola sed etiam de verbo et nomine, nec vero de sola locutione sed etiam de significativa locutione quae est interpretatio hoc libro ab Aristotele tractatur, idcirco quoniam in ƿ verbis atque nominibus et in significativis locutionibus nomen interpretationis aptatur, a communi nomine eorum, de quibus hoc libro tractabitur, id est ab interpretatione, ipse quoque "De interpretatione" liber inscriptus est. (Cuius expositionem nos scilicet quam maxime a Porphyrio quamquam etiam a caeteris transferentes Latina oratione digessimus; hic enim nobis expositor et intellectus acumine et sententiarum dispositione videtur excellere.) Erunt ergo interpretationis duae primae partes nomen et verbum. His enim quidquid est in animi intellectibus designatur; his namque totus ordo orationis efficitur. Et in quantum vox ipsa quidem intellectus significat, in duas (ut dictum est) secatur partes, nomen et verbum, in quantum vero vox per intellectuum medietatem subiectas intellectui res demonstrat, significantium vocum Aristoteles numerum in decem praedicamenta partitus est. Atque hoc distat libri huius intentio a praedicamentorum in denariam multitudinem numerositate collecta, ut hic quidem tantum de numero significantium vocum quaeratur, quantum ad ipsas attinet voces, quibus significativis vocibus intellectus animi designentur, quae sunt scilicet simplicia quidem nomina et verba, ex his vero compositae orationes: praedicamentorum vero haec intentio est: de significativis rerum vocibus in tantum, quantum eas medius animi significet intellectus. Vocis enim quaedam qualitas est nomen et verbum, quae nimirum ipsa illa decem praedicamenta significant. Decem namque praedicamenta numquam sine aliqua verbi qualitate vel nominis proferentur. Quare erit libri huius intentio de significativis vocibus in tantum, quantum conceptiones ƿ animi intellectusque significent. De decem praedicamentis autem libri intentio in eius commentario dicta est, quoniam sit de significativis rerum vocibus, quot partibus distribui possit earum significatio in tantum, quantum per sensuum atque intellectuum medietatem res subiectas intellectibus voces ipsae valeant designare. In opere vero de poetica non eodem modo dividit locutionem sed omnes omnino locutionis partes apposuit confirmans esse locutionis partes elementa, syllabas, coniunctiones, articulos, nomina, casus, verba, orationes. Locutio namque non in solis significativis vocibus constat sed supergrediens significationes vocum ad articulatos sonos usque consistit. Quaelibet enim syllaba vel quodlibet nomen vel quaelibet alia vox, quae scribi litteris potest, locutionis nomine continetur, quae Graece dicitur *lexis*. Sed non eodem modo interpretatio. Huic namque non est satis, ut sit huiusmodi vox quae litteris valeat annotari sed ad hoc ut aliquid quoque significet. Praedicamentorum vero in hoc ratio constituta est, in quo hae duae partes interpretationis res intellectibus subiectas designent. Nam quoniam decem res omnino in omni natura reperiuntur, decem quoque intellectus erunt, quos intellectus quoniam verba nominaque significant, decem omnino erunt praedicamenta, quae verbis atque nominibus designentur, duo vero quaedam id est nomen et verbum, quae ipsos significent intellectus. Sunt igitur elementa interpretationis verba et nomina, propriae vero partes quibus ipsa constat interpretatio sunt orationes. Orationum vero aliae sunt perfectae, aliae imperfectae. Perfectae sunt ex quibus plene id quod dicitur valet intellegi; imperfectae in quibus aliquid adhuc plenius animus exspectat audire, ut est: Socrates cum Platone  nullo enim addito orationis intellectus pendet ac titubat et auditor aliquid ultra exspectat audire. Perfectarum vero orationum partes quinque sunt: deprecativa ut: Iuppiter omnipotens, precibus si flecteris ullis, Da deinde auxilium, pater atque haec omina firma  imperativa ut: Vade age, nate, voca Zephyros et labere pennis  interrogativa ut: Dic mihi, Damoeta, cuium pecus? An Meliboei?  vocativa: O pater, o hominum rerumque aeterna potestas  enuntiativa, in qua veritas vel falsitas invenitur, ut: Principio arboribus varia est natura serendis.  Huius autem duae partes sunt. Est namque et simplex oratio enuntiativa et composita. Simplex ut: ‘Dies est’, ‘Lucet’, conposita ut: ‘Si dies est, lux est.’ In hoc igitur libro Aristoteles de enuntiativa simplici oratione disputat et de eius elementis, nomine scilicet atque verbo. Quae quoniam et significativa sunt et significativa vox articulata interpretationis nomine continetur, de communi (ut dictum est) vocabulo librum de interpretatione appellavit. Et Theophrastus quidem in eo libro, quem de affirmatione et negatione composuit, de enuntiativa oratione tractavit. Et Stoici quoque in his libris, quos *Peri axiomaton* appellant, de isdem ƿ nihilominus disputant. Sed illi quidem et de simplici et de non simplici oratione enuntiativa speculantur, Aristoteles vero hoc libro nihil nisi de sola simplici enuntiativa oratione considerat. Aspasius quoque et Alexander sicut in aliis Aristotelis libris in hoc quoque commentarios ediderunt sed uterque Aristotelem de oratione tractasse pronuntiat. Nam si oratione aliquid proferre (ut aiunt ipsi) interpretari est, de interpretatione liber nimirum veluti de oratione perscriptus est, quasi vero sola oratio ac non verba quoque et nomina interpretationis vocabulo concludantur. Aeque namque et oratio et verba ac nomina, quae sunt interpretationis elementa, nomine interpretationis vocantur. Sed Alexander addidit imperfecte sese habere libri titulum: neque enim designare, de qua oratione perscripserit. Multae namque (ut dictum est) sunt orationes; sed adiciendum vel subintellegendum putat de oratione illum scribere philosophica vel dialectica, id est qua verum falsumque valeat expediri. Sed qui semel solam orationem interpretationis nomine vocari recipit, in intellectu quoque ipsius inscriptionis erravit. Cur enim putaret imperfectum esse titulum, quoniam nihil de qua oratione disputaret adiecerit? Ut si quis interrogans "Quid est homo?" alio respondente "Animal" culpet ac dicat imperfecte illum dixisse, quid sit, quoniam non sit omnes differentias persecutus. Quod si huic, id est homini, sunt quaedam alia communia ad nomen animalis, nihil tamen impedit perfecte demonstrasse, quid homo esset, eum qui animal dixit: sive enim differentias addat quis sive non, hominem animal esse necesse est. Eodem quoque modo et de oratione, si quis hoc concedat primum, nihil aliud interpretationem dici nisi orationem, ƿ cur qui de interpretatione inscripserit et de qua interpretatione dicat non addiderit culpetur, non est. Satis est enim libri titulum etiam de aliqua continenti communione fecisse, ut nos eum et de nominibus et verbis et de orationibus, cum haec omnia uno interpretationis nomine continerentur, supra fecisse docuimus, cum hic liber ab eo de interpretatione notatus est. Sed quod addidit illam interpretationem solam dici, qua in oratione possit veritas et falsitas inveniri, ut est enuntiativa oratio, fingentis est (ut ait Porphyrius) significationem nominis potius quam docentis. Atque ille quidem et in intentione libri et in titulo falsus est sed non eodem modo de iudicio quoque libri huius erravit. Andronicus enim librum hunc Aristotelis esse non putat, quem Alexander vere fortiterque redarguit. Quem cum exactum diligentemque Aristotelis librorum et iudicem et repertorem iudicarit antiquitas, cur in huius libri iudicio sit falsus, prorsus est magna admiratione dignissimum. Non esse namque proprium Aristotelis hinc conatur ostendere, quoniam quaedam Aristoteles in principio libri huius de intellectibus animi tractat, quos intellectus animae passiones vocavit, et de his se plenius in libris de anima disputasse commemorat. Et quoniam passiones animae vocabant vel tristitiam vel gaudium vel cupiditatem vel alias huiusmodi affectiones, dicit Andronicus ex hoc probari hunc librum Aristotelis non esse, quod de huiusmodi affectionibus nihil in libris de anima tractavisset – non intellegens in hoc libro Aristotelem passiones animae non pro affectibus sed pro intellectibus posuisse. His Alexander multa alia addit argumenta, cur hoc opus Aristotelis maxime esse videatur. Ea namque dicuntur hic, quae sententiis Aristotelis quae sunt de enuntiatione ƿ consentiant; illud quoque, quod stilus ipse propter brevitatem pressior ab Aristotelis obscuritate non discrepat; et quod Theophrastus, ut in aliis solet, cum de similibus rebus tractat, quae scilicet ab Aristotele ante tractata sunt, in libro quoque de affirmatione et negatione, isdem aliquibus verbis utitur, quibus hoc libro Aristoteles usus est. Idem quoque Theophrastus dat signum hunc esse Aristotelis librum: in omnibus enim, de quibus ipse disputat post magistrum, leviter ea tangit quae ab Aristotele dicta ante cognovit, alias vero diligentius res non ab Aristotele tractatas exsequitur. Hic quoque idem fecit. Nam quae Aristoteles hoc libro de enuntiatione tractavit, leviter ab illo transcursa sunt, quae vero magister eius tacuit, ipse subtiliore modo considerationis adiecit. Addit quoque hanc causam, quoniam Aristoteles quidem de syllogismis scribere animatus numquam id recte facere potuisset, nisi quaedam de propositionibus annotaret. Mihi quoque videtur hoc subtiliter perpendentibus liquere hunc librum ad Analyticos esse praeparatum. Nam sicut hic de simplici propositione disputat, ita quoque in Analyticis de simplicibus tantum considerat syllogismis, ut ipsa syllogismorum propositionumque simplicitas non ad aliud, nisi ad continens opus Aristotelis pertinere videatur. Quare non est audiendus Andronicus, qui propter passionum nomen hunc librum ab Aristotelis operibus separat. Aristoteles autem idcirco passiones animae 'intellectus' vocabat, quod intellectus, quos sermone dicere et oratione proferre consuevimus, ex aliqua causa atque utilitate profecti sunt: ut enim dispersi homines colligerentur et legibus vellent esse subiecti civitatesque condere, utilitas quaedam fuit et causa. Quocirca ƿ quae ex aliqua utilitate veniunt, ex passione quoque provenire necesse est. Nam ut divina sine ulla sunt passione, ita nulla illis extrinsecus utilitas valet adiungi. Quae vero sunt passibilia semper aliquam causam atque utilitatem quibus sustententur inveniunt. Quocirca huiusmodi intellectus, qui ad alterum oratione proferendi sunt, quoniam ex aliqua causa atque utilitate videntur esse collecti, recte passiones animi nominati sunt. Et de intentione quidem et de libri inscriptione et de eo, quod hic maxime Aristotelis liber esse putandus est, haec dicta sufficiunt. Quid vero utilitatis habeat, non ignorabit qui sciet qua in oratione veritas constet et falsitas. In sola enim haec enuntiativa oratione consistunt. Iam vero quae dividant verum falsumque quaeue definite vel quae varie et mutabiliter veritatem falsitatemque partiantur, quae iuncta dici possint, cum separata valeant praedicari, quae separata dicantur, cum iuncta sint praedicata, quae sint negationes cum modo propositionum, quae earum consequentiae aliaque plura in ipso opere considerator poterit diligenter agnoscere, quorum magnam experietur utilitatem qui animum curae alicuius investigationis adverterit. Sed nunc ad ipsius Aristotelis verba veniamus. [BEGINNING OF SECTION THAT MIGNE SUBTITLES ‘SIGNUM’ -- Primum oportet CONSTITUERE, QUID NOMEN ET QUID VERBUM, POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO ET ENUNTIATIO ET ORATIO. Librum inchoans de quibus in omni serie tractaturus sit ante proposuit. Ait enim prius oportere de quibus disputaturus est definire. Hic enim CONSTITUERE "definire" intellegendum est. Determinandum namque est quid haec omnia sint – id est QUID NOMEN sit, QUID VERBUM et caetera, quae elementa interpretationis esse praediximus. Sed AFFIRMATIO atque NEGATIO sub interpretatione sunt. Quare nomen et verbum affirmationis et negationis elementa esse manifestum est. His enim compositis affirmatio et negatio coniunguntur. Exsistit hic quaedam quaestio cur duo tantum nomen et verbum se determinare promittat, cum plures partes orationis esse videantur. Quibus hoc dicendum est tantum Aristotelem hoc libro definisse, quantum illi ad id quod instituerat tractare suffecit. Tractat namque de simplici enuntiativa oratione, quae scilicet huiusmodi est ut iunctis tantum verbis et nominibus componatur. Si quis enim nomen iungat et verbum ut dicat: Socrates ambulat  simplicem fecit enuntiativam orationem. Enuntiativa namque oratio est (ut supra memoravi) quae habet in se falsi verique designationem. Sed in hoc quod dicimus "Socrates ambulat" aut veritas necesse est contineatur aut falsitas. Hoc enim si ambulante Socrate dicitur, verum est, si non ambulante, falsum. Perficitur ergo enuntiativa oratio simplex ex solis verbis atque nominibus. Quare superfluum est quaerere cur alias quoque quae videntur orationis partes non proposuerit, qui non totius simpliciter orationis sed tantum simplicis enuntiationis instituit elementa partiri. Quamquam duae propriae partes orationis esse dicendae sint, nomen scilicet atque verbum. Haec enim per sese utraque significant, coniunctiones autem vel praepositiones nihil omnino nisi cum aliis iunctae designant; participia verbo cognata sunt, vel quod a gerundivo modo ƿ veniant vel quod tempus propria significatione contineant; interiectiones vero atque pronomina necnon adverbia in nominis loco ponenda sunt, idcirco quod aliquid significant definitum, ubi nulla est vel passionis significatio vel actionis. Quod si casibus horum quaedam flecti non possunt, nihil impedit. Sunt enim quaedam nomina quae "monoptota" nominantur. Quod si quis ista longius et non proxime petita esse arbitretur, illud tamen concedit, quod supra iam diximus, non esse aequum calumniari ei, qui non de omni oratione sed de tantum simplici enuntiatione proponat, quod tantum sibi ad definitionem sumpserit, quantum arbitratus sit operi instituto sufficere. Quare dicendum est Aristotelem non omnis orationis partes hoc opere velle definire sed tantum solius simplicis enuntiativae orationis, quae sunt scilicet nomen et verbum. Argumentum autem huius rei hoc est. Postquam enim proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE, QUID SIT NOMEN ET QUID VERBUM, non statim inquit QUID SIT ORATIO sed mox addidit ET QUID SIT NEGATIO, QUID AFFIRMATIO, QUID ENUNTIATIO, postremo vero QUID ORATIO. Quod si de omni oratione loqueretur, post nomen et verbum non de affirmatione et negatione et post hanc de enuntiatione sed mox de oratione dixisset. Nunc vero quoniam post nominis et verbi propositionem affirmationem, negationem et enuntiationem et post orationem proposuit, confitendum est, id quod ante diximus, non orationis universalis sed simplicis enuntiativae orationis, quae dividitur in affirmationem atque negationem, divisionem partium facere voluisse, quae sunt nomina et verba. Haec enim per se ipsa intellectum simplicem servant, ƿ quae eadem dictiones vocantur sed non sola dicuntur. Sunt namque dictiones et aliae quoque: orationes vel imperfectae vel perfectae, cuius plures esse partes supra iam docui, inter quas perfectae orationis species est enuntiatio. Et haec quoque alia simplex, alia composita est. De simplicis vero enuntiationis speciebus inter philosophos commentatoresque certatur. Aiunt enim quidam affirmationem atque negationem enuntiationi ut species supponi oportere, in quibus et Porphyrius est; quidam vero nulla ratione consentiunt sed contendunt affirmationem et negationem aequivoca esse et uno quidem enuntiationis vocabulo nuncupari, praedicari autem enuntiationem ad utrasque ut nomen aequivocum, non ut genus univocum; quorum princeps Alexander est. Quorum contentiones apponere non videtur inutile. Ac prius quibus modis affirmationem atque negationem non esse species enuntiationis Alexander pPomba dicendum est, post vero addam qua Porphyrius haec argumentatione dissoluerit. Alexander namque idcirco dicit non esse species enuntiationis affirmationem et negationem, quoniam affirmatio prior sit. Priorem vero affirmationem idcirco conatur ostendere, quod omnis negatio affirmationem tollat ac destruat. Quod si ita est, prior est affirmatio quae subruatur quam negatio quae subruat. In quibus autem prius aliquid et posterius est, illa sub eodem genere poni non possum, ut in eo titulo praedicamentorum dictum est qui de his quae sunt simul inscribitur. Amplius: negatio omnis, inquit, divisio est, affirmatio compositio atque coniunctio. Cum enim dico: Socrates vivit  vitam cum Socrate coniunxi; cum dico: Socrates non vivit  vitam a Socrate disiunxi. Divisio igitur quaedam negatio est, coniunctio affirmatio. Compositi autem est coniunctique ƿ divisio. Prior est igitur coniunctio, quod est affirmatio; posterior vero divisio, quod est negatio. Illud quoque adicit, quod omnis per affirmationem facta enuntiatio simplicior sit per negationem facta enuntiatione. Ex negatione enim particula negative si sublata sit, affirmatio sola relinquitur. De eo enim quod est: Socrates non vivit  si non particula quae est adverbium auferatur, remanet Socrates vivit. Simplicior igitur affirmatio est quam negatio. Prius vero sit necesse est quod simplicius est. In quantitate etiam quod ad quantitatem minus est prius est eo quod ad quantitatem plus est. Omnis vero oratio quantitas est. Sed cum dico: Socrates ambulat  minor oratio est quam cum dico: Socrates non ambulat. Quare si secundum quantitatem affirmatio minor est, eam priorem quoque esse necesse est. Illud quoque adiunxit affirmationem quendam esse habitum, negationem vero privationem. Sed prior habitus privatione: affirmatio igitur negatione prior est. Et ne singula persequi laborem, cum aliis quoque modis demonstraret affirmationem negatione esse priorem, a communi eas genere separavit. Nullas enim species arbitratur sub eodem genere esse posse, in quibus prius vel posterius consideretur. Sed Porphyrius ait sese docuisse species enuntiationis esse affirmationem et negationem in his commentariis quos in Theophrastum edidit; hic vero Alexandri argumentationem tali ratione dissolvit. Ait enim non oportere arbitrari, quaecumque quolibet modo priora essent aliis, ea sub eodem genere poni non posse sed quaecumque secundum esse unum atque substantiam priora vel posteriora sunt, ea sola sub eodem genere non ponuntur. Et recte dicitur. Si enim omne quidquid ƿ prius est cum eo quod posterius est sub uno genere esse non potest, nec primis substantiis et secundis commune genus poterit esse substantia; quod qui dicit a recto ordine rationis exorbitat. Sed quemadmodum quamquam sint primae et secundae substantiae, tamen utraque aequaliter in subiecto non sunt et idcirco esse ipsorum ex eo pendet, quod in subiecto non sunt, atque ideo sub uno substantiae genere collocantur: ita quoque quamquam affirmationes negationibus in orationis prolatione priores sint, tamen ad esse atque ad naturam propriam aequaliter enuntiatione participant. Enuntiatio vero est in qua veritas et falsitas inveniri potest. Qua in re et affirmatio et negatio aequales sunt. Aequaliter enim et affirmatio et negatio veritate et falsitate participant. Quocirca quoniam id quod sunt affirmatio et negatio aequaliter ab enuntiatione participant, a communi eas enuntiationis genere dividi non oportet. Mihi quoque videtur quod Porphyrii sit sequenda sententia, ut affirmatio et negatio communi enuntiationis generi supponantur. Longa namque illa et multiplicia Alexandri argumenta soluta sunt, cum demonstravit non modis omnibus ea quae priora sunt sub communi genere poni non posse sed quae ad esse proprium atque substantiam priora sunt illa sola sub communi genere constitui atque poni non posse. Syrianus vero, cui Philoxenus cognomen est, hoc loco quaerit cur proponens prius de negatione, post de affirmatione pronuntiaverit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE, QUID NOMEN ET QUID VERBUM, POSTEA QUID EST NEGATIO ET AFFIRMATIO. Et primum quidem nihil proprium dixit quoniam in quibus et affirmatio ƿ potest et negatio provenire, prius esse negatio, postea vero affirmatio potest, ut de Socrate sanus est. Potest ei aptari talis affirmatio, ut de eo dicatur: Socrates sanus est  etiam huiusmodi potest aptari negatio, ut de eo dicatur: Socrates sanus non est. Quoniam ergo in eum affirmatio et negatio poterit evenire prius evenit ut sit negatio quam ut affirmatio. Ante enim quam natus esset: qui enim natus non erat, nec esse poterat sanus. Huic illud adiecit: servare Aristotelem conversam propositionis et exsecutionis distributionem. Hic enim prius post nomen et verbum de negatione proposuit, post de affirmatione, dehinc de enuntiatione, postremo vero de oratione sed proposita definiens prius orationem, post enuntiationem, tertio affirmationem, ultimo vero loco negationem determinavit, quam hic post propositionem verbi et nominis primam locaverat. Ut igitur ordo servaretur conversus, idcirco negationem prius ait esse propositam. Qua in expositione Alexandri quoque sententia non discedit. Illud quoque est additum, quod non esset inutile, enuntiationem genus affirmationis et negationis accipi oportere, quod quamquam (ut dictum est) ad prolationem prior esset affirmatio, tamen ad ipsam enuntiationem id est veri falsique vim utrasque aequaliter sub enuntiatione ab Aristotele constitui. Id etiam Aristotelem probare. Praemisit enim primam negationem, secundam posuit affirmationem, quae res nihil habet vitii, si ad ipsam enuntiationem affirmatio et negatio ponantur aequales. Quae enim natura aequales sunt, nihil retinent contrarii indifferenter acceptae. Est igitur ordo quo proposuit: primum totius orationis ƿ elementum, nomen scilicet et verbum, post haec negationem et affirmationem, quae species enuntiationis sunt. Quorum genus (id est enuntiationem) tertiam nominavit, quartam vero orationem posuit, quae ipsius enuntiationis genus est. Et horum se omnium definitiones daturum esse promisit, quas interim relinquens atque praeteriens et in posteriorem tractatum differens illud nunc addit quae sint verba et nomina aut quid ipsa significent. Quare antequam ad verba Aristotelis ipsa veniamus, pauca communiter de nominibus atque verbis et de his quae significantur a verbis ac nominibus disputemus. Sive enim quaelibet interrogatio sit atque responsio, sive perpetua cuiuslibet orationis continuatio atque alterius auditus et intellegentia, sive hic quidem doceat ille vero discat, tribus his totus orandi ordo perficitur: rebus, intellectibus, vocibus. Res enim ab intellectu concipitur, vox vero conceptiones animi intellectusque significat, ipsi vero intellectus et concipiunt subiectas res et significantur a vocibus. Cum igitur tria sint haec per quae omnis oratio collocutioque perficitur, res quae subiectae sunt, intellectus qui res concipiant et rursus a vocibus significentur, voces vero quae intellectus designent, quartum quoque quiddam est, quo voces ipsae valeant designari, id autem sunt litterae. Scriptae namque litterae ipsas significant voces. Quare quatuor ista sunt, ut litterae quidem significent voces, voces vero intellectus, intellectus autem concipiant res, quae scilicet habent quandam non confusam neque fortuitam consequentiam sed terminata naturae suae ordinatione constant. Res enim semper comitantur eum qui ab ipsis concipitur intellectum, ipsum vero intellectum vox sequitur sed voces elementa id est ƿ litterae. Rebus enim ante propositis et in propria substantia constitutis intellectus oriuntur. Rerum enim semper intellectus sunt, quibus iterum constitutis mox significatio vocis exoritur. Praeter intellectum namque vox penitus nihil designat. Sed quoniam voces sunt, idcirco litterae, quas vocamus elementa, repertae sunt quibus vocum qualitas designetur. Ad cognitionem vero conversim sese res habet. Namque apud quos eaedem sunt litterae et qui eisdem elementis utuntur, eisdem quoque nominibus eos ac verbis (id est vocibus) uti necesse est; et qui vocibus eisdem utuntur idem quoque apud eos intellectus in animi conceptione versantur. Sed apud quos idem intellectus sunt, easdem res eorum intellectibus subiectas esse manifestum est. Sed hoc nulla ratione convertitur. Namque apud quos eaedem res sunt idemque intellectus, non statim eaedem voces eaedemque sunt litterae. Nam cum Romanus, Graecus ac barbarus simul videant equum, habent quoque de eo eundem intellectum quod equus sit et apud eos eadem res subiecta est, idem a re ipsa concipitur intellectus sed Graecus aliter equum vocat, alia quoque vox in equi significatione Romana est et barbarus ab utroque in equi designatione dissentit. Quocirca diversis quoque voces proprias elementis inscribunt. Recte igitur dictum est apud quos eaedem res idemque intellectus sunt, non statim apud eos vel easdem voces vel eadem elementa consistere. Praecedit autem res intellectum, intellectus vero vocem, vox litteras – sed hoc converti non potest. Neque enim si litterae sint, mox aliqua ex his significatio vocis exsistit. Hominibus namque qui litteras ignorant nullum nomen quaelibet elementa significant, quippe quae nesciunt. Nec si voces ƿ sint, mox intellectus esse necesse est. Plures enim voces invenies quae nihil omnino significent. Nec intellectui quoque subiecta res semper est. Sunt enim intellectus sine re ulla subiecta, ut quos centauros vel chimaeras poetae finxerunt. Horum enim sunt intellectus quibus subiecta nulla substantia est. Sed si quis ad naturam redeat eamque consideret diligenter, agnoscet cum res est, eius quoque esse intellectum quod si non apud homines, certe apud eum, qui propriae divinitate substantiae in propria natura ipsius rei nihil ignorat. Et si est intellectus, et vox est quod si vox fuerit, eius quoque sunt litterae, quae si ignorantur, nihil ad ipsam vocis naturam. Neque enim, quasi causa quaedam vocum est intellectus aut vox causa litterarum, ut cum eaedem sint apud aliquos litterae, necesse sit eadem quoque esse nomina: ita quoque cum eaedem sint vel res vel intellectus apud aliquos, mox necesse est intellectuum ipsorum vel rerum eadem esse vocabula. Nam cum eadem sit et res et intellectus hominis, apud diversos tamen homines huiusmodi substantia aliter et diverso nomine nuncupatur. Quare voces quoque cum eaedem sint, possunt litterae esse diversae, ut in hoc nomine quod est 'homo': cum unum sit nomen diversis litteris scribi potest. Namque Latinis litteris scribi potest, potest etiam Graecis, potest aliis nunc primum inventis litterarum figuris. Quare quoniam apud quos eaedem res sunt, eosdem intellectus esse necesse est, apud quos idem intellectus sunt, voces eaedem non sunt; et apud quos eaedem voces sunt, non necesse ƿ est eadem elementa constitui – dicendum est res et intellectus, quoniam apud omnes idem sunt, esse naturaliter constitutos, voces vero atque litteras, quoniam diversis hominum positionibus permutantur non esse naturaliter sed positione. Concludendum est igitur quoniam apud quos eadem sunt elementa, apud eos eaedem quoque voces sunt et apud quos eaedem voces sunt, idem sunt intellectus; apud quos autem idem sunt intellectus, apud eosdem res quoque eaedem subiectae sunt: rursus apud quos eaedem res sunt, idem quoque sunt intellectus; apud quos idem intellectus, non eaedem voces; nec apud quos eaedem voces sunt, eisdem semper litteris verba ipsa vel nomina designantur. Sed nos in supra dictis sententiis elemento atque littera promiscue usi sumus, quae autem sit horum distantia paucis absolvam. Littera est inscriptio atque figura partis minimae vocis articulatae, elementum vero sonus ipsius inscriptionis: ut cum scribo litteram quae est 'a', formula ipsa quae atramento vel graphio scribitur littera nominatur, ipse vero sonus quo ipsam litteram voce proferimus dicitur elementum. Quocirca hoc cognito illud dicendum est, quod is qui docet vel qui continua oratione loquitur vel qui interrogat, contrarie se habet his qui vel discunt vel audiunt vel respondent in his tribus, voce scilicet, intellectu et re (praetermittantur enim litterae propter eos qui earum sunt expertes). Nam qui docet et qui dicit et qui interrogat a rebus ad intellectum profecti per nomina et verba vim propriae actionis exercent atque officium (rebus enim subiectis ab his capiunt intellectus et per nomina verbaque ƿ pronuntiant), qui vero discit vel qui audit vel etiam qui respondet a nominibus ad intellectus progressi ad res usque perveniunt. Accipiens enim is qui discit vel qui audit vel qui respondet docentis vel dicentis vel interrogantis sermonem, quid unusquisque illorum dicat intellegit et intellegens rerum quoque scientiam capit et in ea consistit. Recte igitur dictum est in voce, intellectu atque re contrarie sese habere eos qui docent, dicunt, interrogant atque eos qui discunt, audiunt et respondent. Cum igitur haec sint quatuor – litterae, voces, intellectus, res – proxime quidem et principaliter litterae verba nominaque significant. Haec vero principaliter quidem intellectus, secundo vero loco res quoque designant. Intellectus vero ipsi nihil aliud nisi rerum significativi sunt. Antiquiores vero quorum est Plato, Aristoteles, Speusippus, Xenocrates hi inter res et significationes intellectuum medios sensus ponunt in sensibilibus rebus vel imaginationes quasdam, in quibus intellectus ipsius origo consistat. Et nunc quidem quid de hac re Stoici dicant praetermittendum est. Hoc autem ex his omnibus solum cognosci oportet, quod ea quae sunt in litteris eam significent orationem quae in voce consistit et ea quae est vocis oratio quod animi atque intellectus orationem designet quae tacita cogitatione conficitur, et quod haec intellectus oratio subiectas principaliter res sibi concipiat ac designet. Ex quibus quatuor duas quidem Aristoteles esse naturaliter dicit, res et animi conceptiones, id est eam quae fit in intellectibus orationem, idcirco quod apud omnes eaedem atque immutabiles sint; ƿ duas vero non naturaliter sed positione constitui, quae sunt scilicet verba nomina et litterae, quas idcirco naturaliter fixas esse non dicit, quod (ut supra demonstratum est) non eisdem vocibus omnes aut isdem utantur elementis. Atque hoc est quod ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM. QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. DE HIS QUIDEM DICTUM EST IN HIS QUAE SUNT DICTA DE ANIMA, ALTERIUS EST ENIM NEGOTII. Cum igitur prius posuisset nomen et verbum et quaecumque secutus est postea se definire promisisset, haec interim praetermittens de passionibus animae deque earum notis, quae sunt scilicet voces, pauca praemittit. Sed cur hoc ita interposuerit, plurimi commentatores causas reddere neglexerunt sed a tribus quantum adhuc sciam ratio huius interpositionis explicita est. Quorum Hermini quidem a rerum veritate longe disiuncta est. Ait enim idcirco Aristotelen de notis animae passionum interposuisse sermonem, ut utilitatem propositi operis inculcaret. Disputaturus enim de vocibus, quae sunt notae animae passionum, recte de his quaedam ante praemisit. Nam cum suae nullus animae passiones ignoret, notas quoque cum animae passionibus non nescire utilissimum est. Neque enim illae cognosci possunt nisi per voces quae sunt ƿ earum scilicet notae. Alexander vero aliam huiusmodi interpositionis reddidit causam. Quoniam, inquit, verba et nomina interpretatione simplici continentur, oratio vero ex verbis nominibusque coniuncta est et in ea iam veritas aut falsitas invenitur, sive autem quilibet sermo sit simplex sive iam oratio coniuncta atque composita ex his quae significant momentum sumunt (in illis enim prius est eorum ordo et continentia, post redundat in voces): quocirca quoniam significantium momentum ex his quae significantur oritur, idcirco prius nos de his quae voces ipsae significant docere proponit. Sed Herminus hoc loco repudiandus est. Nihil enim tale quod ad causam propositae sententiae pertineret explicuit. Alexander vero strictim proxima intellegentia praeteruectus tetigit quidem causam, non tamen principalem rationem Aristotelicae propositionis exsolvit. Sed Porphyrius ipsam plenius causam originemque sermonis huius ante oculos collocavit, qui omnem apud priscos philosophos de significationis vi contentionem litemque retexuit. Ait namque dubie apud antiquorum philosophorum sententias constitisse quid esset proprie quod vocibus significaretur. Putabant namque alii res vocibus designari earumque vocabula esse ea quae sonarent in vocibus arbitrabantur. Alii vero incorporeas quasdam naturas meditabantur, quarum essent significationes quaecumque vocibus designarentur: Platonis aliquo modo species incorporeas aemulati dicentis hoc ipsum homo et hoc ipsum equus non hanc cuiuslibet subiectam substantiam sed illum ipsum hominem specialem et illum ipsum equum, universaliter et incorporaliter cogitantes ƿ incorporales quasdam naturas constituebant, quas ad significandum primas venire putabant et cum aliis item rebus in significationibus posse coniungi, ut ex his aliqua enuntiatio vel oratio conficeretur. Alii vero sensus, alii imaginationes significari vocibus arbitrabantur. Cum igitur ista esset contentio apud superiores et haec usque ad Aristotelis pervenisset aetatem, necesse fuit qui nomen et verbum significativa esset definiturus praediceret quorum ista designativa sint. Aristoteles enim nominibus et verbis res subiectas significari non putat, nec vero sensus vel etiam imaginationes. Sensuum quidem non esse significativas voces nomina et verba in opere de iustitia sic declarat dicens: *phusei gar euthus dieretai ta te noemata kai ta aisthemata*  quod interpretari Latine potest hoc modo: Natura enim divisa sunt intellectus et sensus. Differre igitur aliquid arbitratur sensum atque intellectum. Sed qui passiones animae a vocibus significari dicit, is non de sensibus loquitur. Sensus enim corporis passiones sunt. Si igitur ita dixisset passiones corporis a vocibus significari, tunc merito sensus intellegeremus. Sed quoniam passiones animae nomina et verba significare proposuit, non sensus sed intellectus eum dicere putandum est. Sed quoniam imaginatio quoque res animae est, dubitaverit aliquis ne forte passiones animae imaginationes, ƿ quas Graeci *phantasias* nominant, dicat. Sed haec in libris De anima verissime diligentissimeque separavit, dicens:*estin de phantasia heteron phaseos kai apophaseos; symploke gar noematon estin to alethes kai to pseudos. ta de prota noemata ti dioisei tou me phantasmata einai; e houde tauta phantasmata, all' ouk aneu phantasmaton.* quod sic interpretamur: Est autem imaginatio diversa affirmatione et negatione; complexio namque intellectuum est veritas et falsitas. Primi vero intellectus quid discrepabunt, ut non sint imaginationes? An certe neque haec sunt imaginationes sed sine imaginationibus non sunt. Quae sententia demonstrat aliud quidem esse imaginationes, aliud intellectus; ex intellectuum quidem complexione affirmationes fieri et negationes: quocirca illud quoque dubitavit, utrum primi intellectus imaginationes quaedam essent. Primos autem intellectus dicimus qui simplicem rem concipiunt, ut si qui dicat "Socrates" solum dubitatque utrum huiusmodi intellectus, qui in se nihil neque veri continet neque falsi, intellectus sit an ipsius Socratis imaginatio. Sed de hoc quoque aperte quid videretur ostendit. Ait enim an certe neque haec sunt imaginationes sed non sine imaginationibus sunt – id est quod hic sermo significat qui est "Socrates" vel alius simplex non est quidem imaginatio sed intellectus, qui intellectus praeter imaginationem fieri non potest. Sensus enim atque imaginatio ƿ quaedam primae figurae sunt, supra quas velut fundamento quodam superveniens intellegentia nitatur. Nam sicut pictores solent designare lineatim corpus atque substernere ubi coloribus cuiuslibet exprimant uultum, sic sensus atque imaginatio naturaliter in animae perceptione substernitur. Nam cum res aliqua sub sensum vel sub cogitationem cadit, prius eius quaedam necesse est imaginatio nascatur, post vero plenior superveniat intellectus cunctas eius explicans partes quae confuse fuerant imaginatione praesumptae. Quocirca imperfectum quiddam est imaginatio, nomina vero et verba non curta quaedam sed perfecta significant. Quare recta Aristotelis sententia est: quaecumque in verbis nominibusque versantur, ea neque sensus neque imaginationes sed solam significare intellectuum qualitatem. Unde illud quoque ab Aristotele fluentes Peripatetici rectissime posuerunt tres esse orationes, unam quae scribi possit elementis, alteram quae voce proferri, tertiam quae cogitatione conecti unamque intellectibus, alteram voce, tertiam litteris contineri. Quocirca quoniam id quod significaretur a vocibus intellectus esse Aristoteles putabat, nomina vero et verba significativa esse in eorum erat definitionibus positurus, recte quorum essent significativa praedixit erroremque lectoris ex multiplici ueterum lite venientem sententiae suae manifestatione compescuit. Atque hoc modo nihil in eo deprehenditur esse superfluum, nihil ab ordinis continuatione seiunctum. Quaerit vero Porphyrius, cur ita dixerit: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE, et non sic: sunt ƿ igitur voces; et rursus cur ita et ea quae scribuntur et non dixerit: et litterae. Quod resolvit hoc modo. Dictum est tres esse apud Peripateticos orationes, unam quae litteris scriberetur, aliam quae proferretur in voce, tertiam quae coninugeretur in animo. Quod si tres orationes sunt, partes quoque orationis esse triplices nulla dubitatio est. Quare quoniam verbum et nomen principaliter orationis partes sunt, erunt alia verba et nomina quae scribantur, alia quae dicantur, alia quae tacita mente tractentur. Ergo quoniam proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, triplex autem nominum natura est atque verborum, de quibus potissimum proposuerit et quae definire velit ostendit. Et quoniam de his nominibus loquitur ac verbis, quae voce proferuntur, idem ipsum planius explicans ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE, velut si diceret: ea verba et nomina quae in vocali oratione proferuntur animae passiones denuntiant, illa autem rursus verba et nomina quae scribuntur eorum verborum nominumque significantiae praesunt quae voce proferuntur. Nam sicut vocalis orationis verba et nomina conceptiones animi intellectusque significant, ita quoque verba et nomina illa quae in solis litterarum formulis iacent illorum verborum et nominum significativa sunt quae loquimur, id est quae per vocem sonamus nam quod ait: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE; subaudiendum est verba et nomina. Et rursus cum dicit: ET EA QUAE SCRIBUNTUR, idem subuectendum rursus est verba scilicet vel nomina. Et quod rursus ƿ adiecit: eorum quae sunt in voce, addendum eorum nomimum atque verborum quae profert atque explicat vocalis oratio. Quod si nihil deesset omnino, ita foret totius plenitudo sententiae: sunt ergo ea verba et nomina quae sunt in voce earum quae sunt in anima passionum notae et ea verba et nomina quae scribuntur eorum verborum et nominum quae sunt in voce. Quod communiter intellegendum est, licet ea quae subiunximus deesse videantur. Quare non est disiuncta sententia sed primae propositioni continua. Nam cum quid sit verbum, quid nomen definire constituit, cum nominis et verbi natura sit multiplex, de quo verbo et nomine tractare vellet clara significatione distinxit. Incipiens igitur ab his nominibus ac verbis quae in voce sunt, quorum essent significativa disseruit. Ait enim haec passiones animae designare. Illud quoque adiecit quibus ipsa verba et nomina quae in voce sunt designentur, his scilicet quae litterarum formulis exprimuntur. Sed quoniam non omnis vox significativa est, verba vero vel nomina numquam significationibus uacant quoniamque non omnis vox quae significat quaedam positione designat sed quaedam naturaliter, ut lacrimae, gemitus atque maeror (animalium quoque caeterorum quaedam voces naturaliter aliquid ostentant, ut ex canum latratibus iracundia eorumque alia quadam voce blandimenta monstrantur), verba autem et nomina positione significant neque solum sunt verba et nomina voces sed voces significativae nec solum significativae sed etiam quae positione designent aliquid, non natura: non dixit: sunt igitur voces earum quae sunt in anima passionum notae. Namque neque omnis vox significativa ƿ est et sunt quaedam significativae quae naturaliter non positione significent. Quod si ita dixisset, nihil ad proprietatem verborum et nominum pertineret. Quocirca noluit communiter dicere voces sed dixit tantum ea quae sunt in voce. Vox enim universale quiddam est, nomina vero et verba partes. Pars autem omnis in toto est. Verba ergo et nomina quoniam sunt intra vocem, recte dictum est ea quae sunt in voce, velut si diceret: quae intra vocem continentur intellectuum designativa sunt. Sed hoc simile est ac si ita dixisset: vox certo modo sese habens significat intellectus. Non enim (ut dictum est) nomen et verbum voces tantum sunt. Sicut nummus quoque non solum aes impressum quadam figura est, ut nummus vocetur sed etiam ut alicuius rei sit pretium: eodem quoque modo verba et nomina non solum voces sunt sed positae ad quandam intellectuum significationem. Vox enim quae nihil designat, ut est garalus, licet eam grammatici figuram vocis intuentes nomen esse contendant, tamen eam nomen philosophia non putabit, nisi sit posita ut designare animi aliquam conceptionem eoque modo rerum aliquid possit. Etenim nomen alicuius nomen esse necesse erit; sed si vox aliqua nihil designat, nullius nomen est; quare si nullius est, ne nomen quidem esse dicetur. Atque ideo huiusmodi vox id est significativa non vox tantum sed verbum vocatur aut nomen, quemadmodum nummus non aes sed proprio nomine nummus, quo ab alio aere discrepet, nuncupatur. Ergo haec Aristotelis sententia qua ait ea quae sunt in voce nihil aliud designat nisi eam vocem, quae non solum vox sit sed quae cum vox sit habeat tamen aliquam proprietatem et ƿ aliquam quodammodo figuram positae signicationis impressam. Horum vero id est verborum et nominum quae sunt in voce aliquo modo se habente ea sunt scilicet significativa quae scribuntur, ut hoc quod dictum est quae scribuntur de verbis ac nominibus dictum quae sunt in litteris intellegatur. Potest vero haec quoque esse ratio cur dixerit et quae scribuntur: quoniam litteras et inscriptas figuras et voces, quae isdem significantur formulis, nuncupamus (ut a et ipse sonus litterae nomen capit et illa quae in subiecto cerae vocem significans forma describitur), designare volens, quibus verbis atque nominibus ea quae in voce sunt apparerent, non dixit litteras, quod ad sonos etiam referri potuit litterarum sed ait quae scribuntur, ut ostenderet de his litteris dicere quae in scriptione consisterent id est quarum figura vel in cera stilo vel in membrana calamo posset effingi. Alioquin illa iam quae in sonis sunt ad ea nomina referuntur quae in voce sunt, quoniam sonis illis nomina et verba iunguntur. Sed Porphyrius de utraque expositione iudicavit dicens: id quod ait ET QUAE SCRIBUNTUR non potius ad litteras sed ad verba et nomina quae posita sunt in litterarum inscriptione referendum. Restat igitur ut illud quoque addamus, cur non ita dixerit: sunt ergo ea quae sunt in voces intellectuum notae sed ita earum quae sunt in anima passionum notae. Nam cum ea quae sunt in voce res intellectusque significent, principaliter quidem intellectus, res vero quas ipsa intellegentia comprehendit secundaria significatione per intellectuum medietatem, intellectus ipsi non sine quibusdam passionibus sunt, quae in animam ex subiectis veniunt rebus. Passus enim quilibet eius rei proprietatem, ƿ quam intellectu complectitur, ad eius enuntiationem designationemque contendit. Cum enim quis aliquam rem intellegit, prius imaginatione formam necesse est intellectae rei proprietatemque suscipiat et fiat vel passio vel cum passione quadam intellectus perceptio. Hac vero posita atque in mentis sedibus collocata fit indicandae ad alterum passionis voluntas, cui actus quidam continuandae intellegentiae protinus ex intimae rationis potestate supervenit, quem scilicet explicat et effundit oratio nitens ea quae primitus in mente fundata est passione, sive, quod est verius, significatione progressa oratione progrediente simul et significantis se orationis motibus adaequante. Fit vero haec passio velut figurae alicuius impressio sed ita ut in animo fieri consuevit. Aliter namque naturaliter inest in re qualibet propria figura, aliter vero eius ad animum forma transfertur, velut non eodem modo cerae vel marmori vel chartis litterae id est vocum signa mandantur. Et imaginationem Stoici a rebus in animam translatam loquuntur sed cum adiectione semper dicentes ut in anima. Quocirca cum omnis animae passio rei quaedam videatur esse proprietas, porro autem designativae voces intellectuum principaliter, rerum dehinc a quibus intellectus profecti sunt significatione nitantur, quidquid est in vocibus significativum, id animae passiones designat. Sed hae passiones animarum ex rerum similitudine procreantur. Videns ƿ namque aliquis sphaeram vel quadratum vel quamlibet aliam rerum figuram eam in animi intellegentia quadam vi ac similitudine capit. Nam qui sphaeram viderit, eius similitudinem in animo perpendit et cogitat atque eius in animo quandam passus imaginem id cuius imaginem patitur agnoscit. Omnis vero imago rei cuius imago est similitudinem tenet: mens igitur cum intellegit, rerum similitudinem comprehendit. Unde fit ut, cum duorum corporum maius unum, minus alterum contuemur, a sensu postea remotis corporibus illa ipsa corpora cogitantes illud quoque memoria servante noverimus sciamusque quod minus, quod vero maius corpus fuisse conspeximus, quod nullatenus eveniret, nisi quas semel mens passa est rerum similitudines optineret. Quare quoniam passiones animae quas intellectus vocavit rerum quaedam similitudines sunt, idcirco Aristoteles, cum paulo post de passionibus animae loqueretur, continenti ordine ad similitudines transitum fecit, quoniam nihil differt utrum passiones diceret an similitudines. Eadem namque res in anima quidem passio est, rei vero similitudo. Et Alexander hunc locum: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM hoc modo conatur exponere: proposuit, inquit, ea quae sunt in voce intellectus animi designare et hoc alio probat exemplo. Eodem modo enim ea quae sunt in voce passiones animae significant, quemadmodum ea quae scribuntur voces designant, ut id quod ait et ea quae ƿ scribuntur ita intellegamus, tamquam si diceret: quemadmodum etiam ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce. Ea vero quae scribuntur, inquit Alexander, notas esse vocum id est nominum ac verborum ex hoc monstravit quod diceret et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Signum namque est vocum ipsarum significationem litteris contineri, quod ubi variae sunt litterae et non eadem quae scribuntur varias quoque voces esse necesse est. Haec Alexander. Porphyrius vero quoniam tres proposuit orationes, unam quae litteris contineretur, secundam quae verbis ac nominibus personaret, tertiam quam mentis euolueret intellectus, id Aristotelem significare pronuntiat, cum dicit: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE, quod ostenderet si ita dixisset: sunt ergo ea quae sunt in voce et verba et nomina animae passionum notae. Et quoniam monstravit quorum essent voces significativae, illud quoque docuisse quibus signis verba vel nomina panderentur ideoque addidisse et ea quae scribuntur eorum quae sunt in voce, tamquam si diceret: ea quae scribuntur verba et nomina eorum quae sunt in voce verborum et nominum notae sunt. Nec disiunctam esse sententiam nec (ut Alexander putat) id quod ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita intellegendum, tamquam si diceret: sicut ea quae scribuntur id est litterae illa quae sunt in voce significant, ita ea quae sunt in voce notas esse animae passionum. Primo quod ad simplicem sensum nihil addi oportet, deinde tam brevis ordo tamque necessaria orationis non est intercidenda partitio, tertium vero quoniam, si similis significatio est litterarum vocumque, ƿ quae est vocum et animae passionum, oportet sicut voces diversis litteris permutantur, ita quoque passiones animae diversis vocibus permutari, quod non fit. Idem namque intellectus variatis potest vocibus significari. Sed Alexander id quod eum superius sensisse memoravi hoc probare nititur argumento. Ait enim etiam in hoc quoque similem esse significationem litterarum ac vocum, quoniam sicut litterae non naturaliter voces sed positione significant, ita quoque voces non naturaliter intellectus animi sed aliqua positione designant. Sed qui prius recepit, ut id quod Aristoteles ait: ET EA QUAE SCRIBUNTUR ita dictum esset, tamquam si diceret: sicut ea quae scribuntur, quidquid ad hanc sententiam videtur adiungere, aequaliter non dubitatur errare. Quocirca nostro indicio qui rectius tenere volent Porphyrii se sententiis applicabunt. Aspasius quoque secundae sententiae Alexandri, quam supra posuimus, valde consentit, qui a nobis in eodem quo Alexander errore culpabitur. Aristoteles vero duobus modis esse has notas putat litterarum, vocum passionumque animae constitutas: uno quidem positione, alio vero naturaliter. Atque hoc est quod ait: et quemadmodum nec litterae omnibus eaedem, sic nec voces eaedem. Nam si litterae voces, ipsae vero voces intellectus animi naturaliter designarent, omnes homines isdem litteris, isdem etiam vocibus uterentur. Quod quoniam apud omnes neque eaedem litterae neque eacdem voces sunt, constat eas non esse naturales.Sed hic duplex lectio est. Alexander enim hoc modo legi putat oportere: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM EAEDEM SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. Volens enim Aristoteles ea quae positione significant ab his quae aliquid designant naturaliter segregare hoc interposuit: ea quae positione significant varia esse, ea vero quae naturaliter apud omnes eadem. Et inchoans quidem a vocibus ad litteras venit easque primo non esse naturaliter significativas demonstrat dicens: ET QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM. Nam si idcirco probantur litterae non esse naturaliter significantes, quod apud alios aliae sint ac diversae, eodem quoque modo probabile erit voces quoque non naturaliter significare, quoniam singulae hominum gentes non eisdem inter se vocibus colloquantur. Volens vero similitudinem intellectuum rerumque subiectarum docere naturaliter constitutam ait: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE. Quorum, inquit, voces quae apud diversas gentes ipsae quoque diversae sunt significationem retinent, quae scilicet sunt animae passiones, illae apud omnes eaedem sunt. Neque enim fieri potest, ut quod apud Romanos homo intellegitur lapis apud barbaros intellegatur. Eodem quoque modo de caeteris rebus. Ergo huiusmodi sententia est, qua dicit ea quae voces significent apud omnes hominum gentes non mutari, ut ipsae quidem voces, sicut supra monstravit cum dixit QUEMADMODUM NEC LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM, apud plures diversae sint, illud vero quod voses ipsae significant apud omnes homines idem sit nec ulla ratione ƿ valeat permutari, qui sunt scilicet intellectus rerum, qui quoniam naturaliter sunt permutari non possunt. Atque hoc est quod ait: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, id est voces, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE, ut demonstraret voces quidem esse diversas, QUORUM autem ipsae voces significativae essent, quae sunt scilicet animae passiones, EASDEM APUD OMNES esse nec ulla ratione, quoniam sunt constitutae naturaliter, permutari. Nec vero in hoc constitit, ut de solis vocibus atque intellectibus loqueretur sed quoniam voces atque litteras non esse naturaliter constitutas per id significavit, quod eas non apud omnes easdem esse proposuit, rursus intellectus quos animae passiones vocat per hoc esse naturales ostendit, quod apud omnes idem sint, a quibus id est intellectibus ad res transitum fecit. Ait enim QUORUM HAE SIMILITUDINES, res etiam eaedem hoc scilicet sentiens, quod res quoque naturaliter apud omnes homines essent eaedem: sicut ipsae animae passiones quae ex rebus sumuntur APUD OMNES homines EAEDEM sunt, ita quoque etiam ipsae res quarum similitudines sunt animae passiones eaedem apud omnes sunt. Quocirca quoque naturales sunt, sicut sunt etiam rerum similitudines, quae sunt animae passiones. Herminus vero huic est expositioni contrarius. Dicit enim non esse verum eosdem apud omnes homines esse intellectus, quorum voces significativae sint. Quid enim, inquit, in aequivocatione dicetur, ubi unus idemque vocis modus plura significat? Sed magis hanc lectionem veram putat, ut ita sit: QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, HAE OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM HAE: ut demonstratio videatur ƿ quorum voces significativae sint vel quorum passiones animae similitudines. Et hoc simpliciter accipiendum est secundum Herminum, ut ita dicamus quorum voces significativae sunt, illae sunt animae passmnes, tamquam diceret: animae passiones sunt, quas significant voces, et rursus quorum sunt similitudines ea quae intellectibus continentur, illae sunt res, tamquam si dixisset: res sunt quas significant intellectus. Sed Porphyrius de utrisque acute subtiliterque iudicat et Alexandri magis sententiam probat, hoc quod dicat non debere dissimulari de multiplici aequivocationis significatione. Nam et qui dicit ad unam quamlibet rem commodat animum, scilicet quam intellegens voce declarat, et unum rursus intellectum quemlibet is qui audit exspectat. Quod si, cum uterque ex uno nomine res diversas intellegunt, ille qui nomen aequivocum dixit designet clarius, quid illo nomine significare voluerit, accipit mox qui audit et ad uuum intellectum utrique conveniunt, qui rursus fit unus apud eosdem illos apud quos primo diversae fuerant animae passiones propter aequivocationem nominis. Neque enim fieri potest, ut qui voces positione significantes a natura eo distinxerit quod easdem apud omnes esse non diceret, eas res quas esse naturaliter proponebat non eo tales esse monstraret, quod apud omnes easdem esse contenderet. Quocirca Alexander vel propria sententia vel Porphyrii auctoritate probandus est. Sed quoniam ita dixit Aristoteles QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE sunt, quaerit Alexander: ƿ si rerum nomina sunt, quid causae est ut primorum intellectuum notas esse voces diceret Aristoteles? Rei enim ponitur nomen, ut cum dicimus homo significamus quidem intellectum, rei tamen nomen est id est animalis rationalis mortalis. Cur ergo non primarum magis rerum notae sint voces quibus ponuntur potius quam intellectuum? Sed fortasse quidem ob hoc dictum est, inquit, quod licet voces rerum nomina sint, tamen non idcirco utimur vocibus, ut res significemus sed ut eas quae ex rebus nobis innatae sunt animae passiones. Quocirca propter quorum significantiam voces ipsae proferuntur, recte eorum primorum esse dixit notas. In hoc vero Aspasius permolestus est. Ait enim: qui fieri potest, ut eaedem apud omnes passiones animae sint, cum tam diversa sententia de iusto ac bono sit? Arbitratur Aristotelem passiones animae non de rebus incorporalibus sed de his tantum quae sensibus capi possunt passiones animae dixisse. Quod perfalsum est. Neque enim intellexisse dicetur, qui fallitur, et fortasse quidem passionem animi habuisse dicetur, quicumque id quod est bonum non eodem modo quo est sed aliter arbitratur, intellexisse vero non dicitur. Aristoteles autem cum de similitudine loquitur, de intellectu pronuntiat. Neque enim fieri potest, ut qui quod bonum est malum esse arbitratur boni similitudinem mente conceperit. Neque enim intellexit rem subiectam. Sed quae sunt iusta ac bona ad positionem omnia nuturamue referuntur. Et si de iusto ac bono ita loquitur, ut de eo quod civile ius aut civilis iniuria ƿ dicitur, recte non eaedem sunt passiones animae quoniam civile ius et civile bonum positione est, non natura. Naturale vero bonum atque iustum apud omnes gentes idem est. Et de deo quoque idem: cuius quamuis diversa cultura sit, idem tamen cuiusdam eminentissimae naturae est intellectus. Quare repetendum breviter a principio est. partibus enim ad orationem usque pervenit: nam quod se prius quid esset verbum, quid nomen constituere dixit, hae minimae orationis partes sunt; quod vero affirmationem et negationem, iam de composita ex verbis et nominibus oratione loquitur, quae eaedem rursus partes sunt enuntiationis. Et post enuntiationis propositionem de oratione loqui proposuit, cuius ipsa quoque enuntiatio pars est. Et quoniam (ut dictum est) triplex est oratio, quae in litteris, quae in voce, quae in intellectibus est, qui verbum et nomen definiturus esset eaque significativa positurus, dicit prius quorum significativa sint ipsa verba et nomina et inchoat quidem ab his nominibus et verbis quae sunt in voce dicens: SUNT ERGO EA QUAE SUNT IN VOCE et demonstrat quorum sint significativa adiciens EARUM QUAE SUNT IN ANIMA PASSIONUM NOTAE. Rursus nominum ipsorum verborumque quae in voce sunt ea verba et nomina quae essent in litteris constituta significativa esse declarat dicens ET EA QUAE SCRIBUNTUR EORUM QUAE SUNT IN VOCE. Et quoniam quatuor ista quaedam sunt: litterae, voces, intellectus, res, quorum litterae et voces positione sunt, natura vero res atque intellectus, demonstravit voces non esse naturaliter sed positione per hoc quod ait non easdem esse apud omnes sed varias, ut est ET QUEMADMODUM NEC ƿ LITTERAE OMNIBUS EAEDEM, SIC NEC VOCES EAEDEM. Ut vero demonstraret intellectus et res esse naturaliter, ait apud omnes eosdem esse intellectus, quorum essent voces significativae, et rursus apud omnes easdem esse res, quarum similitudines essent animae passiones, ut est QUORUM AUTEM HAEC PRIMORUM NOTAE, SCILICET QUAE SUNT IN VOCE, EAEDEM OMNIBUS PASSIONES ANIMAE ET QUORUM HAE SIMILITUDINES, RES ETIAM EAEDEM. Passiones autem animae dixit, quoniam alias diligenter ostensum est omnem vocem animalis aut ex passione animae aut propter passionem proferri. Similitudinem vero passionem animae vocavit, quod secundum Aristotelem nihil aliud intellegere nisi cuiuslibet subiectae rei proprietatem atque imaginationem in animae ipsms reputatione suscipere, de quibus animae passionibus in libris se de anima commemorat diligentius disputasse. Sed quoniam demonstratum est, quoniam et verba et nomina et oratio intellectuum principaliter significativa sunt, quidquid est in voce significationis ab intellectibus venit. Quare prius paululum de intellectibus perspiciendum ei qui recte aliquid de vocibus disputabit. Ergo quod supra passiones animae et similitudines vocavit, idem nunc apertius intellectum vocat dicens: EST AUTEM, QUEMADMODUM IN ANIMA ALIQUOTIENS QUIDEM INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, ALIQUOTIENS AUTEM CUI IAM NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE, SIC ETIAM IN VOCE; CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, UT HOMO VEL ALBUM, QUANDO NON ADDITUR ALIQUID, NEQUE ENIM ADHUC VERUM AUT FALSUM S EST. HUIUS AUTEM SIGNUM HOC EST: HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID SED NONDUM VERUM VEL FALSUM, SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Quoniam nomen et verbum atque omnis oratio significativa sunt animae passionum, ex ipsis sine dubio quae designant in eisdem vocibus proprietas significationis innascitur hic vero est totus atque continuus Aristotelicae ordo sententiae: quoniam, inquit, ea primum vocibus significantur quae animo et cogitatione versamus, intellectuum vero alios quidem simplices et sine veri vel falsi enuntiatione perpendimus, ut cum nobis hominis proprietas tacita imaginatione suggeritur (nulla namque ex hac intellegentiae simplicitate vel veritatis nascitur vel falsitatis agnitio), sunt vero intellectus quidam compositi atque conioncti in quibus inest iam quaedam veritatis vel falsitatis inspectio, ut cum ad quamlibet simplicem perceptionem mentis adinugitur aliud quod esse aliquid vel non esse constituat, ut si ad hominis intellectum esse vel non esse vel album esse vel album non esse copuletur (fient enim cogitabiles orationes veritatis vel falsitatis participes hoc modo: homo est, homo non est, homo albus est, homo albus non est, quarum quidem homo est vel homo albus est compositione dicitur. Nam prior esse atque hominem, posterior hominem albo composita intellectus praedicatione conectit): sin vero ad hominis intellectum adiciam quiddam, ut ita sit homo ƿ est vel non est vel albus est aut aliquid tale, tunc in ipsa cogitatione veritas aut falsitas nascitur: ergo, inquit, quemadmodum aliquotiens quidam simplices intellectus sunt, qui vero falsoque careant, quidam vero in quibus horum alterum reperiatur, sic etiam et in voce. Nam quae voces denuntiant simplices intellectus, ipsae quoque a falsitate et veritate seiunctae sunt, quae vero huiusmodi significant intellectus in quibus iam vel veritas vel falsitas constituta est, in ipsis quoque horum alterum inveniri necesse est. Nam si quis hoc solum dicat HOMO vel ALBUM vel etiam HIRCOCERVUS, quamquam ista quiddam significent, quoniam tamen significant simplicem intellectum, manifestum est omni veritatis vel falsitatis proprietate carere. Et tota quidem sententia se hoc modo habet. Diligentius tamen est attendendum quid est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE; quid etiam quod dictum est: NOMINA IGITUR IPSA ET VERBA CONSIMILIA SUNT SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI; illud quoque; cur composito nomine vel cur etiam usus est non rei subsistentis exemplo, ut diceret HIRCOCERVUS ENIM SIGNIFICAT ALIQUID. Nec illud praetereundum est quid est quod dictum sit VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Et primum quidem de eo dicendum est quod ait: CIRCA COMPOSITIONEM ENIM ET DIVISIONEM EST FALSITAS VERITASQUE. Quaeritur namque, utrumne omnis veritas circa compositionem divisionemque sit, an quaedam est, quaedam vero minime. Illud quoque, an in omni compositione vel divisione veritas falsitasque constituta sit, an hoc non generaliter sed in quadam compositionis vel divisionis parte veritas falsitasque versetur. In opinionibus namque veritas est, quotiens ex subiecta ƿ re capitur imaginatio vel etiam quotiens ita, ut sese res habet, imaginationem accipit intellectus; falsitas vero est quotiens aut non ex subiecto aut non ut sese habet res imaginatio subicitur intellectui. Sed adhuc in veritate atque falsitate nihil equidem aliud reperitur nisi quaedam opinionis habitudo ad subiectam rem. Qua enim habitudine et quomodo sese habeat imaginatio ad rem subiectam, hoc solum in hac veritate vel falsitate perspicitur. Quam quidem habitudinem nullus dixerit compositionem. In hoc vero divisionis nullus ne fictus quidem modus intellegi potest. Illud quoque considerandum est, numne aliqua sit in his compositio vel divisio, quae secundum substantiam suam vera dicuntur, ut est vera voluptas bene vivendi, ut est falsa voluptas bellandi. Etiam illud quoque respiciendum est, quod in omnium maximo deo quidquid intellegitur non in eo accidenter sed substantialiter intellegitur. Etenim quae bona sunt substantialiter de eo non accidenter credimus. Quod si substantialiter credimus deum, deum vero nullus dixerit falsum nihilque in eo accidenter poterit evenire, ipsa veritas deus dicendus est. Ubi igitur compositio vel divisio in his quae simplicia naturaliter sunt nec ulla cuiuslibet rei collatione iunguntur? Quare non omnis veritas neque falsitas circa compositionem divisionemque constat sed sola tantum quae in multitudine intellectoum fit et in prolatione dicendi. Nam in ipsa quidem habitudine imaginationis et rei nulla compositio est, in coniunctione vero intellectuum compositio fit. Nam cum dico: Socrates ambulat  hoc ipsum quidem, ƿ quod eum ambulare concepi, nulla compositio est; quod vero in intellectus progressione ambulationem cum Socrate coniungo, quaedam iam facta est compositio. quod si hoc oratione protulero, rursus eadem compositio est et circa eam vis veritatis et falsitatis apparet. Quocirca in his solis compositionibus invenitur veritas atque mendacium, de quibus tota nunc quaestio est, in nomine scilicet et verbo, in negatione et affirmatione et enunti atione et oratione. Quae scilicet compositiones veritatis et falsitatis naturam ab intellectibus accipientes in significationis prolatione conservant. De divisione autem quae ad negationem pertinet deque compositione quae ad affirmationem paulo post enucleatius dicam. Nunc illud videndum est, utrum verum sit circa omnem compositionem circaque omnem divisionem veritatem vel mendacium provenire, quod omnino falsum est. Quis enim dixerit huiusmodi nominum coniunctionem: et Socrates et Plato  vel si a se haec nomina dividantur nec Socrates nec Plato  veri aliquam falsive tenere significantiam? Quare confitendum est non circa omnem divisionem neque circa omnem compositionem, eam scilicet quae in oratione versatur, mendacium veritatemque subsistere. Sed illud verissimum est, quod omnis quae est in oratione veritas falsitasque in compositione et divisione nascitur, non tamen omnis orationis compositio vel divisio verum retinet aut falsum. Ergo si sic dixisset: circa omnem compositionem vel divisionem veritas falsitasque est, mentiretur. Sed quoniam dixit simpliciter: veritas falsitasque circa compositionem divisionemque est, verissime subtilissimeque dixisse putandus est. Illa enim ƿ nomina quae ita dicuntur simplicia, ut veritatem aut falsitatem quodammodo valeant designare, huiusmodi sunt, ut intra se atque intra significationem suam quandam retineant compositionem, ut si qui dicat: Lego  hoc est enim dicere "lego" tamquam si dicat "Ego lego". Hoc autem compositio est. Vel quotiens interrogante alio respondet alius uno tantum sermone, videtur quoque tunc simplex sermo veritatem mendaciumque perficere. Quod perfalsum est. Audientis namque responsio ad totum ordinem superioris enuntiationis adiungitur: ut si quis interroganti mundusne animal sit, est responderit, videtur haec una particula veritatem vel mendacium continere sed falso. Non enim una est sed ad vim ipsius responsionis intuenti tale est ac si diceret "Mundus animal est". Quod vero ait NOMINA IPSA ET VERBA CONSIMILIA ESSE SINE COMPOSITIONE VEL DIVISIONE INTELLECTUI, illud designat, quod supra iam dixit, ea quae sunt in voce notas esse animae passionum. Quod si notae sunt, sicut litterae vocum in se similitudinem gerunt, ita voces intellectuum. Et quoniam dictum est, cur de similitudine verborum nominumque atque animae passionum dixerit, cur etiam circa compositionem et divisionem falsum verumque esse proposuerit, dicendum est quid sit ipsa compositio vel divisio, in qua veritas et falsitas invenitur. Nam quoniam de simplici enuntiativa oratione perpendit, ut posterius ipse in divisione declarat dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, illam nunc compositionem designare uult, quae alicuius vel substantiam constituit vel aliquid secundum esse coniungit. Nam cum dico: Socrates est  hoc ipsum esse Socrati applico et substantiam eius esse constituo. Sin vero ƿ dixero: Socrates philosophus est  philosophiam et Socratem secundum esse composui, vel si dicam Socrates ambulat, huiusmodi est tamquam si dicam Socrates ambulans est. Igitur quotiens huiusmodi fuerit compositio, quae secundum esse verbum vel substantiam constituat vel res coniungat, affirmatio dicitur et in ea veri falsique natura perspicitur. Et quoniam omnis negatio ad praedicationem constituitur (huius enim affirmationis quae est "Socrates est" negatio est non ea quae dicit "Non Socrates est" sed ea quae pronuntiat "Socrates non est" et ad id quod esse Socrates dictus est negatio apponitur, ut eum id dicamus non esse, quod ante dictus est esse): igitur quoniam id quod in affirmatione secundum esse vel constitutum vel coniunctum fuerit ad id addita negatio separat, vel ipsam substantiae constitutionem vel etiam factam per id quod dictum est esse aliquid coniunctionem, divisio vocatur. Quando enim dico: Socrates non est  esse a Socrate seiunxi, et cum dico: Socrates philosophus non est  Socratem ab eo quod est philosophum esse separavi, quam separationem, quae ad negationem pertinet, divisionem vocavit. Ergo manifestum est, quoniam si simplex in animae passionibus intellectus fuerit, cum ipse intellectus nullam adhuc veri falsique retineat naturam, eius quoque prolationem ab utrisque esse separatam. Sed cum compositio secundum esse facta vel etiam divisio in intellectibus, in quibus principaliter veritas et falsitas procreatur, euenerit, quoniam ex intellectibus voces capiunt significationem, eas quoque secundum intellectuum qualitatem veras vel falsas esse necesse est. Maximam vero vim habet exempli novitas ƿ et exquisita subtilitas. Ad demonstrandum enim quod unum solum nomen neque verum sit neque falsum, posuit huiusmodi nomen, quod compositum quidem esset, nulla tamen eius substantia reperiretur. Si quod ergo unum nomen veritatem posset falsitatemue retinere posset huiusmodi nomen, quod est hircocervus, quoniam omnino in rebus nulla illi substantia est, falsum aliquid designare sed non designat aliquam falsitatem. Nisi enim dicatur hircocervus vel esse vel non esse quamquam ipsum per se non sit, solum tamen dictum nihil falsi in eo sermone verive perpenditur. Igitur ad demonstrandam vim simplicis nominis, quod omni veritate careat atque mendacio, tale in exemplo posuit nomen, cui res nulla subiecta sit. Quod si quid verum vel falsum unum nomen significare posset, nomen quod eam rem designat, quae in rebus non sit, omnino falsum esset. Sed non est: non igitur ulla veritas falsitasque in simplici umquam nomine reperietur. Nec illud paruae curae fuit non ponere nomen quod omnino nihil significaret sed quod cum significaret quiddam, tamen verum aut falsum esse non posset, ut non videretur veritatis falsitatisque cassum esse, eo quoniam nihil significaret sed quoniam esset simpliciter dictum. Quamquam in eodem illud quoque conficit, ut ostenderet non solum simplex nomen veritate atque mendacio esse alienissimum sed etiam composita quoque nomina, si non habeant aliquam secundum es se vel non esse (sicut superius dictum est) compositionem, verum vel falsum significare non posse: tamquam si diceret: non solum simplex nomen praeter aliquam compositionem nihil verum falsumue significat sed etiam composita ƿ utroque carent (sicut ipse iam dixit) nisi illis aut esse aut non esse addatur, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Hoc vero idcirco addidit, quod in quibusdam ita enuntiationes fiunt, ut quod de ipsis dicitur secundum substantiam proponatur, in quibusdam vero hoc ipsum esse quod additur non substantiam sed praesentiam quandam significet. Cum enim dicimus deus est, non eum dicimus nunc esse sed tantum in substantia esse, ut hoc ad immutabilitatem potius substantiae quam ad tempus aliquod referatur. Si autem dicamus: Dies est  ad nullam diei substantiam pertinet nisi tantum ad temporis constitutionem. Hoc est enim quod significat est, tamquam si dicamus: Nunc est  Quare cum ita dicimus esse ut substantiam designemus, simpliciter est addimus, cum vero ita ut aliquid praesens significetur, secundum tempus. Haec una quam diximus expositio. Alia vero huiusmodi est: esse aliquid duobus modis dicitur: aut simpliciter aut secundum tempus. Simpliciter quidem secundum praesens tempus, ut si quis sic dicat hircocervus est. Praesens autem quod dicitur tempus non est sed confinium temporum: finis namque est praeteriti futurique principinm. Quocirca quisquis secundum praesens hoc sermone quod est esse utitur, simpliciter utitur, qui vero aut praeteritum inugit aut futurum, ille non simpliciter sed iam in ipsum tempus incurrit. Tempora namque (ut dictum est) duo ponuntur: praeteritum atque futurum. Quod si quis cum praesens nominat, simpliciter dicit, cum utrumlibet praeteritum vel futurum dixerit, secundum tempus utitur enuntiatione. Est quoque tertia huiusmodi expositio, quod aliquotiens ita ƿ tempore utimur, ut indefinite dicamus: ut si qui dicat: Est hircocervus Fuit hircocervus Erit hircocervus  hoc indefinite et simpliciter dictum est. Sin vero aliquis addat: Nunc est  vel: Heri fuit  vel: Cras erit  ad hoc ipsum esse quod simpliciter dicitur addit tempus. Quare secundum unam trium harum expositionum intellegendum est quod ait: SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR, VEL SIMPLICITER VEL SECUNDUM TEMPUS. Sed ei quod ante proposuit, QUEMADMODUM esset ALIQUOTIENS QUIDEM IN ANIMA INTELLECTUS SINE VERO VEL FALSO, post quasi consequens reddidit nomina ipsa per se verbaque esse simplicibus intellectibus consimilia, ut homo vel album; ei vero quod ait CUI IAM NECESSE EST HORUM ALTERUM INESSE nihil interim reddidit sed hoc eo supplevisse putabitur, quod ait: SED NONDUM VERUM VEL FALSUM EST, SI NON VEL ESSE VEL NON ESSE ADDATUR. Haec est enim intellectuum quaedam compositio, cui iam necesse est horum alterum inesse qua in oratione vel esse vel non esse additur. Quocirca quoniam de nomine verboque proposuit et quam potuit breviter vocum, litterarum, intellectuum rerumque consequentias altissima ratione monstravit, ad id quod primo proposuit dicens: PRIMUM OPORTET CONSTITUERE QUID NOMEN ET QUID VERBUM, ad haec inquam, quae promiserat definire revertitur. Nomen enim definiens ita subiecit: [THIS IS THE END OF THE SECTION ‘SIGN’ – from now it’s specifically on NOMEN] NOMEN ERGO EST VOX SIGNIFICATIVA SECUNDUM PLACITUM SINE TEMPORE, CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Omnis definitio generis constitutione formatur, differentiarum vero compositione perficitur. Nam si ad propositum genus differentias colligamus easque ad unam quam definire volumus speciem aptemus, usque dum uni tantum speciei collectio illa conveniat, nihil est quod ultra ad faciendam definitionem desideretur: ut ipsum hominem si quis definiat, generi eius quod est animal duas necesse est differentias iungat rationale scilicet atque mortale facietque huiusmodi ordinem: animal rationale mortale; quae definitio si ad hominem referatur, plena est rationis substantiaeque descriptio. Volens ergo Aristoteles definire quid esset nomen prius eius genus sumpsit dicens nomen esse vocem, idcirco scilicet ut hoc quod dicimus nomen ab aliis, quae non voces sed tantum soni sunt, separaret. Distat enim sonus voce: sonus enim est percussio aeris sensibilis, vox vero flatus per quasdam gutturis partes egrediens, quae arteriae vocantur, qui aliqua linguae impressione formetur. Et vox quidem nisi animantium non est, sonus vero aliquotiens inanimorum quoque corpori conflictatione perficitur. Quare quia nomen vocem monstravit, ab aliis quae voces non sunt sed tantum soni, hanc orationis partem separavit atque distribuit. Et vocem quidem nominis velut genus sumpsit. Habet namque aliud quiddam speciei loco differens a nomine quod est verbum, habet quoque quasdam locutiones quae nihil ulla ratione significent, ut sunt articulatae voces, quarum per se significatio non potest inveniri, ut "scindapsos". Huic ergo generi alias differentias rursus apponit, quae nomen sicut vox a sonis aliis segregavit, ita quoque hae differentiae nomen ab aliis speciebus sub voce positis dividant atque discernant. ƿ Quod enim addidit nomen vocem esse significativam, ab his, inquam, vocibus disgregavit nomen quae nihil omnino siguificent, ut sunt syllabae. Syllabae enim, cum ex his totum nomen constet, adhuc ipsae nihil omnino significant. Sunt quoque quaedam voces litteris syllabisque compositae, quae nullam habeant significationem, ut est "Blityri". Ergo quoniam videbantur esse quaedam voces quae significatione carerent, nomen quod vox est et alicuius designationis semper causa profertur non aliter definiendum erat nisi illud a non significantibus vocibus segregaret. Itaque ait nomen esse vocem significativam ut voce quidem ab aliis sonis, significatione vero addita ab his quae sub voce sunt nihil designantia segregaretur. Sed hoc nondum ad totam definitionem valet neque solum nomen vox significativa est sed sunt quaedam voces quae significent quidem sed nomina non sint, ut ea quae a nobis in aliquibus affectibus proferuntur, ut cum quis gemitum edit vel dolore concitus emittit clamorem. Illud enim doloris animi, illud corporis signum est. Et cum sint voces et significent quandam vel animi vel corporis passionem, nullus tamen gemitum clamoremque dixerit nomen. Mutorum quoque animalium sunt quaedam voces quae significent: ut canum latratus iras significat canum, alia vero mollior quaedam blandimenta designat. Quare adiecta differentia separandum erat nomen ab his omnibus quae voces quidem essent et significarent sed nominis vocabulo non tenerentur. Quid igitur adiecit? Nomen vocem esse significativam non simpliciter sed secundum placitum. Secundum placitum vero est, quod secundum quandam positionem ƿ placitumque ponentis aptatur. Nullum enim nomen naturaliter constitutum est neque umquam sicut subiecta res natura est, ita quoque a natura venienti vocabulo nuncupatur sed hominum genus, quod et ratione et oratione vigeret, nomina posuit eaque quibus libuit litteris syllabisque coniungens singulis subiectarum rerum substantiis dedit. Hoc autem illo probatur, quod, si natura essent nomina, eadem apud omnes essent gentes: ut sensus, quoniam naturaliter sunt, idem apud omnes sunt. Omnes enim gentes non aliis nisi solis oculis intuentur, audiunt auribus, naribus odorantur, ore accipiunt gustatus, tactu calidum vel frigidum, lene vel asperum indicant. Atque haec huiusmodi sunt, ut apud omnes (ut dictum est) gentes eadem videantur. Ipsa vero quae sentiuntur, quoniam naturaliter constituta sunt, non mutantur. Dulcedo enim et amaritudo, album et nigrum et quaequae alia sensibus quinque sentimus, eadem apud omnes sunt. Neque enim quod Italis dulce est in sensu, idem Persis videtur amarum nec quod album apud nos oculis apperet, apud Indos nigrum est, nisi forte aliqua sensus aegritudine permPombaur sed hoc nihil attinet ad naturam. Igitur quoniam ista sunt naturaliter, apud omnes gentes eadem manent. Si ergo et nomina naturalia esse viderentur, eadem essent apud omnes gentes nec ullam susciperent mutationem: nunc autem ipsum hominem alio vocabulo Latini, alio Graeci diversis quoque vocabulis barbarae gentes appellant. Quae in ponendis nominibus dissensio signum est non naturaliter sed ad ponentium placitum voluntatemque rebus nomina fuisse composita. Idem quoque monstrat, quod saepe ƿ singulorum hominum sunt permutata vocabula. Quem enim nunc vocamus Platonem, Aristocles ante vocabatur et qui Theophrastus nunc dicitur, ante Aristotelen a suis parentibus Tyrtamus appellabatur. In eadem quoque lingua quando plura vocabula uni adduntur rei, monstratur rem illam non naturalibus sed appositis nominibus nuncupari. Si enim naturalibus nominibus res quaeque vocaretur, unam rem uno tantum nomine signaremus. Quid enim attinet, si naturalia sunt vocabula, unius rei plures esse nominum voces, quae ad unam designationem demonstrationemque concurrerent? Dicimus enim gladius, ensis, mucro et haec tria ad unam subiectam substantiam currunt. Ergo monstratum est nomina esse secundum placitum id est secundum ponentium placitum, ac si diceret nomen esse vocem quidem et significativam sed non naturaliter significativam sed secundum placitum voluntatemque ponentis, hoc scilicet dividens ab his vocibus quae naturaliter designarent, ut sunt hae vel quas nos in passionibus affectibusque proloquimur vel edere animalia muta conantur. Sed nondum supra dicta differentia plenam nominis formam definitionemque constituit. Est namque verbo commune eum nomine, quod vox designativa et secundum placitum est sed addita differentia quae est SINE TEMPORE nomen a verbo distinxit. Neque enim nomen ullum consignificat tempus. Verbi namque est, cum aut passio significatur aut actio, aliquam quoque secum trahere vim temporis, qua illud cum vel facere vel pati dicitur proferatur. Cum enim dico: Socrates  nullius est temporis; cum vero: Lego  vel: Legi  vel: Legam  tempore non caret. Addito ergo nomini quod sine tempore esse dicatur ƿ nomen a verbo disiungitur. Sane nemo nos arbitretur opinari, quod nullum nomen significet tempus. Sunt enim nomina, quae tempus significatione demonstrent: velut cum dico hodie vel cras, temporis nomina sunt. Sed illud dicimus, quod cum eodem nomine tempus non significatur. Aliud est enim significare tempus, aliud consignifiaare. Verbum enim cum aliquo proprio modo tempus quoque significat: ut cum vel agentis vel patientis modum demonstrat, sine tempore ipsa passio vel actio non profertur. Unde non dicimus, quod nomen non significet tempus sed quod nomen significatio temporis non sequatur. Restat autem sola una differentia, quae si superioribus adiungatur, plenissima fere nomen definitione formabitur. Haec autem est qua nomen ab oratione separetur. Inveniuntur enim quaedam sine dubio orationes, quae cum voces sint et significativae et secundum placitum, quippe quae sunt nominibus colligatae, tamen sint sine tempore, ut cum dico: Socrates et Plato  haec namque oratio, cum ex nominibus iuncta sit, nomen quidem non est, vox vero est significativa secundum placitum et tempore uacat. Ut igitur nomen ab huiusmodi oratione divideret, addidit hanc differentiam, quae est CUIUS NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA. Oratio enim quoniam verbis nominibusque coniungitur, verba vero vel nomina significativa esse palam est, partes quoque orationis significare aliquid dubium non est. Nominis vero pars, quoniam simplex est, nihil omnino significat. Sed cum omnis oratio omneque nomen et verbum ex subiectis intellectibus vim significandi sumat, est aliquotiens, ut unum nomen multos significet intellectus. Quocirca erit quoque, ut non simplex nomen ƿ unam tantum animi passionem intellectumque designet. Nam cum dico suburbanum, imaginationem significandi sed ita ut a toto nomine separatum, cum ad ipsum refertur nomen, significet nihil: ut in eo quod dicimus equiferus ferus uult quidem aliquid significare sed si a tota compositione separatur, nihil omnino designat in eo scilicet nomine in quo cum equi particula iunctum equiferum consignificabat. Omnis namque haec compositio unius intellectus designativa est. Quare in oratione quidem ferus significat (etenim equus ferus oratio duos retinet intellectus), in nomine vero nihil, quoniam hoc quod dicimus equiferus unius intellectus designativum est. Sed fortasse ferus cum ea parte qua iunctum est simul quidem consignificet, separatum vero nihil. Hoc est ergo quod ait: AT VERO NON QUEMADMODUM IN SIMPLICIBUS NOMINIBUS, SIC SE HABET ETIAM IN COMPOSITIS IN ILLIS ENIM NULLO MODO PARS SIGNIFICATIVA EST; IN HIS AUTEM VULT QUIDEM SED NULLIUS SEPARATI, UT IN EQUIFERUS FERUS. Simplex enim nomen nec imaginationem aliquam partium significationis habet, compositum vero tales habet partes, ut quasi conentur quidem aliquid significare sed consignificeut potius quam quidquam extra significent. Addito igitur nomini, quod eius partes nihil separatae significent, nomen ab oratione disiunctum est. Postquam adiectionem quae est CUIUS ƿ NULLA PARS EST SIGNIFICATIVA SEPARATA quid in nominis definitione valeret explicuit (hoc scilicet quo nomen ab oratione seiungeret), illud quoque disserit, cur sit additum quod dictum est secundum placitum. Nam quoniam nulla nominum significatio naturaliter est sed omne nomen positione designat, idcirco dictum est secundum placitum. Quod enim placuit ei qui primus nomina indidit rebus, hoc illis vocabulis designatur. Age enim quis naturaliter nomina esse confirmet, quorum apud omnes gentes est tam diversa varietas? Nec vero dicitur quod nulla vox naturaliter aliquid designet sed quod nomina non naturaliter sed positione significent. Aliqui habent hoc ferarum mutorumque animalium soni, quorum vox quidem significat aliquid (ut hinnitus equi consueti equi inquisitionem, latratus canum latrantium iracundiam monstrat et alia huiusmodi) sed cum voces mutorum animalium propria natura significent, nullis tamen elementorum formulis conscribuntur. Nomen vero quamquam subiaceat elementis, prius tamen quam ad aliquam subiectae rei significationem ponatur per se nihil designat, ut cum dicimus scindapsos vel hereceddy. Haec per se nihil quidem significant sed si ad subiectae alicuius rei significationem ponantur, ut dicatur vel homo scindapsos vel lapis hereceddy, tunc hoc quod per se nihil significat positione et secundum ponentis quoddam placitum designabit. Ergo tum nomen significativum est, quando (ut ipse ait) fit nota. Tunc autem fit nota, cum secundum ponentis placitum vocabulum quod naturaliter nihil designabat ad subiectae rei significationem datur. Hoc ƿ est enim quod ait fit. Si enim naturaliter nomina significarent, numquam de his Aristoteles diceret fit nota. Tunc enim non fieret nota sed esset. Ergo quoniam nomina secundum placitum significativa sunt, ferarum vero inlitterati soni secundum naturam, idcirco harum voces esse nomina non dicuntur. Universaliter autem dicimus: omnium vocum aliae sunt quae inscribi litteris possunt, aliae vero quae non possunt. Et rursus earum quae vel inscribuntur vel minime, aliae significant, aliae vero nihil. Amplius quoque omnium aliae secundum placitum designant, aliae vero naturaliter. Nomen ergo secundum placitum est: positione enim factum est subiectae rei nota. Nihil enim nominum est quod naturaliter significet. Non enim nomen informat significatio sed secundum placitum significatio. Nam et inlitterati soni significant, ut sunt ferarum, quos ideo sonos vocavit, quoniam sunt quaedam muta animalia quae vocem omnino non habent sed tantum sonitu quodam concrepant. Quidam enim pisces non voce sed branchis sonant et (ut Porphyrius autumat) cicada per pectus sonitum mittit, QUORUM omnium NIHIL EST NOMEN. Hoc autem dictum est, non quod nullum nomen sit harum vocum quas animalia proferunt sed quod his non velut nominibus utantur. Nam quamuis vox inlitterata sit et natura significet latratus canum, dicitur tamen latratus et leonis fremitus et tauri mugitus. Haec sunt. Nomina ipsarum vocum quae a mutis animalibus proferuntur. Sed non hoc dicimus quoniam earum nihil est nomen sed quoniam horum sonorum nihil tale est, ut nomen esse possit id est ut secundum ea velut ƿ nominibus utentes ferae sibi inuicem colloquantur. Habent enim significationem sed (ut dictum est) naturalem, nomen autem secundum placitum est. NON HOMO VERO NON EST NOMEN. AT VERO NEC POSITUM EST voMEN, QUO ILLUD OPORTEAT APPELLARI. NEQUE ENIM ORATIO AUT NEGATIO EST SED SIT NOMEN INFINITUM. Superius omnia quaecumque extra nomen essent praedictis adiectionibus a nomine separavit. Nunc vero quoniam sunt quaedam quae sub definitionem quidem nominis cadant, videantur tamen a nomine discrepare, de his disserit, ut quid esse nomen integre videatur expediat. Quod enim dicimus non homo vel non equus oratio quidem non est. Omnis enim oratio aut nominibus constat et verbis aut solis duobus vel pluribus verbis vel solis nominibus. In eo autem quod est non homo unum tantum nomen est, quod dicitur homo, id autem quod est non neque nomen est neque verbum. Quare neque ex duobus verbis aut ex verbo et nomine. Verbum enim in eo nullum est. Quare id quod dicimus non homo oratio non est. Iam vero nec verbum esse monstrare superfluum est, cum in verbis semper tempora reperiantur, in hoc vero nullum omnino quisquam tempus inveniat. Sed nec negatio est. Omnis enim negatio oratio est, non homo vero cum oratio non sit nec negatio esse potest. Illud quoque, quod omnis negatio aut vera est aut falsa, non homo vero neque verum est neque falsum. Sensus enim plenus non est: quare negatio esse propter hoc quoque non dicitur. Nomen vero esse quis dicat, cum omne nomen sive proprium sive sit appellativum definite significet? Cum enim dico: ƿ Cicero  unam personam unamque substantiam nominavi, et cum dico: Homo  quod est nomen appellativum, definitam significavi substantiam. Cum vero dico: Non homo  significo quidem quiddam, id quod homo non est sed hoc infinitum. Potest enim et canis significari et equus et lapis et quicumque homo non fuerit. Et aequaliter dicitur vel in eo quod est vel in eo quod non est. Si quis enim de Scylla quod non est dicat non homo, significat quiddam quod in substantia atque in rerum natura non permanet. Si quis autem vel de lapide vel de ligno vel de aliis quae sunt rebus dicat non homo, idem tamen aliquid significabit et semper praeter id quod nominal huiusmodi vocabuli significatio est. Sublato enim homine quidquid praeter hominem est hoc significat non homo, quod a nomine plurimum differt. Omne enim nomen (ut dictum est) definite id significat quod nominatur nec similiter et de eo quod est et quod non est dicitur. Sed haec huiusmodi vox et designativa est et ad placitum et sine tempore et (ut dictum est) partes eius extra nihil designant. Quare dubia apud antiquos sententia fuit, utrum nomen hoc non dicerent, an hoc aliqua adiectione nominis definitioni subicerent. Et qui hoc a nomine separabant, ita nomen definitione claudebant dicentes: nomen esse vocem designativam secundum placitum sine tempore circumscriptae significationis, cuius partes extra nihil designarent, ut quoniam non homo rem circumscriptam non significaret a nomine separaretur. Alii vero non eodem modo sed dicebant quidem esse nomen sed non simpliciter. Quadam namque adiectione sub nomine poni posse putabant hoc modo, ut sicut homo mortuus non ƿ dicitur simpliciter homo sed homo mortuus, ita quoque et nomen hoc, quod nihil definitum designaret, non diceretur simpliciter nomen sed nomen infinitum. Cuius sententiae Aristoteles auctor est, qui se hoc ei vocabulum autumat invenisse. Ait enim: AT VERO NEC POSITUM EST NOMEN, QUO ILLUD OPORTEAT APPELLARI, dicens: id quod dicimus non homo quo vocabulo debeat appellari non vocavit antiquitas. Et usque ad Aristotelem nullus noverat quid esset id quod non homo diceretur sed hic huic sermoni vocabulum posuit dicens: SED SIT NOMEN INFINITUM, non simpliciter nomen, quoniam nulla circumscriptione designat sed infinitum nomen, quoniam plura et ea infinita significat. Sed hoc non solis huiusmodi vocibus contingit, ut simpliciter sub nomine poni non possint sed sunt quaedam aliae quae omnia quidem nominis habeant et definite significent sed quadam alia discrepantia nomina simpliciter dici non possint, ut sunt obliqui casus cum dicimus: Catonis Catoni Catonem  et caeteros. Horum enim discrepantia est a nomine, quod nomen rectum iunctum cum est vel non est affirmationem facit: ut si quis dicat: Socrates est  hoc verum est vel falsum. Si enim vivente Socrate diceretur, verum esset, mortuo vero falsum est: quare affirmatio est. Si quis autem dicat: Socrates non est  rursus faciet negationem et in ea quoque veritas et falsitas invenitur. Ergo omne rectum nomen iunctum cum est vel non est enuntiationem conficit. Hi vero obliqui easus iuncti cum est vel non est enuntiationem nulla ratione perficiunt. Enuntiatio namque est perfectus orationis intellectus in quem veritas ƿ aut falsitas cadit. Si quis ergo dicat: Catonis est  nondum plena sententia est. Quid enim sit Catonis non dicitur. Atque eodem modo Catoni est vel Catonem est. In his ergo, quoniam cum est vel non est iuncta enuntiationem non perficiunt, est quaedam a nomine discrepantia, quamquam sint nomini omni definitione coniuncta. Magna est enim discrepantia quod rectum nomen cum est iunctum perfectam orationem facit, obliqui casus imperfectam. Quod autem dictum est obliquos casus cum est verbo iunctos orationem perfectam non facere, non dicimus quoniam cum nullo verbo obliqui casus iunguntur ita, ut nihil indigentem perficiant orationem. Cum enim dico: Socratem paenitet  enuntiatio est. Sed non cum omni verbo sed tantum cum est vel non est hi casus iuncti perfectam orationem nulla ratione constituunt. Atque hoc est quod ait: CATONIS AUTEM VEL CATONI ET QUAECUMQUE TALIA SUNT NON SUNT NOMINA SED CASUS NOMINIS. Unde etiam discrepare videntur. Haec enim nomina non vocantur. Illa enim rectius dicuntur nomina quae prima posita sunt id est quae aliquid monstrant. Genetivus enim casus non aliquid sed alicuius et dativus alicui et caeteri eodem modo. Rectus vero qui est primus rem monstrat, ut si qui dicat Socrates, atque ideo hic nominativus dicitur, quod nominis quodammodo solus teneat vim nomenque sit. Et verisimile est eum qui primus nomina rebus imposuit ita dixisse: vocetur hic homo et rursus vocetur hic lapis. Posteriore vero usu factum est, ut in alios casus primitus positum nomen derivaretur. Illud quoque maius est, quod omnis casus nominis alicuius casus est. Ergo nisi sit nomen, cuius casus sit, casus ƿ nominis dici recte non potest. casus autem omnis inflexio est. Sed genetivus et dativus et caeteri nominativi inflexiones sunt: quare nominativi casus erunt. Sed omnis casus qui secundum nomen est nominis casus est. Nomen igitur nominativus est. Aliud vero est casus alicuius quam est id ipsum cuius casus est. Casus igitur nominis nomen non est. Quod vero adiecit: RATIO AUTEM EIUS EST IN ALLIS QUIDEM EADEM, hoc inquit: ratio et definitio obliqui casus et nominis eadem est in omnibus aliis (nam et voces sunt et significativae et secundum placitum et sine tempore et circumscripte designant) sed (ut ipse ait) DIFFERT QUONIAM CUM EST VEL FUIT VEL ERIT IUNCTUM NEQUE VERUM NEQUE FALSUM EST, quod a recto nomine sine ulla dubitatione perficitur, ut cum est vel fuit vel erit iunctum verum falsumue conficiat. Quod designavit per hoc quod ait: NOMEN VERO SEMPER, subaudiendum est scilicet: facit verum falsumque CUM EST VEL FUIT VEL ERIT IUNCTUM. Eorumque ponit exemplum: CATONIS EST VEL NON EST. In his enim (ut ipse ait) neque verum aliquid dicitur neque falsum. Quare integra nominis definitio est huiusmodi: nomen est vox designativa secundum placitum sine tempore circumscripte significans, cuius partes nihil extra designant, et cum est vel fuit vel erit iunctum nullius indigentem orationis perficiens intellectum enuntiationemque constituens. Quoniam igitur de nomine expeditum, ad definitionem verbi veniamus. VERBUM AUTEM EST QUOD CONSIGNIFICAT TEMPUS, CUIUS PARS NIHIL EXTRA SIGNIFICAT, ET EST SEMPER EORUM QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA. Verbi quidem integra definitio huiusmodi est: verbum est vox significativa secundum placitum, quae consignificat tempus, cuius nulla pars extra designativa est. Sed quoniam commune est illi cum nomine esse voci et significativae et secundum placitum, idcirco illa reticuit. Ab his autem quae propria verbi sunt inchoavit verbi autem est proprium, quo a definitione nominis segregetur, quod consignificat tempus. Omne enim verbum consignificationem temporis retinet, non significationem. Nomina enim significant tempus, verbum autem cum principaliter actus passionesque significet, cum ipsis actibus et passionibus temporis quoque vim trahit, ut in eo quod dico lego. Actionem quidem quandam principaliter monstrat hoc verbum sed cum ea ipsa agendi significatione praesens quoque tempus adducit. Atque ideo non ait verbum significare tempus sed consignificare. Neque enim principaliter verbum tempus designat (hoc enim nominis est) sed cum aliis quae prineipaliter significat vim quoque temporis inducit et inserit. Ergo cum nomen et verbum voces significativae sint et secundum placitum, addito verbo, quod consignificat tempus, a nomine segregatur. Ut enim saepe dictum est, nomen significare tempus poterit, verbum vero consignificare. Et sicut in definitione nominis addidit nihil nominis partes separatas a tota compositione nominis designare propter orationes quae nominibus essent compositae, ut est: Et Plato et Socrates  ita quoque in verbo addidit nihil extra verbi ƿ partes significare propter eas orationes quas verba componunt, ut est et ambulare et currere. Haec enim oratio ex verbis est composita et singula verba et in ipsa oratione et praeter eam per se ipsa significant. In verbo vero nullo modo. Et sicut in nomine pars nominis nihil significat separata, ita in verbo pars verbi nihil separata designat. Dicit autem esse verbum semper eorum quae de altero praedicantur notam, quod huiusmodi est ac si diceret nihil aliud nisi accidentia verba significare. Omne enim verbum aliquod accidens designat. Cum enim dico: Cursus  ipsum quidem est accidens sed non ita dicitur ut id alicui inesse vel non inesse dicatur. Si autem dixero: Currit  tunc ipsum accidens in alicuius actione proponens alicui inesse significo. Et quoniam quod dicimus "Currit" praeter aliquid subiectum esse non potest (neque enim dici potest praeter eum qui currit), idcirco dictum est omne verbum eorum esse significativum quae de altero praedicantur, ut verbum quod est currit tale significet quiddam quod de altero, id est de currente, praedicetur. His igitur expeditis quod ait verbum consignificare tempus exemplis aperuit. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM CONSIGNIFICAT TEMPUS, UT CURSUS QUIDEM NOMEN EST, CURRIT VERO VERBUM, CONSIGNIFICAT ENIM NUNC ESSE. Expeditissime quid verbum distaret a nomine verbi et nominis interpositione monstravit. Etenim quoniam cursus accidens est et nominatum est ita ut sit nomen, non significat tempus, currit vero idem accidens in verbo positum praesens tempus designat. Et hoc verbum distare videtur a nomine, quod illud consignificat tempus, illud praeter omnem consignificationem ƿ temporis praedicatur. Sed postquam verbum consignificare tempus ostendit, id quod supra iam dixerat verbum semper de altero praedicari, id nunc memoriter quemadmodum praedicatur ostendit. Ait enim: ET SEMPER EORUM QUAE DE ALTERO DICUNTUR NOTA EST, UT EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO, hoc scilicet dicens: ita verbum significat aliquid, ut id quod significat de altero praedicetur sed ita ut accidens. Omne namque accidens et in subiecto est et de subiecta sibi substantia praedicatur. Nam cum dico "Currit", id de homine si ita contigit praedico scilicet de subiecto et ipse cursus in homine est, unde verbum currit inflexum est. Ergo quod dicit semper eorum esse notam verbum quae de altero praedicentur hoc monstrat: verbum accidentia semper significare, quoniam ait eas res verbi significatione monstrari quae vel in subiecto essent vel de subiecto dicerentur. Vel certe ut sit alius intellectus, quoniam solet indifferenter uti de subiecto praedicari, tamquam si dicat in subiecto esse, et saepe cum dicit de subiecto aliquid praedicari in subiecto esse significat, cum vellet ostendere accidentium significationem contineri verbis, ait ea semper designari verbis QUAE DE SUBIECTO essent. Sed quoniam hoc videbatur obscurius, patefecit addito VEL IN SUBIECTO, ut quid esset de quo supra dixerat DE SUBIECTO exponeret cum addidit VEL IN SUBIECTO: tamquam [enim] si ita dixisset: verbum quidem semper eorum nota est, quae de altero praedicantur subiecto sed ne hoc fortasse cuipiam videatur obscurius, hoc dico esse de subiecto, quod est esse in subiecto. Vel melior haec expositio est, si similiter eum dixisse arbitremur, tamquam si diceret: ƿ omne verbum significat quidem accidens sed ita ut id quod significat aut particulare sit aut universale, ut id quod ait de subiecto ad universalitatem referamus, quod in subiecto ad solam particularitatem. Cum enim dico movetur, verbum quidem est et accidens sed universale. Motus enim plures species sunt, ut cursus sub motu ponitur. Ergo cursus si definiendus est, motum de cursu praedicamus. Quocirca motus genus quoddam est cursus atque ideo motus de cursu ut de subiecto praedicabitur, cursus vero ipse, quoniam species alias non habet, in subiecto tantum est id est in currente. Motus autem quamquam et ipse sit in subiecto, tamen de subiecto praedicatur. Ideo dicit eorum esse notam verbum quae de altero praedicentur atque addidit, ut EORUM QUAE DE SUBIECTO VEL IN SUBIECTO. Hoc dicit: accidentium quidem vim verba significant sed talium quae aut universalia sint aut particularia, ut cum dico moveor universale quiddam est et de subiecto dicitur, ut de cursu, cum vero dico curro, particulare est et quoniam de subiecto non dicitur, in subiecto solum est. NON CURRIT VERO ET NON LABORAT NON VERBUM DICO. CONSIGNIFICAT QUIDEM TEMPUS ET SEMPER DE ALIQUO EST, DIFFERENTIAE AUTEM HUIC NOMEN NON EST POSITUM; SED SIT INFINITUM VERBUM, QUONIAM SIMILITER IN QUOLIBET EST, VEL QUOD EST VEL QUOD NON EST. Quemadmodum dixit in nomine non homo nomen non esse, idcirco quod multis aliis conveniret, quae homines non essent, quoniamque id quod diceret auferret nihilque definitum in eadem praedicatione relinqueret (quod enim non homo est potest ƿ esse et centaurus, potest esse et equus et alia quae vel sunt vel non sunt atque ideo infinitum nomen vocatum est): ita quoque etiam in verbo quod est "non currit" vel "non laborat" infinitum quoque ipsum est, quoniam non solum de eo quod est verum est sed etiam de eo quod non est praedicari potest. Possum namque dicere: Homo non currit  et id quod aio, "non currit", de ea re quae est praedico id est de homine, possum rursus dicere: Scylla non currit  sed Scylla non est: igitur hoc quod dico "non currit" et de ea re quae est valet et de ea quae nihil est praedicari. Sed forte aliquis hoc quoque in verbis finitis esse contendat. Possum namque dicere: Equus currit Hippocentaurus currit  et de ea re scilicet quae est et de ea quae non est et praeterito, quod futurum quidem ante praesens tempus est, praeteritum vero retro relinquitur. Et nouo admirabilique sermone usus est: quod complectitur. Et nos id quantum Latinitas passe est transferre diu multumque laborantes hoc solo potuimus, Graeca vero oratione luculentius dictum est. Ita ƿ enim habet *ta de ton perix*. Quod qui Graecae linguae peritus est quantum melius Graeca oratione sonet agnoscit. IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT ET SIGNIFICANT ALIQUID. CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT; NEQUE ENIM ESSE SIGNUM EST REI VEL NON ESSE, NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS. IPSUM QUIDEM NIHIL EST, CONSIGNIFICAT AUTEM QUANDAM COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST INTELLEGERE. Hoc loco Porphyrius de Stoicorum dialectica aliarumque scholarum multa permiscet et in aliis quoque huius libri partibus idem in expositionibus fecit, quod interdum nobis est neglegendum. Saepe enim superflua explanatione magis obscuritas comparatur. Nunc autem Aristotelis huiusmodi sententia est: VERBA, inquit, IPSA SECUNDUM SE DICTA NOMINA SUNT, non secundum id quod omnis pars orationis commune nomen vocatur, ut dicimus nomina rerum sed quod omne verbum per se dictum neque addito de quo illud praedicatur tale est, ut nomini sit affine. Nam si dicam: Socrates ambulat  id quod dixi ambulat totum pertinet ad Socratem, nulla ipsius intellegentia propria est. At vero cum dico solum: Ambulat  ita quidem dixi, tamquam si alicui insit, id est tamquam si quilibet ambulet sed tamen per se est propriamque retinens sententiam huius verbi significatio est. Unde fit ut apud Graecos ƿ quoque articularibus praepositivis sola verba dicta proferantur, ut est: to perimatein tou perimatein toi perimatein  Quod si verba cum nominibus coniungantur, in oratione Graeca articularia praepositiva addi non possunt, nisi sola dicta sint. Quoniam significant rem et ita ut, quamuis eam significent quae alicui insit, tamen secundum se et per suam sententiam dicantur, idcirco sunt nomina. Et quod Aristoteles ait IPSA QUIDEM SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA SUNT, tale est ac si diceret: ipsa quidem sola neque cum aliis iuncta verba nomina sunt. Cuius rei hoc argumentum reddit: CONSTITUIT ENIM, inquit, QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Hoc autem tale est: omni nomine audito quoniam per syllabas progrediens vox aliquantulum temporis spatium decerpit, in ipsa progressione temporis qua dicitur nomen audientis quoque animus progreditur: ut cum dico "imperterritus", sicut per syllabas "in" et "per" et "ter" et caeteras progreditur nomen, ita quoque animus audientis per easdem syllabas uadit. Sed ubi quis expleuerit nomen et dixerit "imperterritus", sicut nomen finitum a syllabarum progressione consistit, ita quoque audientis animus conquiescit. Nam cum totum nomen audit, totam significationem capit et animus audientis, qui dicentis syllabas sequebatur volens quid ille diceret intellegere, cum significationem ceperit, consistit et ems animus perfecto demum nomine constituitur. Hoc est enim quod ait: CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Etenim is qui loquitur postquam totum sermonem dixerit, ƿ audientis animum constituit. Non est enim quo progrediatur intellegentia ipsoque nomine terminato animus auditoris qui progrediebatur explicatione nominis constituitur et quiescit et ultra ad intellegentiam, quippe expedita significatione nominis, non procedit. Sed hoc verbo nominique commune est sed si verbum solum dicatur. Namque si cum nomine coniungatur, nondum audientis constituitur intellectus. Est enim quo ultra progredi animus audientis possit, quod cum dico: Socrates ambulat  hoc ambulat non per se intellegitur sed ad Socratem refertur et in tota oratione consistit intellectus, non in solo sermone. At vero si solum dictum sit, ita in significatione consistit, quemadmodum in nomine. Recte igitur dictum est IPSA SECUNDUM SE DICTA VERBA NOMINA esse, quoniam CONSTITUIT IS QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Vel certe erit melior expositio, si ita dicamus: verba ipsa secundum se dicta nomina esse, idcirco quoniam cuiusdam rei habeant significationem. Neque enim si talis rei significationem retinet verbum, quae semper aut in altero sit aut de altero praedicetur, idcirco iam nihil omnino significat. Nec si significat aliquid quod praeter subiectum esse non possit, idcirco iam etiam illud significat quod subiectum est. Ut cum dico sapit, non idcirco nihil significat, quoniam hoc ipsum sapit sine eo qui sapere possit esse non potest. Nec rursus cum dico: Sapit  illum ipsum qui sapit significo sed id quod dico ("sapit") nomen est cuiusdam rei, quae semper si in altero et de altero praedicetur. Unde fit ut intellectus quoque sit. Nam qui audit "Sapit", licet per se constantem rem non audiat (in altero namque ƿ semper est et in quo sit dictum non est), tamen intellegit quiddam et ipsius verbi significatione nititur et in ea constituit intellectum et quiescit, ut ad intellegentiam ultra nihil quaerat omnino, sicut fuit in nomine. Quemadmodum enim nomen cuiusdam rei significatio propria est per se constantis, ita quoque verbum significatio rei est non per se subsistentis sed alterius subiecto et quodammodo fundamento nitentis. Est hic quaestio. Non enim verum videri potest quod ait: CONSTITUIT ENIM QUI DICIT INTELLECTUM ET QUI AUDIT QUIESCIT. Nam neque qui dicit constituit intellectum neque qui audit quieseit. Deest enim quiddam sermoni vel nomini: ut si qui dicat: Socrates  mox audientis animus requirit quid Socrates? Facitne aliquid an patitur? Et nondum audientis intellectus quietus est, cum horum aliquid requirit. Et in verbo idem est: cum dico: Legit  quis legat, animus audientis inquirit. Nondum ergo qui dicit constituit intellectum nec qui audit quiescit. Sed ad hoc Aristotelem rettulisse putandum est, quoniam quilibet audiens cum significativam vocem ceperit animo, eius intellegentia nitetur: ut cum quis audit homo, quid sit hoc ipsum quod accipit mente comprehendit constituitque animo audisse se animal rationale mortale. Si quis vero huiusmodi vocem ceperit, quae nihil omnino designet, animus eius nulla significatione neque intellegentia roboratus errat ac vertitur nec ullis designationis finibus conquiescit. Quare Aristotelis recta sententia est: et verba secundum se dicta esse nomina et dicentem constituere intellectum audientemque quiescere. Sed huiusmodi quaestio ab Aspasio proposita est ab eodemque resoluta. Postquam igitur Aristoteles secundum se ƿ dicta verba nomina esse constituit, quid inquit? SED SI EST VEL NON EST, NONDUM SIGNIFICAT. Quod huiusmodi est ac si diceret: significatur quidem quiddam a verbis velut a nominibus sed nulla inde tamen negatio affirmatiove perficitur. Cum enim dico "Sapit", est quidem quaedam significatio sed nihil aut esse aut non esse demonstrat, id est neque affirmativum aliquid nec negativum est. Nam si affirmatio et negatio in intellectuum compositionibus invenitur, ut supra iam docuit, neque nomina sola dicta nec verba aut affirmationem aut ullam facient negationem. Pluribus enim modis docuit alias Aristoteles non in rebus sed in intellectibus veritatem falsitatemque esse constitutam. Quod si in rebus esset veritas falsitasue, una res sola dicta aut affirmatio esset aut quae ei contraria est negatio. Nunc vero quoniam in intellectibus iunctis veritas et falsitas ponitur, oratio vero opinionis atque intellectus passionumque animae interpres est: [quare] sine compositione intellectuum verborumque veritas et falsitas non videtur exsistere. Quocirca praeter aliquam compositionem nulla affirmatio vel negatio est. Verba igitur per se dicta significant quidem quiddam et sunt rei nomina sed nondum ita significant ut vel esse aliquid vel non esse constituant, id est aut affirmationem faciant aut negationem. Nam sicut in nominis partibus aut verbi partes ipsae nihil significant, omnes vero simul designant, ita quoque in affirmationibus aut negationibus partes quidem significant, totae vero coniunctae verum falsumue designant: ut cum dico: Socrates philosophus est Socrates philosophus non est  Singillatim positae partes propria significatione nituntur sed nihil verum falsumue significant, omnes vero simul iunctae, ut est: ƿ Socrates philosophus est  veritatem faciunt vel quod est huic contrarium falsitatem. Quare cum verba secundum se dicta nomina sint et significent aliquid et partes quaedam eius compositionis sint, quae verum falsumque faciat, non tamen ipsa in propria significatione vel esse, quod affirmationis est, vel non esse quod est negationis, designant. Nisi enim cui insit verbum illud fuerit additum, non fit enuntiatio: ut cum dico: Sapit  nisi quid sapiat dicam, propositio non est. Quod autem addidit: NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON ESSE, tale quiddam est. ESSE quod verbum est, vel NON ESSE, quod infinitum verbum est, NON EST SIGNUM REI, id est nihil per se significat. Esse enim nisi in aliqua compositione non ponitur. Vel certe omne verbum dictum per se significat quidem aliquid sed SI EST VEL NON EST, nondum significat. Non enim cum aliquid dictum fuerit, idcirco aut esse aut non esse significat. Atque hoc est quod ait: NEQUE ENIM SIGNUM EST REI ESSE VEL NON ESSE. Etenim quam rem verbum designat esse eius vel non esse non est signum ipsum verbum quod de illa re dicitur, ac si sic diceret: neque enim signum est verbum quod dicitur rei esse vel non esse hoc est de qua dicitur re, ut id quod dico rei esse vel non esse tale sit, tamquam si dicam rem ipsam significare esse vel non esse. Atque hic est melior intellectus, ut non sit signum verbum eius rei de qua dicitur esse vel non esse, subsistendi scilicet vel non subsistendi, quod illud quidem affirmationis est, illud vero negationis, et ut sit talis sensus: neque enim verbum quod dicitur signum est subsistendi rem vel ƿ non subsistendi. Sed quod addidit: NEC SI HOC IPSUM EST PURUM DIXERIS vel si ita dicamus NEC SI HOC IPSUM ENS PURUM DIXERIS, Alexander quidem dicit est vel ens aequivocum esse. Omnia enim praedicamenta, quae nullo communi generi subduntur, aequivoca sunt et de omnibus esse praedicatur. Substantia est enim et qualitas est et quantitas et caetera. Ergo nunc hoc dicere videtur: ipsum ENS vel EST, unde esse traductum est, per se nihil significat. Omne enim aequivocum per se positum nihil designat. Nisi enim ad res quasque pro voluntate significantis aptetur, ipsum per se eo nullorum significativum est, quod multa significat. Porphyrius vero aliam protulit expositionem, quae est huiusmodi: sermo hic, quem dicimus est, nullam per se substantiam monstrat sed semper aliqua coniunctio est: vel earum rerum quae sunt, si simpliciter apponatur, vel alterius secundum participationem. Nam cum dico: Socrates est  hoc dico: Socrates aliquid eorum est quae sunt  et in rebus his quae sunt Socratem iungo; sin vero dicam: Socrates philosophus est  hoc inquam: Socrates philosophia participat.  Rursus hic quoque Socratem philosophiamque coniungo. Ergo hoc est quod dico vim coniunctionis cuiusdam obtinet, non rei. Quod si compositionem aliquam copulationemque promittit, solum dictum nihil omnino significat. Atque hoc est quod ait: NEC SI IPSUM EST PURUM DIXERIS, id est solum: non modo neque veritatem neque falsitatem designat sed omnino NIHIL est. Et quod secutus est planum fecit: CONSIGNIFICAT, inquit, AUTEM QUANDAM ƿ COMPOSITIONEM, QUAM SINE COMPOSITIS NON EST INTELLEGERE. Nam si est verbum compositionis. Coniunctionisque cuiusdam vim et proprium optinet locum, purum et sine coniunctione praedicatum nihil significat sed eam ipsam compositionem quam designat, cum fuerint coniuncta ea quae componuntur, significare potest, sine compositis vero quid significet non est intellegere. Vel certe ita intellegendum est quod ait IPSUM QUIDEM NIHIL EST, non quoniam nihil significet sed quoniam nihil verum falsumue demonstret, si purum dictum sit. Cum enim coniungitur tunc fit enuntiatio, simpliciter vero dicto verbo nulla veri vel falsi significatio fit. Et sensus quidem totus huiusmodi est: ipsa quidem verba per se dicta nomina sunt (nam et qui dicit intellectum constituit et qui audit quiescit) sed quamquam significent aliquid verba, nondum affirmationem negationemue significant. Nam quamuis rem designent, nondum tamen subsistendi eius rei signum est, nec si hoc ipsum est vel ens dixerimus, aliquid ex eo verum vel falsum poterit inveniri. Ipsum enim quamquam significet aliquid, nondum tamen verum vel falsum est sed in compositione fit enuntiatio et in ea veritas et falsitas nascitur, quam veritatem falsitatemque sine his quae componuntur coniungunturque intellegere impossibile est. Et de verbo quidem et de nomine sufficienter dictum est, secundo vero volumine de oratione est considerandum.   In quantum labor humanum genus excolit et beatissimis ingenii fructibus complet, si tantum cura exercendae mentis insisteret, non tam raris hominum virtutibus uteremur: sed ubi desidia demittit animos, continuo feralibus seminariis animi uber horrescit. Nec hoc cognitione laboris evenire concesserim sed potius ignorantia. Quis enim laborandi peritus umquam labore discessit? Quare intendenda vis mentis est verumque est amitti animum, si remittitur. Mihi autem si potentior divinitatis annuerit favor, haec fixa sententia est, ut quamquam fuerint praeclara ingenia, quorum labor ac studium multa de his quae nunc quoque tractamus Latinae linguae contulerit, non tamen quendam quodammodo ordinem filumque et dispositione disciplinarum gradus ediderunt, ego omne Aristotelis opus, quodcumque in manus venerit in Romanum stilum vertens eorum omnium commenta Latina oratione perscribam, ut si quid ex logicae artis subtilitate, ex moralis gravitate peritiae, ex naturalis acumine veritatis ab Aristotele conscriptum sit, id omne ordinatum transferam atque etiam quodam lumine commentationis illustrem omnesque Platonis dialogos vertendo vel etiam commentando ƿ in Latinam redigam formam. His peractis non equidem contempserim Aristotelis Platonisque sententias in unam quodammodo revocare concordiam eosque non ut plerique dissentire in omnibus sed in plerisque et his in philosophia maximis consentire demonstrem. Haec, si vita otiumque suppetit cum multa operis huius utilitate necnon etiam labore contenderim, qua in re faveant oportet, quos nulla coquit invidia. Sed nunc ad proposita reuertamur. Aristoteles namque inchoans librum prius nomen definiendum esse proposuit, post verbum, hinc negationem, post hanc affirmationem, consequenter enuntiationem, orationem vero postremam. Sed nunc cum de nomine et verbo dixit, converso ordine, quod ultimum proposuit, nunc exsequitur primum. De oratione namque disputat quam postremam in operis dispositione proposuit. Ait enim: ORATIO AUTEM EST VOX SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR. SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED NON SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST. Videtur Aristoteles illas quoque voces orationes putare, quaecumque vel ex nominibus vel ex verbis constent, non tamen integrum colligant intellectum, ƿ ut sunt: Et Socrates et Plato Et ambulare et dicere  Haec enim quamquam pleni intellectus non sint, verbis tamen et nominibus componuntur. Ait enim orationem esse vocem significativam, cuius partes significarent aliquid separatim, significarent, inquit, non consignificarent, ut in nomine atque verbo. Docet autem illa quoque res eum etiam imperfectas, compositas tamen ex nominibus ac verbis voces orationes dicere, quod ait, cum de nomine loqueretur, in eo quod est equiferus nihil significare ferus, QUEMADMODUM IN ORATIONE QUAE EST EQUUS FERUS. Namque equus ferus vox composita ex nominibtls est sed sententiam non habet plenam et ille ait quemadmodum in oratione quae est equus ferus. Nam si secundum Aristotelem equus ferus oratio est, cur non aliae quoque quae nominibus verbisque constent, quamquam sint imperfectae sententiae, tamen orationes esse videantur? Cum praesertim orationem ipse ita definiat: ORATIO EST VOX SIGNIFICATIVA CUIUS PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM. In his ergo vocibus, quae verbis et nominibus componuntur, partes extra significant, non consignificant. Nam si nomen et verbum significativum est separatum, in his vero vocibus quae verbis et nominibus componuntur partes extra significant, non consignificant, etiam voces imperfectae nominibus verbisque compositae orationes sunt. Nam si nomen omne et verbum significativum est, hae autem voces id est orationes nominibus componuntur et verbis, dubium non est in his vocibus, quae ex nominibus et verbis coniunctae sunt, partes per se significare. Quod si hoc est, et vox cuius partium aliquid separatum et ƿ per se significat, licet sit imperfectae sententiae, orationem tamen esse manifestum est. Sed quod addit orationis partes significare, UT DICTIONEM, NON UT AFFIRMATIONEM, Alexander ita dictum esse arbitratur: sunt, inquit, aliae quidem simplices orationes, quae solis verbis et nominibus coniungantur, aliae vero compositae, quarum corpus iunctae iam faciunt orationes. Et simplices quidem orationes partes habent eas ex quibus componuntur, verba et nomina, ut est: Socrates ambulat  Compositae autem aliquotiens quidem tantum orationes, aliquotiens vero etiam affirmationes, ut cum dico: Socrates ambulat et Plato loquitur  utraeque sunt affirmationes, vel: Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse  ex orationibus non ex affirmationibus componitur talis oratio. Prior autem simplicitas est, posterior compositio. In quibus autem prius est aliquid et posterius, illud sine dubio definiendum est priore loco, quod natura quoque praecedit. Ita ergo quoniam prior simplex oratio est, posterior vero composita, prius simplicem orationem definitione constituit dicens: cuius partes significant UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO, dictionem simplicis nominis aut verbi nuncupationem ponens. In simplicibus enim orationibus huiusmodi partes sunt. In compositis vero aliquotiens quidem orationes tantum, aliquotiens vero affirmationes, ut supra monstravimus. Addit quoque illud: omnem, inquit, definitionem vel contractiorem esse definita specie vel excedere non oportet. Quod si Aristoteles ita constituisset ƿ definitionem, ut significare partes orationis diceret ut orationes ac non ut dictiones, simplices orationes ab hac definitione secluderet. Orationum namque simplicium partes, non ut orationes sed ut simplicia verba nominaque significant. Nam si omnis oratio orationes habebit in partibus, rursus ipsae partes quae sunt orationes aliis orationibus coniungentur. Et rursus partium partes, quae eaedem quoque orationes sunt, alias orationes in partibus habebunt. Ac si hoc intellegentia sumpserit, ad infinitum procedit nec ulla erit prima oratio quae simplices habeat partes. Neque enim fieri potest, ut prima dicatur oratio quae alias orationes habet in partibus. Partes enim priores sunt propria compositione. Quod si in infinitum ducta intellegentia nulla prima oratio reperitur, cum nulla sit oratio prima, nec ulla postrema est. Quocirca interempta prima atque postrema omnes quoque interimuntur et nulla omnino erit oratio. Quare non recta fuisset definitio, si ita dixisset: oratio est vox significativa, cuius partes aliquid extra significant ut orationes. At vero, inquit Alexander, nec si quaedam orationes in partibus continent, idcirco iam necesse est ipsarum orationum partes affirmationes esse, ut cum dico: Desine meque tuis incendere teque querellis  Sunt ergo huius orationis partes: una "Desine meque tuis incendere", alia "teque querellis". Neutra harum est affirmatio, quamquam esse videatur oratio. Quocirca nec illa fuisset recta definitio, si ita dixisset: oratio est vox significativa, ƿ cuius partes aliquid extra significent, ut affirmatio. Huiusmodi enim orationis cum sint partes ex orationibus iunctae, non tamen affirmationibus totum ipsius orationis corpus efficitur. Sed quoniam in omni oratione verba sunt et nomina, quae simplices sunt dictiones, non autem in omnibus orationibus aut affirmationes aut orationes partes sunt, quod commune erat id in definitione constituit, tamquam si ita diceret: oratio est vox significativa secundum placitum, cuius partes aliquid extra significent, ex necessitate quidem ut dictio, non tamen semper ut affirmatio aut oratio. Neque enim fieri potest, ut inveniatur oratio, cuius partes non ita aliquid extra significent ex necessitate, ut nomen aut verbum, cum inveniri possit, ut ita significent orationis partes, ut tamen orationes aut affirmationes non sint. Quare si ita dixisset: oratio est vox significativa, cuius partes aliquid extra significant ut affirmatio, illas orationes hac definitione non circumscripsisset, quarum partes orationes quidem sunt sed non affirmationes, ut ille versus est quem supra iam posui. Sin vero sic dixisset: oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra significant ut oratio, illas orationes in definitione reliquisset, quarum partes sunt simplices, ut est: Socrates ambulat  Sed cum dicit orationis partes ita significare, ut dictiones, non omnino ut affirmationes, et simplices et compositas hac definitione conclusit. Simplices quidem idcirco, quod quaelibet simplex paruissimaque oratio nomine et verbo coniungitur, quae sunt simplices dictiones, compositas vero, quia, cum habeant orationes in partibus, partes ipsae habent simplices dictiones, quae ipsae simplices dictiones totius corporis partes sunt. Ut cum dico: Si dies est, lux est  "dies est" et "lux est" partes sunt totius orationis sed harum rursus partium partes sunt "dies" et "est", et rursus "lux" et "est", quae rursus totius orationis, per quam dico "Si dies est, lux est", partes sunt; sed "dies" et "est" et rursus "lux" et "est" sunt simplices dictiones. Quocirca etiam compositarum orationum partes indubitanter semper ita significant, ut dictiones, non ut affirmationes aut quaedam orationes. Quare hanc definitionem Aristoteles recte constituit. Ad hanc ergo sententiam locum hunc Alexander expedit, illud quoque addens saepe Aristotelem de affirmationibus dicere dictiones, quod distinguere volens, cum diceret ita significare partes orationis tamquam dictionem, ne forte dictionem hanc aliquis et in affirmatione susciperet, addidit ut dictio non ut affirmatio, tamquam si diceret: duplex quidem est dictio: una simplex, alia vero affirmatio sed ita partes orationis aliquid extra significant, ut ea dictio, quae est simplex, non ut ea dictio, quae est affirmatio. Et huiuscemodi quodammodo intellectum tota Alexandri sententia tenet. Porphyrius vero in eadem quoque sententia est sed in uno discrepat. Cuius expositio talis est: dictio, inquit, est simplex nomen, simplex etiam verbum vel ex duobus compositum, ut cum dico "Socrates" vel rursus "ambulat" vel "equiferus". Procedit etiam nomen hoc dictionis ad orationes quidem sed simplicibus verbis nominibusque coniunctas, ut cum dico: Et Socrates et Plato  et si sit ex composito nomine, ut est equiferus et homo. Hae orationes quamquam ƿ coniunctae sint atque imperfectae, tamen dictionis nomine nuneupantur. Necnon etiam transit nomen hoc dictionis usque ad perfectas orationes, quas enuntiationes nuncupari posterius est dicendum. Est autem enuntiatio simplex, ut si quis dicat: Socrates ambulat  et haec dicitur affirmatio. Huius negatio est: Socrates non ambulat  Simplices ergo enuntiationes sunt affirmationes vel negationes, quae singulis verbis ac nominibus componuntur. Itaque eum dico: Si dies est, lux est  tota quidem huiusmodi oratio dictio esse non dicitur. Composita namque est coniunctaque ex orationibus, quae sunt "dies est" et "lux est". Hae autem sunt affirmationes et dicuntur dictiones. Ipsae vero affirmationes quae dictiones sunt habent rursus alias dictiones simplices, ut est dies et est et rursus lux et est. Ergo cum dico: Socrates ambulat  haec oratio partes habet dictiones, nomen scilicet et verbum, quae dictiones quidem sint, non tamen affirmationes. Sin vero dicam: Socrates in lycio cum Platone et caeteris discipulis disputavit  haec pars orationis quae est "Socrates in lycio cum Platone" ipsa quoque est dictio sed non ut simplex nomen vel verbum neque ut affirmatio sed tantum ut imperfecta oratio verbis tamen nominibusque composita. Quod si sic dicam: Si homo est, animal est  haec rursus oratio habet dictiones in partibus sed neque ut simplices dictiones neque ut imperfectas orationes sed ut perfectas simplicesque affirmationes. Et est una affirmatio "animal est", alia vero est "homo est", tota vero ipsa oratio dictio non est. Quod si dicam: Si animal non est, homo non est  rursus haec oratio ex duabus simplicibus dictionibus negativis videtur esse composita, quae nihilominus ƿ tota dictio non est. Ita ergo dictio inchoans a simplicibus nominibus atque verbis usque a orationes, quamuis imperfectas, provehitur nec in his tantummodo consistit sed ultra etiam ad simplices affirmationes negationesque transit et in eo progressionis terminum facit. Ergo quoniam non omnis oratio artes habet affirmationes et negationes, quae sunt perfectae enuntiationes simplicium dictionum, quoniamue non omnis oratio imperfectas orationes habet in partibus, omnis tamen oratio simplices dictiones retinet, quippe cum omnis ex verbis nominibusque iungatur, hoc ait orationis partes significare semper quidem ut dictiones, non tamen semper ut affirmationes, consentiente Alexandro, cuius expositionem supra iam docui. Atque ita diligentior lector differentias eorum recte perspiciet et consentientes communicat intellectus. Hoc loco Aspasius inconvenienter interstrepit. Ait enim non in omnes orationes Aristotelem definitionem constituere voluisse sed tantum simplices, quae ex duobus constant, verbo scilicet et nomine. Sed ille perfalsus est. Neque enim si sim otatio simplicibus verbis nominibusque consistit, idirco non composita quoque oratio verba et nomina bimiliter in partibus habet. Quod si hoc commune est simplicibus orationibus atque compositis, ut habeant artes dictiones quidem simplices, non etiam affirmationes, ut etiam quae affirmationes orationes habent, hae tamen habeant in partibus simplices dictiones, cur hanc quaestionem in Aristotelem iaciat, ratione relinquitur. Syrianus vero, qui Philoxenus cognominatur, non putat orationes esse quarum intellectus ƿ sit imperfectus atque ideo nec eas aliquas habere partes. Nam cum dicit: Plato in Academia disputans  haec quoniam perfecta non est, partes, inquit, non habet, arbitrans omne quod imperfectum est nullis partibus contineri. Atque ideo, cum dicit Aristoteles: oratio est vox significativa cuius partes aliquid extra significent, illam orationem constitui putat, quae perfectum retinet sensum. Ipsarum enim partes esse verba et nomina. Sed hoc ridiculum est. Neque enim compositum aliquid fieri potest nisi propriis partibus. Quod si quaelibet res ut componatur habeat decem partes, eas tamen singillatim apponi necesse sit, antequam ad decimam veniamus partem: nihilo tamen minus partes erunt quas sibimet ad componendam totius corporis summam singillatim superponimus etiam si ad illud quod componendum fuit minime peruentum est. Quocirca si antequam perveniatur ad ultimam partem priores partes effecti compositique partes sunt, nulla ratio est imperfectae rei partes dici non posse. Neque enim dicitur totius compositi partes esse, quae sint imperfecti. Ut si sit integrum nomen habeatque partes quatuor, id est syllabas, ut Mezentius, si unam syllabam demam dicamque mezenti, vel si unam rursus duasque ponam, ut sunt mezen, huius tamen utraque syllaba me scilicet et zen partes sunt, et cum sit compositio ipsa sensu uacua ac sit imperfecta, tamen partibus continetur Syrianus igitur minime audiendus est sed potius Porphyrius, qui ita Aristotelis mentem sententiamque persequitur, ut eius definitionem, sicut vera est, labare et in aliquibus aliis discrepare non faciat. ƿDe his quidem hactenus. Porphyrius autem ita dicit: voleus, inquit, Aristoteles ostendere omnem orationem aut simplices tantum habere partes aut compositas, a simplicibus sumpsit exemplum, ut diceret significare orationis partes, UT DICTIONEM NON UT AFFIRMATIONEM, ut cum est oratio: Plato disputat  dictiones quidem sunt sed non ut affirmationes. Si vero sic esset oratio: Si Plato disputat, verum dicit  "Plato disputat" et "verum dicit", cum sint dictiones, non sunt tamen ut simplices sed ut iam affirmationes. Neque enim simplex dictio affirmatio est aut negatio sed tunc fit, cum additur aliquid, quod aut affirmationis vim teneat aut negationis. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR. Hoc huiusmodi est, tamquam si diceret: nomen quidem simplex affirmationem aut negationem non facit, nisi aut "est" verbum addatur, quae est affirmatio, aut "non est", quae est negatio. Quod autem addit: SED NON UNA HOMINIS SYLLABA. NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT' SED VOX EST NUNC SOLA. IN DUPLICIBUS VERO SIGNIFICAT QUIDEM SED NIHIL SECUNDUM SE, QUEMADMODUM DICTUM EST, huius loci duplex est expositio. Quod enim dixerat prius: SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO SI QUID ADDATUR EI DICTIONI, quam supra simplicem esse proposuit, cum de significativa orationis parte loqueretur, nunc id implet et explicat dicens non si quodlibet addatur simplici dictioni, statim fieri affirmationem vel negationem, nec vero orationem neque enim si quid non per se significativum dictioni ƿ simplici copuletur, idcirco iam vel oratio vel affirmatio vel etiam negatio procreabitur. Neque enim si una hominis syllaba quae significativa per se non est dictioni eidem ipsi addatur, iam ulla inde procreatur oratio. Quod si oratio non fit, nec affirmatio nec negatio. Hae enim orationes quaedam sunt. Ut si quis ex eo quod est homo tollat unam syllabam eamque totae dictioni simplici aptet dicatque homo mo vel alio quolibet modo deeidens partem toti corpori dictionis adiciat, non faciet orationem. Quod si hoc est, nec affirmationem nec negationem, quae quaedam sunt orationes. Ergo ita accipiendum est, tamquam si hoc modo dixisset: DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID SED NON QUONIAM EST AUT NON EST SED ERIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO, SI QUID ADDATUR SED NON UT UNA HOMINIS SYLLABA ADDATUR nec cuiuslibet alterius dictionis, si quid per se non significat, ut in eo quod est sorex rex non significat sed vox est nunc sola. Atque ideo si quis velut partem tollat, id quod est rex, apponatque ei quod est sorex et dicat sorex rex, ut rex tamquam pars sit eius quod est sorex, oratio nulla est atque ideo neque affirmatio nec negatio. Hae enim ex vocibus per se significativis constant. Rex vero in eo quod est sorex quoniam pars est nominis, nihil ipsa significat. Vel certe erit melior intellectus, si hoc quod ait SED NON UNA HOMINIS SYLLABA non aptemus ad orationis perfectionem sed potius ad dictionis significationem, ut quoniam superius dixit orationis partes ita significare ut dictionem non ut affirmationem, ƿ quae esset dictio, manifeste monstraret. Dictionem namque constituit vocem per se significantem. Ergo cum dicit SED NON UNA HOMINIS SYLLABA, tale est ac si diceret: significat quidem pars orationis ut dictio sed hae ipsae dictiones perfecta nomina sunt et verba, non partes nominum verborumque. In eo enim quod est: Equiferus currit  equiferus quidem dictio est totius orationis significans ut pars orationis sed 'ferus' consignificat ut pars nominis atque ideo 'ferus' dictio non est. Quocirca nec si qua alia syllaba in parte orationis sit, id est in nomine vel verbo, nihil per se significans. Quamquam sit in parte nominis, quod nomen pars orationis est, nihil tamen ipsa significabit in tota oratione: quare nec dictio erit. Audiendum ergo ita est tamquam si sic diceret: ORATIO AUTEM EST VOX SIGNIFICATIVA, CUIUS PARTIUM ALIQUID SIGNIFICATIVUM EST SEPARATUM, UT DICTIO, NON UT AFFIRMATIO. DICO AUTEM, UT HOMO SIGNIFICAT ALIQUID et est quaedam dictio et simplex. Nam neque oratio est, quoniam simplex est, nec affirmatio neque negatio, quoniam non significat esse aut non esse sed erit tunc affirmatio, quando aliquid additur, quod affirmationem negationemue constituit. Sed quod aio dictionem esse id quod dicimus homo, idcirco dictio est, quoniam per se significat. Syllaba vero eius nominis quod est ƿ homo, quoniam nihil designat, non est dictio (hoc est enim SED NON UNA HOMINIS SYLLABA) vel si videatur quidem significare, pars tamen sit nominis et consignificet in nomine, in tota oratione nihil significat. Neque enim pars orationis est. Quod per hoc dixit quod ait: NEC IN EO QUOD EST SOREX REX SIGNIFICAT SED VOX EST NUNC SOLA nihil significans. Unde probatur huiusmodi particulas non esse dictiones. Vox enim sola non est dictio sed vox per se significans. Si qua autem sunt, inquit, nomina, quae sint composita ex aliis, ut est equiferus, emittunt quidem quandam imaginem significandi sed per se nihil significant, consignificant autem. In simplicibus vero nominibus nec imaginatio ulla significandi est, ut in eo quod est Cicero: partes eius cum simplices sono, tum etiam intellectu praeter cuiuslibet imaginationis similitudinem sunt. In duplicibus vero uult quidem pars significare sed nullius separati significatio est, idcirco quoniam solum consignificat id quod totum compositi nominis corpus designat, ipsum vero separatum (ut saepius dictum est) nihil extra significat. EST AUTEM ORATIO OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM SED (QUEMADMODUM DICTUM EST) SECUNDUM PLACITUM. Secundum placitum esse orationes illa res approbat, quod earum partes secundum placitum sunt, id est verba et nomina. Quod si omne compositum ab his, ex quibus est compositum, sumit naturam, vox quae positione constitutis vocibus iungitur ipsa quoque secundum placitum positionemque formatur. Quare manifestum est orationem secundum placitum esse. Plato autem in eo libro, qui inscribitur "Cratylus", aliter esse constituit eamque dicit supellectilem quandam atque instrumentum esse significandi res eas, quae naturaliter intellectibus concipiuntur, eorumque intellectuum vocabulis dispertiendorum. Quod omne instrumentum, quoniam naturalium rerum, secundum naturam est, ut videndi oculus, nomina quoque secundum naturam esse arbitratur. Sed hoc Aristoteles negat et Alexander multis in eo nititur argumentis monstrans orationem non esse instrumentum naturale. Aristoteles vero ita utitur dicens: EST AUTEM ORATIO OMNIS QUIDEM SIGNIFICATIVA NON SICUT INSTRUMENTUM, tamquam si diceret: est quidem omnis oratio significativa, non tamen naturaliter. Instrumentum enim hoc demonstrat, tamquam si diceret naturaliter, quod qui instrumentum orationem esse negat, negat eam naturaliter significare sed ad placitum. Naturalium enim rerum naturalia sunt instrumenta. Idcirco autem instrumentum pro natura posuit, quod (ut dictum est) Plato omnium artium instrumenta secundum naturam ipsarum artium consistere proponebat. Et Alexander quidem non esse instrumentum orationem sic ingreditur approbare: omnis, inquit, naturalium actuum supellex ipsa quoque naturalis est, ut visus quoniam natura datur, eius quoque supellex ƿ est naturalis, ut oculi. Eodem quoque modo auditus cum naturalis sit, aures nobis, quae sunt audiendi instrumenta, naturaliter datas esse cognoscimus. Quare quoniam oratio ad placitum, non naturaliter est (partes enim manifestum est orationis ad placitum positas, quae sunt scilicet verba et nomina, sicut monstrat apud omnes gentes diversitas vocabulorum): quoniam ergo per haec secundum placitum omnis oratio esse monstratur, quod autem secundum placitum est, non est secundum naturam: non est ergo oratio supellex. Significandi enim ratio atque potestas naturaliter est. Quod si oratio naturaliter non est, non est supellex. His aliisque similibus monstrat non esse supellectilem orationem. Quocirca dicendum nobis est naturaliter quidem nos esse vocales potentesque naturaliter vocabula rebus imprimendi, non tamen naturaliter significativos sed positione: sicut artium singularum naturaliter sumus susceptibiles sed eas non naturaliter habemus sed doctrina concipimus: ita ergo vox quidem naturaliter est sed per vocem significatio non naturaliter. Neque enim vox sola est nomen aut verbum sed vox quadam addita significatione. Et sicut naturaliter est moveri, saltare vero cuiusdam iam artificii et positionis, et quemadmodum aes quidem naturaliter est, statua vero positione aut arte: ita quoque possibilitas quidem ipsa significandi et vox naturalis est, significatio vero per vocem positionis est, non naturae. Hactenus quidem de communi oratione locutus est, nunc autem transit ad species eius. Ait enim: ENUNTIATIVA VERO NON OMNIS SED IN QUA VERUM VEL FALSUM INEST. NON AUTEM IN OMNIBUS, UT DEPRECATIO ORATIO QUIDEM EST SED NEQUE VERA NEQUE FALSA. ET CAETERAE QUIDEM RELINQUANTUR; RHETORICAE ENIM VEL POETICAE CONVENIENTIOR CONSIDERATIO EST; ENUNTIATIVA VERO PRAESENTIS EST SPECULATIONIS. Species quidem orationis multae sunt sed eas varie partiuntur. At vero Peripatetici quinque partibus omnes species orationis ac membra distribuunt. Orationis autem species dicimus perfectae, non eius quae imperfecta est. Perfectas autem voco eas quae complent expediuntque sententiam. Et sit nobis hoc modo divisio: sit oratio genus: orationis aliud est imperfectum, quod sententiam non expedit, ut si dicam: Plato in lycio  aliud vero perfectum. Perfectae autem orationis alia est deprecativa, ut: Adsit laetitiae Bacchus dator  alia imperativa, ut: Accipe daque fidem  alia interrogativa, ut: Quo te, Moeri, pedes? An quo via ducit?  Alia vocativa, ut: O qui res hominumque deumque Aeternis regis imperiis  alia enuntiativa, ut: Dies est  et: Dies non est  In hac sola, quae est enuntiativa, veri falsive natura perspicitur. In caeteris enim neque veritas neque falsitas invenitur. Et multi quidem plures species esse dicunt perfectae orationis, alii autem innumeras earum differentias produnt sed nihil ad nos. Cunctae enim species orationis aut oratoribus accommodatae sunt aut poetis, sola enuntiativa philosophis. Ergo hoc dicit: non omnis oratio enuntiativa est. Sunt enim plurimae quae enuntiativae non sunt, ut hae quas supra proposui. Haec autem sola est, in qua verum falsumque inveniri queat. Quocirca quoniam de ista, in qua veritas et falsitas invenitur, dialecticis philosophisque est quaerendum, caeterae autem aut poetis aut oratoribus accommodatae sunt, iure de hac sola tractabitur, id est de enuntiativa oratione. Hucusque ergo de partibus interpretationis et de communi oratione locutus est. Nunc autem adstringit modum disputationis in speciem et de una specie orationis tractat deque una interpretatione, quae est enuntiativa. Species namque est enuntiatio interpretationis, negatio vero et affirmatio enuntiationis. Quare de enuntiativa oratione considerandi hinc cum ipso Aristotele commodissimum sumamus initium. EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE. NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR, NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA. QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII. Una oratio duplici tractatur modo: vel cum per se una est vel cum per aliquam coniunctionem coniungitur. Vel certe ita dicendum est: aliae orationes naturaliter unae sunt, aliae positione. Et naturaliter quidem unae sunt orationes, quae non dissoluuntur in alias orationes, ut est: Sol oritur  Quae autem positione sunt unae in alias orationes dissoluuntur, ut est: Si homo est, animal est  haec enim in orationes alias separatur. Et quemadmodum lignum vel lapis singillatim in propria natura consistunt et una sunt, ex his autem facta navis vel domus cum pluribus quidem constent, unae tamen arte sunt, non natura: ita quoque in orationibus simplices et per se naturaliter unas orationes dicimus, quae verbo tantum et nomine iunguntur, compositas autem, quae in alias (ut dictum est) orationes dividuntur. Multas enim orationes in huiusmodi orationibus coniunctio iungit, ut si dicam: Et Plato est et Socrates  haec coniunctio et utrasque coniunxit atque ideo una videtur positione, quae naturaliter et per se una non fuerat. Naturaliter autem unius orationis duae partes sunt: affirmatio et negatio. Sed quoniam non ita dixit: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE UNA CONIUNCTIONE sed ait: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, huiusmodi oritur quaestio, utrum id quod ait prima ad affirmationem referatur, ut sit posterior negatio, an id quod ait prima ad simplicem rettulerit orationem, ut secunda sit, quae ex orationibus iungitur. Quam dubietatem ipse dissolvit. Sic enim inquit: EST AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, et ut quam secundam diceret demonstraret ait DEINDE NEGATIO, ut primam affirmationem poneret, secundam negationem. Quod si ita dixisset: EST AUTEM UNA PRIMA ENUNTIATIVA ORATIO AFFIRMATIO VEL NEGATIO, DEINDE CONIUNCTIONE UNAE, ita oporteret intellegi tamquam si diceret illam esse primam unam orationem, quae simplex esset, cuius partes affirmatio essent atque negatio, secundam vero illam, quae coniunctione quadam una fieret, cum ex orationibus iungeretur. Sed quoniam id quod ait prima ad affirmationem iunxit dicens EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, ad negationem vero 'deinde' subiunxit dicens DEINDE NEGATIO, dicendum est primam eum orationem esse arbitrari affirmationem, secundam vero negationem, cui 'deinde' continenter apposuit. Sed rursus incurrimus Alexandri quaestionem. Per hoc enim negationem affirmationemque negat sub uno genere poni oportere, sub enuntiatione, quod in his, quae priora vel posteriora sunt, commune genus non potest inveniri. Sed huic supra iam dictum est, non oportere omnia quaecumque quolibet modo priora vel posteriora sunt a genere communi secernere (alioquin sic primae et secundae substantiae sub uno genere substantiae non ponentur, sic etiam simplices et compositae orationes, quarum simplices propositiones primae sunt, posteriores compositae, uno genere non continebuntur) sed illa sola putanda sunt sub eodem genere poni non posse, quae ad substantiam priora vel posteriora esse cognoscimus, quae vero ad suum esse aequalia sunt nihil prohibet sub eodem genere utraque constitui. Ergo quoniam affirmationi et negationi hoc est esse, quod ƿ in his veritas et falsitas reperitur, hoc autem est enuntiatio, in qua scilicet veritatis et falsitatis constituta sit ratio: quoniam ad id quod falsi verique significativae sunt neque affirmatio prior neque negatio posterior est, nullus dubitat a quo aequaliter participant affirmatio et negatio eidem generi posse supponi. Sed affirmatio atque negatio aequaliter enuntiatione participant, siquidem enuntiatio veri falsique utitur significatione et affirmatio et negatio veritatem atque mendacium aequaliter monstrat: enuntiatio igitur affirmationis et negationis genus esse ponenda est. Quod ergo ait: EST AUTEM PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE, ita intellegendum est, quod affirmationem primam, secundam vero negationem, cui addidit deinde, in prolatione posuerit. Prior enim est affirmatio, posterior negatio, in prolatione dumtaxat, non secundum veri falsique designationem. Quocirca nihil prohibet et priorem putari affirmationem negatione et tamen utrasque sub uno genere id est enuntiatione constitui. Sed quod secutus est: NECESSE EST AUTEM OMNEM ORATIONEM ENUNTIATIVAM EX VERBO ESSE VEL CASU, huiusmodi est: volens Aristoteles distribuere dictionem, affirmationem, negationem, enuntiationem, contradictionem sensum confusa brevitate permiscuit et nebulis obscuritatis implicuit. Oportuit namque prius quid esset dictio, post autem quid affirmatio et negatio et rursus enuntiatio et contradictio constituere. Sed haec interim praetermittit, nunc vero quemadmodum constituatur enuntiatio docet dicens, quod omnis enuntiatio constet in verbo. Quoniam simplex dictio est nomen ƿ aut verbum, omnis enuntiatio simplex huiusmodi est, ut semper quidem vel vertum vel aliquid quod idem valeat, tamquam si diceretur verbum vel casum verbi, in praedicatione retineat sed non semper subiectus terminus fit ex nomine, semper tamen praedicatus ex verbo. Sit enim huiusmodi propositio, quae est: Sol oritur  in hac ergo propositione quod dico "sol" subiectum est, quod vero dico "oritur" praedicatur. Et utrasque has dictiones terminos voco sed quodcumque prius dicitur in simplici enuntiatione, illud subiectum est, ut in hac "sol", quod vero posterius, illud praedicatur, ut in eadem "oritur". Ergo necesse est omnem enuntiativam orationem, si simplex sit, verbum in praedicatione retinere, ut in eadem ipsa cum dico "Sol oritur", "oritur" verbum est -- vel quod idem valeat, ut est: Socrates non ambulat  "Non ambulat" enim infinitum verbum est et verbum quidem non est sed eandem vim retinet quam verbum. Casus etiam verbi ponitur saepe, ut Socrates fuit  Subiectus vero terminus non semper consistit in nomine. Potest enim et infinitum nomen habere, ut cum dico: Non homo ambulat  potest etiam verbum, ut cum dico: Ambulare movere est  Ergo (ut arbitror) plene monstratum est non semper subiectum nomen esse, semper autem praedicatum in solo verbo consistere. Approbans ergo verba semper in praedicationibus poni hoc addidit: nisi enim aut est aut fuit aut aliquid huiusmodi sit additum aut quod idem valeat apponatur, enuntiatio non fit. Cum enim dico: Homo est  'est' verbum in praedicatione proposui, sin vero dixero: Homo vivit  idem valet tamquam si dicam homo vivus est. Ergo non posse sine verbo affirmationem negationemue constitui ƿ docuit per id quod ait ETENIM HOMINIS RATIO, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ADDATUR, NONDUM EST ORATIO ENUNTIATIVA. Hoc enim dicere videtur: definitio hominis est verbi gratia animal gressibile bipes et haec est ratio humanae substantiae. Ergo haec ratio, nisi ei aut est aut erit aut fuit aut quodlibet verbum (sicut supra dictum est) apponatur, enuntiatio non fit; neque enim verum neque falsum est. Si enim dicam tantum animal gressibile bipes, nulla me veritas mendaciumue consequitur. Sin autem dixero animal gressibile bipes est vel non est, affirmatio mox negatioque conficitur, quas enuntiationes esse quis dubitet? Sed cum de simplicibus enuntiationibus loqueretur, ait hominis rationem id est definitionem non esse enuntiationem, nisi ei aut est aut erit aut huiusmodi aliquid apponatur, approbans scilicet unam esse et non multiplicem orationem definitionis humanae, cui si est aut erit aut fuit adderetur, enuntiationem simplicem faceret. Cur vero una sit talis oratio causa quaeritur. Neque enim ex solis duobus terminis constat id quod dicimus animal gressibile bipes, ut quae nomina plura sunt. Quare ipse sibi institit et de sua propositione rationem quaesivit, quam nunc dicere supersedit. Ait enim: QUARE AUTEM UNUM QUIDDAM EST ET NON MULTA ANIMAL GRESSIBILE BIPES, NEQUE ENIM EO QUOD PROPINQUE DICUNTUR UNUM ERIT, EST ALTERIUS HOC TRACTARE NEGOTII, hoc scilicet quaerens, tamquam si ita ipse ex persona sua diceret: de simplicibus enuntiationibus omnibus loquebar deque his proposui eas praeter verbum esse ƿ non posse et ad hanc rem probandam exemplum sumpsi definitionem hominis, cui nisi aut est aut erit aut fuit apponeretur, enuntiationem non fieri dixi, quasi una et non multiplex esset oratio ea per quam dicitur animal gressibile bipes, de qua fieri posset simplex enuntiatio. Cur autem una erit oratio animal gressibile bipes, ALTERIUS, inquit, EST HOC TRACTARE NEGOTII, cum de rebus non de propositionibus perspiciendum est. Nam non idcirco una est oratio, quia continve dicitur et coniuncte sibimet animal gressibile bipes. Hoc enim si ita esset, possemus et hanc orationem, quae tam multa significat, unam dicere, si continve proferatur, ut est: Socrates philosophus simus caluus senex  Ergo quemadmodum huiusmodi oratio sit multiplex et non una, posterius dicemus. Nunc ergo manifestum sit hanc orationem quae dicit Socrates philosophus simus caluus senex non esse unam sed multiplicem. Si ergo propinquitas proferendi ipsa continuatione unam faceret orationem, posses haec quoque una esse oratio, quae manifesto non una esse docebitur. Quare non idcirco erit una oratio ea quae dicit animal gressibile bipes, quod propinque et continve profertur. Quae autem causa sit ut una sit, ipse dicere distulit sed in libris eius operis, quod *Meta ta physika* inscribitur, expediet. Theophrastus autem in libro de affirmatione et negatione sic docuit: definitionem unam semper esse orationem eamque oportere continuatim proferre. Illa enim una oratio esse dicitur, quae unius substantiae designativa est. Definitio autem, ut verbi gratia hominis animal gressibile ƿ bipes, una est oratio per hoc, quoniam unum subiectum id est hominem monstrat. Si ergo continve proferatur et non divise, una est oratio, et quia continve dicitur et quia unius rei substantiam monstrat; sin vero quis dividat et orationem unam rem significantem proferendi intermissione distriboat, multiplex fit oratio. Ut si dicam animal gressibile bipes, unam rem mihi tota monstrat oratio et continve dicta est; sin vero dicam animal et rursus gressibile et sub intermissione repetam bipes, multiplex fit distribute intermissione oratio. Et rursus adversum id quaestio. Et quis hoc non iure culpet posse eam quae una est orationem intermissione proferendi fieri multiplicem, cum continuatio proferendi non faceret unam, quae esset multiplex per naturam? Sicut enim in his, quae multiplices sunt naturaliter, non potest continuatio proferendi unam facere orationem, sic quoque non debet quae est una naturaliter oratio idcirco quod de uno subiecto dicatur fieri multiplex per intermissionem. Sed hoc ita solvitur: nam cum dicimus animal et sub intermissione rursus gressibile eodemque modo iterum bipes, non hoc ita dicimus, tamquam si in unum cuncta coniuncta sins. Quocirca quoniam est quidem animal, est rursus gressibile, est rursus bipes, quoniam plura sunt et pluraliter dicta id est distributa, non videntur ad unum subiectum distributa posse praedicari, sicut cum dico "Socrates philosophus caluus senex", haec omnia non est simplex oratio, nec si continve proferatur, quod ad unam substantiam non tendunt: accidentia enim sunt et extrinsecus veniunt. Probatur autem neque eas orationes, quae per divisionem dicuntur, ƿ neque eas, quae non ad unam substantiam tendunt, unas esse, hoc modo: si dicat quis animal et rursus gressibile et iterum bipes, non unum est animal nec unum gressibile nec unum bipes. Sin vero dixero "animal gressibile bipes" continve et propinque, unum est, quod tria ista iuncta significant, id est homo. Convertamus nunc animum ad eas quae plura quidem significant sed continve proferuntur, ut cum dico "Socrates philosophus caluus senex": videtur quasi quaedam Socratis esse definitio philosophus caluus senex sed non necesse est, si huiusmodi Socrates fuit, omnem quicumque philosophus senex caluus est esse etiam Socratem. In multis ergo continuatio ista valet accidere. Quocirca non unum significat, quamquam continve proferatur. Ergo si ex omnibus unum quiddam significetur et continve proferatur, una est oratio, ut partes quaedam rei definitae sint ea quae in definitione ponuntur, non accidentia. Et proficit quidem aliquid continua prolatio ad perficiendam unam orationem sed ipsa sola non sufficit, nisi unum quoque subiectum sit. Atque ideo dixit Aristoteles animal gressibile bipes non idcirco esse unam orationem, quod propinque dicatur. Nam neque sufficit ad constituendam unam orationem propinquitas proferendi nihilque prohiberet, quae naturaliter essent multiplices, eas continve et propinque prolatas unas videri. Sed huius rei rationem Aristoteles ponere distulit. Sensus ergo huiusmodi est: NECESSE EST, inquit, OMNEM ENUNTIATIVAM ORATIONEM EX VERBO ESSE VEL CASU. ETENIM HOMINIS RATIO, quae et ipsa quoque oratio est, SI NON AUT EST AUT ERIT AUT FUIT AUT ALIQUID HUIUSMODI ILLI ADDATUR, NONDUM EST enuntiatio. Hoc vero in solis simplicibus enuntiationibus evenit, in his autem quae coniunctione unae sunt (ut supra ait) non omnino est. Cum enim dico dies est, vis tota in verbo est; si autem cum coniunctione proferam: Si dies est, lux est  tota vis in coniunctione consistit, id est 'si'. Veritatis enim aut falsitatis rationem sola coniunctio tenet, quae conditionem proponit, cum dicit "Si dies est, lux est": si enim illud est, illud evenit. Igitur in coniunctione omnis vis huiusmodi propositionis est, omnis autem simplex propositio totam vim in verbo habet positam. Et quemadmodum in his, quae hypotheticae vel conditionales dicuntur, coniunctiones propositionis vim tenent, sic in simplicibus propositionibus praedicatio vim optinet, unde et Graece quoque tales propositiones praedicativae dicuntur, scilicet quae simplices sunt, quod in his totam propositionem optineat praedicatio. Atque ideo Aristoteles ait ex verbo vel casu fieri simplicem enuntiationem. Nam praeter id quod totam continet propositionem praedicativam scilicet, id est praeter praedicationem, enuntiatio non fit. Unde est ut negatio quoque non ad subiectum sed ad praedicatum semper aptetur. Nam cum dico: Sol oritur  non est huius negatio: Non sol oritur  sed illa quae est: Sol non oritur  Atque ideo negatio ad subiectum posita non facit contrariam propositionem, ad praedicatum vero contrariam reddit. Recte igitur Aristoteles de subiecto quidem nihil locutus est. Non enim praedicativam propositionem subiectus terminus tenet sed tantum praedicatio, quae totam enuntiationem propria virtute confirmat. EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE. Hinc monstratur quoniam tum cum dixit: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO, primam non eum de ea oratione dixisse, quae naturaliter una est sed de affirmatione. Alioquin hic quoque repetens ita dixisset: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT. Sed quoniam non ita dixit, manifestum est quod dudum ait primam non ad orationem, quae praeter coniunctionem una est, rettulisse sed ad affirmationem, quam negatione priorem esse constaret. Sed hoc iam superius dictum est. Quid autem sibi velit haec enumeratio, paucis expromam multas enim confusiones multosque in orationibus errores hic locus optime intellectus veraciterque perceptus sustulit. Et est haec expositio quam nullus ante Porphyrium expositorum vidit. Non est idem namque unam esse orationem et multiplicem, quod simplicem et compositam, et distat una a simplici, distat etiam multiplex a composita. Est ergo una oratio quae unum significat, multiplex autem quae non unum sed plura. Fit autem hoc in huiusmodi orationibus, ut cum dico: Cato philosophus est  Haec oratio non est una: non enim unum significat potest enim monstrare et Catonem Uticensem esse ƿ philosophum, potest etiam ostendere et Catonem Censorium oratorem esse philosophum. Qua in re non una est oratio atque idcirco in Uticensi quidem Catone vera est, in oratore vero falsa. Huiusmodi ergo orationes multas vocamus. Sin vero unum significet, ut cum dicimus: In charta scribitur  illam dicimus unam. Ergo una quae sit vel multiplex oratio, ex his intellegitur quae significant. Si enim unam significat rem, una est, si multas, multiplex. Simplices autem et compositae orationes non ad significationem sed ad terminos ipsos dictionesque, quae in propositionibus sumuntur, referendae sunt. Et est quidem simplex oratio enuntiativa, quae ex solis duobus terminis constat, ut est: Homo vivit  Sive autem his propositionibus omnis addatur, ut est: Omnis homo vivit  sive nullus, ut: Nullus lapis vivit  sive aliquis, ut: Aliquis homo vivit  quoniam termini ipsi duo sunt, simplex vocatur propositio. Composita vero, si ultra duos terminos enuntiat, ut est: Plato philosophus in lycio ambulat  hic enim quatuor sunt termini, vel si tres sint, ut: Plato philosophus ambulat  Hae quoque, si eis omnis aut nullus aut aliquis addatur, eodem modo compositae sunt. Ergo una vel multiplex oratio intellegitur, si unum vel multa significent, et de propria semper significatione iudicantur. Simplex autem et composita non ex significatione sed ex verborum vel nominum pluralitate cognoscitur. Si enim ultra duos terminos habet propositio, composita est, sin duos tantum, simplex. Si ergo semper quae ƿ simplex oratio est, id est quae duobus terminis constat, unam tantum significantiam retineret, indifferenter dici posset una oratio et simplex (eadem enim una esset, quae etiam simplex) sed quoniam non omnis simplex unum significat, non omnis simplex una est. Potest ergo fieri ut simplex quidem sit propositio, multae tamen orationes: simplex quidem ad compositionem dictionum, multae vero ad significationem sententiarum. Quare erit in hoc gemina differentia, ut unam dicamus simplicem unamque orationem, alteram simplicem et plures orationes. Rursus si omnes compositae orationes plures etiam res significarent, indifferenter diceremus multiplicem et compositam; sed quoniam fieri potest ut propositio aliquotiens quidem constet ex numerosis pluribusque terminis quam sunt duo, unam tamen sententiam monstret, potest fieri ut composita quidem sit, una tamen oratio sit significatione, composita dictione, ut est animal rationale mortale mentis et disciplinae capax: haec quidem plura sunt sed his una subiecta substantia est id est homo, quare una quoque sententia. Sin vero quis dicat: Socrates et ambulat et loquitur et cogitat  multa sunt. Diversa enim sunt quod ambulat et quod loquitur et quod cogitat. Quare erit aliquando composita quidem oratio, una tamen. Sed quoniam composita oratio aliquotiens quidem continve sine coniunctione dicitur, aliquotiens coniunctione copulatur, fiunt hinc quatuor differentiae. Est enim una oratio composita ex terminis continuatim dictis et sine coniunctione unam sententiam monstrans, ut est: ƿAnimal rationale mortale mentis et disciplinae perceptibile. Haec enim oratio composita quidem est ex multis terminis sed coniunctionem non habet (nam quod dictum est mentis et disciplinae perceptibile, haec coniunctio quae est et nullam in tota propositione vim optinet: neque enim coniungit propositionem sed artem addit, cuius susceptibilis homo esse videatur) et habet unam sententiam subiectam, quod est homo. Alia vero est composita ex terminis nulla coniunctione copulatis multiplex et non unam significans propositionem, ut est: Plato Atheniensis philosophus disputat  Aliud enim est esse Platonem, aliud esse philosophum, aliud Atheniensem, aliud disputantem, et haec coniuncta unum aliquid non faciunt quasi substantiam. Quare haec multiplex est sed eam manifestum est nulla coniunctione copulari.Alia vero est composita ex propositionibus inconiunctis multiplex, ut est: Iuppiter optimus maximus est, Iuno regina est, Minerua dea sapientiae est  Quas si quis sub unum continveque proferat, plures quidem propositiones sunt, et oratio multiplex sed coniunctione carent. Alia vero est composita vel ex terminis vel ex propositionibus coniunctione copulatis multiplex et multa significans. Et ex terminis quidem composita, ut si quis dicat: Et Iuppiter et Apollo dii sunt  ex propositionibus autem coniuncta multa significans est, ut si quis dicat: Et Apollo uates est et Iuppiter tonat  Est autem praeter has alia composita propositio ex propositionibus coniunctione coniuncta ƿ unam significans orationem, ut cum dico: Si dies est, lux est  Duae enim propositiones, quae sunt istae "dies est", "lux est", si coniunctione copulantur. Sed haec oratio non significat multa. Neque enim diem esse et lucem proponit sed si dies est, lucem esse. Quocirca consequentiam quandam significat, non exstantiam propositionis. Non enim dicit utrasque esse sed si una est, aliam consequi, quod utrumque in unam quodammodo intellegentiam congruit. Sed hanc Porphyrius propositionem extrinsecus ponit, idcirco quod plura significare videbatur (ipsa enim propositionum pluralitas multitudinem simulat significationum) sed (ut dictum est) non plures significat res sed unam consequentiam. Compositarum igitur et unam rem significantium propositionum duplex modus est. Aut enim est ex terminis inconiunctis unam rem significans composita oratio, ut: Animal rationale mortale est  aut ex propositionibus composita et coniunctione copulata imaginem quidem emittens plura significandi, unam vero rem significans oratio, ut si dicamus: Si dies est, lux est  Cum ergo haec sit distributio compositarum et simplicium orationum, duplici modo unae orationes sunt et duplici multae, simplici autem inconpositae et simplici compositae. Et uno quidem modo una oratio dicitur cum aliqua coniunctione copulatur, alio vero cum unam rem significat; rursus uno modo dicitur multiplex ƿ oratio cum sine coniunctione est, alio vero cum plura significat. Atque hoc est quod ait: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE. Est enim (ut dictum est) dupliciter una oratio: vel quando cum coniunctione est, vel cum unam rem significat. Multiplex autem oratio est vel quae multa significat, vel quae coniunctione non iungitur. Multas enim orationes vocavit eas quae sint multiplices et vel significationis pluralitatem teneant vel praeter coniunctiones sint. Quod autem ait vel inconiunctae, totum complexus est. Multiplex enim est propositio vel si fuerit incomposita, quemadmodum est: Cato philosophatur  multiplex etiam vel si fuerit composita ex terminis praeter coniunctionem, ut est: Plato Atheniensis in lycio disputat  vel si composita sit ex propositionibus praeter coniunctionem, quemadmodum est: Homo est, animal est  Cur autem cum dixit PLURES AUTEM QUAE PLURA addit ET NON UNUM? Hoc est quod sunt quaedam quae plura significent in sermonibus, unum tamen in tota compositione demonstrent, ut est animal rationale mortale. Haec enim omnia multa significant (aliud enim est animal, aliud rationale, aliud mortale) sed totum simul unum est, quod ƿ est homo. Cum autem dico: Socrates Atheniensis philosophus  et singula plura sunt et omnia simul plura nihilominus sunt. Haec enim accidentia sunt et nullam substantiam informant. Atque haec quidem dixit de orationibus quae vel coniunctione unae essent vel significatione, et rursus de multis quae vel praeter coniunctionem multae essent vel significatione multiplici. Quae vero de simplicibus atque compositis posterius dixerit, cum ad illum locum expositio venerit, explicabitur. Nunc autem revertamur ad ordinem. Igitur quoniam supra dixerat simplicem propositionem, quam categoricam Graeci dicunt, nos praedicativam interpretari possumus, semper verbi praedicatione constitui, non autem semper nomine subiecto, quod aliquotiens quidem vel infinitum nomen vel casus nominis vel verba subiecta sunt: cum ergo dictionibus simplicibus constitui diceret simplicem orationem et affirmationem negationemque orationes esse constaret, manifestum fecit affirmationem et negationem dictione constitui et formari, ita quidem ut affirmationem et negationem semper sola verbi dictio praedicata, non autem semper nominis dictio subiecta perficeret. Cum igitur haec ita proposuisset, nunc quid sit dictio, quae praedicativas id est simplices propositiones format, exponit dicens: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA. Quod ideo ait DICTIO SIT SOLA, quod sunt quaedam dictiones simul etiam affirmationes vel imperfectae orationes, quod supra iam dictum est. Cur autem verbum et nomen solae sint dictiones monstrat: QUONIAM NON EST DICERE SIC ALIQUID SIGNIFICANTEM ƿ VOCE ENUNTIARE, VEL ALIQUO INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM PROFERENTEM. Sensus huiusmodi est: enuntiativa propositio his maxime duobus formatur: per propriam naturam atque substantiam et per eius usum atque tractatum. Et natura quidem ipsius est, ut in ea veritas inveniatur aut falsitas, usus autem cum aliquid aut interrogando proponitur et respondetur, ut utrum anima immortalis est, aut certe cum aliquis per suam sententiam enuntiat atque profert, ut si qui dicat hoc ipsum ex propria voluntate: anima immortalis est. Unde definitio quoque enuntiationis una quidem naturae atque substantiae talis redditur: enuntiatio est oratio, in qua verum falsumue est. Ex usu vero eius atque actu enuntiativa oratio est, quam interrogantes proponimus, ut verum vel falsum aliquid audiamus, ex nostra vero prolatione, quam proponentes verum aliquid falsumue monstramus. Ergo cum omnis enuntiativa oratio aut in interrogatione posita sit aut in spontanea prolatione et in utrisque enuntiationis natura et substantia illa versetur, ut sive in interrogatione sit posita cum responsione coniuncta verum habeat vel falsum, sive per se prolata utrumlibet retineat: dictiones, inquit, vel alio interrogante vel quolibet proferente et sponte dicente verum falsumue non continent. Si enim quis dicat interrogans "Socratesne disputat?" alius respondeat "Disputat", hoc quod respondit "Disputat" si cum tota interrogatione iungatur, potest habere intellectum verum falsumue significantis orationis, sin vero per se intellegatur disputat, quamquam alio ƿ interrogante responderit, vero tamen falsoque relinquitur. Similiter etiam si quis dicat "Socrates" vel "Ambulat" nullo interrogante sed ipse proferens, nec verum aliquid nec falsum designat. Ergo verba et nomina dictiones solum sunt, quoniam et simplices sunt (erant enim aliae quaedam dictiones in orationibus verbisque compositis sed nondum perfectae sententiae) quoniamque neque verum neque falsum vel alio interrogante vel quolibet sponte proferente significant. Erant enim aliae quaedam dictiones quae et alio interrogante et quolibet sponte proferente verum falsumue retinerent, in his scilicet quae erant affirmationes aut negationes. Quocirca sensus huiusmodi est, ordo autem verborum sese sic habet: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, quoniam non possumus dicere significantem aliquid id est verbo vel nomine enuntiare. Non enim possumus dicere quoniam, quisquis verbo vel nomine significat aliquid, ille enuntiat, VEL ALIQUO INTERROGANTE VEL NON SED IPSUM PROFERENTEM, tamquam si sic diceret: verba ipsa et nomina dictiones solae sunt, quoniam verbis et nominibus significantem hominem aliquid non possumus dicere, quoniam enuntiat quidquam, sive eum aliquis interroget, sive ipse sponte proferat simplicem dictionem. Enuntiare autem est orationem dicere quae verum falsumque designat. HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ƿ ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA. Quoniam superius de unis orationibus atque pluribus dixit et unam quidem posuit, quae aut coniunctione una esset secundum prolationem aut significatione secundum propriam naturam, plures vero quae aut coniunctione carerent aut multa significatione sua complecterentur, quoniam quidem aliud erat una oratio, aliud simplex, aliud composita, aliud plures, post illa ad simplicem compositamque reuertitur dicens simplicem esse orationem enuntiativam quae duobus terminis continetur, quorum unum subiectum est, alterum praedicatur. Quod vero ait HARUM AUTEM, enuntiativarum scilicet orationum dixit, quarum HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, et quae simplex est enuntiatio, ipse proposuit dicens UT ALIQUID DE ALIQUO, subaudiendum est praedicemus, ut sit hic sensus: harum autem enuntiativarum orationum est simplex enuntiatio, si aliquid unum de uno aliquo praedicemus, ut si dicam: Plato disputat  de aliquo Platone aliquid id est disputat praedicavi. Et haec simplex est enuntiatio, idcirco quoniam duobus terminis partibusque coninugitur. Si qua vero plures habuerit terminos et eius partes duorum terminorum multitudinem egrediantur, illae compositae orationes dicuntur et est enuntiatio composita huiusmodi: Si dies est, lux est  Dies est enim et lux est duae sunt simplices enuntiationes, quae coniunctae unam compositam perfecerunt. Atque hoc est quod ait: HAEC ƿ AUTEM ID EST ALIA ORATIO EX HIS CONIUNCTA id est ex simplicibus enuntiationibus VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA est. Haec enim non simplex est oratio. Simplex enim oratio solas dictiones duas habet in partibus, composita vero etiam orationes, sicut haec quam supra proposui. Est ergo hic ordo quem ipse confudit: prius enim de affirmatione et negatione, quae prima esset, quae posterior, expedivit; dehinc de unis orationibus et pluribus dixit, postremo de simplicibus atque compositis. Sed quoniam quaedam in medio permiscuit, ea paululum differentes directam sententiae seriem continuavimus longum Aristotelis hyperbaton partium coniunctione recidentes. Neque enim simile videatur quod ait: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO; ALIAE VERO CONIUNCTIONE UNAE et rursus cum dicit: EST UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE VEL CUM RURSUS ADDIT: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO IAM COMPOSITA sed illud quidem prius quod dixit EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO ad hoc rettulit, ut priorem affirmationem esse monstraret, posteriorem vero negationem (ait enim DEINDE NEGATIO, unde quod ait PRIMA ad affirmationem ponendum est), quod vero secutus est paulo post: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA ƿ QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE ad hoc rettulit, ut doceret quas unas esse orationes putari oporteret (expediens aut quae unum significarent aut quas coniunctio unas faceret) quas plures (aut quae multa in significatione retinerent aut quarum corpus nulla esset coniunctione compositum); quod vero postremo addit: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA ad simplices rettulit orationes atque compositas, simplices dicens duobus solis terminis iunctas, compositas, quae ex simplicibus orationibus enuntiativis coniungerentur: ut sit totus ordo hoc modo: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO et rursus intermissis quae sequuntur hoc subiciatur: EST AUTEM UNA ORATIO ENUNTIATIVA QUAE UNUM SIGNIFICAT VEL CONIUNCTIONE UNA, PLURES AUTEM QUAE PLURA ET NON UNUM VEL INCONIUNCTAE et post hoc intermissis quoque sequentibus hoc sequatur: HARUM AUTEM HAEC QUIDEM SIMPLEX EST ENUNTIATIO, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO, HAEC AUTEM EX HIS CONIUNCTA VELUT ORATIO QUAEDAM IAM COMPOSITA, tamquam si sic diceret: prima quidem inter enuntiationes oratio affirmativa est, secunda vero negatio. Affirmationum autem et negationum una oratio est, quae unum significat vel quae coniunctione una est, multiplex autem, quae multa significat ƿ vel quae coniunctione non iungitur. Harum quoque simplex est, quae duobus terminis constat, UT ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO; alia vero composita, quae ex simplicibus affirmationibus iungitur. Quod autem dicit ALIQUID DE ALIQUO VEL ALIQUID AB ALIQUO tale est: aliquid enim de aliquo affirmationem sign!ficat, ut cum dico: Socrates disputat  de aliquo Socrate aliquid id est disputat praedicavi et fit affirmatio. Si autem dicam: Socrates non disputat  a Socrate disputationem seiunxi et ab eo abstuli et hoc est negatio. Affirmatio enim de alia re aliam rem praedicat eique coniungit, negatio vero a qualibet re quamlibet rem praedicando tollit. Ergo hoc quod ait ALIQUID DE ALIQUO, affirmationem simplicem significavit; quod dixit ALIQUID AB ALIQUO, simplicem negationem. EST AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT. AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO, NEGATIO VERO ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO. Postquam de multis atque unis necnon simplicibus compositisque enuntiationibus expedivit, enuntiationem simplicem tractat et eam definitione concludit dicens vocem eam esse significantem aliquid esse vel non esse. Quod ergo ait vocem eam esse, ad genus rettulit, quod significativam ad ipsius differentiam vocis, quod DE EO QUOD ESSET AUT NON ESSET ALIQUID, ad significatarum rerum rursus differentiam ƿ rettulit. Habet enim secundum ipsam vocem qua profertur, ut significet quiddam, quid autem significet aut circa quid designationem enuntiatio teneat, ad differentiam significativarum pertinet vocum. Ita enim dictum est, tamquam si diceret: non omnia enuntiatio significat sed esse aliquid aut non esse. Est ergo enuntiatio simplex vox significativa de eo quod est esse aliquid vel non esse, id est omnis enuntiatio aut affirmatio est aut negatio. Esse enim ponit affirmatio non esse negatio. Sed quanta definitionem brevitate constrinxit, quidam non videntes in errorem stolidum falsitatis abducti sunt. Contendunt igitur affirmationis et negationis non esse enuntiationem genus. Nam si haec, inquiunt, definitio est enuntiationis, omnis autem generis definitio propriis speciebus accommodari potest (omne enim genus univoce de speciebus propriis praedicatur), dubium non est quin haec quoque definitio enuntiationis, si enuntiatio genus est, affirmationi negationique conveniat, si tamen eius species hae sunt. Sed quis umquam dixerit affirmationi convenire hanc definitionem, quae dicit vox significativa de eo quod est aliquid esse vel non esse? Neque enim fieri potest, ut affirmatio vox significativa sit de eo quod est esse et non esse sed tantum de eo quod est esse. Negatio rursus non de eo quod est esse et de eo quod est non esse sed tantum de non esse, numquam etiam de esse. Interimit enim semper negatio, iungit affirmatio atque constituit. Quare si haec definitio enuntiationis ad affirmationem negationemque non potest praedicari, affirmatio et negatio enuntiationis species non sunt. Qui mihi nimium videntur errare: quasi vero quidquam uetet utrasque ƿ affirmationem et negationem simul eadem definitione concludere. Possum enim dicere: affirmatio et negatio est vox significativa de eo quod est esse aliquid vel non esse, ut vox significativa utrisque communis sit, de eo quod eat esse affirmationis solius, de eo quod est non esse solius sit negationis. Sed nihil potuit fieri brevius, nisi ut in eadem definitione et enuntiationis naturam constitueret et ipsius faceret divisionem. Tamquam enim si ita dixisset: enuntiatio est vox significativa in qua verum falsumque signatur, huius autem una species affirmativa est, alia negativa, ita ait: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Nam quod dixit: DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST tale est ac si diceret: quae verum falsumque demonstrat. Omne enim quod esse ponit aliquid, ut si dicam: Dies est  vel non esse, ut si dicam: Dies non est  verum falsumque demonstrat. Si ergo aliquid ponatur esse aut non esse, in eo veritas et falsitas invenitur. Est igitur ita hoc quod ait vocem esse significativam DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, tamquam si diceret: est enuntiatio vox significativa verum falsumque significans. Significatio namque de eo quod est esse vel non esse aliquid veri falsique demonstratio est. Sed in eadem definitione species admirabili brevitate partitus est. Tamquam enim si diceret: vox significativa est enuntiatio, in qua verum falsumue demonstratur sed una eius pars affirmativa est, alia negativa, ita ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Significatio enim de eo quod est aliquid affirmatio est, de eo vero quod non est negatio. Ita id quod ait designativam ƿ esse vocem enuntiationem DE EO QUOD EST ALIQUID AUT NON EST utrumque una colligit intellegentia. Hoc enim quod dixit DE EO QUOD EST ALIQUID AUT NON EST utrumque significat et veri falsique demonstrationem et affirmationis negationisque divisionem. Sed Alexander a propria sententia non desistit nec alio quam caeteri tenetur errore. Ait enim hic quoque apparere non esse genus enuntiationem affirmationis et negationis, quoniam ita in definitione enuntiationis affirmatione et negatione ut partibus usus est. Omne autem compositum atque omne aequivocum vel suis partibus vel suis significatis definiri potest, ut si quis ternarium numerum definire volens dicat: ternarius numerus est qui ex uno duobusque coniunctus est, vel si quis hominem definire volens dicat: homo est aut animal rationale mortale aut huius coloribus vel metallo facta simulatio: ita nomen aequivocum ex his, quae ipsum nomen aequivocum designabat, ostensum est. Hic ergo eodem modo: ENUNTIATIO, inquit, EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, tamquam si diceret: enuntiatio est vox aut affirmativa aut negativa: in eundem scilicet errorem labens nec videns quemadmodum una definitione et divisionem fecerit et naturam enuntiationis ostenderit. Sed hanc expositionem (quod adhuc sciam) neque Porphyrius nec ullus alius commentatorum vidit. Aspasius etiam consentit Alexandro. Dicit enim Alexander eodem modo hic definisse Aristotelem enuntiationem, sicut alibi quoque id est in resolutoriis. Illic enim ita propositionem, quod est enuntiatio, definitione ƿ conclusit dicens: PROPOSITIO ERGO EST ORATIO AFFIRMATIVA VEL NEGATIVA ALICUIUS DE ALIQUO. Idem quoque Aspasius sequitur. Porphyrius autem sic dicit: admirabilem esse subtilitatem definitionis. Ex sua enim vi affirmationis et negationis enuntiatio definita est, ex terminis vero ipsa affirmatio atque negatio. Affirmatio namque in duobus terminis constans aliquid alicui inesse significat, totam autem vim ipsius esse aliquid adnuere. Negatio quoque aliquid alicui non inesse significat sed tota vis ipsius est abnuere atque disiungere. Vel rursus affirmatio aliquid alicui inesse designat sed vis ipsius tota ponere aliquid est (cum enim aliquid alicui inesse demonstrat ponit aliquid), rursus negatio quidem aliquid alicui non inesse declarat sed tota vis eius auferre est ergo nunc, inquit, enuntiationem ex tota vi affirma tionis negationisque definivit dicens: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST. Hoc autem ad negationis pertinet affirmationisque vim, tamquam si diceret: enuntiatio est vox significativa quae ponit aliquid aut tollit, quae propriae virtutes sunt affirmationis et negationis. Si enim ita dixisset: enuntiatio est de eo quod est aliquid alicui vel non est; tunc ex terminis affirmationis et negationis enuntiationem definisse videretur; cum autem dicit DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, de tota utrarumque vi determinat. In hac enim affirmatione quae est: Dies est  aliquid alicui secundum ƿ terminos adesse monstravi (est enim diei applicui) sed tota huius propositionis vis est aliquid esse declarare; rursus cum dico: Dies non est  aliquid alicui non esse pronuntio sed tota eius vis est non esse dicere. Quare manifestum est secundum Porphyrium ex tota vi affirmationis et negationis enuntiationem esse descriptam, ex suis vero terminis ipsam affirmationem et negationem. Ait enim AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO in affirmationis definitione genus sumens. Enuntiatio enim (ut dictum est) genus et affirmationis et negationis, quod ipse Aristoteles clarius demonstrat, qui in utrarumque definitionem enuntiationis nomen adscripsit dicens: AFFIRMATIO VERO EST ENUNTIATIO. Hoc enim rettulit ad genus, quod vero addidit alicuius de aliquo reduxit ad terminos. In simplici enim affirmatione aliquid de aliquo enuntiando praedicatur, ut in eo quod est: Dies est  esse diem. Negatio quoque ita definita est: ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO, quantum ad enuntiationem rursus a genere, quantum alicuius ab aliquo rursus ad terminos. In hac enim negatione quae est: Dies non est  esse a die enuntiando tollimus. Sed ut non solum praesentis temporis enuntiationem definisse videretur, addidit enuntiationis definitionem de aliis quoque temporibus intellegi. Ait enim: ENUNTIATIO EST VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST adiecitque QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT. Divisa enim sunt tempora in tribus. Omne enim tempus aut futurum est aut praesens aut praeteritum aut ex his mixtum. Enuntiatio ergo est vox significativa significans aut esse aliquid ƿ aut non esse sed quoniam hoc praesens tempus designat, non solum de praesenti, inquit, loquimur sed etiam de his temporibus quae dividuntur, ut hoc esse et non esse et in futurum veniat et in praeteritum, ut aliquotiens sio esse et non esse significet id est sic ponat atque auferat enuntiatio, ut et praesens tempus ponat et auferat, ut est: Socrates est Non est Socrates  et praeteritum ponat et auferat, ut est: Socrates fuit Socrates non fuit  eodem modo futurum: Socrates erit Socrates non erit  Ergo in his omnibus temporibus secundum esse aliquid vel non esse id est secundum ponere et auterre tota enuntiationis vis est. Hoc ergo est quod ait DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT, tamquam si diceret: de eo quod est aliquid vel non est vox enuntiativa significat vel in praesens vel in futurum vel in praeteritum quemadmodum ipsa tempora dividuntur. Cur autem talis ordo fuerit definitionis, paucis absolvam. Prius enim de nomine, post de verbo, hinc de oratione, rursus de enuntiatione, dehinc de affirmatione, postremo de negatione disseruit. Omne compositum suis partibus posterius est, omne genus suis partibus prius: ergo in compositis partes toto priores sunt, in generibus et speciebus partes toto posteriores. Rursus in compositis totum partibus posterius, in speciebus et generibus totum partibus prius est. Ergo quoniam verba et nomina neque affirmationis neque negationis neque enuntiationis neque orationis species erant sed quaedam horum omnium partes, quibus haec omnia iungerentur, oratio autem genus enuntiationis, enuntiatio ƿ affirmationis et negationis, affirmatio prior negatione, scilicet secundum prolationem, sicut ipse testatus est: ergo quoniam haec omnia et oratio et enuntiatio et affirmatio et negatio verbis et nominibus coniunguntur, his omnibus nomina et verba priora sunt. Nomine autem res aut per se subsistens aut tamquam per se subsistens significatur, verbo vero accidens designatur et velut alii accidens, quod ex supra dictis plenum est. Quod autem per se consistit prius est: ergo id quod nomen significat: quam id quod verbum: quare verbo prius est nomen. Ergo quoniam nomen et verbum oratione, enuntiatione, affirmatione et negatione priora sunt (partes enim priores sunt his quae componuntur), iure haec ante omnia definita sunt. Quoniam vero nomen prius est verbo, prius nomen, postea vero definitum est verbum. Sed quia omne genus speciebus suis prius est, post haec id est nomen et verbum orationem definitione descripsit, quae et proximum enuntiationis genus esset et superius affirmationis et negationis; post orationem vero enuntiationem, quae cum sit species orationis, affirmationis tamen et negationis esset genus; post enuntiationem vero affirmationem, quae quamquam negation) aequaeua species esset secundum genus proprium id est enuntiationem, in prolatione tamen prior esset, ut ipse supra iam docuit dicens: EST AUTEM UNA PRIMA ORATIO ENUNTIATIVA AFFIRMATIO, DEINDE NEGATIO. Sed quoniam superius nobis dictum ƿ est has eum quinque res definire velle: quid sit dictio, quid enuntiatio, quid affirmatio, quid negatio, quid contradictio, dictionem quid sit ostendit per id quod ait: NOMEN ERGO ET VERBUM DICTIO SIT SOLA, enuntiationem vero per id quod ait: EST AUTEM SIMPLEX ENUNTIATIO VOX SIGNIFICATIVA DE EO QUOD EST ALIQUID VEL NON EST, QUEMADMODUM TEMPORA DIVISA SUNT, affirmationem vero EST ENUNTIATIO ALICUIUS DE ALIQUO; negationem quoque definivit dicens: NEGATIO VERO ENUNTIATIO ALICUIUS AB ALIQUO. Restat ergo de contradictione disserere. Quid sit ergo contradictio ipse persequitur dicens: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON ESSE ET QUOD NON EST ESSE ET QUOD EST ESSE ET QUOD NON EST NON ESSE, ET CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA SIMILITER OMNE CONTINGIT QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE ET QUOD QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE: QUARE MANIFESTUM EST QUONIAM OMNI AFFIRMATIONI EST NEGATIO OPPOSITA ET OMNI NEGATIONI AFFIRMATIO. ET SIT HOC CONTRADICTIO, AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPOSITAE. Expeditis omnibus, quae sese explicaturum esse promiserat, nunc ad reliquam contradictionem ordine venit eamque ab affirmationibus negationibusque repetit dicens omnibus affirmationibus posse proprias negationes opponi et omnibus negationibus proprias ƿ rursus ex adverso affirmationes posse constitui. Hoc autem hinc sumitur: quoniam novimus alias res esse, alias non esse et quoniam nos ipsi dicere possumus et sentire alias res esse, alias non esse, ex his quatuor enuntiationes fiunt, geminae contradictiones. Si quis enim id quod est dicat non esse, ut si vivente Socrate dicat: Socrates non vivit  quod est negat et erit negatio false; rursus si quis id quod non est esse confirmet, ut si non vivente Socrate dicat: Socrates vivit  haec rursus affirmatio falsa est; si quis etiam id quod est esse enuntiatione constituat, ut si vivente Socrate dicat: Socrates vivit  uera erit affirmatio; sin vero quod non est esse negaverit, est negatio vera, ut si quis non vivente Socrate dicat: Socrates non vivit  Ex his igitur id est ex affirmatione vera et negatione falsa et rursus ex negatione vera et affirmatione falsa quatuor quidem sunt enuntiationes sed in duabus affirmatio, in duabus negatio continetur, contradictiones vero duae. Hoc est enim quod ait: QUONIAM AUTEM EST ENUNTIARE ET QUOD EST NON ESSE, falsam enuntiationem negationis ostendit; quodque addidit ET QUOD NON EST ESSE, falsam affirmationem in enuntiatione proposuit. Illud quoque quod dixit ET QUOD EST ESSE, enuntiationem designat, qua id quod est esse vera affirmatione profertur; amplius quod ait ET QUOD NON EST NON ESSE, verae negationis specimen dedit. Quare si et quod est vere potest dici esse et idem quod est falso potest praedicari non esse et id quod non est vere potest enuntiari non esse et id quod non est falso esse poterit ƿ affirmari, manifestum est omnem affirmationem habere aliquam contradictionem negationis oppositam et omnem rursus negation em affirmationis oppositionem facere contradictionem. Etenim si omne quod quis affirmat negari poterit et quod quis negat poterit affirmari, quis dubitet nec affirmationem posse constitui cui non negatio contradicat nec negationem cuius nulla affirmatio valeat inveniri? Omnis igitur affirmatio negationem et negatio habet oppositam affirmationem: est igitur CONTRADICTIO AFFIRMATIO ET NEGATIO OPPOSITAE. Quid autem sit oppositio posterius dicendum est aut quid sit contradictio post diligentissima ratione monstrabo. Quod autem ait ET CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA tale est tamquam si diceret: sicut affirmatio et negatio in praesenti tempore fieri potest, ita etiam vel in praeterito vel in futuro. Nam sicut potest id quod est esse constitui, ita potest id quod fuit fuisse proponi et id quod futurum est in spem futuri temporis affirmari, ut cum dicimus: Socrates fuit Sol aestate in cancro futurus est  Eodem ergo modo et de futuro et praeterito affirmatio et negatio constituitur, quemadmodum de praesenti. Futurum autem et praeteritum extrinsecus est et praeter praesens tempus: illud enim veniet, illud recessit. Recte igitur etiam CIRCA EA QUAE SUNT EXTRA PRAESENS TEMPORA dixit huiusmodi posse affirmationes negationesque evenire. Circa enim praeteritum et futurum, quod est extrinsecus a praesenti tempore, SIMILITER OMNE CONTINGIT (ut ipse ait) QUOD QUIS AFFIRMAVERIT NEGARE ET QUOD ƿ QUIS NEGAVERIT AFFIRMARE. Unde fit ut in omnibus temporibus illud constet omni affirmationi posse opponi negationem omnique negation) oppositam affirmationem posse constitui. Nunc autem qualis debeat sumi oppositio in affirmatione et negatione demonstrat. Hoc enim est contradictio affirmatio et negatio oppositae. Quod si hae oppositae constitnunt contradictionem, qualis in his debet esse oppositio quae contradictionem constituit recte persequitur. DICO AUTEM OPPONI EIUSDEM DE EODEM, NON AUTEM AEQUIVOCE ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM DETERMINAMUS CONTRA SOPHISTICAL IMPORTUNITATES. Cum duobus terminis simplex propositio constet et unus subiectus sit, alius praedicetur, subiectus autem: sit qui primus dicitur, praedicatus vero qui posterius, dicit illam oppositione affirmationem et negationem integram constituere contradictionem, quae idem subiectum habeant, idem etiam praedicatum, ut neque subiectum neque praedicatum plura significet. Alioquin non erit contradictio nec aliqua oppositio. Ut cum dico: Socrates albus est  et alius dicit: Aethiops albus non est  haec affirmatio atque negatio non sunt oppositae, idcirco quia est aliud subiectum et idem praedicatum. In affirmatione enim "Socrates" subiectus fuit, in negatione Aethiops. Rursus cum dico: Socrates albus est  et alius dicit: Socrates philosophus non est  nec haec rursus negatio contra affirmationem retinet oppositionem, ideo quia aliud praedicatum in utrisque proponitur. ƿ In affirmatione enim 'album' praedicatum est ad Socraten, in negatione philosophus. Quod si utraque sint diversa, multo magis nulla. Fit oppositio: ut cum dico: Socrates philosophus est  si respondeat alius: Plato Romanus non est  hic neque idem subiectum est neque idem praedicatum et plus istae diversae sunt et nulla contra se oppositione oppositae atque ideo possunt utraeque esse verae et si ita contingit utraeque falsae necnon etiam una vera, una falsa. Quae enim se non perimunt, nihil eas impedit aut utrasque falsas aut utrasque veras aut unam veram, falsam aliam reperiri. Quare quorum vel aliud subiectum est vel aliud praedicatum, illa opposita esse non dicimus. Unde fit ut nec illa quoque quae plura significant, si subiecta aut praedicata sint, contradictoriam negationem valeant custodire. Si quis enim nomen aequivocum subiciat et aliud praedicet et si quis contra huiusmodi affirmationem constituat negationem, non faciet oppositionem. Ut cum dico: Cato se Uticae occidit  nomen hoc quod dicitur 'Cato' aequivocum est. Potest enim et orator intellegi et hic qui exercitum duxit in Africam. Si quis igitur dicat: Cato se Uticae occidit  potest fortasse intellegi de Catone Marciae, si quis respondeat Cato se Uticae non occidit, potest de Catone Censorio constituisse negationem. Sed quoniam diversus est Cato Censorius Catone Marciae et nomen ipsum Catonis diversa significat, diversae a se erunt affirmatio et negatio et non id omnino perimit negatio, quod affirmatio constituit. Affirmatio enim constituit Marciae Catonem se Uticae peremisse, negatio ƿ vero dicit Catonem, si ita contigit, oratorem non se Uticae peremisse. Quare non constituunt verum inter se falsumque, idcirco quod a se diversae sunt. Nam utrumque verum est: et quod se Cato Uticae occidit scilicet Marciae et quod se Cato Uticae non occidit scilicet orator. Atque hic aequivocum subiectum fecit, ut haec affirmatio et negatio oppositionem nullo modo constituerent. Quod si praedicatum fuerit aequivocum, eodem modo contradictio non fit. Dicat enim quis quoniam Cato fortis est  et de Catone praedicet fortitudinem mentis dicens aliusque respondeat: Cato fortis non est  ad inbecillitatem corporis spectans: ita igitur aequivocatio fortitudinis ambiguitatem fecit, quae oppositionem nulla ratione componeret. Et si uterque terminus et subiectus et praedicatus aequivoci fuerint, multo magis diversae a se erunt propositiones et non oppositae nec inter se verum falsumque dividentes sed utrasque veras, interdum utrasque falsas esse contingat. Quare unum oportet esse subiectum unumque praedicatum, ut id quod affirmatio praedicavit et iunxit, idem negatio dividat et abiungat et id de quo subiecto affirmatio praedicavit de eodem negatio neget. Nam si sit uterque aequivocus terminus aut quilibet unus eorum, fieri potest ut aliud tollat negatio quam affirmatio posuit itaque nulla fit oppositio. Quare non ita faciendum est sed idem subiectum et praedicatum in affirmatione esse debet, idem in negatione. Atque hoc est quod ait: DICO AUTEM OPPONI EIUSDEM DE EODEM. ƿ Quod enim ait EIUSDEM ad praedicatum rettulit, quod DE EODEM ad subiectum et subaudiendum est DICO AUTEM OPPONI negationem EIUSDEM praedicati DE EODEM subiecto sed ut non sint aequivoca neque subiectum neque praedicatum et multo magis utraque sed unum aliquid significent. Quod per hoc dixit NON AUTEM AEQUIVOCE. Nec sola, si non sit, aequivocatio firma est ad constituendam oppositionem. Multa enim sunt quae in Sophisticis Elenchis contra eos qui argumentis fallacibus verae rationis viam conantur euertere determinavit, quemadmodum faciendae essent propositiones et quemadmodum invenienda argumentatorum fallacia. Quod hic ait: ET QUAECUMQUE CAETERA TALIUM DETERMINAMUS CONTRA SOPHISTICAS IMPORTUNITATES, tamquam si diceret: dico quidem opponi affirmationi negationem eiusdem praedicati de eodemque subiecto, non autem aequivoce: hoc et quaecumque alia sunt, quae in sophisticis elenchis determinata sunt contra argumentatorum importunitates. Et hic quidem, quoniam aliud negotium erat, commodissime breviterque perstrinxit. Nos autem quid in sophisticis elenchis determinaverit ad constituendam oppositionis contradictionem, quantum brevitas patitur, non grauamur apponere. Non enim solum si aequivocatio in propositionibus collocetur nulla fit contradictio, verum etiam si univocatio in negatione ponitur, illa oppositio contradictionem penitus non habebit. Est enim oppositio habens contradictionem, ƿ in qua affirmatio si vera est negatio falsa sit, si negatio vera est fallax affirmatio videatur. Positis ergo secundum univocationem terminis utrasque simul et affirmationem et negationem veras esse contingit, ut si quis dicat: Homo ambulat Homo non ambulat  affirmatio de quodam homine vera est, negatio de speciali vera. Sed specialis homo et particularis univoca sunt: quocirca sumptis univocis contradictio non fit. At vero nec si ad aliam et aliam partem affirmatio negatioque ponatur, fit in ipsis ulla veri falsique divisio sed utrasque veras esse contingit: cum dico: Oculus albus est Oculus albus non est  In alia enim parte albus est, in alia parte albus non est: atque ita et negatio vera est et affirmatio. Nec si ad aliud atque aliud referens dicat, ulla inde contradictio procreatur, ut cum dico: Decem dupli sunt Decem dupli non sunt  Nam si ad quinarium referam, vera est affirmatio, si ad senarium, vera negatio. Nec si diversum tempus in affirmatione ac negatione sumatur, ut cum dico: Socrates sedet Socrates non sedet  Alio enim tempore sumpto sedere veram facit affirmationem, alio tempore non sedere veram negationem. Amplius quoque si diverso modo quis dicat in negatione quod aliter in affirmatione proposuit, vim contradictionis intercipit. Si quis enim dicat affirmationem potestate, negationem vero actu, possunt et affirmatio et negatio uno tempore congruente veritate constitui: ut si quis dicat: Catulus videt Catulus non videt  Potestate enim videt, actu non videt. Quocirca oportet fieri si facienda est ƿ contradictio EIUSDEM (ut ipse ait) praedicati DE EODEM subiecto, non aequivoce, neque univoce, ad eandem partem, ad idem relatum, ad idem tempus, eodem modo constitui. Quae omnia in Sophisticis Elenchis diligentissime persecutus est. Nunc pauca commemorans distulit in illius libri integram disputationem. Est autem enuntiatio de eo quod est aliquid esse vel non esse: affirmatio quidem de eo quod est esse ut: Plato philosophus est  negatio vero de eo quod est non esse, ut: Plato philosophus non est  Haec utraque enuntiatio: Plato philosophus est Plato philosophus non est  sese perimentia et in contrarium quasi quodam locata litigio faciunt contradictionem. Contradictio vero est oppositio affirmationis et negationis, in qua neque ambas falsas neque ambas veras esse contingit sed unam semper veram, alteram vero falsam. Si qua autem sunt huiusmodi, in quibus verum falsumque affirmatio negatioque non dividat, in illis aliquid diversum et non ad oppositionem integrum reperitur. Dicit autem Porphyrius argumentum esse ad id quod dicimus affirmationem negationi ita oportere opponi, ut una vera opposita in alteram mox falsitas veniat, communem inter nos consuetudinem colloquendi. Quando enim quis aliquid esse dixerit, idem alius negarit, unum ipsorum verum dicere, mentiri alium suspicamur. Amplius quoque si aliquid aut est aut non est mediumque inter esse et non esse nihil poterit ƿ inveniri, affirmatio autem ponit esse aliquid idemque aufert negatio et est contradictio affirmatio et negatio oppositae, talis oppositio integram facit contradictionem, in qua affirmatio et negatio utraeque verae esse non possint. Affirmationis autem negationisque natura ad qualitatem quandam refertur. Qualitas enim quaedam est affirmatio atque negatio. Praeter hanc vero qualitatem est etiam quantitas propositionum, de qua posterius paulo dicendum est. Sed volens Aristoteles quid esset contradictio nos docere, prius ubi esset ostendit. In oppositione enim contradictionem omnem esse necesse est. Quare quoniam contradictio in oppositione est, qualis autem oppositio hanc contradictionem faciat, adhuc ignota est estque haec oppositio aut in qualitate propositionum aut in quantitate aut in utroque et de qualitate propositionum, quae in affirmatione et negatione consistit, dictum est: nunc de quantitate dicetur, ut ea quoque cognita perspiciatur, in qualitate an in quantitate an in utroque propositionum contradictio sit. QUONIAM AUTEM SUNT HAEC QUIDEM RERUM UNIVERSALIA, ILLA VERO SINGILLATIM; DICO AUTEM UNIVERSALE QUOD IN PLURIBUS NATUM EST PRAEDICARI, SINGULARE VERO QUOD NON, UT HOMO QUIDEM UNIVERSALE, PLATO VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA: NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS AUTEM EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Omnis propositio significationis suae proprietates ex subiectis intellectibus capit. Sed quoniam necesse est intellectus rerum esse similitudines, vis propositionum ad res quoque continuatur. Atque ideo cum aliquid vel affirmare cupimus vel negare, hoc ad intellectus et conceptionis animi qualitatem refertur. Quod enim imaginatione intellectuque concipimus, id in affirmatione aut in negatione ponentes affirmamus scilicet vel negamus. Et principaliter quidem ab intellegentia propositiones vim capiunt et proprietatem, secundo vero loco ex rebus sumunt ex quibus ipsos intellectus constare necesse est. Unde fit ut et quantitate propositio et qualitate participet. Qualitate quidem in ipsa affirmationis et negationis prolatione quam ex proprio quis iudicio emittit ac profert; quantitate vero ex subiectis rebus quas capiunt intellectus. Videmus namque alias esse in rebus huiusmodi qualitates, quae in alium convenire non possint nisi in unam quamcumque singularem particularemque substantiam. Alia est enim qualitas singularis, ut Platonis vel Socratis, alia est quae communicata cum pluribus totam se singulis et omnibus praebet, ut est ipsa humanitas. Est enim quaedam huiusmodi qualitas, quae et in singulis tota sit et in omnibus tota quotienscumque enim aliquid tale animo speculamur; non in unam quamcumque personam per nomen hoc mentis cogitatione deducimur sed in omnes eos quicumque humanitatis definitione participant. Unde fit ƿ ut haec quidem sit communis omnibus, illa vero prior incommunicabilis quidem cunctis, uni tamen propria. Nam si nomen fingere liceret, illam singularem quandam qualitatem et incommunicabilem alicui alii subsistentiae suo ficto nomine nuncuparem, ut clarior fieret forma propositi. Age enim incommunicabilis Platonis illa proprietas Platonitas appelletur. Eo enim modo qualitatem hanc Platonitatem ficto vocabulo nuncupare possimus, quomodo hominis qualitatem dicimus humanitatem. Haec ergo Platonitas solius unius est hominis et hoc non cuiuslibet sed solius Platonis, humanitas vero et Platonis et caeterorum quicumque hoc vocabulo continentur. Unde fit ut, quoniam Platonitas in unum convenit Platonem, audientis animus Platonis vocabulum ad unam personam unamque particularem substantiam referat; cum autem audit hominem, ad plures quosque intellectum referat quoscumque humanitate contineri novit. Atque ideo quoniam humanitas et omnibus hominibus communis est et in singulis tota est (aequaliter enim cuncti homines retinent humanitatem sicut unus homo: si enim id ita non esset, numquam specialis hominis definitio parti cularis hominis substantiae conveniret): quoniam igitur haec ita sunt, idcirco homo quidem dicitur universale quiddam, ipsa vero Platonitas et Plato particulare. His ergo ita positis quoniam universalis illa qualitas et in omnibus potest et in singulis praedicari, cum dicimus homo ambiguum est et dubitari potest utrum de speciali dictum sit an de aliquo particulari, ƿ idcirco quod nomen hominis et de omnibus dici potest et de singulis quibusque qui sub una humanitatis specie continentur. Quare indefinitum est, utrum de omnibus dictum sit id quod diximus homo an de una quaeumque individua hominis et particulari substantia hanc igitur qualitatem humanitatis si ambiguitate in tellectus separare nitamur, determinanda est et aut in pluralitatem distendenda aut in unitatem numeri colligenda. Nam cum dicimus "Homo" indefinitum est utrum omnes dicamus an unum, sin vero additum fuerit 'omnis', ut sit praedicatio "Omnis homo" vel "Quidam", tunc fit distributio et determinatio universalitatis et nomen quod universale est (id est 'homo') universaliter proferimus dicentes "Omnis homo" aut particulariter dicentes "Quidam homo". Omnis enim nomen universalitatis significativum est. Quocirca si 'omnis' quod universale significat ad hominem quod idem ipsum universale est adiungatur, res universalis quae est homo universaliter praedicatur secundum id quod definitio ei adicitur quantitatis. Sin vero dictum fuerit "Quidam homo" tunc universale quod est homo addita particularitate per id quod ei adiectum est 'quidam' particulariter profertur et dicitur res universalis prolata particulariter. Sed quoniam particularis est praedicatio "Quidam homo", particularis rursus praedicatio Platonis (de uno enim dicitur "Quidam homo" et de uno dicitur Plato), non eodem modo utraeque particulares esse dicuntur. Plato enim unam ac definitam substantiam proprietatemque demonstrat, quae convenire in alium non potest, quidam homo vero quod dicitur particularitate quidem ipsum nomen universale ƿ determinat sed si deesset 'quidam', id quod dicimus homo universale ac per hoc ambiguum permaneret, quod vero dicimus Plato numquam esse poterit universale. Nam etsi quando nomen hoc 'Plato' pluribus imponatur, non tamen idcirco erit hoc nomen universale. Namque humanitas ex singulorum hominum collecta naturis in unam quodammodo redigitur intellegentiam atque naturam, nomen vero hoc quod dicimus Plato multis secundum vocabulum fortasse commune esse videretur, nulli tamen illa Platonis proprietas conveniret, quae erat proprietatis aut naturae eius Platonis qui fuit Socratis auditor, licet eodem vocabulo nuncuparetur. Hoc vero ideo quoniam humanitas naturalis est, nomen vero proprium positionis. Nec hoc nunc dicitur quod nomen de pluribus non potest praedicari sed proprietas Platonis. Illa enim proprietas naturaliter de pluribus non dicitur, sicut hominis, et ideo incommunicabilis (ut dictum est) qualitas est ipsa Platonitas, communicabilis vero qualitas universalis quae et in pluribus et in singulis est. Unde fit ut cum dico "Omnis homo" in numerum propositionem tendam, cum vero dico Socrates aut Plato non in numerum emittam sed qualitatem proprietatemque unius in suae individuae singularisque substantiae unitatem constringam et praedicem. Quare in hoc quoque maxime hae duae particularitates quidam homo et Plato distant, quod cum dico Plato quem hominem dixerim vocabulo designavi proprietatemque uniuscuiusque quem nomino, cum vero dico ƿ quidam homo, numerum tantum reieci et ad unitatem propositionem redegi, de quo autem dicam haec particularitas mihi non subdidit. Quidam enim homo potest esse et Socrates et Plato et Cicero et unusquisque singulorum quorum proprietates a se in singularitatis ratione et natura diversae sunt. Unde commodissime Theophrastus huiusmodi particulares propositiones, quales sunt: Quidam homo iustus est  particulares indefinitas vocavit. Partem namque tollit ex homine quod est universale vel vocabulo vel natura, quae tamen ipsa sit pars et qua proprietate descripta, non determinat nec definit. Unde universale vocavit quod de pluribus naturaliter praedicatur, non quemadmodum nomen Alexandri de Troiano et de Macedone Philippi filio et de pluribus dicitur. Hoc enim positione de pluribus dicitur, illud natura. Et persubtiliter ait quod in pluribus natum est praedicari. Est enim haec universalitas naturalis. Illam vero nominis reique proprietatem quae particularis est singularem vocavit dicens: PLATO VERO EORUM QUAE SUNT SINGULARIA. Quod autem secutus est dicens: NECESSE EST AUTEM ENUNTIARE QUONIAM INEST ALIQUID AUT NON ALIQUOTIENS QUIDEM EORUM ALICUI QUAE SUNT UNIVERSALIA, ALIQUOTIENS AUTEM EORUM QUAE SUNT SINGULARIA, huiusmodi est tamquam si diceret: omnis quidem affirmatio et negatio inesse aut non inesse demonstrat. Et quidquid enuntiatur aut de eo quod est esse proponitur, ut: Plato philosophus est  (haec enim propositio Platoni philosophiam inesse constituit), aut de eo quod est ƿ non inesse, ut: Plato philosophus non est  (a Platone enim philosophiam dividens eidem philosophiam non inesse proponit). Ergo quoniam necesse est aut aliquid alicui inesse dicere aut aliquid alicui non inesse, illud quoque necesse est id cui inesse aliquid dicimus aut universale esse (ut cum dicimus: Homo albus est  albedinem universali rei inesse monstramus id est homini) aut certe particulare ac singulare, ut si quis dicat: Socrates albus est  albedinem enim Socrati singulari substantiae et proprietati incommunicabili inesse signavit. Sed in singularibus sive affirmetur aliquid sive negetur unus oppositionis modus est, qui vim contradictionis optineat. Nam quoniam singulare atque individuum nulla sectione dividitur, secundum ipsum quoque facta contradictio simplex erit. In his autem quae in universalibus fiunt non est unus modus contradictionis. Nam cum dico Socrates homo est Socrates homo non est  sola huiusmodi oppositio, si omnia illa conveniant quae contra argumentatorum importunitates supra iam dicta sunt, ad faciendam contradictionem idonea reperitur. Sin vero tale aliquid subiectum sit de quo aliquid praedicetur quod sit universale et in pluribus (ut ipse ait) natum sit praedicari, non est simplex oppositio contradictionis. Sunt enim earum propositionum quae de universalibus rebus fiunt tres differentiae: una quae omnis complectitur, ut cum dico: Omnis homo animal est  alia quae ex indefinita multitudine et innumera pluralitate ad unum propositionis vim colligit atque constringit. Haec huiusmodi est tamquam si quis dicat: Quidam homo animal est  Alia vero est quae neque in pluralitatem propositionem tendit neque in particularitatem redigit, ut ea quae sine ulla determinatione proponitur, ut est: Homo animal est Homo animal non est  hic enim nec 'quidam', quod particularitatis, nec 'omnis', quod est universalitatis, adiunximus. Unde fit ut singularitas simpliciter praedicetur, universalitas vero aliquotiens universaliter, ut: Omnis homo animal est  homo res universalis universaliter praedicata est. Nam cum sit homo universalis, quod ei adiectum est omnis universalitatem universaliter appellari fecit. Rursus est ut universalitas particulariter praedicetur, ut cum dico Quidam homo animal est  'quidam' particulare determinat sed iunctum ad hominem universalem substantiam particulariter praedicari fecit. Est quoque universale non universaliter praedicare, quotiens sine adiectione universalitatis vel particularitatis simpliciter nomen universale ponitur, ut est: Homo animal est  Determinationes autem dicuntur quae rem universalem vel in totum fundunt, ut 'omnis', vel in partem contrahunt, ut 'quidam'. 'Omnis' vero vel 'quidam' quantitatem propositionis determinant, quae quantitas iuncta cum qualitate propositionum variatur quatuor modis (qualitas autem propositionum in affirmatione et negatione est): aut enim universalem rem universaliter praedicat affirmative, ut: Omnis homo animal est  aut universalem rem particulariter affirmative, ut: Quidam homo animal est  aut universalem rem universaliter negative, ut: Nullus homo lapis est  aut universalem rem particulariter negative, ut Quidam homo lapis non ƿ est  Oportet autem in his quae universali determinatione proponuntur in ipsis determinationibus fieri negationem, ut quoniam determinatio universalis rei est universaliter, cum dicimus: Omnis homo iustus est  si universaliter negabimus, dicamus: Nullus homo iustus est  Et quod aio 'nullus' eam universalitatem quae est omnis intercipit, non eam quae est homo. Rursus si idem ipsum: Omnis homo iustus est  negare particulariter velim, dicam: Non omnis homo iustus est  per particularem negationem universalitatis vim interimens. In particularibus vero non item. Si enim eam quae est particularis determinatio universalis rei, ut est: Quidam homo iustus est  negare velim, particulariter dicam: Quidam homo iustus non est  Hoc autem idcirco fit, quod habet quandam similitudinem atque ambiguitatem, utrum universaliter an sit particulariter dictum, si in universalibus propositionibus negativae particulae ad praedicationes potius quam ad terminationes ponantur. Si enim contra hanc affirmationem quae est Omnis homo iustus est  ponam hanc quae dicit: Omnis homo iustus non est  haec duas res significare videbitur: et quod nullus homo iustus sit, omnem enim hominem iustum non esse proposuit, et quod sint quidam homines non iusti, omnem enim hominem negavit iustum esse. Hoc autem nihil impedit ut aliquis sit iniustus, aliquis iustus. Nam si est aliquis iustus, non repugnat ne vera sit propositio quae dicit: Omnis homo iustus non est  Non est enim iustus omnis homo, si alii iusti sint, alii vero iniusti. Quare quoniam duplicis significationis est, idcirco universalis negationis definitio, quae est nullus, universalis affirmationis tollit determinationem, quae est omnis. Atque ideo in particularibus negationibus ad ipsam universalitatem affirmationum negatio necesse est apponatur, ut in eo quod est: Omnis homo iustus est  illa est ei opposita negatio quae est: Non omnis homo iustus est  non illa quae est: Omnis homo iustus non est  ne sit ambiguum utrum universaliter an particulariter neget. Dictum est enim hanc negationem quae est: Omnis homo iustus non est  et universalitatis interemptionem designare et particularitatis propositionem. Quotiens vero particulare aliquid tollitur, in his non iam ad determinationem sed ad praedicatum particula negationis apponitur, ut in eo quod est: Quidam homo iustus est  nullus dicit: Non quidam homo iustus est  Neque enim hic ad determinationem particularem, quod est 'quidam', negatio ponitur sed dicimus: Quidam homo iustus non est  scilicet ad praedicatum quod est iustus. Unde etiam ad indeterminatas propositiones, quae sunt sine 'omnis' aut 'nullius' aut 'alicuius' determinatione, ad praedicatum semper apponitur particula negativa, ut est: Homo iustus est  Nemo enim dicit: Non homo iustus est  sed: Homo iustus non est  In singularibus quoque non dico: Non Socrates iustus est  sed: Socrates iustus non est  Et nisi aliquotiens ambiguitas impediret, ad praedicatum semper negatio poneretur. Sed omnia quaecumque in determinatione ponuntur talia sunt, quae aut totum colligant in affirmativo, ut est 'omnis', aut totum perimant in negativo, ut est 'nullus', aut colligant in affirmativo partem, ut est 'quidam', aut interimant in negativo partem, ut 'quidam non', aut in negativo perimant totum particulariter, ut est 'non omnis'. Sed 'quidam non' et 'non omnis' particulares negationes sunt. Sive ƿ enim quis partem ex toto subripiat, particulare est quod relinquit, quia a totius perfectione discessit, sive quis totum esse neget, partem relinquat, rursus particulare est quod fit reliquum. Nam cum dico: Quidam homo iustus non est  abstuli partem, et rursus cum dico: Non omnis homo iustus est  cum negavi omnem, aliquem qui iustus non esset ostendi. Haec igitur, 'omnis' et 'quidam', determinationes planissimae sunt et communi intellegentiae subiectae. Has duae particulares respiciunt negationes, ut ea quae est quidam non determinationem particularem negat, ea vero quae est non omnis universalem negat determinationem sed utraque negationem (ut dictum est) in particularitatem constringunt. Quod autem dicimus 'nullus' proprium quoddam videtur esse vocabulum. 'Non omnis' enim quod dicitur omnem per adverbium negativum quod est 'non' adimit. Rursus cum dicimus 'quidam non', ei quod est 'quidam' adverbium quod est 'non' additum a subiecto termino particulare separat. 'Nullus' vero quid separet in vocabulo ipso non monstrat et videtur quodammodo non potius esse negatio quam affirmatio. Neque enim adverbium est nec coniunctio. Adverbium namque atque coniunctio declinationibus carent, nullus vero quod dicimus et generibus subiacet et inflectitur casibus. Quid igitur est? An erit nomen? Sed nulla negatio nomen esse monstratur. Quid sit ergo tali investigatione quaerendum est. Videtur enim quod dicitur 'nullus' tale esse tamquam si dicamus nec ƿ unus. Nam qui dicit: Nullus homo animal est  tantundem valet quantum nec unus homo animal est. Quod vero dicimus 'ullus' hoc ab eo derivatum est quod est unus. Diminutio namque unius ullus est tamquam si diceremus unulus. Ergo plus negat quisquis etiam diminutionem negat, ut si quis dicat non modo non habet gemmam, quod maius est, verum etiam nec gemmulam, quod est minus. Sic ergo qui negare uult etiam unum plus negat si dicat nec ipsum unius diminutivum illud esse quod dicitur: ut si quis velit dicere nec unum esse hominem in theatro, ita dicat: non modo illic unus homo non est, verum nec ullus. Cum ergo dicimus 'nullus' ita proponimus tamquam si dicamus 'nec ullus'. Tenet igitur haec in se determinatio, quae est 'nullus', vicem negationis et nominis. Negationis quidem in eo quod est nec, nominis vero in eo quod est ullus, quod est diminutivum unius. Ita igitur maxima fit negatio rei paruissimae quod est unus, si ipsius diminutivum quoque subtrahat, quod est ullus. Quare et omnem et quendam statim tollit negatio, quae unius quoque ipsius diminutivum praedicatione subducit, ut ea quae est: Nullus homo iustus est  Hoc enim tantum est, tamquam si dicat "Non ullus homo iustus est", hoc idem valet tamquam si dicatur "Nec unus homo iustus est". Quare quoniam de his sufficienter est dictum, ad Aristotelis verba consequenti ordine veniamus. SI ERGO UNIVERSALITER ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES. DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM ƿ UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST. Demonstrare oppositionem contradictionis intendit. Sed quoniam viam reperiendae ordinemque permiscuit, idcirco nos pauca quaedam prius ordinata expositione praedicimus, ne lector confusionis caligine atque obscuritate turbetur. Omnium propositionum quae sunt simplices, quas categoricas Graeci vocant, nos praedicativas dicere possumus, quatuor sunt diversitates: aut enim est affirmatio et negatio universalis, ut est: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est  aut affirmatio et negatio particularis, ut est: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est  aut affirmatio et negatio indefinita, ut: Homo iustus est Homo iustus non est  aut de singulari subiecto affirmatio et negatio, ut: Cato iustus est Cato iustus non est  Harum vero inter se veritas falsitasque non se habet similiter sed diverse. Et prius de universalibus atque particularibus id est de his quae determinatae sunt dicendum est, post de reliquis disputabitur. Disponantur igitur affirmatio universalis quae est: Omnis homo iustus est  et contra hanc negatio universalis quae est: Nullus homo iustus est  sub his autem, sub affirmatione quidem universali particularis affirmatio quae est: Quidam homo iustus est  sub universali negatione particularis negatio quae est: Quidam homo iustus non est  Hoc autem monstrat subiecta descriptio: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est. Hae igitur duae universalis affirmatio et particularis affirmatio dicuntur subalternae, rursus universalis negatio ƿ et particularis negatio dicuntur subalternae, idcirco quoniam particularitas semper sub universalitate concluditur. In quibus illud est considerandum, quod ubi est affirmatio universalis vera affirmatio quoque particularis vera est et ubi negatio universalis vera est particularis quoque vera est. Nam si vera est: Omnis homo animal est  vera est: Quidam homo animal est  Et si vera est quoniam Nullus homo lapis est  vera quoniam Quidam homo lapis non est  At si falsa sit particularis affirmatio, ut ea quae est: Quidam homo lapis est  falsa est universalis affirmatio: Omnis homo lapis est  Idem in negatione. Si enim negatio particularis falsa est, ut: Quidam homo animal non est  falsa est universalis: Nullus homo animal est  Ita ut praecedunt universales in vero, eodem modo praecedunt particulares in falso. Dicuntur vero affirmatio universalis et negatio universalis contrariae. Hoc autem idcirco quoniam contrariorum huiusmodi natura est, ut longissime a se distent, et si aliquam inter se habeant medietatem, non semper alterum ipsorum subiecto insit, ut album et nigrum: non possumus dicere quoniam omne corpus aut album aut nigrum est. Potest enim nec album esse nec nigrum et utrumque falsum esse quod dicitur, idcirco quoniam est medius color. Quod si non habent medietatem, alterum ipsorum necesse est inhaerere subiecto, ut cum dicimus omne corpus aut quietum est aut movetur, horum nihil est medium et necesse est omne, corpus vel consistere vel moveri. Ut autem simul in eodem possint esse contraria fieri non potest. Neque enim possibile est ut idem album nigrumque sit. Quod in affirmationibus et negationibus universalibus apparet. ƿ Negativa enim et affirmativa universalis plurimum quidem a se distant. Nam quod illa ponit omnibus, illa omnibus tollit et totum negat. Namque dicit: Omnis homo iustus est  omnem hominem ponit, quae dicit: Nullus homo iustus est  nihil eorum quae in humanitatis definitione sunt iustum esse concedit. Ita ergo a se longissime discrepant. Ad hoc si ea quae significant habent inter se aliquam medietatem, unam veram, unam falsam esse non est necesse, ut in eo quod est: Omnis homo iustus est Nullus homo iustus est  quoniam potest quaedam esse medietas, ut: Nec nullus homo iustus sit  (cum sit quidam); Nec omnis homo iustus sit  (cum non sit quidam), et possunt utraeque falsae et affirmatio et negatio reperiri. Neque enim verum est aut omnem hominem esse iustum aut nullum hominem esse iustum. Quocirca potest fieri ut in his in quibus aliqua medietas invenitur universalis affirmatio et universalis negatio veritatem falsitatemque non dividant sed utraeque sint falsae, ad exemplum scilicet contrariorum quae aliquam inter se continent medietatem. Potest enim in illis fieri ut utraque contraria possint non inesse subiecto, sicut supra monstravimus. In his vero quae medietate carent necesse est una vera sit semper, altera semper falsa, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo animal est  Hae propositiones huiusmodi sunt, ut una vera sit, una falsa, idcirco quoniam inter animal esse et non esse nihil interest, ad eorum scilicet contrariorum similitudinem quae medietate carent. In illis ƿ enim necesse erat alterum inesse subiecto. Sic ergo universalis affirmatio et universalis negatio utraeque falsae esse possunt, ut vero una vera sit, altera falsa, id quoque conceditur: ut utraeque sint verae fieri non potest, sicut illud quoque verum est contraria simul esse non posse. Rectissime igitur universalis affirmatio universalisque negatio contrariae nominantur.Particularis autem affirmatio quae est: Quidam homo iustus est  et particularis negatio quae est: Quidam homo iustus non est  universalibus et contrariis contrarias proprietates habent. Illae enim simul verae esse non poterant, ut vero essent simul falsae saepe nulla ratione uetabatur. Particulares vero ut utraeque verae sint evenire potest, ut utraeque falsae sint fieri non potest: ut in eo quod est: Quidam homo iustus est  verum est, Quidam homo iustus non est  id quoque verum est; ut utraeque falsae sint inveniri non potest. Et hoc quidem sunt contrariis dissimiles. Similes autem eisdem videntur quod sicut contrariae aliquotiens verum falsumque dividunt, ut una vera sit, altera falsa, ita quoque et particulares una vera potest esse, altera falsa, ut: Quidam homo animal est Quidam homo animal non est  Servant autem stabilem incommutabilemque ordinem et similitudinis et contrarietatis. Contrariae enim quoniam possunt esse utraeque falsae, in quibuscumque utraeque falsae contrariae reperiuntur, in his subcontrariae utraeque verae sunt. Sed quoniam utraeque contrariae verae inveniri non possunt, ideo utraeque subcontrariae falsse nequeunt reperiri, ut in eo quod est: Omnis homo iustus est ƿNullus homo iustus est  Quoniam hae falsae sunt, hae quas sub se continent particulares verae sunt, ut est: Quidam homo iustus estQuidam homo iustus non est  Sed si universales inter se verum falsumque dividunt et una vera est, altera falsa, particulares quoque idem facient, ut in eo quod est: Omnis homo animal est Nullus homo animal est  universalis affirmatio vera est, falsa negatio. Sed cum dico: Quidam homo animal est Quidam homo animal non est  particularis affirmatio vera est, falsa negatio particularis. Hae igitur dicuntur subcontrariae, vel quod sunt sub contrariis positae vel quod ipsae superioribus sub quibus sunt contrarias (ut dictum est) proprietates habent. In hac igitur recta oppositione contrariarum et subcontrariarum in superioribus utrisque falsitas esse potest, numquam veritas; in inferioribus vero utrisque quidem veritas inesse potest, numquam falsitas. Sin vero quis respiciat angulares et universalem affirmationem particulari opponat negationi universalemque negationem particulari comparet affirmationi, una vera semper, falsa altera reperietur nec umquam fieri potest, ut affirmatione universali vera particularis negatio non falsa sit vel hac vera non illam falsitas continuo subsequatur. Rursus si negatio universalis vera est, falsa particularis affirmatio; si particularis affirmatio vera, falsa universalis negatio. Licet autem hoc et in subiecta descriptione metiri et in aliis quoque terminis quoscumque sibi mens considerantis affinxerit idem videbit. Nam in eo quod est: Omnis homo iustus est  quoniam haec falsa est, vera est: Quidam homo iustus non est  et rursus in eo quod est: Nullus homo iustus ƿ est  falsa negatione vera est affirmatio: Quidam homo iustus est  Hae autem universalis affirmatio et particularis negatio quae sunt angulares et universalis negatio et particularis affirmatio quae ipsae quoque sunt angulares contradictoriae nominantur. Et haec illa est quam quaerit contradictio, in qua una semper vera sit, altera semper falsa. Superioris autem disputationis integrum descriptionis subdidimus exemplar quatenus quod animo cogitationeque conceptum est oculis expositum memoriae tenacius infigatur. His ergo ita sese habentibus indefinitas propositiones singularesque videamus. Et primum de indefinitis disputandum est. Indefinitae igitur per se veritatem ƿ falsitatemque non dividunt. Etenim cum dico: Homo iustus est Homo iustus non est  utrasque veras esse contingit indefinitas. Quocirca eas a contradictione separamus: contradictio enim constituitur (ut saepe dictum est) eo quod numquam utraeque verae aut utraeque falsae reperiri queant sed una semper veritatis, altera falsitatis capax est. Sed quae universalitatem proferunt indefinitam, illae definitarum particularium vim tenent. Tale est enim quod dico homo iustus est, tamquam si dicam Quidam homo iustus est  et rursus tale est quod dico: Homo iustus non est  tamquam si dicam: Quidam homo iustus non est  Hoc illa res approbat, quod quemadmodum definitae et particulares in aliquibus verae esse possunt, in aliquibus falsum verumque dividunt, numquam vero utrasque falsas esse contingit, ita quoque in indefinitis universale significantibus utrasque simul veras esse contingit, ut in eo quod dicimus: Homo iustus estHomo iustus non est  utrasque falsas proferre impossibile est sed unam veram, alteram falsam in his facillime reperimus, in his scilicet terminis qui naturaliter et necessario subiectis substantiis inhaerescunt vel his inesse non possunt: ut quoniam animal homini ex necessitate inest, si quis dicat: Homo animal est  idque negetur: Homo animal non est  vel: Homo lapis est Homo lapis non est  una vera statim falsa altera reperitur. Atque ideo hae contra universales universaliter praedicatas faciunt contradictionem. Nam si contra illam quae est: Omnis homo iustus est  ea quae est: Homo iustus non est  in oppositione constituatur, una semper vera est, altera falsa; et si contra eam quae est: Nullus homo iustus est  indefinita propositio ƿ quae est homo iustus est opponatur, verum inter se propositiones falsumque distribuunt, sicut definitae quoque universalium propositiones secundum particulares atque universales oppositae quantitates contradictorias faciunt oppositiones. Quare constat eas quae universale non universaliter proferunt et sunt indefinitae neque particulare neque universale proferentes ipsas quidem non semper inter se verum falsumque dividere, particularibus tamen definitis esse consimiles. Singulares vero quae sunt unum oppositionis inter se modum tenent: has si ad idem subiectum, ad idem praedicatum, ad eandem partem, ad idem tempus, ad eandem relationem, eodem modo proposueris, inter se verum falsumque distribuunt, ut est: Socrates iustus est Socrates iustus non est  Sunt igitur duae contradictiones: una quae fit in universalibus angulariter particularibus contra positis, altera quae fit in singularibus cum omnibus his quas in Sophisticis Elenchis exposuit determinationibus opposita. Quare quoniam quemadmodum se habeant propositiones quoque modo faciant contradictorias oppositiones ostendimus, ad ipsa Aristotelis verba veniamus, in quibus per haec ante praecognita facilis poterit evenire cognitio. SI ERGO UNIVERSALITER ENUNTIET IN UNIVERSALI QUONIAM EST AUT NON, ERUNT CONTRARIAE ENUNTIATIONES. DICO AUTEM IN UNIVERSALI ENUNTIATIONEM UNIVERSALEM, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST. Superioris descriptionis intellegentiam plenius notat. Ait enim: quando res universalis universaliter designatur ƿ et eam quis universaliter affirmat, si eandem alter universaliter neget, ita sibimet comparatas propositiones esse contrarias. Atque in hoc suam sententiam manifestius ostendit. Ait enim DICO AUTEM UNIVERSALEM ENUNTIATIONEM IN UNIVERSALI, UT OMNIS HOMO ALBUS EST. Nam cum universalis sit homo, in universali homine universalis est enuntiatio, per quam dicitur omnis homo. Res ergo universalis (id est homo) per 'omnis' quae est determinatio universaliter praedicata est et hoc affirmative. Negative vero universaliter ita dicetur: Nullus homo albus est  'nullus' enim universalitas universalitati quae est homo adiecta est. Hoc modo igitur in universali universaliter enuntiantes affirmatio et negatio contrariae sunt, sicut et ipse testatur et nos in superiore expositione digessimus. QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA. DICO AUTEM NON UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS HOMO, NON EST ALBUS HOMO. CUM ENIM UNIVERSALE SIT HOMO, NON UNIVERSALITER UTITUR ENUNTIATIONE. OMNIS NAMQUE NON UNIVERSALE SED QUONIAM UNIVERSALITER CONSIGNIFICAT. Volenti indefinitam propositionem qualis esset ostendere non modo auferenda fuit ab universali termino universalis determinatio, verum etiam particularis et oportuit dici hoc modo: quando autem in universalibus non universaliter neque particulariter, non sunt contrariae. Nunc autem quoniam ƿ non addidit particulariter, videtur non de indefinitis, in quibus neque universalitas neque particularitas adest sed tantum de particularibus loqui, a quibus solum universale non etiam particulare subtraxit. Sed quid velit ostendere ipse convenientibus exemplis edocuit. Non enim posuit exempla particularis propositionis sed indefinitae. Ait enim DICO AUTEM NON UNIVERSALITER ENUNTIARE IN HIS QUAE SUNT UNIVERSALIA, UT EST ALBUS HOMO, NON EST ALBUS HOMO. Quod si particularem monstrare voluisset, ita diceret: ut est: Quidam homo albusNon est quidam homo albus  Sed quoniam per exemplum quid vellet ostendit, nos quoque superiori propositioni quae est: quando autem in universalibus non universaliter, deesse putemus aut particulariter, ut et particularitatem et universalitatem ex tota auferat dictione ut post exempla docuerunt non eum loqui de particulari sed de indefinita. Quare hoc dicit: at si neque universales sint propositiones neque particulares, quod subaudiendum est, illae non sunt contrariae. Sunt enim contrariae quae universaliter universalem terminum proponunt, indefinitae vero ad universalem terminum universalem terminationem non habent. Idcirco autem ab indefinitis universalitatem solam et non particularitatem quoque seiunxit, quod indefinitas propositiones a contrariis solum, non etiam a particularibus segregabat. Quod autem dico tale est: si vellet ostendere indefinitas propositiones proprie, neque particulares esse neque universales diceret. Quae ƿ autem in universali neque universaliter neque particulariter proponuntur, id est quae neque universales sunt neque particulares, indefinitae sunt. Nam quae neque universales sunt neque particulares, hae neque contrariae sunt neque subcontrariae. Subcontrariae quidem idcirco non sunt, quia non habent additam particularem determinationem; idcirco vero contrariae non sunt, quia determinatio universalis in his non est. Nunc autem cum tantum vellet ostendere eas contrarias non esse, de subcontrariis vero in praesenti vellet omittere, has esse indefinitas quae universale determinatum universaliter non haberent dixit, ut scilicet has non esse contrarias intellegeremus. Idcirco vero non adiecit particularitatem eas non habere, quoniam a solis contrariis separare indefinitas volebat, non etiam a subcontrariis. Ergo si indefinitas a contrariis et subcontrariis separare voluisset, ita diceret: QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER nec particulariter, NON SUNT CONTRARIAE neque subcontrariae. Sed quoniam non eas volebat nunc non esse subcontrarias demonstrare sed tantum non esse contrarias, idcirco ei dicto quod est QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER non addidit vel particulariter. Hoc enim si addidisset, ad subcontrarias tenderet, de quibus nihil est additum. Quare hoc dicit: hae quae indefinitae sunt, quoniam non habent universalitatem, contrariae non sunt. Sed cum per se quidem contrariae non sint, possunt tamen quaedam significare contraria. Hoc quid sit multipliciter expositorum sententiis expeditur. Herminus namque dicit idcirco indefinitas posse aliquando significare ƿ contraria, cum ipsae careant contrarietate, quippe quae universalium rerum sunt, additum tamen universale non habent, in solis his quibus ea quae affirmantur aut negantur subiecto naturaliter insunt: ut cum dicimus: Homo rationalis est Homo rationalis non est  quoniam rationalitas huiusmodi est quae in natura sit hominis, affirmatio et negatio inter se verum falsumque dividunt et quaedam quodammodo ab his contraria designantur. Sed nihil hoc attinet ad contraria significanda in his quae sunt indefinitae. Nam etiam particulares ipsae quoque in talibus verum falsumque dividunt, ut est: Quidam homo rationalis est Quidam homo rationalis non est  Has ergo secundum Herminum videmus posse significare contraria. Cur ergo in his quoque dixit quoniam contrariae quidem non sunt, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA? Alexander autem hoc dicit: quoniam indefinitae sunt hae, nihil eas, inquit, prohibet sicut ad particulares ita quoque ad universales reducere, quae videntur esse contrariae, ut in eo quod est homo animal est, homo animal non est, quoniam hae propositiones indefinitae sunt, possunt accipi et quasi contrariae. Nam si dicimus homo animal est, potest ita accipi tamquam si dicamus omnis homo animal est, et rursus homo animal non est ita audiri potest tamquam si dicatur nullus homo animal est. Cum autem dicitur: Homo ambulat Homo non ambulat  non ad contrarias sed ad subcontrarias mens ducitur auditoris. ƿ Quocirca possunt indefinitae aliquando significare contraria, quoniam eo ipso quod sunt indefinitae nihil eas prohibet ad contrariorum significationem universaliumque reduci. Et haec quidem sententia habet aliquid rationis, non tamen integre id quod ab Aristotele dicitur ostendit. Et meliorem sententiam sponte reiecit, quam post Porphyrius approbavit. Sunt enim quaedam negationes quae intra se affirmationis eius quam negant retineant contrarietatem, ut in eo quod est: Sanus est Non est sanus  id quod dicitur -- "Non est sanus" -- significat "Aeger est", quod est contrarium sano esse. Rursus cum dicimus: Homo albus est  si contra hanc negemus per eam quae dicit: Homo albus non est  significare poterit quoniam homo niger est (nam qui niger est albus non est) sed nigrum esse et album esse contrarium est. Quare significant quaedam negationes affirmationesque contraria sed hoc non semper. Nam in eo quod est: Homo ambulat Homo non ambulat  nullum contrarium continetur. Ambulationi enim nihil est contrarium. Atque ideo dicit has quidem contrarias non esse, idcirco quod cum sint universales non universaliter enuntientur, posse autem aliquotiens contraria significare, cum intra negationem contrarium affirmationis includitur. Aspasius vero et Alexandri et hanc posteriorem probavit. Nos vero dicimus non quidem Alexandri sententiam abhorrere ratione sed hanc esse meliorem. ƿ Nam quod ait QUANDO AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SUNT CONTRARIAE, QUAE AUTEM SIGNIFICANTUR EST ESSE CONTRARIA, ab Alexandro non est expositum sed tantum dictum quando possint esse propositiones ipsae contrariae. A Porphyrio vero expositum diligenter est quando ea quae significantur possint esse contraria, quod ipse Aristotelis textus expressit. Quamquam Alexander quoque eandem quam Porphyrius posuit viderit expositionem, eam tamen ut dictum est sponte reiecit et sibi huius expositionis confirmavit sententiam displicere. Mihi vero aut utraeque recipiendae expositiones videntur aut melior iudicanda posterior. Hoc enim ipse quoque Aristoteles quodammodo subter ostendit cum dicit: SIMUL ENIM VERUM EST DICERE QUONIAM EST HOMO ALBUS ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST. Cuius quidem loci quae sit expositio, cum ad id venerimus, demonstrabimus. Cognoscendum autem est et memoria retinendum, quod quaecumque propositiones universales universaliter fuerint praedicatae, si hae affirmativae, illae vero sint negativae, semper utrasque esse contrarias, si nihil aequivocationis aut temporis aut aliorum quae supra determinata sunt ad faciendam oppositionem contrarietatis impediat. Non tamen omnes quaecumque contrariae sunt, hae aut in universalibus universaliter ponunt enuntiationem aut una affirmativa est, altera negativa, ut in eo quod est: Socrates sanus est Socrates aeger est  Hic enim neque in universali universalitas posita est neque ƿ rursus una est affirmatio, altera vero negatio sed sunt contrariae propositiones. Contraria enim sunt quae significant quocirca rectissime dictum est, quod quaecumque in universalibus rebus universaliter enuntiarent, si una earum esset affirmativa, altera negativa, statim naturaliter essent contrariae: quae autem contrariae essent, non necesse esse eas vel universale universaliter enuntiare vel unam esse affirmativam, alteram negativam sed aliquotiens quidem posse has esse contrarias, quae universale in universalibus non significarent sed hoc in his tantum quae essent in subiecto de quo fit affirmatio naturaliter, ut in eo quod est animal et homo. Cum dicimus: Homo animal est  quoniam inest in natura hominis animal, idcirco haec affirmans illa negans videntur esse contraria, quamquam illic nulla determinatio neque particularitatis neque universalitatis addatur. IN EO VERO, QUOD PRAEDICATUR UNIVERSALE, UNIVERSALE PRAEDICARE UNIVERSALITER NON EST VERUM; NULLA ENIM AFFIRMATIO ERIT, IN QUA DE UNIVERSALI PRAEDICATO UNIVERSALE PRAEDICETUR, UT OMNIS HOMO OMNE ANIMAL EST. Quod dicit huiusmodi est: omnis propositio simplex duobus terminis constat. His saepe additur aut universalitatis aut particularitatis determinatio. Sed ad ƿ quam partem hae determinationes addantur exponit videtur enim Aristoteli praedicato termino terminationem non oportere coniungi. In hac enim propositione quae est: Homo animal est  quaeritur, subiectumne debeat cum determinatione dici, ut sit: Omnis homo animal est  an praedicatum, ut sit: Homo omne animal est  an utrumque, ut sit: Omnis homo omne animal est  Sed neutrum eorum quae posterius dicta sunt fieri oportet. Namque ad praedicatum numquam determinatio iungitur sed tantum ad subiectum. Neque enim verum est dicere: Omne animal omnis homo est  idcirco quoniam omnis praedicatio aut maior est subiecto aut aequalis ut in eo quod dicimus omnis homo animal est plus est animal quam homo, et rursus in eo quod dicimus homo risibilis est risibile aequatur homini, ut autem minus sit praedicatum atque angustius subiecto fieri non potest. Ergo in his praedicatis quae subiecto maiora sunt, ut in eo quod est animal, perspicue falsa propositio est, si determinatio universalitatis ad praedicatum terminum ponitur. Nam si dicamus: Homo omne animal est  animal quod maius est homine per hanc determinationem ad subiectum hominem usque contrahimus, cum non solum ad hominem sed ad alia quoque nomen animalis possit aptari. Rursus in his quae aequalia sunt idem evenit. Nam si dico: Omnis homo omne risibile est  primum si ad humanitatem ipsam referam superfluum est adicere determinationem; quod si ad singulos quosque homines, falsa est propositio. Nam cum dico: Omnis homo omne risibile est  hoc videor significare: ƿ singuli homines omne risibile sunt, quod fieri non potest. Non igitur ad praedicatum sed ad subiectum ponenda determinatio est. Verba autem Aristotelis hoc modo sunt et ad hanc sententiam dicuntur: in his praedicatis quae sunt universalia his adicere universale aliquid, ut universale praedicatum universaliter praedicetur, non est verum. Hoc enim est quod ait: IN EO VERO QUOD PRAEDICATUR UNIVERSALE, id est quod habet praedicatum universale, ipsum UNIVERSALE PRAEDICARE UNIVERSALITER NON EST VERUM. In praedicato enim universali, id est quod universale est et praedicatur, id ipsum praedicatum, quod universale est, universaliter praedicare, id est adiecta determinatione universalitatis, non est verum. Neque enim potest fieri ut ulla sit affirmatio in qua de universali praedicato universalis determinatio praedicetur. Eiusque rei notionem exemplo aperit dicens, ut: Omnis homo omne animal  Hoc autem quam sit inconveniens supra iam diximus. OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE, QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON UNIVERSALITER, UT: OMNIS HOMO ALBUS EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS; CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM, UT: OMNIS HOMO IUSTUS EST, NULLUS HOMO IUSTUS EST. QUOCIRCA HAS QUIDEM IMPOSSIBILE EST SIMUL VERAS ESSE, HIS VERO OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM, UT: NON OMNIS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Quae sit integra contradictio his verbis ostendit. Ait enim illam esse oppositionem contradictoriam, quaecumque dicit non esse universaliter rem universalem anutra eam quae rem universalem universaliter proponit. Atque hoc est quod ait: OPPONI AUTEM AFFIRMATIONEM NEGATIONI DICO CONTRADICTORIE QUAE UNIVERSALE SIGNIFICAT EIDEM, QUONIAM NON UNIVERSALITER, ut ei quae est: Omnis homo iustus est  opponitur ea quae universale significat non tamen universaliter, ut ea quae est: Quidam homo iustus non est  Hominem enim universalem significat non universaliter, ut cum dicit: Non omnis homo iustus est  Haec est contradictoria oppositio, ut si sit universalis affirmatio, sit particularis negatio, si sit universalis negatio, sit particularis affirmatio. Angulares enim (ut dictum est) solae faciunt contradictionem. Verba igitur se obscure habent sed sententia manifesta est. Dicit enim eam opponi contradictorie affirmationem negationi vel negationem affirmationi, quaecumque id, quod res altera universale universaliter significaret idem significaret non universaliter quod esset universale, ut in his quas supra diximus: ut haec quae est: Omnis homo iustus est  rem universalem universaliter significavit; illa quae est: Non omnis homo iustus est  eidem affirmationi opposita de homine universali non universaliter negavit dicens: Non omnis homo iustus est  Rursus ea quae dicit: Nullus homo iustus est  ƿrem universalem universaliter negavit dicens 'nullus'; ea vero quae dicit: Quidam homo iustus est  rem universalem particulariter affirmavit et non universaliter. Hominem enim quendam iustum esse proposuit sed non hominem universaliter enuntiavit rem universalem. Persequitur ergo proprietates omnes propositionum. Ait enim: CONTRARIE VERO UNIVERSALEM AFFIRMATIONEM ET UNIVERSALEM NEGATIONEM. Sicut enim supra dixit eas quae universaliter universale significarent vel in affirmatione vel in negatione esse contrarias, ita nunc quoque idem repetit contrarias esse dicens universalem affirmationem universalemque negationem. Earumque ponit exempla, quae utrasque universales monstrarent, UT: OMNIS HOMO IUSTUS EST NULLUS HOMO IUSTUS EST  Harum autem quae proprietas esset proposuit dicens: huiusmodi propositiones impossibile esse utrasque sibi in veritate inuicem consentire, quae autem his essent oppositae contingere utrasque veras esse. Sunt autem oppositae his utraeque particulares: universali enim affirmationi particularis negatio opponitur et universali negationi particularis affirmatio opposita est. Quocirca hae duae particularis affirmatio et particularis negatio, quae oppositae sunt affirmationi et negationi universalibus angulariter, hae possunt aliquando esse verae. Et in eodem, ut in eo quod est: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est  Sed: Quidam homo iustus est  opposita est ei quae est: Nullus homo iustus est  illa vero quae est: Quidam homo iustus non est  opposita est ei quae est: Omnis homo iustus est  Sed utraeque inter se, id est: Quidam homo iustus est  et: ƿ Quidam homo iustus non est  in veritate consentiunt. Hoc est ergo quod ait: HIS VERO OPPOSITAS CONTINGIT IN EODEM easque designat exemplis, UT NON OMNIS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS. Positis ergo duabus propositionibus, affirmatione universali et universali negatione, ars danda est, quatenus earum inveniantur opposita. Opposita autem dico contradictorie, non contrarie neque ullo alio modo. Sit enim haec affirmatio: Omnis homo iustus est  et haec negatio: Nullus homo iustus est  Contra affirmationem quae est: Omnis homo iustus est  videntur ergo esse negationes hae -- una: Nullus homo iustus est  altera: Quidam homo iustus non est  altera: Non omnis homo iustus est  et postrema indefinita: Homo iustus non est  Quae harum igitur contra eam quae est: Omnis homo iustus est  contradictorie constituitur? Contradictorie autem voco oppositionem, in qua affirmatio et negatio neque verae utraeque sint neque falsae utraeque sed una semper vera, alia falsa. Si ergo opponatur contra eam quae est: Omnis homo iustus est  ea quae est: Nullus homo iustus est  universalis scilicet negatio, non est oppositio; utraeque enim falsae sunt. Si vero opponatur ea quae est: Homo iustus non est  indefinita, nec ipsa quoque facit oppositionem. Quoniam enim indefinita est, potest aliquotiens pro universali negatione pro exspectatione auditoris intellegi. Quocirca nec ipsa facit oppositionem. Si enim hoc modo audita sit, cum ita accipitur ut contraria, simul eas falsas inveniri contingit. Restat ergo, ut aut ea sit quae est:ƿ Non omnis homo iustus est  aut ea quae est: Quidam homo iustus non est  Sed hae sibi consentiunt. Idem enim dicit qui proponit Quidam homo iustus non est  et idem qui dicit Non omnis homo iustus est  Nam si quidam homo iustus non est, non omnis homo iustus est; et si non omnis homo iustus est, quidam homo iustus non est. Quare utraeque particulares negationes contradictorie opponuntur contra universalem affirmationem. In his enim neque verae utraeque sunt neque utraeque falsae sed una vera, altera falsa rursus sit negatio universalis ea quae est: Nullus homo iustus est  Contra hanc videntur oppositae affirmationes hae: Omnis homo iustus est Homo iustus est Quidam homo iustus est  Sed contra eam quae est: Nullus homo iustus est  si opponitur ea quae est: Omnis homo iustus est  possunt esse utraeque falsae; quare non opponuntur contradictorie. At vero etiam ea quae dicit: Homo iustus est  quoniam indefinita est, potest ita in aliquibus intellegi tamquam si dicat: Omnis homo iustus est  Quod si sic est, poterit aliquando cum ea negatione quae est: Nullus homo iustus est  simul esse falsa; quare non est opposita relinquitur ergo, ut ea quae est: Quidam homo iustus est  contra eam quae est: Nullus homo iustus est  contradictorie videatur opposita. Angulariter igitur requirendae sunt, ut contra universalem affirmationem illa ponatur quae sub universali negatione est, contra universalem negationem illa contradictorie constituatur quae est sub universali affirmatione. Quod scilicet volens Aristoteles ostendere sic ait: QUAECUMQUE IGITUR CONTRADICTIONES UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, NECESSE EST ALTERAM VERAM ESSE VEL FALSAM ET QUAECUMQUE IN SINGULARIBUS SUNT, UT EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS. In illis enim quae contradictoriae sunt universalibus universaliter praedicatis, in his verum semper falsumque dividitur. Contradictoriae autem sunt universalis affirmationis particularis negatio et universalis negationis particularis affirmatio. In his igitur una semper vera est, altera semper falsa. Atque hoc est quod ait: QUAECUMQUE IGITUR CONTRADICTIONES UNIVERSALIUM SUNT UNIVERSALITER, et hic distinguendum est ut intellegatur sic: quaecumque igitur contradictiones sunt universalium propositionum universaliter propositarum, necesse est alteram veram, alteram falsam esse. Et in his primum dividitur veritas falsitasque, quae sibi et qualitate et quantitate oppositae sunt: qualitate quod illa negatio est, illa affirmatio, quantitate quod illa universalis, illa particularis est. Secundo autem modo in his quae sunt singularia, si nullae argumentatorum nebulae sint, veritas falsitasque dividitur, ut in eo quod est: Socrates albus est Socrates albus non est  Una enim vera est altera falsa, si (ut dictum est) nulla ambiguitas aequivocationis impediat. QUAECUMQUE AUTEM IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER, NON SEMPER HAEC VERA EST, ILLA VERO FALSA. SIMUL ENIM VERUM EST DICERE QUONIAM ƿ EST HOMO ALBUS ET NON EST HOMO ALBUS, ET EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. SI ENIM TURPIS, ET NON PROBUS; ET SI FIT ALIQUID, ET NON EST. VIDEBITUR AUTEM SUBITO INCONVENIENS ESSE, IDCIRCO QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS SIMUL ETIAM QUONIAM NEMO HOMO ALBUS. HOC AUTEM NEQUE IDEM SIGNIFICAT NEQUE SIMUL NECESSARIO. Propositiones eas, quae in universalibus non universaliter proferuntur, non semper veras esse vel falsas conatur ostendere. Hoc autem per contraria monstrat. Ea enim propositio quae est: Homo albus est  et huius negatio quae est: Homo albus non est  hoc modo ostenduntur verum et falsum inter se interdum non posse dividere: nam si verum est, ut hae duae affirmationes: Est homo albus  et Est homo niger  utraeque uno tempore verae sint, verum est quoque affirmationem indefinitam et indefinitam negationem utrasque veras aliquotiens inveniri. Nam si verum est quoniam est homo albus, verum itidem quoniam est homo niger (nam cum Gallus sit candidus, Aethiops nigerrimus invenitur): simul ergo verum est dicere quoniam est homo albus et est homo niger. Sed qui niger est albus non est: simul ergo verum est dicere quoniam est homo albus et non est homo albus. Idem quoque et de probo et turpi. Nam si verum est dicere quoniam est homo probus, si quis hoc de philosopho dicat, et rursus verum est quoniam ƿ est homo turpis, si quis hoc de Sulla diceret, verum est utrumque, et quoniam est homo probus et quoniam est homo turpis. Sed qui turpis est, probus non est: simul igitur verum est dicere quoniam EST HOMO PROBUS ET NON EST HOMO PROBUS. Sed videbitur fortasse aliquid sibi dixisse contrarium et difficilior procedit ostensio, quae per huiusmodi exempla proponitur, quae contraria esse videantur. Albus enim et niger et probus et turpis contraria sunt et fortasse dubitet quidam, utrum uno tempore contraria haec in aliquibus valeant reperiri. Sed adiecit exemplum aliud, quod cum contrarium non sit, tamen ex eo sicut in contrariis quoque negatio procreatur: ut si quis dicat: Est homo probus  et alius dicat: Fit homo probus  si quis vel alio docente vel se ipso corrigente aliqua disciplina rationis eniteat. Nihil ergo contrarium habet esse probum et fieri probum; neque enim ita contrarium est, ut esse hominem probum et esse hominem turpem. Quare si nihil habet contrarium, dubium non est quin simul esse possint. Sed quod fit nondum est adhuc cum fit: quare nondum est probus qui fit probus. Sed verum erat dicere cum eo quod est: Est probus homo  quoniam fit probus homo. Sed qui fit probus homo, non est probus homo: verum est igitur dicere simul, quoniam est probus homo et non est probus homo, licet non invalida exempla sint posita de contrariis. Nihil enim prohibet uno tempore contraria aliis atque aliis inesse subiectis. Quocirca constat indefinitas per id quod in exemplis supra proposuit simul aliquotiens veras videri et non semper inter se verum falsumque partiri. Quod vero ait: VIDEBITUR AUTEM SUBITO INCONVENIENS ESSE, IDCIRCO ƿ QUONIAM VIDETUR SIGNIFICARE NON EST HOMO ALBUS, SIMUL ETIAM QUONIAM NEMO HOMO ALBUS EST, huiusmodi est: dixit enim propositionem affirmationis eam quae dicit: Est homo albus  veram posse esse cum ea quae dicit: Non est homo albus  Nunc hoc notat: videtur, inquit, aliquotiens inconveniens esse et incongruum dicere eam quae dicit: Est homo albus  et eam quae est: Non est homo albus  simul veras esse posse, idcirco quod ea quae est: Non est homo albus  emittit imaginationem quandam quod significet quoniam nullus homo albus est. Videtur enim negatio huiusmodi, quae est: Non est homo albus  illud quoque significare simul quoniam nullus homo albus est, ut si quis dixerit: Non est homo albus  hoc eum dixisse putandum sit, quoniam nullus homo albus est. HOC AUTEM, inquit, id est "Non est homo albus" et rursus "Nullus homo albus est", NEQUE IDEM SIGNIFICAT neque semper simul sunt. Nam qui dicit: Nullus homo albus est  universalitatem determinans negationem de universalitate proponit, qui vero dicit: Non est homo albus  non omnino de tota universalitate negat sed ei tantum sufficit de particularitate negasse. Atque ea quae est: Nullus homo albus est  si unus homo albus fuerit, falsa est, ea vero quae dicit: Non est homo albus  etiam si unus homo albus non fuerit, vera est. Quare non significant idem. Dico autem, quoniam nec omnino, quotienscumque dictum fuerit: Non est homo albus  mox significat quoniam nullus homo albus est. Nam cum dico: Nullus homo albus est  haec eadem significat quoniam non est homo albus (universalis enim intra se continet indefinitam): ƿ cum autem dicimus: Non est homo albus  non omnino significat nullus homo albus est, indefinita enim non intra se continet universalem. Superius namque monstravimus, quod indefinitae vim particularium optinerent. Quare si, cum est universalis negatio, est indefinita negatio, cum vero est indefinita negatio, non omnino est universalis negatio, non convertitur secundum subsistendi consequentiam. Quare non sunt simul. Quae enim non convertuntur, simul non sunt, ut nos Praedicamentorum liber edocuit. Quare neque idem significant negationes: Non est homo albus Nullus homo albus est  neque simul sunt, quoniam non convertuntur ad consequentiam subsistendi. Syrianus tamen nititur indefinitam negationem vim definitae optinere negationis ostendere. Hoc multis probare nititur argumentis Aristotele maxime reclamante. Nec hoc tantum suis sed Platonicis quoque Aristotelicisque rationibus probare contendit: eam quae dicit: Non est homo iustus  huiusmodi esse qualis est ea quae dicit: Nullus homo iustus est  Sed nos auctoritati Aristotelicae seruientes id quod ab illo veraciter dicitur approbamus. Nam quod Syrianus dicit indefinitam quidem affirmationem particularis optinere vim, indefinitam vero negationem universalis, quam mendaciter diceretur quamque utraeque in particularibus rectissime proponerentur, et supra monstravimus et in his libris quos de categoricis syllogismis composuimus in primo libro diligenter expressimus. Nunc nobis ipse quoque Aristoteles testis est et Syrianus facillima ratione conuincitur, quod in Analyticis quoque ex duabus indefinitis dicit non posse colligi syllogismum ƿ cum ex affirmativa particulari et negativa universali particularis negativa possit esse collectio. Quod si indefinitae affirmatio et negatio et negationis universalis et particularis affirmationis vim optinerent, numquam diceret Aristoteles has propositiones non colligere syllogismum. Sed illud verius est, quoniam ex duabus particularibus nihil in qualibet propositionum complexione colligitur, quod in his propositionibus quae indefinitae sunt nihil colligi dixit, quia particularium vim propositiones indefinitas arbitratus est optinere. Quare multis modis Syriani argumenta franguntur. Sed nos expositionis cursum ad sequentia convertamus. MANIFESTUM EST AUTEM QUONIAM UNA NEGATIO UNIUS AFFIRMATIONIS EST; HOC ENIM IDEM OPORTET NEGARE NEGATIONEM, QUOD AFFIRMAVIT AFFIRMATIO, ET DE EODEM, VEL DE ALIQUO SINGULARIUM VEL DE ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL UNIVERSALITER VEL NON UNIVERSALITER. DICO AUTEM UT EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS. SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL DE ALIO IDEM, NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. HUIC VERO QUAE EST OMNIS HOMO ALBUS EST ILLA QUAE EST NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ILLI VERO QUAE EST ALIQUI HOMO ALBUS EST ILLA QUAE EST NULLUS HOMO ALBUS EST, ILLI AUTEM QUAE EST EST HOMO ALBUS ILLA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. Hinc quoque apparet affirmationem indefinitam et ƿ indefinitam negationem non semper unam in veritate aliam in falsitate consistere. Atque hinc docetur indefinitam negationem non idem valere, quod universalis negatio potest, et est alia universalis, alia indefinita negatio. Nam si unicuique affirmationi una negatio videtur opponi cumque diversae sint affirmatio quae dicit: Est homo albus  et ea quae dicit: Est quidam homo albus  diversas quoque habebunt in negationibus enuntiationes. Et illa quidem quae indefinita est affirmatio habebit indefinitam negationem, ut ea quae dicit: Est homo albus  huic opponitur: Non est homo albus  ea vero quae dicit: Est quidam homo albus  negationem habebit oppositam eam quae dicit: Nullus homo albus est  Quare si particularis affirmatio definita et rursus affirmatio indefinita a se ipsae diversae sunt, illud verum est oppositas quoque contradictorie negationes habere dissimiles. Quare ea quae est: Nullus homo iustus est  diversa est ab ea quae dicit: Homo iustus non est  Atque hoc nunc Aristoteles exsequitur: ait enim unam semper negationem contra unam affirmationem posse constitui. Et eius causam conatur ostendere, quod omnis negatio eosdem terminos habet in enuntiatione sed enuntiandi modo diversa est. Nam quod ponit affirmatio idem aufert negatio et quod illa praedicatum subiecto iungit hoc illa dividit atque disiungit. Quare si idem praedicatum idem subiectum in negatione est, quod affirmatio ante posuerat, non est dubium quin unius affirmationis una negatio videatur. Nam si duae sint, aut subiectum altera mutatura est aut praedicatum. Sed quaecumque sunt huiusmodi, non sunt oppositae. Hoc enim est quod ait: SI AUTEM ALIUD ALIQUID VEL ƿ DE ALIO IDEM, NON OPPOSITA SED ERIT AB EA DIVERSA. Sensus enim huiusmodi est: si negatio aliud aliquid praedicando neget quam in affirmatione fuit (ut si sit affirmatio "Est homo albus", negatio dicat "Non est homo iustus", aliud praedicavit in negatione quam in affirmatione fuerat constitlltum) vel si de alio subiecto quam in affirmatione fuerat idem quod in affirmatione fuit dixerit praedicatum (ut si affirmatio sit "Est homo iustus", negatio respondeat "Non est leo iustus", idem praedicatum est, subiecta diversa sunt): si ergo vel aliud quiddam praedicet in enuntiatione propositio vel de alio subiecto idem praedicet quod affirmatio ante posuerat, non erunt illa affirmatio negatioque oppositae sed tantum a se diversae; neque enim se perimunt. Et hanc rem demonstrativam addidit et quae esset argumentum unius affirmationis praeter unam negationem esse non posse, sive in singularibus, ut in eo quod ipse dicit exemplo: EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ALBUS, sive in universalibus universaliter praedicatis. Cum his particulares in oppositione contradictorie constituuntur, ut in universali universaliter affirmativa: Omnis homo albus est  in universali particulariter negativa praedicetur: Non omnis homo albus est  illi vero quae est in universali particulariter affirmativa: Quidam homo albus est  opponatur in universali universaliter propositio negativa: Nullus homo albus est  illi vero quae in universali non universaliter affirmativa est: Est homo albus  illa quae in universali non universaliter negativa est: Non est homo albus  ut quod ait vel de aliquo singularium ad haec exempla pertineat: EST SOCRATES ALBUS, NON EST SOCRATES ƿ ALBUS; quod autem secutus est VEL DE ALIQUO UNIVERSALIUM, VEL UNIVERSALITER ad illa exempla dictum esse videatur quae sunt: OMNIS HOMO ALBUS EST, NON OMNIS HOMO ALBUS EST, ALIQUI HOMO ALBUS EST, NULLUS HOMO ALBUS EST; quod vero addidit VEL NON UNIVERSALITER scilicet in universalibus ad illa exempla rettulerit quae sunt: HOMO ALBUS EST, NON EST HOMO ALBUS. Hinc igitur omnia rursus brevissime repetit dicens: iam sese dixisse, quoniam uni negationi una affirmatio esset opposita et hoc non quolibet modo sed contradictorie, in quibus scilicet verum falsumque divideretur. Dixisse etiam commemorat, quae essent hae quas contradictorias nominaret. Dixit autem esse angulares, affirmativam universalem et negativam particularem, rursus affirmativam particularem et negativam universalem. Disserui quoque, inquit, ET QUONIAM ALIAE SUNT CONTRARIAE. Non enim eaedem sunt contrariae quae sunt contradictoriae. Contrariae enim sunt sibimet universalis affirmatio universalisque negatio. Exposui illud quoque, inquit, QUONIAM NON OMNIS VERA VEL FALSA CONTRADICTIO. Nunc contradictionem non illam proprie sed communiter de his dixit quae sibi sunt oppositae sive contrario modo sive subcontrario. Hae namque non semper verum inter se falsumque dividebant, ƿ ut una semper esset vera, alia falsa. Poterat enim fieri ut contrariae simul invenirentur falsae, subcontrariae simul verae. De his autem, quae proprie contradictoriae sunt, de his sequitur et se iam exposuisse commemorat, et quare una vera vel falsa est et quando. Idcirco enim affirmatio universalis particulari negationi vi contradictionis opponitur, quod in omnibus a se ipsae diversae sunt et qualitate et quantitate. Illa enim est affirmatio, illa negatio, universalis illa, illa particularis. Ideo ergo aut utraeque falsae aut utraeque verae inveniri non possunt. Quando autem ita fuerit, constat unam veram esse, aliam falsam. Atque hoc est quod ait: ET QUARE ET QUANDO VERA VEL FALSA, dictum esse scilicet memorans, quare oppositio et quando una semper vera sit, altera falsa: tunc utique quando angulariter constituuntur, idcirco quoniam et quantitate a se propositiones et qualitate diversae sunt. Nobis autem dicendum est, quando oppositiones contrariae vel subcontrariae aut utraeque illae simul falsae sint aut utraeque illae simul verae aut una falsa, alia rursus inveniatur vera. In contrariis enim si ea quae non sunt naturaliter praedicentur, [utraeque] ut albedo, quoniam naturaliter homini non est, utraeque falsae sunt quae albedinem praedicant. Falsum est enim: Omnis homo albus est  falsum est: Nullus homo albus est  Sed quando ambae falsae sunt, verae sunt subcontrariae, ut est: Quidam homo albus est Quidam homo albus non est  Quod si quid naturale praedicetur in contrariis, affirmatio vera est, falsa negatio, ut quoniam naturale est homini esse animal, vera est ea quae dicit: Omnis homo animal est  falsa quae dicit: Nullus ƿ homo animal est  Eodem quoque modo in subcontrariis vera est affirmatio, falsa negatio. Sin vero aliquid impossibile praedicetur, falsa affirmatio est, vera negatio, ut quoniam impossibile est hominem esse lapidem, si dicamus: Omnis homo lapis est  falsum est, Nullus homo lapis est  verum est. Eandem quoque retinet vim subcontrarii natura: affirmatio enim hic falsa est, vera negatio. UNA AUTEM EST AFFIRMATIO ET NEGATIO QUAE UNUM DE UNO SIGNIFICAT, VEL CUM SIT UNIVERSALE UNIVERSALITER VEL NON SIMILITER, UT OMNIS HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; EST HOMO ALBUS, NON EST HOMO ALBUS; NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, SI ALBUM UNUM SIGNIFICAT. Ea quae a nobis superius sunt diligenter exposita, illa nunc ipse clarius monstrat. Diximus namque unam propositionem esse quae unam quamlibet rem significaret et non plurimas, ita ut nec aequivocum subiectum haberet nec aequivocum praedicatum; una enim propositio sic fit. Nunc hoc dicit: una propositio est quae unam rem significat id est quae neque subiectum aequivocum habet nec praedicatum. Sive autem sit universalis affirmatio sive universalis negatio sive particularis affirmatio sive particularis negatio sive indefinitae utraeque sive contra se angulariter ponantur: una illa propositio est, quae unam rem in affirmatione vel negatione significat. Sed hic quaestio est, quemadmodum universalis affirmatio unam rem significare ƿ possit, cum ipsa universalitas non de uno sed de pluribus praedicetur. Nam cum dico: Omnis homo albus est  singulos homines qui plures sunt significans multa in ipsa affirmationis praedicatione designo. Quocirca nulla erit affirmatio vel negatio universalis, quae unam rem significare possit, idcirco quod ipsa universalitas de pluribus (ut dictum est) individuis praedicatur. Sed ad hoc respondemus: cum universale quiddam dicitur, ad unam quodammodo collectionem totius propositionis ordo perducitur et eius non ad particularitatem sed ad universalitatem quae est una qualitas applicatur: ut cum dicimus omnis homo iustus est, non tunc singulos intellegimus sed ad unam humanitatem quidquid de homine dictum est ducitur. Quare sive sit universalis affirmatio sive universalis negatio vel in singularibus, potest fieri ut hae unae sint, si una significatione teneantur. Atque hoc est quod ait eas propositiones quas supra proposuit, quae sunt OMNIS HOMO ALBUS EST, NON EST OMNIS HOMO ALBUS; HOMO ALBUS EST, NON EST HOMO ALBUS; NULLUS HOMO ALBUS EST, EST QUIDAM HOMO ALBUS, unas videri, SI ALBUM, inquit, UNUM SIGNIFICAT. Si enim album quod praedicatur multa significet vel si homo quod subiectum est non unum, non est una affirmatio nec una negatio. Hoc autem in sequentibus clarius monstrat dicens: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO, UT SI. QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. Sensus huiusmodi est: si una res plura significet, ex quibus multis unum effici possit, illa affirmatio, in qua illud nomen vel praedicatur vel subicitur, multa non significat, ut in eo quod est homo. Quod dicimus homo significat animal, significat rationale, significat mortale; sed ex his quae multa significat unum potest effici, quod est animal rationale mortale. Quare hoc nomen homo licet plura sint quae significet, tamen quoniam iuncta in unum quodammodo veniunt corpus et unum quiddam ex se iuncta perficiunt, cum ita dictum fuerit, quasi ut ex his quae significat unum aliquid fiat, unum quod tota illa iuncta perficiunt nomen illud significare manifestum est. Atque hoc est quod ait: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, non esse unam affirmationem. Si enim talia quilibet sermo plura significet, ex quibus iunctis unum effici nequeat corpus, nec possint ea quae significantur uno illo nomine in unam speciem substantiae convenire, non est illa una affirmatio. Quale autem nomen sit quod positum unam affirmationem non facit, idcirco quod plura significet ex quibus unum fieri non possit, exempli sollertissima virtute monstravit dicens: UT SI QUIS PONAT NOMEN TUNICA HOMINI ET EQUO, EST TUNICA ALBA HAEC NON EST UNA AFFIRMATIO NEC NEGATIO UNA. NIHIL ENIM HOC DIFFERT DICERE QUAM EST EQUUS ET HOMO ALBUS. HOC AUTEM NIHIL DIFFERT QUAM DICERE EST EQUUS ALBUS ET EST HOMO ALBUS. Si quis ponat homini et equo nomen tunica, inquit, et in propositione nomen hoc ponitur, illa propositio non est una sed multiplex. Nam si verbi gratia tunica homo atque equus dicatur, ut, cum dicit aliquis tunicam, aut equum designet aut hominem: si quis dicat in propositione sic: Tunica alba est  non est una affirmatio. Quod enim dicit: Tunica alba est  huiusmodi est quasi si dicam "Homo et equus albus est". Tunica enim equum atque hominem significatione monstravit. Quod vero dicit: Homo atque equus albus est  nihil differt tamquam si dicat: Equus albus est Homo albus est  Sed hae duae sunt propositiones et non similes, in his enim subiecta diversa sunt. Quocirca si hae affirmationes duae sunt, duplex quoque illa est affirmatio, quae dicit homo atque equus albus est. Quod si haec rursus duplex est, quoniam equum atque hominem tunicam significare propositum est, cum dicimus "Tunica alba est" non unum sed plura significat. Quocirca si ea affirmatio quae multa designat non est una, haec quoque affirmatio una non erit, cuius aut praedicatio aequivoca fuerit aut subiectum. Atque hoc est quod ait: SI ERGO HAE MULTA SIGNIFICANT ET SUNT PLURES, MANIFESTUM EST QUONIAM ET PRIMA MULTA ƿ VEL NIHIL SIGNIFICAT; NEQUE ENIM EST ALIQUIS HOMO EQUUS. Quod si, inquit, est equus albus et est homo albus multa significant, illa quoque prima propositio, quae est est tunica alba, unde hae fluxerunt, multa designat: aut si quis dicat non eam multa significare, concedit profecto nihil omnino propositionis ipsius significatione monstrari. Tunc enim nomen unum multa significans in unam significationem poterat convenire, quotiens ex his quae significat una posset coniungi constituique substantia, ut in eo quod supra proposui, cum homo animal rationale et mortale significat, quae in unum possunt iuncta congruere. Nunc autem si tunica hominem equumque significat, multa designat sed ea ipsa in unum corpus non veniunt. Neque enim fieri potest ut aliqui homo equus sit. Quare aut multa significat, quod verum est, aut si quis contendat non eam multa significare sed quiddam ex his quae significat iunctum, quoniam nihil est quod ex equo et homine coniungatur, nihil omnino significat. Hoc est enim quod dixit NEQUE ENIM EST ALIQUIS HOMO EQUUS, et hoc sub uno legendum est, non discrete pronuntiandum homo et rursus equus sed homo equus, ut ex his iunctis appareat nihil omnino posse constitui. Cur autem hoc dixerit, sequens monstrat oratio. Si enim ita facienda est oppositio, ut contra affirmationem huiusmodi opponatur ƿ negatio, quae in oppositione verum falsumque dividat, ut una vera, alia falsa sit, unam oportet esse affirmationem et uuam negationem, quod contingit, si neque subiectum neque praedicatum multa significet. Quod si plura designet et sit aequivocum, non erit in huiusmodi propositionibus una semper vera, altera falsa. Herminus vero sic sentit quod ait Aristoteles: SIN VERO DUOBUS UNUM NOMEN EST POSITUM, EX QUIBUS NON EST UNUM, NON EST UNA AFFIRMATIO: ut in eo, inquit, quod est homo gressibilis est, quoniam quod dicimus gressibile potest et bipes esse et quadrupes et multipes animal demonstrari: ex his, inquit, omnibus unum fit, quod est pedes habens: ista, inquit, huiusmodi affirmatio non multa significat. Sed sententiam Aristotelis omnino non sequitur. Neque enim ex his omnibus unum fit nec quadrupes et bipes et multipes pedem habere faciunt. Hic enim numerus pedum, non pedum constitutio est. Quare Herminus praetermittendus est. Huic autem expositioni quam supra disserui et Aspasius et Porphyrius et Alexander in his quos in hunc librum ediderunt commentariis consenserunt. Sed ne diutius nobis Aristotelis exemplum caliginis obscuritatem ferat, hoc in aliquo noto exemplo vocabuloque videndum est. Cum enim dicimus: Aiax se peremit, et Telamonis Aiacem filium et Oileum demonstrat, ex quibus duobus unum fieri aliquid non potest. Ex duobus enim individuis nihil omnimodis iungitur. ƿ Quare huiusmodi propositio multa significat. Sed haec hactenus. Nunc autem determinat haec, quae de propositionibus supra iam dixerat, non de omni tempore sed de solis tantum praeterito et praesenti, quemadmodum se in veritate et in falsitate habeant, disseruisse. In futuris vero non idem est quale in praeterito praesentique in propositione iudicium, idcirco quod iam vel cum contigit vel cum est definita veritas et falsitas in propositionibus invenitur. Ut cum dico: Brutus consulatum primus instituit sub rege Tarquinio  dicat alius: Brutus consulatum non primus instituit sub rege Tarquinio  hic una vera est, una falsa, et iam affirmatio definite vera est, definite falsa negatio rursus in praesenti cum dicimus: Vernum tempus est Vernum tempus non est  si hoc verno tempore dictum sit, affirmatio vera est et definite vera, negatio falsa est et definite falsa. Quod si hoc autumno dictum sit, definite falsa affirmatio et definite vera negatio, idcirco quod sive in praeterito sive in praesenti veritas affirmationis negationisue iam contigit. In futuro vero non eodem modo sese habet. Ut cum dicimus: Gothos Franci superabunt  si quis negat: Gothos Franci non superabunt  una quidem vera est, una falsa sed quae vera quae falsa ante exitum nullus agnoscit. Atque hoc est quod ait: IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST AFFIRMATIONEM VEL NEGATIONEM VERAM ƿ VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM UNIVERSALITER SEMPER HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA, QUEMADMODUM DICTUM EST ut non modo una semper vera sit, altera falsa in tota contradictione sed illud quoque habeat, ut in una qualibet definite veritas aut falsitas reperiatur: ita ut in his singularibus veritas et falsitas in propositionibus dividatur, in universalibus autem, si his particularitates opponantur (quemadmodum dictum est) unam necesse est veram esse, alteram falsam sed definita propositionum veritate vel falsitate, sicut supra disserui. Quare in sequentibus quaedam de futuris tractanda sunt et quoniam maius opus est (quam hoc breviter dici possit viderimus) et nos secundi voluminis seriem longius extraximus, hoc loco fastidiosam longitudinem terminemus.  Ea quae huius libri series continebit altioris paene tractatus sunt quam ut in logica disciplina conveniat disputari sed quoniam (ut saepe dictum est) orationibus sensa proferuntur, quibus subiectas res esse ƿ manifestum est, non est dubium quin quod in rebus sit idem saepe transferatur ad voces. Quare recte mihi consilium fuit subtilissimas Aristotelis sententias gemino ordine commentationis aperire. Nam quod prior tenet editio, ingredientibus ad haec altiora et subtiliora quandam quodammodo faciliorem semitam parat; quod autem secunda editio in patefaciendis subtilibus sententiis elaborat, hoc studio doctrinaque provectis legendum discendumque proponitur. Quare prius quaedam pauca dicenda sunt, quatenus ea de quibus postea tractaturi sumus haec ipsa legentibus non videantur ignota. Categoricas propositiones Graeci vocant, quae sine aliqua conditione positionis promuntur, ut est dies est, sol est, homo est, homo iustus est, sol calet et caetera quae sine alicuius conditionis nodo atque ligamine proponuntur. Sunt autem conditionales propositiones huiusmodi: Si dies est, lux est  quas Graeci hypotheticas vocant. Conditionales autem dicuntur, quod talis quaedam conditio proponitur ut dicatur, si hoc est, illud est. Et illas quidem quas categoricas Graeci nominant, Latini praedicativas dicere possumus. Nam si categoria praedicamentum est, cur non quoque categoricae propositiones praedicativae dicuntur? Harum autem quaedam sunt quae cum sempiterna significent, sicut hae res quas significant semper sunt et numquam a propria natura discedunt, ita quoque ipsae propositiones immutabili significatione sunt: ut si quis dicat: Deus est Deus immortalis est  hae namque propositiones sicut de immortalibus dicuntur, ita ƿ quoque sempiternam habent et necessariam significationem. Nec hoc in unius temporis natura perspicitur sed in omnium. Nam cum dicimus: Deus immortalis est  vel: Immortalis fuit  vel: Immortalis erit  a propria significationis necessitate nil discrepat. Necessarias autem propositiones vocamus, in quibus id quod dicitur aut fuisse aut esse aut certe futurum esse necesse est evenire. Et hae quidem quae sempiterna significant sempiternae necessitatis sunt. Nam etiam si in his non sit manifesta veritatis natura, nil tamen prohibet fixam esse necessitatis in natura constantiam, ut si nobis ignotum est, utrum paria sint astra an imparia, non tamen idcirco poterit evenire ut nec paria nec imparia videantur sed sine ulla dubitatione aut paria sunt aut imparia. Omnis enim multitudo horum alterum retinet in natura. Quocirca etiam in his, si quis dicat: Astra paria sunt  aliusque respondeat: Astra paria non sunt  vel si quis dicat: Astra imparia sunt  aliusque respondeat: Astra imparia non sunt  unus horum verum ex necessitate proponit, quod, inquam, si id quod quilibet horum verum dixerit nobis ignotum est, necesse est tamen immutabiliter esse quod dicitur. Atque hae quidem sunt immutabiliter necessariae propositiones. Aliae vero sunt, quae non sempiterna significantes tamen et ipsae sunt necessariae, quousque illa subiecta sunt de quibus propositio aliquid affirmat aut negat. Ut cum dico: Homo mortalis est  quamdiu homo est tamdiu hominem mortalem esse necesse est. Nam si quis dicat: Ignis calidus est  ƿquamdiu est ignis tamdiu ex necessitate vera est propositio. Aliae vero sunt, quae a natura necessitatis recedunt et quaedam tantum contingentia significant sed haec aut aequaliter se ad affirmationem negationemque habentia aut ad unum frequentius vergentia. Et aequaliter quidem se habent, ut si quis dicat hodie me esse lauandum, hodie me non esse lauandum. Nihil enim magis vel affirmatio fiet aut negatio, utraeque enim aequaliter necessariae non sunt. Illae vero quae plus ad alteram partem vergunt huiusmodi sunt, ut si quis dicat hominem in senecta canescere, hominem in senecta non canescere: fit quidem frequentius ut canescat, non tamen interclusum est, ut non canescat. Praedicativarum autem propositionum natura ex rerum veritate et falsitate colligitur. Quemadmodum enim sese res habent, ita sese propositiones habebunt, quae res significant. Nam si in se res ullam retinent necessitatem, propositiones quoque necessariae sunt; sin vero tantum inesse significent -- ut si quis dicat: Homo ambulat  homini ambulationem inesse monstravit -- praeter aliquam necessitatem sunt tantum inesse significantes omni uacuae necessitate. Quod si res impossibiles sunt, propositiones quae illas res demonstrant impossibiles nominantur; sin vero res contingenter venientes atque abeuntes, quae illas prodit contingens propositio nuncupatur. Quoniam autem temporum alia sunt futura, alia praesentia, alia vero praeterita, res quoque subiectae temporibus his quoque temporum diversitatibus variae sunt. Aliae enim praesentis temporis sunt, aliae ƿ futuri, aliae praeteriti. Eodem quoque modo propositiones alias praeteriti temporis significatio tenet, ut cum dico Graeci Troiam euertere; aliae praesentis, ut Francorum Gothorumque pugna committitur; aliae futuri, ut Persae et Graeci bella moturi sunt. Et de praeteritis quidem et de praesentibus, ut res ipsae, stabiles sunt et definitae. Nam quod factum est, non est non factum, et quod non est factum, nondum factum est. Idcirco de eo quod factum est verum est dicere definite, quoniam factum est, falsum est dicere, quoniam factum non est. Rursus de eo quod factum non est verum est dicere, quoniam factum non est, falsum est, quoniam factum est. Et de praesenti quoque. Quod fit definitam habet naturam in eo quod fit, definitam quoque in propositionibus veritatem falsitatemque habere necesse est. Nam quod fit definite verum est dicere quoniam fit, falsum quoniam non fit. Quod non fit verum est dicere non fieri, falsum fieri. De definitione ergo propositionum praeteriti vel praesentis supra iam dictum est. Nunc vero ad illarum propositionum veritatem falsitatemque disputationis ordinem vertit, quae in futuro dicuntur quaeque sunt contingentia. Solet autem futura vocare, ƿ quae eadem contingentia dicere consuevit. Contingens autem secundum Aristotelicam sententiam est, quodcumque aut casus fert aut ex libero cuiuslibet arbitrio et propria voluntate venit aut facilitate naturae in utramque partem redire possibile est, ut fiat scilicet et non fiat. Haec ergo in praeteritum et praesens quidem definitum et constitutum habent eventum. Quae enim evenerunt non evenisse non possum et quae nunc fiunt ut nunc non fiant, cum fiunt, fieri non potest. In his autem, quae in futuro sunt et contingentia sunt, et fieri potest aliquid et non fieri. Sed quoniam tres supra modos proposuimus contingentis, de quibus melius in physicis tractavimus, singulorum subdamus exempla. Si hesterno domo egressus inveni amicum, quem in animo habebam quaerere, non tamen tunc quaerebam, ut non invenirem quem inveni antequam invenirem fieri poterat, cum autem inveni vel postquam invent, ut non invenissem fieri non potest. Rursus si ipse sponte praeterita nocte in agrum profectus sum, antequam hoc fieret, ut non proficiscerer fieri poterat, postquam profectus sum vel cum profectus sum, ut id non fieret quod fiebat aut non factum esset quod erat factum, fieri non valebat. Amplius possibile est scindi hanc qua uestior tunicam: si hesterno die scissa est, cum scindebatur aut posiquam scissa est, ut non scinderetur ƿ aut non esset scissa, fieri nequibat, ante vero quam scinderetur, fieri poterat ut non scinderetur. Perspicuum ergo in praesentibus atque praeteritis vel earundem rerum quae sunt contingentes definitum constitutumque esse eventum. In futuris autem unum quidem quodlibet duorum fieri posse, unum vero definitum non esse sed in utramque partem vergere et aut hoc quidem aut illud ex necessitate evenire, ut autem hoc quodlibet definite vel quodlibet aliud definite, fieri non posse. Quae enim contingentia sunt, in utraque parte contingunt. Quod autem dico tale est: egredientem me hodie domo amicum invenire aut non invenire necesse est (in omnibus enim aut affirmatio est aut negatio) sed invenire sine dubio definite aut certe si hoc non est rursus definite non invenire, quemadmodum hesterno die, quo amicum egrediens inveni (definitum est autem, quod non est verum me non invenisse), non eodem modo in his quae sunt contingentia et future sed tantum aut hoc quidem aut illud est et hoc ex necessitate, ut autem una res vel quilibet unus eventus definitus et iam quasi certus sit, fieri non potest. Et in hac re dissimiles sunt propositiones contingentium et futurorum his quae sunt praeteritorum vel praesentium. Nam cum similes sint in eo, quod in his aut affirmatio est aut negatio, ƿ sicut etiam in his quae sunt praeterita vel praesentia, in illo diversae sunt, quod in his quidem id est praeteritis et praesentibus rerum definitus eventus est, in futuris vero et contingentibus in definitus est et incertus, nec solum nobis ignorantibus sed naturae. Nam licet ignoremus nos, utrum astra paria sint an imparia, unum tamen quodlibet definite in natura stellarum esse manifestum est. Et hoc nobis quidem est ignoratum, naturae vero notissimum. Sed non ita hodie me visurum esse amicum aut non visurum nobis quidem quid eveniat ignoratum est, notum vero naturae. Non enim hoc naturaliter sed casu evenit. Quare huiusmodi propositiones non ad nostram sed ad naturae ipsius notitiam secundum incertum eventum et inconstantem veritatem atque mendacium derivabuntur. Talis enim est contingentis natura, ut in utraque parte vel aequaliter sese habeat, ut hodie me esse lauandum vel hodie me non esse lauandum, vel in una plus, minus in altera, ut hominem canescere senescentem vel hominem non canescere senescentem. Illud enim plus fit, illud minus. Sed nihil prohibet id quod rarius fit tamen fieri.De his ergo Aristotelica subtilitas disputatura primum a singularibus inchoans ad universalia tractatui viam pandit. Duobus enim modis contradictiones fiebant: aut in singularibus aut in universalibus universaliter praedicatis et his oppositis. Ingreditur autem ex his tribus quae supra iam dicta sunt: ex casu, ex libero ƿ arbitrio, ex possibilitate, quae omnia uno nomine utrumlibet vocavit, fingens scilicet nomen ad hoc, quod non unius et certi eventus ista sunt sed utriuslibet et quomodo contingit. Hoc autem monstrativum est naturae instabilis et ad utramque partem sine ullius rei obluctatione vergentis. Non autem oportet arbitrari illa esse utrumlibet et contingentium naturae, quaecumque nobis ignota sunt. Neque enim si nobis ignotum est a Persis ad Graecos missos legatos, idcirco missos esse incerti eventus est; nec si letale signum in aegrotantis facie medicina deprehendit, ut aliud esse non possit nisi ille moriatur, nobis autem ignotum sit propter artis imperitiam, idcirco illum aegrum esse moriturum utrumlibet et contingentis naturae esse iudicandum est sed illa sola talia sine dubio esse putanda sunt, quaecumque idcirco nobis ignota sunt, quod per propriam naturam qualem habeant eventum sciri non possunt, idcirco quoniam propria instabilitate naturae ad utraque verguntur, id est ad affirmationis et negationis eventum propria instabilitate atque inconstantia permutantur. Est autem inter philosophos disputatio de rerum quae fiunt causis, necessitatene omnia fiant an quaedam casu. Et in hoc Epicureis et Stoicis et Peripateticis nostris magna contentio est, quorum paulisper sententias explicemus. Peripatetici enim, quorum Aristoteles princeps est, et casum et liberi arbitrium indicii et necessitatem in rebus quae fiunt quaeque aguntur cum ƿ gravissima auctoritate tum apertissima ratione confirmant. Et casum quidem esse in physicis probaut: quotiens aliquid agitur et non id evenit, propter quod res illa coepta est quae agebatur, id quod evenit ex casu evenisse putandum est, ut casus quidem non sine aliqua actione sit, quotiens autem aliud quiddam evenit per actionem quae geritur quam speratur, illud evenisse casu Peripatetica probat auctoritas. Si quis enim terram fodiens vel scrobem demittens agri cultus causa thesaurum reperiat, casu ille thesaurus inventus est, non sine aliqua quidem actione (terra enim fossa est, cum thesaurus inventus est) sed non illa erat agentis intentio, ut thesaurus inveniretur. Ergo agenti aliquid homini, aliud tamen agenti res diversa successit. Hoc igitur ex casu evenire dicitur, quodcumque per quamlibet actionem evenit non propter eam rem coeptam, quae aliquid agenti successerit. Et hoc quidem in ipsa rerum natura est, ut non hoc nostra constaret ignorantia, ut idcirco quaedam casu esse viderentur, quod nobis ignota essent sed potius idcirco a nobis ignorarentur, quod haec in natura quaecumque casu fiunt nullam necessitatis constantiam aut providentiae modum tenerent. Stoici autem omnia quidem ex necessitate et providentia fieri putantes id quod ex casu fit non secundum ipsius fortunae naturam sed secundum nostram ignorantiam metiuntur. ƿ Id enim casu fieri putant, quod cum necessitate sit, tamen ab hominibus ignoretur. Et de libero quoque arbitrio eadem nobis paene illisque contentio est. Nos enim liberum arbitrium ponimus nullo extrinsecus cogente in id quod nobis faciendum vel non faciendum indicantibus perpendentibusque videatur, ad quam rem praesumpta prius cogitatione perficiendam et agendam venimus, ut id quod fit ex nobis et ex nostro iudicio principium sumat nullo extrinsecus aut violenter cogente aut impediente violenter. Stoici autem omnia necessitatibus dantes converso quodam ordine liberum voluntatis arbitrium custodire conantur. Dicunt enim naturaliter quidem animam habere quandam voluntatem, ad quam propria natura ipsius voluntatis impellitur, et sicut in corporibus inanimatis quaedam naturaliter gravia feruntur ad terram, levia sursum meant, et haec natura fieri nullus dubitet, ita quoque in hominibus et in caeteris animalibus voluntatem quidem naturalem esse cunctis, et quidquid fit a nobis secundum voluntatem quae in nobis naturalis est autumant, illud tamen addunt, quod ea velimus quae providentiae illius necessitas imperavit, ut sit quidem nobis voluntas concessa naturaliter et id quod facimus voluntate faciamus, quae scilicet in nobis est, ipsam tamen voluntatem illius providentiae necessitate constringi. Ita fieri quidem omnia ex necessitate, ƿ quod voluntas ipsa naturalis necessitatem sequatur fieri etiam quae facimus ex nobis, quod ipsa voluntas ex nobis est et secundum animalis naturam. Nos autem liberum voluntatis arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit sed quod quisque iudicio et examinatione collegerit. Alioquin muta quoque animalia habebunt liberum voluntatis arbitrium. Illa enim videmus quaedam sponte refugere, quibusdam sponte concurrere. Quod si velle aliquid vel nolle hoc recte liberi arbitrii vocabulo teneretur, non solum hoc esset hominum sed caeterorum quoque animalium, quibus hanc liberi arbitrii potestatem abesse quis nesciat? Sed est liberum arbitrium, quod ipsa quoque vocabula produnt, liberum nobis de voluntate iudicium quotienscumque enim imaginationes quaedam concurrunt animo et voluntatem irritant, eas ratio perpendit et de his indicat, et quod ei melius videtur, cum arbitrio perpenderit et iudicatione collegerit, facit. Atque ideo quaedam dulcia et speciem utilitatis monstrantia spernimus, quaedam amara licet nolentes tamen fortiter sustinemus: adeo non in voluntate sed in iudicatione voluntatis liberum constat arbitrium et non in imaginatione sed in ipsius imaginationis perpensione consistit. Atque ideo quarundam actionum nos ipsi principia, non sequaces sumus. Hoc est enim uti ratione uti iudicatione. Omne enim commune nobis est cum caeteris animantibus, sola ratione disiungimur. Quod si sola etiam indicatione inter nos et ƿ caetera animalia distantia, cur dubitemus ratione uti hoc esse quod est uti iudicatione? Quam si quis ex rebus tollat, rationem hominis sustulerit, hominis ratione sublata nec ipsa quoque humanitas permanebit. Melius igitur nostri Peripatetici et casum in rebus ipsis fortuitum dantes et praeter ullam necesaitatem et liberum quoque arbitrium neque in necessitate neque in eo quod ex necessitate quidem non est, non tamen in nobis est ut casus sed in electione iudicationis et in voluntatis examinatione posuerunt. Et in eo autem quod possibile esse dicitur est quaedam inter Peripateticos et Stoicos dissensio, quam hoc modo paucis absolvimus. Illi enim definiunt possibile esse quod possit fieri, et quod fieri prohibetur non sit, hoc ad nostram possibilitatem scilicet referentes, ut quod nos possumus, id possibile dicerent, quod vero nobis impossibile esset, id possibile negarent. Peripatetici autem non in nobis hoc sed in ipsa natura posuerunt, ut quaedam ita essent possibilia fieri, ut essent possibilia non fieri, ut hunc calamum frangi quidem possibile est, etiam non frangi, et hoc non ad nostram possibilitatem referunt sed ad ipsius rei naturam. Cui sententiae contraria est illa quae dicit fato omnia fieri, cuius Stoici auctores sunt. Quod enim fato fit ex principalibus causis evenit sed si ita est, hoc quod non fiat non potest permutari. Nos ƿ autem dicimus ita quaedam esse possibilia fieri, ut eadem sint etiam non fieri possibilia, hoc nec ex necessitate nec ex possibilitate nostra metientes. His igitur expeditis illud addere sufficiat, haec Aristoteli fixa in sententia et disciplina retinenti facile fuisse contingentium propositionum modum de futuris ostendere: in utraque parte facere atque ideo determinatam eventus constantiam non habere. Quod ni ita esset, omma ex necessitate fieri crederentur, quod melius liquebit, cum ad ipsa Aristotelis verba venerimus. Non autem incommode neque incongrue Aristoteles de rebus altioribus et fortasse non pertinentibus ad artem logicam disputationem transtulit, cum de propositionibus loqueretur. Neque enim esset rectitudinem et significantiam propositionum constituere, nisi hanc ex rebus ita esse probavisset. Praedicativae enim propositiones (ut dictum est) non in sermonibus neque in complexione praedicationum sed in rerum significatione consistuut. Quare omnibus quae praedicenda erant explicitis ad ipsius Aristotelis sententias aperiendas enodandasque perveniamus. IN HIS ERGO QUAE SUNT ET FACTA SUNT NECESSE EST AFFIRMATIONEM VEL NEGATIONEM VERAM VEL FALSAM ESSE, IN UNIVERSALIBUS QUIDEM UNIVERSALITER SEMPER HANC QUIDEM VERAM, NAM VERO FALSAM, ET IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA, QUEMADMODUM DICTUM EST. IN HIS VERO QUAE IN UNIVERSALIBUS NON UNIVERSALITER DICUNTUR, NON EST NECESSE; DICTUM AUTEM EST ET DE HIS. Categoricas propositiones quae praedicativae Latine possint nominari (ut supra iam diximus) ex rebus quas ipsae propositiones significant integra ratiocinandi norma diiudicat. Illae namque quas hypotheticas vel conditionales vocamus ex ipsa conditione vim propriam trahunt, non ex his quae significant. Cum enim dico: Si homo est, animal est  et: Si lapis est, animal non est  illud est consequens, illud repugnans. Quare ex consequentia et repugnantia propositionum tota in propositione vis vertitur. Unde fit ut non significatio sed conditio proposita hypotheticarum enuntiationum vim naturamque constituat: praedicativae propositiones (ut dictum est) ex rebus principaliter substantiam sumunt. Atque ideo quoniam quaedam res sunt praesentis temporis, quaedam praeteriti, sicut eventus ipse rerum praesentis temporis vel praeteriti certus est, ita quoque praedicativarum propositionum de praeteritis et praesentibus certa veritas falsitasque est erat autem contradictionis modus duplex: aut enim universalis particularibus angulariter opponebatur aut singularis significatio affirmativa singularem negationem contradictoria oppositione peremerat. Et in his una vera semper, falsa altera reperiebatur. In his autem quae essent indefinitae non necesse erat unam veram esse, alteram falsam. Sed in his, in quibus veritas et falsitas dividebatur, in his non solum una vera est semper, altera semper falsa, in praeterito scilicet et praesenti sed etiam una certam et definitam veritatem retinet, certam et definitam altera ƿ falsitatem. In his autem quae sunt in futuro, si necessariae quidem propositiones sunt, licet et secundum futurum tempus dicantur, necesse est tamen non modo unam veram esse, alteram falsam sed etiam unam definite veram, definite alteram falsam, ut cum dico: Sol hoc anno verno tempore in arietem venturus est  si hoc alius neget, non solum una vera est, altera falsa sed etiam vera est in hoc affirmatio definite falsa negatio. Sed Aristoteles non solet illa futura dicere quae sunt necessaria sed potius quae sunt contingentia. Contingentia autem sunt (ut supra iam diximus) quaecumque vel ad esse vel ad non esse aequaliter sese habent, et sicut ipsa indefinitum habent esse et non esse, ita quoque de his affirmationes indefinitam habent veritatem vel falsitatem, cum una semper vera sit, semper altera falsa sed quae vera quaeue falsa sit, nondum in contingentibus notum est. Nam sicut quae sunt necessaria esse, in his esse definitum est, quae autem sunt impossibilia esse, in his non esse definitum est, ita quae et possunt esse et possunt non esse, in his neque esse neque non esse est definitum sed veritas et falsitas ex eo quod est esse rei et ex eo quod est non esse rei sumitur. Nam si sit quod dicitur, verum est, si non sit quod dicitur, falsum est. Igitur in contingentibus et futuris sicut ipsum esse et non esse instabile est, esse tamen aut non esse necesse est, ita quoque in affirmationibus contingentia ipsa prodentibus veritas quidem vel falsitas in incerto est (quae enim vera sit, quae falsa secundum ƿ ipsarum propositionum naturam ignoratur), necesse est tamen unam veram esse, alteram falsam. Porphyrius tamen quaedam de Stoica dialectica permiscet: quae cum Latinis auribus nota non sit, nec hoc ipsum quod in quaestionem venit agnoscitur atque ideo illa studio praetermittemus. IN SINGULARIBUS VERO ET FUTURIS NON SIMILITER. NAM SI OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO VERA VEL FALSA EST, ET OMNE NECESSE EST VEL ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM EST, QUONIAM NECESSE EST VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO VERA VEL FALSA. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. NAM SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL NON ALBUM, ET SI EST ALBUM VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE; ET SI NON EST, MENTITUR, ET SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST AUT AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM ESSE. NIHIL IGITUR NEQUE EST NEQUE FIT NEC A CASU NEC UTRUMLIBET NEC ERIT NECNON ERIT SED EX NECESSITATE OMNIA ET NON UTRUMLIBET. AUT ENIM QUI DICIT verUS EST AUT QUI NEGAT. SIMILITER ENIM VEL FIERET VEL NON FIERET; UTRUMLIBET ENIM NIHIL MAGIS SIC VEL NON SIC SE HABET AUT HABEBIT. AMPLIUS SI EST ALBUM NUNC, VERUM ERAT DICERE PRIMO QUONIAM LERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM ƿ FUIT DICERE QUODLIBET EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST DICERE QUONIAM EST VEL ERIT;, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD AUTEM NON POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE EST NON FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURE SUNT NECESSE EST FIERI. NIHIL IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX NECESSITATE. Geminas esse contradictiones in propositionibus supra iam dictum est et nunc quoque commemoratum in quibus necesse est unam veram esse, alteram falsam. Sed ea quae dicentur de futuris et contingentibus melius intellegentur, si de his contingentibus loquamur, quae in singular) contradictione proveniunt. Est enim universalium angularis contradictio in contmgentibus huiusmodi: Cras omnes Athenienses bello navali pugnaturi sunt Cras non omnes Athenienses bello navali pugnaturi sunt  In singularibus autem talis est: Cras Socrates in palaestra disputaturus est Cras Socrates in pallaestra disputaturus non est  Non autem oportet ignorare non esse similiter contingentes has quae dicunt: Socrates morietur  et: Socrates non morietur  et illas quae dicunt: Socrates cras morietur Socrates cras non morietur  Illae enim superiores omnino contingentes non sunt sed sunt necessariae (morietur enim Socrates ex necessitate), hae vero quae tempus definiunt nec ipsae in numerum contingentium recipiuntur, idcirco quod nobis quidem cras moriturum esse Socratem incertum est, naturae autem incertum ƿ non est atque ideo nec deo quoque incertum est, qui ipsam naturam optime novit sed illae sunt proprie contingentes, quae neque in natura sunt neque in necessitate sed aut in casu aut in libero arbitrio aut in possibilitate naturae: ex casu quidem, ut cum egredior domo amicum videam non ad hoc egrediens, ex libero arbitrio, ut quod possum et velle et non velle, an velim hoc antequam fiat incertum est, ex possibilitate, quod cum fieri possit et non fieri possit et antequam fiat, quod utroque modo potest, incertum sit. Ideoque Cras Socrates disputaturus est in palaestra  contingens est, quod hoc ex libero venit arbitrio. Ergo in huiusmodi contingentibus si in futurum una semper vera est, altera semper falsa et una definite vera, falsa altera definite et res verbis congruent, omnia necesse est esse vel non esse et quidquid fit ex necessitate fit et nihil neque possibile est esse, quod possibile sit non esse, neque liberum erit arbitrium neque in rebus ullis casus erit in omnibus necessitate dominante. In his namque id est in singularibus contradictionibus verum dicere uterque non potest. Contradictoriae enim erant quae simul esse non possint. Sed nec utraeque, negationes atque affirmationes, falsae esse in contradictoriis possum. Illae enim erant contradictoriae quae simul non esse non poterant. Quare unus verum dicturus est, unus falsum. Quod si nihil datur in huiusmodi rebus id est contingentibus instabili eventus ordine et incerta veritatis ƿ et falsitatis enuntiatione provenire, quidquid verum dicitur in affirmatione definite, hoc definite necesse est, quidquid falsum dicitur in negatione, hoc non esse necesse est. Omnia igitur ex necessitate aut erunt aut ex necessitate non erunt. Nihil ergo nec casus nec liberum arbitrium nec possibilitas ulla in rebus est, siquidem tenet cuncta necessitas. Aristoteles vero sumens istam hypotheticam propositionem, si omne quod in futuro dicitur aut verum definite aut falsum est definite, omnia ex necessitate fieri et nihil casu nihil iudicio nihil possibilitate, ea convenienti ordine monstrat. Et posito unam veram, alteram falsam definite esse omnia ex necessitate contingere ex consensu rerum propositionumque demonstrat hoc modo: proponit enim hanc conditionem et hanc veram esse ex rerum ipsarum necessitate confirmat. Est autem conditio: si omnis affirmatio vel negatio in futurum ducta vera vel falsa est definite, et omne quidquid fit ex necessitate fieri et nihil neque casu neque propria et libera voluntate atque iudicio nec vero aliqua possibilitate, quae hic omnia utrumlibet vocabulo nuncupavit. Ponit enim hanc conditionem dicens: NAM SI OMNIS AFFIRMATIO VEL NEGATIO VERA VEL FALSA EST (subaudiendum est "definite"), et OMNE NECESSE EST ESSE VEL NON ESSE. SI HIC QUIDEM DICAT FUTURUM ALIQUID, ILLE VERO NON DICAT HOC IDEM IPSUM, MANIFESTUM ƿ EST, VERUM DICERE ALTERUM IPSORUM, SI OMNIS AFFIRMATIO [uel negatio] VERA VEL FALSA EST. UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. Ergo sensus huiusmodi est: si omnis, inquit, affirmatio vel negatio vera vel falsa est definite, et omne necesse est aut esse aut non esse, quod vel affirmatio ponit vel negatio perimit. Nam si quilibet dixerit esse aliquid et alius dixerit idem ipsum non esse, unus quidem affirmat, alter negat sed in affirmatione et negatione, quae in contradictione ponuntur, una semper vera est, altera falsa. Neque enim fieri potest ut utraeque sint verae. Non enim nunc sermo est aut de subcontrarus aut de indefinitis. Namque subcontrariae, id est particularis negatio et affirmatio particularis, et indefinitae utraeque verae in eodem esse poterant, contradictoriae autem minime. Neque enim fieri potest, ut hae quae vel in singularibus contradictiones sunt vel in universalibus angulariter opponuntur simul umquam verae sint. Hoc est enim quod ait UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS, id est utraeque enuntiationes non erunt verae in enuntiationibus contradictoriis. Posita ergo hac conditione: si omnis affirmatio definite vera vel falsa sit, omnia ex necessitate evenire, hanc ipsam rerum ipsarum et propositionum consequentiam et similitudinem monstrare contendit dicens: NAM SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM VEL NON ALBUM EST, NECESSE EST ESSE ALBUM VEL NON ALBUM, ET SI EST ALBUM VEL NON ALBUM, VERUM EST VEL AFFIRMARE VEL NEGARE; ET ƿ SI NON EST, MENTITUR, ET SI MENTITUR, NON EST. QUARE NECESSE EST AFFIRMATIONEM AUT NEGATIONEM VERAM ESSE. Omnis, inquit, affirmatio omnisque negatio cum rebus ipsis vel vera vel falsa est, huius autem rei exempla ex praesentibus sumit. Nam sicut se habent secundum necessitatem in praesenti tempore enuntiationes, ita se habebunt etiam in futuro. Speculemur igitur in praesenti quae sit rerum propositionumque necessitas. Si qua enim propositio de qualibet re dicta vera est, illam rem quam dixit esse necesse est. Si enim dixerit, quoniam nix alba est, et hoc verum est, veritatem propositionis sequitur necessitas rei. Necesse est enim esse nivem albam, si propositio quae de ea re praedicata est vera est. Quod si dixerit quis non esse albam picem et haec vera est, manifestum est rem quoque propositionis consequi veritatem. Amplius quoque et propositiones rerum necessitates sequuntur. Si enim est aliqua res, verum est de ea dicere quoniam est, et si non est aliqua res, verum est de ea dicere quoniam non est. Ita secundum veritatem affirmationis et negationis necessitas rei substantiam sequitur et rerum necessitas propositionum comitatur necessitatem.Atque hoc quidem in veris. In falsis quoque idem est e contrario. Nam si falsa est affirmatio, rem de qua loquitur non esse necesse est, ut si falsa est affirmatio quae dicit picem esse albam, non esse albam picem necesse est. Rursus si falsa est negatio quae dicit nivem non esse albam, esse albam nivem necesse est. Rursus si res non est, affirmatio quoque de ea re necessarie falsa est. Quod si rursus res non ƿ sit id quod potest dicere falsa negatio, sine ulla dubitatione illa negatio falsa est et hoc esse necesse est, ut quoniam de nive potest dicere falsa negatio, quoniam alba non est, hoc ipsum quod falsa negatio dicit, id est albam non esse, non est. Nix enim non alba non est.Quare rerum necessitati falsitas veritasque convertitur. Nam si est aliquid, vere de eodem dicitur, quoniam est, et si vere dicitur, illam rem de qua vere aliquid praedicatur esse necesse est; quod si non est id quod dicitur, falsa enuntiatio est, et si enuntiationes falsae sunt, res non esse necesse est. Quod si haec ita sunt, positum est autem omnem affirmationem et negationem veram esse definite, quoniam propositionum veritatem vel falsitatem rerum necessitas secundum esse vel non esse consequitur (esse quidem secundum veritatem, ut dictum est, non esse secundum falsitatem): nihil fit casu neque libera voluntate nec aliqua possibilitate. Haec enim quae utrumlibet vocamus talia sunt, quae cum nondum sunt facta et fieri possunt et non fieri, si autem facta sint, non fieri potuerunt, ut hodie me Vergilii librum legere, quod nondum feci, potest quidem non fieri, potest etiam fieri, quod si fecero, potui non facere. Haec igitur huiusmodi sunt quaecumque utrumlibet dicuntur. Utrumlibet autem quid sit ipse planius monstrat dicens: utrumlibet enim nihil magis sic vel non sic se habet aut habebit. Est enim utrumlibet quod vel ad esse vel ad non esse aequaliter sese habeat, id est neque illud esse necesse sit ƿ neque non esse necesse sit. Putaverunt autem quidam, quorum Stoici quoque sunt, Aristotelem dicere in futuro contingentes nec veras esse nec falsas. Quod enim dixit nihil se magis ad esse habere quam ad non esse, hoc putaverunt tamquam nihil eas interesset falsas an veras putari. Neque veras enim neque falsas esse arbitrati sunt. Sed falso. Non enim hoc Aristoteles dicit, quod utraeque nec verae nec falsae sunt sed quod una quidem ipsarum quaelibet aut vera aut falsa est, non tamen quemadmodum in praeteritis definite nec quemadmodum in praesentibus sed enuntiativarum vocum duplicem quodammodo esse naturam, quarum quaedam essent non modo in quibus verum et falsum inveniretur sed in quibus una etiam esset definite vera, falsa altera definite, in aliis vero una quidem vera, altera falsa sed indefinite et commutabiliter et hoc per suam naturam, non ad nostram ignorantiam atque notitiam. Quocirca recte dictum est, si omnis affirmatio vel negatio vera definite esset, nihil fieri neque esse vel a casu vel a communi nomine utrumlibet nec esse aut non esse contingenter sed aut esse definite aut non esse definite sed magis ex necessitate omnia. Hoc enim consequitur eum qui dicit aut eum qui affirmat verum esse aut eum qui negat. Quod si hoc verum esset, itidem cum veritate vel fieret vel cum falsitate non fieret quod a vere falseue enuntiantibus dicebatur. Quod si hoc impossibile ƿ est et sunt quaedam res quae necessitate non sint (videmus autem quasdam esse casu, quasdam ex voluntate, quasdam ex propriae possibilitate naturae), frustra putatur sicut in praeteritis, ita quoque in futuris enuntiationibus unam esse veram, alteram falsam definite. Quare haec una fuit eius argumentatio. Aliam vero quasi ipse sibi opponens aliquam quaestionem ingreditur validiore tractatu: AMPLIUS SI EST ALBUM NUNC, VERUM ERAT DICERE PRIMO QUONIAM ERIT ALBUM, QUARE SEMPER VERUM FUIT DICERE QUODLIBET EORUM QUAE FACTA SUNT, QUONIAM ERIT. QUOD SI SEMPER VERUM EST DICERE QUONIAM EST VEL ERIT, NON POTEST HOC NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. QUOD AUTEM NON POTEST NON FIERI, IMPOSSIBILE EST NON FIERI; QUOD AUTEM IMPOSSIBILE EST NON FIERI, NECESSE EST FIERI. OMNIA ERGO QUAE FUTURA SUNT NECESSE EST FIERI. NIHIL IGITUR UTRUMLIBET NEQUE A CASU ERIT; NAM SI A CASU, NON EX NECESSITATE. Ad adstruendum non esse omnes enuntiationes veras definite in futuro vel falsas ex eadem quidem argumentationis virtute et ex eodem possibilitatis eventu, diversam tamen ingreditur actionis viam. Dudum enim ex his quae nondum erant facta, si vere futura esse praedicerentur, in rebus necessitatem solam esse posse collegit. Nunc autem ex his rebus quae facta sunt argumentationem capit, si vere antequam fierent praedicerentur, necessitatis nexu eventus rerum omnium contineri. Arbitrantur enim hi qui dicunt contingentium quoque propositionum stabilem esse enuntiationis modum secundum veritatem scilicet atque ƿ mendacium, quod omnia quaecumque facta sunt, inquiunt, potuerunt praedici, quoniam fient. Hoc enim in natura quidem fuit antea sed nobis hoc rei ipsius patefecit eventus. Quare si omnia quaecumque evenerunt sunt et ea quae sunt futura esse praedici potuerunt, necesse est omnia quae dicuntur aut definite vera esse aut definite falsa, quoniam definitus eorum eventus secundum praesens tempus est. Quare in omnibus in quibus aliquid evenit verum est dicere, quoniam eventurum est, et si nondum adhuc factum est. Hoc autem illa res probat verum fuisse tunc dici, quoniam evenit id quod praedici potuerat; quod si praedictum esset, res eventura definita veritate praediceretur. Hoc Aristoteles sumens ad idem impossibile validissima ratione perducit et praesentis temporis naturam cum futuri enuntiatione coniungit. Ait enim simile esse de praesentibus enuntiare secundum veritatis necessitatem et de futuris: nam si verum est dicere, quoniam est aliquid, esse necesse est, et si verum est dicere, quoniam erit, futurum sine dubio esse necesse est: omnia igitur ex necessitate futura sunt: ad idem scilicet impossibile argumentationem trahens. Sumit autem huius impossibilitatis ordinem ex his propositionibus quae faciliores quidem ad intellectum sunt, idem tamen valent hoc modo: SI SEMPER, inquit, VERUM EST DICERE, QUONIAM EST VEL ERIT, quidquid tunc verum fuit praedicere, illud NON POTEST NON ESSE NECNON FUTURUM ESSE. Quemadmodum enim id quod in praesenti vere dicitur esse, hoc non potest non esse, si vera de eo propositio ƿ fuit, quae dicebat esse, ita quoque in futuro quae dicit aliquid futurum esse, illa si vera est, non potest non futurum esse quod praedicit. Quod si non potest non fieri quod a vera propositione praedicitur, impossibile est non fieri. Idem est enim dicere non potest non fieri, quod dicere impossibile est non fieri. Quod autem impossibile est non fieri, necesse est fieri. Impossibile enim idem necessitati valet contrarie praedicatum, ut ipse post docuit. Nam quod impossibile est esse necesse est non esse. Quod enim ut sit possibile non est, illud non esse necesse est. Quod si hoc est, et contraria se eodem modo habebunt. Quod est impossibile non esse, hoc esse necesse est. Sed dictum est ea quae vera praedicuntur impossibile esse non esse, hoc autem est ex necessitate esse. Ea igitur quae praedicuntur ex necessitate futura sunt. Nihil igitur utrumlibet neque casu nec omnino secundum liberum arbitrium, quod utrumlibet significatio totum clausit. Nam quod dicit utrumlibet et possibilitatem et casum et liberum in significatione tenet arbitrium. Ergo nihil fit a casu. Nam si quaedam casu fieri dicat, ille rursus in ea re perimit necessitatem. Quod enim casu est non ex necessitate est. Nihil autem fit a casu, quoniam omnia ex necessitate proveniunt, quaecumque enuntiatio vera praedixerit. Evenit autem huiusmodi impossibilitas ex eo quod concessum est prius, omnia quaecumque facta sunt definite vere potuisse praedici. Nam si ex necessitate contingit id quod evenit, verum ƿ fuit dicere quoniam erit. Quod si ex necessitate non contingit sed contingenter, non potius verum fuit dicere quoniam erit sed magis quoniam contingit esse. Nam qui dicit erit, ille quandam necessitatem in ipsa praedicatione ponit. Hoc inde intellegitur, quod si vere dicat futurum esse id quod praedicitur non possibile sit non fieri, hoc autem ex necessitate sit fieri. Ergo qui dicit, quoniam erit aliquid eorum quae contingenter eveniunt, in eo quod futurum esse dicit id quod contingenter evenit fortasse mentitur; vel si contigerit res illa quam praedicit, ille tamen mentitus est: non enim eventus falsus est sed modus praedictionis. Namque ita oportuit dicere: Cras bellum navale contingenter eveniet  hoc est dicere: ita evenit, si evenerit, ut potuerit non evenire. Qui ita dicit verum dicit, eventum enim contingenter praedixit. Qui autem ita infit: Cras bellum erit navale  quasi necesse sit, ita pronuntiat. Quod si evenerit, non iam idcirco quia praedixit verum dixerit, quoniam id quod contingenter eventurum erat necessarie futurum praedixit. Non ergo in eventu est falsitas sed in praedictionis modo. Quemadmodum enim si quis ambulante Socrate dicat: Socrates ex necessitate ambulat  ille mentitus est non in eo quod Socrates ambulat sed in eo quod non ex necessitate ambulat, quod ille eum ex necessitate ambulare praedicavit, ita quoque in hoc qui dicit quoniam erit aliquid, etiam hoc si fiat, ille tamen ƿ falsus est, non in eo quod factum est sed in eo quod non ita factum est, ut ille praedixit esse futurum. Quod si verum esset definite, ex necessitate esset futurum. Igitur ex necessitate futurum esse praedixit, quodcumque sine ullo alio modo eventurum pronuntiavit. Quare non in eventu rei sed in praedicationis enuntiatione falsitas invenitur. Oportet enim in contingentibus ita aliquid praedicere, si vera erit enuntiatio, ut dicat quidem futurum esse aliquid sed ita, ut rursus relinquat esse possibile, ut futurum non sit. Haec autem est contingentis natura contingenter in enuntiatione praedicare. Quod si quis simpliciter id quod fortasse contingenter eveniet futurum esse praedixerit, ille rem contingentem necessarie futuram praedicit. Atque ideo etiam si evenerit id quod dicitur, tamen ille mentitus est in eo quod hoc quidem contingenter evenit, ille autem ex necessitate futurum esse praedixerit. Cum ergo sint quatuor enuntiationum veritatis et falsitatis modi, de his scilicet propositionibus quae in futuro praedicuntur (aut quoniam et erit et non erit id quod dicitur, id est ut et affirmatio et negatio vera sit, aut quoniam nec erit necnon erit, id est ut et affirmatio et negatio falsae sint, aut quoniam erit aut non erit, una tamen definite vera, altera falsa, aut rursus quoniam erit aut non erit utrisque secundum veritatem et falsitatem indefinitis et aequaliter ad veritatem mendaciumque vergentibus) docuit quidem supra et esse et non esse fieri nou posse, cum dicit: UTRAQUE ENIM NON ERUNT SIMUL IN TALIBUS. Docuit etiam aliquantisper aut ƿ esse aut non esse definite in contingentibus et futuris propositionibus esse non posse. Nunc illud addit, quod neque esse neque non esse, id est quod nec illud dici vere possit, posse utrasque inveniri falsas, quae dicuntur in futuro propositiones. Quod si neque utraeque verae sunt neque utraeque falsae neque una definite vera, falsa altera definite, restat ut una quidem vera sit, altera falsa, non tamen definite sed utrumlibet et instabili modo, ut hoc quidem aut hoc evenire necesse sit, ut tamen una res quaelibet quasi necessarie et definite proveniat aut non proveniat fieri non possit. Quemadmodum autem utrasque falsas non esse demonstraret, hic inchoat: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT DICERE, UT QUONIAM NEQUE ERIT NEQUE NON ERIT. PRIMUM ENIM CUM SIT AFFIRMATIO FALSA, ERIT NEGATIO NON VERA ET HAEC CUM SIT FALSA, CONTINGIT AFFIRMATIONEM ESSE NON VERAM. AD HAEC SI VERUM EST DICERE, QUONIAM ALBUM EST ET MAGNUM, OPORTET UTRAQUE ESSE; SIN VERO ERIT CRAS, ESSE CRAS; SI AUTEM NEQUE ERIT NEQUE NON ERIT CRAS, NON ERIT UTRUMLIBET, UT NAVALE BELLUM; OPORTEBIT ENIM NEQUE FIERI NAVALE BELLUM NEQUE NON FIERI NAVALE BELLUM. Sensus argumentationis huiusmodi est: nec illud, inquit, dici poterit, quod contingentium propositionum neutra vera sit in futuro. Hoc autem nihil differt dicere quam si quis dicat utrasque esse falsas. Hoc enim impossibile est. In contradictionibus namque utraeque falsae inveniri non possunt. Hoc enim proprium ƿ contradictoriarum est: ut proprietatem subcontrariarum refugiunt in eo quod simul verae esse non possunt, ita quoque et contrariarum proprietatem vitant in eo quod simul falsae non reperiuntur. Habent ergo propriam naturam, ut neque falsae simul sint neque verae. Quare una ipsarum semper erit vera, semper altera falsa. Impossibile est igitur, cum sit falsa negatio, non veram esse affirmationem, et rursus cum sit falsa affirmatio, negationem esse non veram. Igitur nec hoc est dicere, quod utraeque non verae sint. Quod per hoc dixit quod ait: AT VERO NEC QUONIAM NEUTRUM VERUM EST CONTINGIT DICERE, id est non nobis contingit dicere, hoc est impossibile est dicere, quoniam neutrum verum est, scilicet quod affirmationibus negationibusue prop onit ur contingentibus scilicet et futuris. Qui autem Aristotelen arbitrati sunt utrasque propositiones in futuro falsas arbitrari, si haec quae nunc dicit diligentissime perlegissent, numquam tantis raptarentur erroribus. Neque enim idem est dicere neutra vera est quod dicere neutra vera est definite. Futurum esse enim cras bellum navale et non futurum non dicitur quoniam utraeque omnino falsae sunt sed quoniam neutra est vera aut quaelibet ipsarum definite falsa sed haec quidem vera, illa falsa, non tamen una ipsarum definite sed quaelibet illa contingenter. His autem ƿ adicit aliud quiddam dicens: si propositionum veritas ex rerum substantia pendet, ut quidquid verum est in propositionibus dicere hoc esse necesse sit, si verum est dicere, quoniam erit aliquid album, veritatem sequitur rei necessarius eventus. Quod si dicat quis quamlibet illam rem cras albam futuram, si hoc vere dixerit, cras ex necessitate alba futura est. Sic igitur, si quis verum dicit neutram esse veram propositionum earum quae in futuro dicuntur, necesse est id quod dicitur et significatur ab illis propositionibus nec esse necnon esse. Fal sa enim et affirmatione et negatione nec quod affirmatio dicit fieri potest nec quod negatio. Ergo ex necessitate neutrum fit, quod vel affirmatio dicit vel negatio. Ergo si dicat affirmatio cras bellum navale futurum, quoniam falsa affirmatio est, non erit cras bellum navale. Rursus si idem neget negatio dicens non erit cras bellum navale, quoniam haec quoque falsa est, erit cras bellum navale. Quare nec erit bellum navale, quia affirmatio falsa est, necnon erit bellum navale, quia negatio. Sed hanc ineptiam nec animus sibi ipse fingere potest. Quis enim umquam dixerit rem aliquam ex necessitate nec esse nec non esse? Quod ille scilicet dicit, qui dicit utrasque propositiones in futuro falsas exsistere. QUAE ERGO CONTINGUNT INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS ƿ DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI EX NECESSITATE. QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON ERIT. NIHIL ENIM PROHIBET IN MILLENSIMUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM ESSE, HUNC VERO NON DICERE. QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT DICERE TUNC. Omnia in futuro vel vera vel falsa esse definite in propositionibus arbitrantes impossibilitas ista consequitur: nihil enim neque ex libero voluntatis arbitrio neque ex aliqua possibilitate, neque ex casu quidquam fieri potest, si omnia necessitati subiecta sunt. Quamquam quidam non dubitaverint dicere omnia ex necessitate et quibusdam artibus conati sunt id quod in nobis est cum rerum necessitate coniungere. Dicunt enim quidam, quorum sunt Stoici, ut omnia quaecumque fiunt fati necessitate proveniant, et omnia quao fatalis agit ratio sine dubio necessitate contingere. Sed illa esse sola in nobis et ex voluntate nostra, quaecumque per voluntatem nostram et per nos ipsos vis fati complet ac perficit. Neque enim, inquiunt, voluntas nostra in nobis est sed idem volumus idemque nolumus, quidquid fati necessitas imperavit, ut voluntas quoque nostra ex fato pendere ƿ videatur. Ita, quoniam per voluntatem nostram, quaedam ex nobis fiunt et ea quae fiunt in nobis fiunt quoniamque voluntas ipsa ex necessitate fati est, etiam quae nos voluntate nostra facimus, quod necessitas imperavit ea, ipsa impulsi facimus necessitate. Quare hoc modo significationem liberi arbitrii permutantes necessitatem et id quod in nobis est coninugere impossibiliter et copulare contendunt. Illud enim in nobis est liberum arbitrium, quod sit omni necessitate uacuum et ingenuum et suae potestatis, quorumdamque nos domini quodammodo sumus vel faciendi vel non faciendi. Quod si voluntatem quoque nostram fati nobis necessitas imperet, in nobis voluntas ipsa non erit sed in fato, nec erit liberum arbitrium sed potius seruiens necessitati. Unde fit ut, qui omnes actus eventnum necessitate constringunt, dicant per hoc poplitem quoque nos non flectere, nisi fatalis necessitas iusserit, caput quoque non scalpere, quare nec lauare, quare nec agere aliquid. His etiam adiciam vel aliquid feliciter vel aliquid infeliciter facere vel pati. Unde fit ut neque casum neque liberum arbitrium nec possibile in rebus ullum esse contendant, quamuis liberum destruere metuentes arbitrium aliam ei fingant significationem, per quam nihilominus libera hominis voluntas euertitur. Aristotelica vero auctoritas ita haec in rebus posita et constituta esse confirmat, ut non exponat nunc, quid sit casus quidue possibile quidue in nobis, nec ea esse in rebus ƿ probet atque demonstret sed in tantum apud illum haec in rebus esse manifestum est, ut opinionem, qua quis arbitratur enuntiationes in futuro omnes esse veras, per hoc impossibilem esse dicat, quod casum et possibilitatem liberumque euertat arbitrium. Haec enim ita constituta in rebus putat, ut non de his ulla opus sit demonstratione sed impossibilis ratio iudicetur, quaecumque vel possibile vel casum vel id quod in nobis est conatur euertere. Et casum quidem quemadmodum definita in propositionibus futuris veritas destruat supra monstravit. Nunc autem quemadmodum eadem ipsa veritas definita futurarum et contingentium propositionum tollat liberi arbitrii facultatem maxima vi argumentationis exsequitur dicens: huiusmodi cuncta contingere impossibilia, si quis unam enuntiationis partem definite veram vel falsam esse confingat. Sed nos secuti Porphyrium, cum huius disputationis expositionem coepimus, id quod prius dixit IN SINGULARIBUS ET FUTURIS ob hoc dixisse praediximus, quod facilior sit intellectus disputationis, si haec prius in singularibus perspicerentur. De quibus singularibus diligentissime praelocutus nunc de universalibus universaliter praedicatis et quae in his fiunt contradictiones loquitur. Ita enim dicit: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM. Alexander autem in singularibus et futuris dixisse eum arbitratur, tamquam si diceret in his futuris ƿ quae in generatione et corruptione sunt. Sunt enim quaedam futura quae in generatione et corruptione non sunt, ut quod de sole vel de luna vel de caeteris caelestibus pronuntiatur. Haec vero, quae sunt in rebus his quarum est et nasci et corrumpi natura, unam semper non necesse est veram esse, alteram falsam. Sed neutram ego improbo expositionem, utraeque enim veracissima ratione firmantur. Omnis autem sensus talis est, quo necessitatem solam in rebus imperare destruit Aristoteles: omne quod natura est non frustra est; consiliari autem homines naturaliter habent; quod si necessitas in rebus sola dominabitur, sine causa est consiliatio; sed consiliatio non frustra est, natura enim est: non igitur potest in rebus cuncta necessitas. Ordo autem se sit habet: QUAE ERGO, inquit, CONTINGUNT INCONVENIENTIA HAEC SUNT ET HUIUSMODI ALIA, scilicet quoniam qui est in rebus casus euertitur, alia vero quoniam possibilitas et liberi arbitrii voluntas amittitur. Et haec quomodo contingunt ipse secutus est dicens: SI OMNIS AFFIRMATIONIS ET NEGATIONIS VEL IN HIS QUAE IN UNIVERSALIBUS DICUNTUR UNIVERSALITER VEL IN HIS QUAE SUNT SINGULARIA NECESSE EST OPPOSITARUM HANC ESSE VERAM, ILLAM VERO FALSAM, NIHIL AUTEM UTRUMLIBET ESSE IN HIS QUAE FIUNT SED OMNIA ESSE VEL FIERI EX NECESSITATE. Tunc enim inconvenientia illa contingunt, si omnis affirmatio et negatio definite vera vel falsa est sive in his contradictionibus quae in universalibus angulariter fiunt sive in singularibus. Tunc enim nihil est utrumlibet sed ex necessitate omnia, quoniam veritatem et falsitatem propositionum rerum eventus ex necessitate consequitur. Quare ut ipse ait non oportebit neque consiliari neque negotiari, quoniam si hoc facimus, erit hoc, si vero hoc, non erit. Euertitur enim consiliatio, si frustra est, frustra autem eam esse dicit, quisquis in rebus solam ponit fati necessitatem. Cur enim quisque consilium habeat, si nihil ex eo quod consiliatur efficiet, cum administret cuncta necessitas? Quare non oportebit consiliari vel, si quis consiliatur, negotiari non debet. Negotiari autem est actu aliquid et negotio agere, non lucrum sed aliquam causam vel actum. Nihil enim ipse per actum suum consiliumque expediet, nisi fati necessitas inbet. Docuit autem quid esset consiliatio per hoc quod ait: QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI HOC, NON ERIT. Ita enim semper fit consiliatio, ut si sit Scipio, ita consiliabitur: si in Africam exercitum ducam, cladem Hannibalis ab Italia removebo: sin vero non ducam, non eripietur Italia. Hoc est enim dicere: si hoc facio, ut si in Africam exercitum ducam, erit hoc, id est eripietur Italia: sin vero hoc, id est si hic mansero, non erit hoc, non eripietur Italia. Et in aliis omnibus rebus eodem modo. Simul autem monstravit in consiliis non esse necessitatem. Si enim hoc, inquit, faciam, erit hoc, et si hoc, non erit. Quod si necessitas in rebus esset, sive hoc quis faceret sive non faceret, quod necesse esset eveniret. Quare quod consilii ratione fit non fit violentia necessitatis. Adiunxit ƿ autem ei quod est consiliari NEQUE NEGOTIARI et est ordo hoc modo: QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI, QUONIAM SI HOC FACIMUS, ERIT HOC, SI VERO HOC, NON ERIT (NIHIL ENIM PROHIBET IN MILLEN SI MUM ANNUM HUNC QUIDEM DICERE HOC FUTURUM ESSE, HUNC VERO NON DICERE. QUARE EX NECESSITATE ERIT QUODLIBET EORUM VERUM ERAT DICERE TUNC) NEQUE NEGOTIARI id est actum incipere atque negotium gerere. Prior enim est consiliatio, posterius negotium sed negotium post consiliationem posuit et cuncta quae ad consiliationis naturam addi oportebat post negotiationis interpositionem subdidit. Est autem hoc modo: si omnia, inquit, necessitas agit, non oportet consiliari, quoniam si hoc facimus proveniet nobis hoc, si vero hoc facimus, non proveniet. Nihil enim prohibet frustra unum dicere, alterum negare dicentem: si hoc facimus, erit hoc aut non erit. Quod enim eventurum est fiet, sive ille per consilium coniectet hoc posse fieri, si quid aliud fecerit, sive ille neget hoc posse fieri, si hoc quod dixit faciat. Ex necessitate enim futurum est quidquid unus ipsorum verum dixerit. Quod si consiliari omnino non oportet, nec negotiari oportebit id est nullum incipere negotium. Sive enim quis incipiat sive non incipiat, quod ex necessitate est sine ulla dubitatione proveniet. Quare nihil alter homo altero distabit homine. Eo enim meliores homines ƿ iudicamus, quod potiores sunt in consilio. Sed ubi consiliatio frustra est cuncta necessitate faciente, homines quoque inter se nihil differunt. Ipsa enim consiliatio nil differt utrum bona an mala sit, cum proventus necessitas in fati administratione consistat. Quare si boni consilii homines laude digni sunt, mali consilii vituperatione, non aliter hoc erit iuste, nisi malus actus malumque consilium et e contra bonum in nostra sit potestate et non in fato. Cum enim nulla ex necessitate constringitur eventus rei, tunc et liberum voluntatis arbitrium, ut non sit fatali seruiens necessitati. Ergo neque qui in hoc mundo simplices rerum ordines posuerunt recipiendi sunt et hi qui in permixta hac mundana mole non permixtas quoque actuum causas accipiunt repudiandi. Nam neque qui casu omnia evenire dicunt recte arbitrantur neque qui omnia necessitatis violentia fingunt sana opinione tenentur neque omnia ex libero arbitrio esse manifestum est sed horum omnium et causae mixtae et eventus. Sunt enim quaedam ex casu, sunt aliqua ex necessitate, quaedam etiam videmus libero teneri iudicio. Et actuum quidem nostrorum voluntas in nobis est. Nostra enim voluntas domina quodammodo est nostrorum actuum et totius vitae rationis sed non ƿ eodem modo eventus quoque in nostra est potestate. Pro alia namque re aliquid ex libero arbitrio facientibus ex isdem veniens causis casus interstrepit. Ut cum scrobem deponens quis, ut infodiat vitem, si thesaurum inveniat, scrobem quidem deponere ex libero venit arbitrio, invenire thesaurum solus attulit casus, eam tamen causam habens casus, quam voluntas attulit. Nisi enim foderet scrobem, thesaurus non esset inventus. Quidam autem eventus nostris voluntatibus suppetit, quosdam impedit quaedam violenta necessitas. Prandere enim vel legere et alia huiusmodi sicut ex nostra voluntate sunt, ita quoque eorum saepe ex nostra voluntate pendet eventus. Quod si nunc imperare Persis velit Romanus, arbitrium quidem voluntatis in ipso est sed hunc eventum durior necessitas retinet et ad perfectionem uetat adduci. Itaque omnium rerum et casus et voluntas et necessitas dominatur nec una harum res in omnibus ponenda est sed trium mixta potentia. Unde fit ut peccantium consideretur magis animus potius quam eventus et puniatur animus non perfectio, idcirco quod voluntas quidem nobis libera est sed aliquotiens perfectionis ordo retinetur. Quod si omnia vel casu vel necessitate fierent, nec laus digna bene facientibus nec ultio delinquentibus nec leges ullae essent iustae, quae aut bonis praemia aut malis restituerent poenas. Venio nunc ad illud, quod multis quaeritur modis, an divinatio maneat, si non omnia in rebus ex necessitate contingunt. Nam quod in vera praedictione est, ƿ idem est in scientia, et sicut cum quis verum praedicit quod vere praedicitur esse necesse est, ita quod quis futurum novit illud futurum esse necesse est. Sed divinatio non omnia ut ex necessitate futura pronuntiat atque idcirco frequenter ita divinatur, quod facillime in ueterum libris agnoscitur: hoc quidem eventurum est sed si hoc fit non eveniet, quasi intercidi possit et alio modo evenire. Quod si ita est, necessitate non evenit. Utrum autem, si omnia futura sciat deus, omnia esse necesse est, ita quaeramus. Si quis dicat dei scientiam de futuris eventuum subsequi necessitatem, is profecto conversurus est, si omnia necessitate non contingunt, omnia deum scire non posse. Nam si scientiam dei sequitur eventuum necessitas, si eueutuum necessitas non sit, divina scientia perimitur. Et quis tam impia ratione animo torqueatur, ut haec de deo dicere audeat? Sed fortasse quis dicat, quoniam evenire non potest, ut deus omnia futura non noverit, hinc evenire ut omnia ex necessitate sint, quoniam deo notitiam rerum futurarum tollere nefas est. Sed si quis hoc dicat, illi videndum est, quod deum dum omnia scire conatur efficere omnia nescire contendit. Binarium enim numerum esse imparem si quis se scire proponat, non ille noverit sed potius nescit. Ita quod non est potentiae nosse se id ƿ arbitrari nosse potius impotentiae est. Quisquis ergo dicit deum cuncta nosse et ob hoc cuncta ex necessitate esse futura, is dicit deum ex necessitate eventura credere, quaecumque ex necessitate non eveniunt. Nam si omnia ex necessitate eventura novit deus, in notione sua fallitur. Non enim omnia ex necessitate eveniunt sed aliqua contingenter. Ergo si quae contingenter eventura sunt ex necessitate eventura noverit, in propria providentia falsus est. Novit enim futura deus non ut ex necessitate evenientia sed ut contingenter, ita ut etiam aliud posse fieri non ignoret, quid tamen fiat ex ipsorum hominum et actuum ratione persciscat. Quare si quis omnia ex necessitate fieri dicat, deo quoque benivolentiam subripiat necesse est. Nihil enim illius benignitas parit, quandoquidem cuncta necessitas administrat, ut ipsum dei benefacere ex necessitate quodammodo sit et non ex ipsius voluntate. Nam si ex ipsius voluntate quaedam fiunt, ut ipse nulla necessitate ciaudatur, non omnia ex necessitate contingunt. Quis igitur tam impie sapiens deum quoque necessitate constringat? Quis omnia ex necessitate fieri dicat, ista quoque vis impossibilitatis eveniet? Quare ponendum in rebus est casu quaedam posse et voluntate effici et necessitate constringi et ratio, quae utrumuis horum subruit, impossibilis iudicanda est. Non igitur immerito Aristoteles ad impossibilem rationem perducit dicens et possibilitatem et casum et liberum arbitrium deperire, quod fieri nequit, si omnium futurarum ƿ enuntiationum una semper vera est definite, falsa semper altera definite. Harum enim veritatem et falsitatem necessitas consequitur, quae et casum de rebus et liberum subiudicat arbitrium. Unde nunc quoque idem repetens dicit: nihil impedire, utrum aliquis ante mille annos dicat aliquid futurum esse an alius neget. Non enim secundum dicere vel negare cuncta facienda sunt vel non facienda sed si necesse est dicentem vel negantem res quoque affirmatas vel negatas subsequi, [etiam si illi non dicant] quae illis dicentibus evenire necesse erat, etiam non dicentibus evenire necesse est. Dicit autem hoc modo: AT VERO NEC HOC DIFFERT, SI ALIQUI DIXERUNT CONTRADICTIONEM VEL NON DIXERUNT; MANIFESTUM EST ENIM, QUOD SIC SE HABENT RES, ET SI HIC QUIDEM AFFIRMAVERIT, ILLE VERO NEGAVERIT; NON ENIM PROPTER NEGARE VEL AFFIRMARE ERIT VEL NON ERIT NEC IN MILLENSIMUM ANNUM MAGIS QUAM IN QUANTOLIBET TEMPORE. QUARE SI IN OMNI TEMPORE SIC SE HABEBAT, UT UNUM verE DICERETUR, NECESSE ESSET HOC FIERI ET UNUMQUODQUE EORUM QUAE FIUNT SIC SE HABERET, UT EX NECESSITATE FIERET. QUANDO ENIM VERE DICIT QUIS, QUONIAM ERIT, NON POTEST NON FIERI ET QUOD FACTUM EST VERUM ERAT DICERE SEMPER, QUONIAM ERIT. Eventus necessariarum rerum Aristoteles non ex praedicentium veritate sed ex ipsarum rerum natura considerans inquit: licet necesse sit, quisquis de re aliqua vera praedixerit, rem quam ante praenuntiaverit evenire, non tamen idcirco rerum necessitas ex praedictionis veritate pendet sed divinandi veritas ex rerum potius necessitate perpenditur. Non enim idcirco esse necesse est, quoniam verum aliquid praedictum est sed quoniam necessario erat futurum, idcirco de ea re potuit aliquid vere praedici. Quod si ita est, eveniendi rei vel non eveniendi non est causa is qui praedicit futuram esse vel negat. Non enim affirmationem et negationem esse necesse est sed idcirco ea esse necesse est quae futura sunt, quoniam in natura propria quandam habent necessitatem, in quam si quis incurrerit, verum est quod praedicit. Ergo si quaecumque nunc facta sunt verum de his fuisset dicere quoniam erunt, sive ille dixisset sive non dixisset, haec quae nunc facta sunt erant ex necessitate futura. Non enim propter dicentem vel negantem in rebus necessitas est sed propter rerum necessitatem veritas in praenuntiatione vel falsitas invenitur. Quare si etiam ea quae nunc facta sunt vere potuissent praedici quoniam erunt et his ita positis rem necesse esset evenire, sive illi praedicerent sive non praedicerent, necesse est omne quod fit ex necessitate es se futurum et nihil omnino utrumlibet ƿ in rebus est. Namque si nihil necessitatem rerum adivuat divinatio et nihil interest, utrum quis praedicat futurum esse aliquid an neget an nullus omnino aliquid nec in affirmatione nec in negatione praedicat, manifestum est quoniam nec de eo ulla distantia est, sive quis ante quamlibet multum tempus aliquid eventurum vere esse praedixerit sive ante quamlibet paucos dies vel horas vel momenta. Nihil enim interest: sive enim quis ante mille annos praediceret, quod ex necessitate esset futurum, sive ante annum vel mensem vel diem vel horam vel momentum, de necessitate rei eventurae nihil moveret. Quod enim nihil interesset utrum praediceretur an non praediceretur, nihil quoque interest an iuxta praedicatur an longius. Quod si haec ita sunt et omnia quaecumque evenerunt futura fuisse necesse est, totum liberum arbitrium perit, totus casus absumitur, rerum possibilitas praeter necessitatem omnis excluditur. Simul autem Aristoteles praenuntiationem eventumque coniungens rerum necessitatem ex ipsa propositionum veritate confirmat dicens: si haec ita sunt, ut in omni tempore sic se haberet unumquodque quod factum est, ut hoc ipsum vere praediceretur, NECESSE ESSET HOC FIERI, id est necesse esset quod praedictum vere est evenire. Unumquodque enim eorum quae fiunt et verepraedicuntur sic se habet, ut ex necessitate fiat. Hoc autem cur fiat haec ratio est: quod enim vere quis dicit, fieri necesse est. Illa enim veritas ex rerum ƿ necessitate procreatur. Quod si etiam id quod factum est veraciter praenuntiaretur futurum, nulla esset dubitatio omnia ex necessitate provenire. Quod si hoc, inquit, est impossibile (videmus enim quasdam res ex principio liberi arbitrii et ex nostrorum actuum fonte descendere), quid dubitamus frivolam rationem omnium necessitatis excludere nec dilectum humanae vitae interpositione necessitatis absumere? Quae enim erit ulla discretio inter homines, si liberi arbitrii iudicium perit? Cur postremum leges conditae, cur publice iura responsa sunt? Cur instituta moresque, publici et privati actus constitutionibus principum et iudiciorum nexibus continentur, si certum est nihil humanis licere propositis? Frustra enim cuncta sunt, si liberum arbitrium non est. Leges enim et caetera ad continendos animos hominum conditas scimus. Quod si se ipsi animi non regunt et eos aliqua quaedam violentia necessitatis impellit, dublum non est quin uacuae istae leges sint, quae nihil sponte facientibus proponuntur. Sed haec quam sint impossibilia ipse Aristoteles probat, cuius recta sententia neque casum neque necessitatem neque possibilitatem in utraque parte naturae neque liberum tollit arbitrium sed cuncta permiscens rebus pluribus mundum compositum non arbitratur simplici vel casu vel necessitate vel liberae voluntatis iudicio contineri. QUOD SI HAEC NON SUNT POSSIBILIA: VIDEMUS ENIM ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR ATQUE AGIMUS ALIQUID. Impossibilia, inquit, ista sunt ut omnia ex necessitate proveniant. Sumus enim quorundam nos ipsi quoque principia et animus noster ratione formatus actionesque nostrae ea ratione directae quarundam rerum principium tenent. Sic enim id quod in nobis est habere videmur: nullo extra impediente vel cogente ad quod nobis videtur ratione iudicante prosilimus. Nec omnia necessitatibus subripienda sunt. Omnium namque animalium genus in eo quod animalia sunt subiectum est aliud naturae, aliud caelestibus siderum cursibus, aliud rationi quoque mentis et animi cogitationi. Arbores namque et animalia irrationabilia illae quidem tantum naturae subiectae sunt, pecudes vero etiam caelestium decretis. Homines autem et naturae et sideribus et propriae voluntati subiecti sunt. Multa enim natura dominante vel facimus vel patimur, ut mortem vel huiusmodi habitudinem corporis. Multa secum rerum ipsarum necessitas trahit, ut ea quae cum facere velimus, non tamen facere valeamus. Multa autem dat liberum voluntatis arbitrium, quae nobis volentibus fiunt ut fierent si velimus. Unde fit ut natura quae motus ƿ est principium et liberi arbitrii facultate animi ratione participet. Anima vero velut inligata corporibus, quibus natura dominatur, imaginationibus et cupiditatibus et iracundiae ardoribus caeterisque, quae afferunt corpora, ex ipsa cui inligata est natura participat. Cuncti autem divinae providentiae subiecti ex illa quoque divinorum voluntate pendemus. Itaque nec caelestium necessitas tota subruitur nec casum disputatio haec de rebus eliminat et liberum firmat arbitrium. Sed haec maiora sunt quam ut nunc digne pertractari queant. Sumus igitur nos quoque rerum principia et ex nostris consiliis atque actibus in rebus plura consistunt. Quod si ea quae per hanc rationem auferuntur perspicua sunt, quod vero ponitur id est affirmationem et negationem omnem in futuro veram esse non aeque perspicuum est, cur dubitamus mendacem subterfugere rationis viam et tenere ea quae cum vera sunt tum manifesta sunt repudiatis his, quae nec veritate ulla firma sunt nec perspicuitate clarescunt? ET QUONIAM SUPRA IAM DIXERAT: QUARE NON OPORTEBIT NEQUE CONSILIARI NEQUE NEGOTIARI, nunc hoc reddidit ad id quod ait CONSILIARI DICENS ESSE PRINCIPIUM FUTURORUM ET AB EO QUOD CONSILIAMUR; ad id quod ait NEQUE NEGOTIARI reddidit id quod subiecit ATQUE AGIMUS. Quare tanta brevitate oratio constricta est, ut in ea teneatur rationis ordinisque necessitas. ET QUONIAM EST OMNINO IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT ESSE POSSIBILE ET NON, IN ƿ QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ET ESSE ET NON ESSE, QUARE ET FIERI ET NON FIERI. ET MULTA NOBIS MANIFESTA SUNT SIC SE HABENTIA, UT QUONIAM HANC UESTEM POSSIBILE EST INCIDI ET NON INCIDETUR SED PRIUS EXTERETUR. SIMILITER AUTEM ET NON INCIDI POSSIBILE EST. NON ENIM ESSET EAM PRIUS EXTERI, NISI ESSET POSSIBILE NON INCIDI. QUARE ET IN ALIIS FACTURIS, QUAECUMQUE SECUNDUM POTENTIAM DICUNTUR HUIUSMODI: MANIFESTUM EST, QUONIAM NON OMNIA EX NECESSITATE VEL SUNT VEL FIUNT SED ALIA QUIDEM UTRUMLIBET ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL NEGATIO, ALIA VERO MAGIS QUIDEM IN PLURIBUS ALTERUM SED CONTINGIT FIERI ET ALTERUM, ALTERUM VERO MINIME. Continuus quidem sensus est ex superioribus hoc modo: supra enim ait quod si haec non sunt possibilia id est ut omnia necessitas administret: videmus enim a nobis quoddam esse principium futurorum et a nostris actibus atque consiliis: his illud addidit: quoniamque sunt aliqua quae possibilia quidem sunt esse cum non sint et non esse cum sint. Haec etiam simul auferuntur, si necessitas in omnibus dominetur. Et sensus quidem cum superioribus ita coniunctus est, quid autem habeat argumentationis tota sententia, hoc modo perspiciendum est: possibile esse dicitur quod in utramque partem facile naturae suae ratione vertatur, ut et cum non sit possibile sit esse nec cum sit ut non sit res ulla prohibeat. Ita ergo et quod possibile dicimus a necessitate seiungimus. Aliter enim dicitur possibile me esse ambulare cum sedeam, aliter solem nunc esse in sagittario et post paucos dies in aquarium transgredi. Ita enim possibile est ut etiam necesse sit. Possibile autem dicere solemus, quod et cum non sit esse possit et cum sit non esse iterum possit. Si quis ergo omnia necessitati subiecerit, ille naturam possibilitatis intercipit. Tres sunt ergo sententiae de possibilitate. Philo enim dicit possibile esse, quod natura propria enuntiationis suscipiat veritatem, ut cum dico me hodie esse Theocriti Bucolica relecturum. Hoc si nil extra prohibeat, quantum in se est, potest veraciter praedicari. Eodem autem modo idem ipse Philo necessarium esse definit, quod cum verum sit, quantum in se est, numquam possit susceptivum esse mendacii. Non necessarium autem idem ipse determinat, quod quantum in se est possit suscipere falsitatem. Impossibile vero, quod secundum propriam naturam numquam possit suscipere veritatem. Idem tamen ipse contingens et possibile unum esse confirmat. Diodorus possibile esse determinat, quod aut est aut erit; impossibile, quod cum falsum sit non erit verum; necessarium, quod cum verum sit non erit falsum; non necessarium, quod aut iam est aut erit falsum. Stoici vero possibile quidem posuerunt, quod susceptibile esset verae praedicationis nihil his prohibentibus, quae cum extra sint cum ipso tamen fieri contingunt. Impossibile autem, quod nullam umquam suscipiat veritatem aliis extra eventum ipsius prohibentibus. Necessarium autem, quod cum verum sit falsam praedicationem nulla ratione suscipiat. Sed si omnia ex necessitate fiunt, in Diodori sententiam non rectam sine ulla dubitatione veniendum est. Ille enim arbitratus est, si quis in mari moreretur, eum in terra mortem non potuisse suscipere. Quod neque Philo neque Stoici dicunt. Sed quamquam ista non dicant, tamen si unam partem contradictionis eventu metiuntur idem Diodoro sentire coguntur. Nam si, quisquis in mari mortuus est, illum necesse fuit in mari necari, impossibile eum fuit mortem in terra suscipere. Quod est perfalsum. Atque haec omnia impossibilia subire coguntur, quicumque cum definite alteram contradictionis partem in futuro veram esse contendunt, solam necessitatem in rebus esse dicunt. Neque enim, si quis naufragio periit in pelago, idcirco si numquam navigasset immortalis in terra futurus fuisset. At ergo non ex eventu rerum sed ex natura eventus ipsos suscipientium propositionum contradictiones indicandae sunt. Si enim mihi omnia nunc suppeditent ut Athenas eam, etiamsi non uadam, posse me tamen ire manifestum est; et cum vero potuisse non ire, id quoque apud eos qui eventus ex rerum natura recta ratione diiudicant indubitatum est. ƿ Non ergo id est possibile ut sit necessarium sed quamquam quod necessarium est possibile sit; est tamen alia quaedam extrinsecus possibilitatis natura, quae et ab impossibili et a necessitate seiuncta sit. Aristoteles enim hanc habet opinionem de his quae semper esse necesse est. Ea enim putat nullam habere ad contraria cognationem: ut nix quoniam semper est frigida numquam calori coniuncta est. Ignis quoque numquam frigori cognatus est, idcirco quod semper in frigoris contrarietate versatur id est in calore. Omnia ergo quaecumque sunt necessaria nullam ad contraria earum qualitatum, quas ipsa retinent, habent cognationem. Quod si quam cognationem haberet ignis ad frigus, frustra esset illa cognatio numquam igne in frigus qualitatem vertente. Sed novimus nihil proprium natum frustra naturam solere perficere. Ergo illa sint posita necessaria quaecumque ad contraria nullam habent cognationem. Quaecumque autem habent illa sunt non necessaria sed quoniam ad utramque partem contrarietatis naturali quadam cognatione videntur esse coniuncta, idcirco in utraque parte eorum eventus possibilis est: ut lignum hoc potest quidem secari sed nihilo tamen minus habet ad contraria cognationem, potest enim non secari, et aqua potest quidem calescere sed nihil eam prohibet frigori quoque esse coniunctam. Et universaliter dicere ƿ est: quaecumque neque semper sunt neque semper non sunt sed aliquotiens sunt, aliquotiens non sunt, ea per hoc ipsum quod sunt et non sunt habent aliquam ad contraria cognationem. Haec autem impossibilium et necessariorum media sunt. Impossibile enim numquam esse potest, necessarium numquam non esse: inter haec propria quorundam natura est, quae horum utrorumque sit media, quae et esse scilicet possit et non esse. Ergo hoc nunc dicit: videmus, inquit, IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT (illa autem non semper actu sunt, quae ad utraque contraria habent cognationem: ignis semper actu calidus est, aqua vero non semper) quocirca videmus IN HIS QUAE NON SEMPER ACTU SUNT esse quaedam possibilia et non, id est ut et sint et non sint. Quod in his evenit IN QUIBUS UTRUMQUE CONTINGIT ID EST ET ESSE ET NON ESSE, ut aquam et esse calidam et non esse calidam, fieri quoque calidam et non fieri. Multaque nobis perspicua sunt ita sese habentia, ut in utraque parte eventus sine ullo alicuius rei impedimento vertatur, ut uestem quam possibile est quidem secari sed fortasse ita contingit, ut non ante ferro dividatur, quam eam exterat uetustas. Et hoc fieri potest, ut quaelibet uestis non ferro potius minutatim eat quam usu ipso exteratur. Similiter autem non solum eam secari possibile est. Non enim esset eam prius exteri quam secari, nisi prius possibile esset non secari. Cum enim ƿ exteritur, non secatur. Hoc autem in quibus eveniat universaliter monstrat. Evenit hoc enim, inquit, in facturis. Facturae autem sunt, in quibuscumque generatio est atque corruptio. Sive enim quid natura fiat sive arte, in his a faciendo facturam dixit. In his ergo facturis alia quidem potestate sunt, alia actu: ut aqua calida quidem est possibilitate, potest enim fieri calida, frigida vero actu est, est enim frigida. Hoc autem actu et potestate ex materia venit. Nam cum sit materia contrarietatis susceptrix et ipsa in se utriusque contrarietatis habeat cognationem, si ipsa per se cogitetur, nihil eorum habet quae in se suscipit et ipsa quidem nihil actu est, omnia tamen potestate. Suscipiens autem contraria quamquam unam habeat contrarietatem, habet tamen et alteram simul sed non actu, ut in eadem aqua. Huius enim materia et caloris susceptrix est et frigoris sed cum utrumlibet horum susceperit vel calorem vel frigus, est quidem si ita contigit, calida, est etiam simul frigida sed non eodem modo. Nam fortasse actu calida est, frigida potestate. Ergo quod potestate est in rebus ex materia venit. Alioquin divinis corporibus nihil omnino est potestate sed omne actu: ut soli numquam est lumen potestate, cui quidem nulla obscuritas, vel toto caelo nulla quies. Ita sese ergo habent ex materia ut omnia ipsa essent potestate, nihil autem actu, arbitratu ƿ naturae, quae in ipsa materia singulos pro ratione distribuit motus et singulas qualitatum proprietates singulis materiae partibus ponit, ut alias quidem natura ipsa necessarias ordinarit, ita ut quam diu res illa esset eius in ipsa proprietas permaneret, ut igni calorem. Nam quamdiu ignis est, tamdiu ignem calidum esse necesse est. Aliis vero tales qualitates apposuit, quibus carere possint. Et illa quidem necessaria qualitas informat uniuscuiusque substantiam. Illa enim eius qualitas cum ipsa materia ex natura coniuncta est. Istae vero aliae qualitates extra sunt, quae et admitti possunt et non admitti. Atque hinc est generatio et corruptio. Ex natura igitur et ex materia ista in rebus possibilitas venit. Qua in re casus quoque aliquando subrepit, quae est indeterminata causa et sine ulla ratione cadens. Neque enim natura est quae frustra nil efficit nec arbitrium liberum quod in iudicio et ratione consistit sed extra est casus, qui propter aliam rem quibusdam factis ipse subitus et improvisus exoritur. Ex hac autem possibilitate etiam illa liberi arbitrii ratio venit. Si enim non esset fieri aliquid possibile sed omnia aut ex necessitate essent aut ex necessitate non essent, liberum arbitrium non maneret. Recte igitur nec omnia casu ut Epicurus nec necessitate omnia ut ƿ Stoicus nec rursus omnia libero arbitrio fieri proposuit sed cuncta permiscens in permixto mundo permixtas quoque rerum causae esse proposuit, ut aliae quidem ex necessitate, aliae vero casu vel libero arbitrio vel postremo possibilitate contingerent. Quorum omnium unum nomen est utrumlibet, vel in casu vel in voluntate vel in possibilitate. Sed horum divisionem facit. Nam eorum quae sunt utrumlibet alia sunt quae aequaliter se ad affirmationem et negatio. Nem habent, ut est lecturum me esse hodie Vergilium et non lecturum: utroque enim modo utrumque est. Hoc est enim quod ait ET NON MAGIS VEL AFFIRMATIO VEL NEGATIO. Aequaliter enim et possum legere Vergilium nunc et possum non legere. Alia vero sunt quae non se aequaliter habeant sed quamquam in una re frequentius eveniat, non tamen prohibitum est in altera provenire, ut in eo quod est hominem in senecta canescere. In pluribus quidem hoc contingit sed CONTINGIT FIERI ET ALTERUM, id est ut non canescat, alterum vero minime, id est ut canescat. Ita igitur et ex possibilitate et ex casu et ex libero arbitrio contradictionem in una parte de futuro definite non esse veram vel falsam firmissima et validissima argumentatione constituit. His autem adicit hoc: IGITUR ESSE QUOD EST, QUANDO EST, ET NON ESSE QUOD NON EST, QUANDO NON EST, NECESSE EST; SED NON QUOD EST OMNE NECESSE EST ESSE NEC QUOD NON EST NECESSE EST NON ESSE. NON ENIM IDEM EST OMNE QUOD EST ESSE NECESSARIO, QUANDO EST, ET SIMPLICITER ESSE EX NECESSITATE. Duplex modus necessitatis ostenditur: unus qui cum alicuius accidentis necessitate proponitur, alter qui simplici praedicatione profertur. Et simplici quidem praedicatione profertur, cum dicimus solem moveri necesse est. Non enim solum quia nunc movetur sed quia numquam non movebitur, idcirco in solis motu necessitas venit. Altera vero quae cum conditione dicitur talis est: ut cum dicimus Socratem sedere necesse est cum sedet, et non sedere necesse est cum non sedet. Nam cum idem eodem tempore sedere et non sedere non possit, quicumque sedet non potest non sedere, tunc cum sedet: igitur sedere necesse est. Ergo quando quis sedet tunc cum sedet eum sedere necesse est. Fieri enim non potest ut cum sedet non sedeat. Rursus quando quis non sedet, tunc cum non sedet, eum non sedere necesse est. Non enim potest idem non sedere et sedere. Et potest ista esse cum conditione necessitas, ut cum sedet aliquis, tunc cum sedet, ex necessitate sedeat, et cum non sedet, tunc cum non sedet, ex necessitate non sedeat. Sed ista cum conditione quae proponitur necessitas non illam simplicem secum trahit (non enim quicumque sedet simpliciter eum sedere necesse est sed cum adiectione ea quae est tunc cum sedet), sicut solem dicimus non necesse esse tunc moveri, cum movetur, nec hoc addimus, ut solem moveri necesse sit cum movetur sed tantum simpliciter dicimus solem moveri necesse est. Et haec necessitas simplex de sole dicta veritatem in oratione perficiet. At vero illa quae cum conditione dicitur, ut cum dicimus Socratem sedere necesse est, tunc cum sedet, id ƿ quod proponimus tunc cum sedet et hanc conditionem temporis si a propositione dividamus, de tota propositione veritas perit. Non enim possumus dicere quoniam Socrates ex necessitate sedet. Potest enim et non sedere. Habet enim quandam convenientiam et cognationem potestas Socratis sicut ad sedendum sic etiam ad non sedendum. Ergo id quod dicimus ex necessitate Socraten sedere, tunc cum sedet, ad accidens respicientes proponimus. Nam quoniam accidit Socrati sedere et eo tempore quo accidit ei non accidisse non potest (sic enim fiet ut eidem eadem res et accidat et non accidat uno eodemque tempore, quod impossibile est), idcirco accidens eius inspicientes dicimus necesse esse Socraten sedere sed non simpliciter sed tunc cum sedet. Et sicut Aethiopem dicere simpliciter esse candidum falsum est, verum tamen in aliquo esse candidum (in oculis enim illi vel in dentibus candor est), ita quoque falsum dicere Socraten ex necessitate sedere simpliciter, verum autem est hanc necessitatem in aliquo quodam tempore, non simpliciter praedicare, ut dicamus tunc cum sedet. Quemadmodum enim in sole dicimus, quoniam solem moveri necesse est, simpliciter, si ita dicamus Socraten sedere necesse est, falsum est. Sin vero marmoreum Socraten dicamus, quoniam Socraten marmoreum sedere necesse est, si fortasse sedens formatus sit, verum est et simpliciter de tali Socrate necessitas poterit praedicari. De ipso autem Socrate simpliciter ƿ talis necessitas non dicitur. Neque enim fieri potest, ut Socrates ex necessitate sedeat, nisi forte cum sedet. Tunc enim cum sedet, quoniam sedet et non potest non sedere, ex necessitate sedet. Alioquin non simpliciter ex necessitate sedet sed contingenter, potest enim surgere. Quod autem ex necessitate simpliciter est, illam permutare non potest necessitatem: ut quoniam simpliciter solem moveri necesse est, sol stare nulla ratione potest. Hoc igitur dicit Aristoteles: omne quod est, quando est, et omne quod non est, quando non est, esse cum conditione et non esse necesse est sed non sine conditione aut esse aut non esse simpliciter. Haec enim illis solis necessitatibus attributa sunt quaecumque nullius potentiae aut cognationis ad opposita sunt, ut sol ad quietem vel ignis ad frigus. Neque enim idem est, inquit Aristoteles, ex necessitate esse aliquid, quando est, in conditione vel non esse, quando non est, et simpliciter dicere omne ex necessitate esse vel non esse. Illud enim conditio verum fecit, in hoc simplicitatis natura effecit veritatem. SIMILITER AUTEM, inquit, ET IN EO QUOD NON EST. Etiam in eo quod non est idem est: non omne quod non est non esse necesse est sed tunc cum non est tunc non esse necesse est, et hoc in conditione rursus, non simpliciter. Duabus igitur his necessitatibus demonstratis, una conditionali, altera simplici, nunc ad contradictionem rursus de futuro contingentemque reuertitur. ET IN CONTRADICTIONE EADEM RATIO. ESSE QUIDEM VEL NON ESSE OMNE NECESSE EST ET FUTURUM ESSE VEL NON; NON TAMEN DIVIDENTEM DICERE ALTERUM NECESSARIO. DICO AUTEM NECESSE EST QUIDEM FUTURUM ESSE BELLUM NAVALE CRAS VEL NON ESSE FUTURUM SED NON FUTURUM ESSE CRAS BELLUM NAVALE NECESSE EST VEL NON FUTURUM ESSE, FUTURUM AUTEM ESSE VEL NON ESSE NECESSE EST. QUARE QUONIAM SIMILITER ORATIONES VERAE SUNT QUEMADMODUM ET RES, MANIFESTUM EST QUONIAM QUAECUMQUE SIC SE HABENT, UT UTRUMLIBET SINT ET CONTRARIA IPSORUM CONTINGANT NECESSE EST SIMILITER SE HABERE ET CONTRADICTIONEM. QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON SEMPER NON SUNT. Planissime quam sententiam haberet de contingentibus propositionibus et futuris exposuit dicens: in his totam quidem contradictionem dictam unam quamlibet partem habere veram alteram falsam sed non ut aliquis dividat atque respondeat hanc quidem ex necessitate veram esse, illam vero ex necessitate alteram falsam: ut in eo quod dicimus: Sol occidit  Sol hodie non occidit  facillime in his aliquis dividens dicit, quoniam solem hodie occidere ex necessitate verum est, non occidere ex necessitate falsum. Ita sese enim habet divinorum corporum ratio et natura, ut in his ƿ nulla cognatio sit ad opposita, atque ideo vel quod sunt ex necessitate sunt vel quod non sunt ex necessitate non sunt. Ea vero quae in generatione et corruptione sunt non ita sunt. Habent enim hoc ipso, quod et gignuntur et corrumpuntur, ad opposita cognationem atque ideo in his non est unam partem contradictionis assumere et eam necessario esse praedicare et rursus aliam necessario non esse proponere quamuis totius contradictionis una quaelibet pars vera sit, altera falsa sed incognite et indefinite, et non nobis, verum natura ipsa harum rerum quae proponuntur dubitabilis, ut in ea propositione quae est: Socrates hodie lecturus est Socrates hodie lecturus non est  Totius quidem contradictionis una vera est, una falsa (aut enim lecturus est aut non lecturus) et hoc confuse in tota oratione perspectum sed nullus potest dividere et respondere, quoniam vera est lecturum eum esse vel certe quoniam vera est non eum esse lecturum. Hoc autem non quod audientes de futuro nesciamus sed quod eadem res et esse possit et non esse. Alioquin si ex nostra inscientia hoc eveniret et non ex ipsarum rerum variabili et indefinito proventu, illa rursus impossibilitas contingeret, ut omnia necessitas administraret. Non enim propter scientiam nostram quod ex necessitate est eventurum est sed etiam si nos nesciamus, erit tamen alicuius rei eventus constitutus et indubitatus: illam rem futuram esse necesse est. Ergo quoniam hoc fieri non potest et ƿ sunt quaedam quae non ex necessitate proveniant sed contingenter, in his quamquam totius contradictionis in qualibet eius parte veritas inveniatur aut falsitas, non tamen ut aliquis dividat et dicat hanc quidem veram esse, illam vero falsam. Quod huiusmodi monstravit exemplo: cras enim bellum navale fieri aut non fieri necesse est, non tamen ex necessitate fiet cras aut ex necessitate cras non fiet, ut possit aliquis dividere et praedicare dicens cras fiet, ut hoc vere dicat et ita ex definito contingat, vel rursus cras non fiet, et hoc eodem modo proveniat: hoc fieri non potest sed tantum indefinite quaecumque una pars contradictionis vera est, altera falsa sed quae evenerit. Eventus autem ipsorum indiscretus est: et illud enim et illud poterit evenire. Hoc autem idcirco est quoniam non est ex antiquioribus quibusdam causis pendens rerum eventus, ut quaedam quodammodo necessitatis catena sit sed potius haec ex nostro arbitrio et libera voluntate sunt, in quibus est nulla necessitas. Quod si, inquit, itidem ORATIONES VERAE SUNT QUEMADMODUM ET RES: hoc sumpsit a Platone, qui dixit similiter se habere orationes rebus et cognatas quodammodo esse in ipsa significatione, si sint res impermutabiles et ratione stabili permanentes oratio quoque de his vera esset et necessaria, sin vero esset res quae varietate naturae numquam perpetuo permaneret in orationibus quoque fixa veritas non esset et nulla per huiusmodi orationes demonstratio proveniret. Hoc igitur sumens Aristoteles ut optime dictum sic ait: quoniam, inquit, orationes similiter sese habent quemadmodum res, manifestum est quoniam quaecumque res ita sunt, ut utrumlibet sint et contraria ipsorum contingere possint, necesse est ita contradictionem se habere, quae de illis natura instabilibus atque indefinitis rebus est, ut si res sint dubitabiles et indefinito variabilique proventu contradictio quoque quae de his rebus fit variabili indefinitoque proventu sit. Quae autem essent huiusmodi res, quarum eventus varius indefinitusque constaret, planissime demonstravit dicens: QUOD CONTINGIT IN HIS, QUAE NON SEMPER SUNT ET NON SEMPER NON SUNT. Ea enim sunt, in quibus contingit utrumlibet, quae neque semper sunt (possunt enim corrumpi) neque semper non sunt (possunt enim generari et fieri). Haec enim sunt quae habent ad opposita cognationem, sicut in ipsa propria substantia rerum ipsarum eventus docet. Nam esse et non esse oppositum est. Quod autem non fuit et generatur et fit ex eo quod non fuit est. Habuit igitur in hoc ad esse et non esse id est ad opposita cognationem. Sin vero idem ipsum quod est corrumpatur, ex eo quod fuit non erit. Habebit igitur rursus ad opposita cognationem. Quare et sicut harum quae sunt in generatione et corruptione rerum proventus indefinitus est, ita quoque et contradictionum partes, quamquam in tota contradictione una vera sit, altera falsa. Indefinitum ƿ enim et indiscretum est, quae una harum vera sit, quae altera falsa. HORUM ENIM NECESSE EST QUIDEM ALTERAM PARTEM CONTRADICTIONIS VERAM ESSE VEL FALSAM, NON TAMEN HOC AUT ILLUD SED UTRUMLIBET ET MAGIS QUIDEM VERAM ALTERAM, NON TAMEN IAM VERAM VEL FALSAM. QUARE MANIFESTUM EST, QUONIAM NON EST NECESSE OMNIS AFFIRMATIONIS VEL NEGATIONIS OPPOSITARUM HANC QUIDEM VERAM, ILLAM VERO FALSAM ESSE. Docuit supra nos in his quae utrumlibet sunt rebus contradictionis unam partem non esse definite veram, falsam vero alteram definite: nunc a frequentiori et a rariori argumentum trahit. Supra namque monstravit esse quasdam res quae frequentius quidem contingent, non tamen interclusum sit, ut et opposita aliquando contingent. Contingit enim ut rarius infrequentiusque contingat. Ergo si in his quaecumque in pluribus eveniunt non necesse est unam veram esse, alteram falsam (idcirco quod quicumque dixerit hominem in senecta canescere et hoc ex necessitate esse protulerit mentietur, potest enim et non canescere): si in his ergo non est definite una vera, altera falsa, in quibus una res frequentius evenit, rarius altera, multo minus in his in quibus oppositorum eventus aequalis est. Et verum est quidem dicere, quoniam hoc contingit frequentius, non tamen omnino quoniam ƿ contingit, idcirco quod, licet rarius, tamen contingit oppositum. Quod si neque in his quae in pluribus praedicantur una definite vera est, altera falsa et multo minus in his quorum aequaliter indiscretus eventus est, manifestum est in futuris et contingentibus propositionibus non esse unam veram, alteram falsam. Hoc enim in principio ut monstraret validissima argumentatione contendit. NEQUE ENIM QUEMADMODUM IN HIS QUAE SUNT, SIC SE HABET ETIAM IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE AUT NON ESSE SED QUEMADMODUM DICTUM EST. Ad divisionem temporum in principio factam totam reuocat quaestionem. Ait enim prius propositiones eas quae fierent aut in praesenti aut in praeterito aut in futuro praedicari. Et eas quidem quae de praeterito vel praesenti dicerentur definitam veritatem vel falsitatem habere, sive in sempiternis et divinis dicerentur rebus sive in nascentibus atque morientibus, in quibus utrumlibet contingeret, ut haberent ad opposita cognationem. In futuris vero, si de divinis quidem rebus aliquis et in mutabilibus loqueretur, eodem modo unam veram definite, alteram falsam esse definite. Non enim habere huiusmodi naturas ad opposita cognationem. In his autem quae in generatione et corruptione essent de futuro praedicatis vel affirmative vel negative non eundem esse modum veritatis definitae sed totius quidem contradictionis unam partem veram esse, alteram falsam, definite autem unam veram, definite alteram falsam minime. ƿ Nunc autem non utraque tempora posuit, praesens scilicet et praeteritum sed tantum praesens. Dixit enim: NEQUE ENIM QUEMADMODUM IN HIS QUAE SUNT, id est in his quae praesentia sunt. Quod vero ait IN HIS QUAE NON SUNT, POSSIBILIBUS TAMEN ESSE, de futuris loquitur, quae cum non sint tamen esse possunt. Non enim sic se habet in praesenti prasdicata propositio, quemadmodum in futuro, in his scilicet quae utrumlibet sunt et in generatione et in corruptione consistunt. In illis enim id est praeteritis et praesentibus definite una vera est, altera falsa: in his id est futuris et contingentibus veritas et falsitas propositionum nulla definitione constringitur. Sed quoniam de futuris propositionibus Aristotelicam sententiam quantum facultas fuit diligenter expressimus, prolixitatem voluminis terminemus.  Est quidem libri huius -- "De interpretatione" apud Latinos, apud Graecos vero *Peri hermeneias* inscribitur -- obscura orationis series obscurissimis adiecta sententiis atque ideo non hunc magnis expedissem ƿ voluminibus, nisi etiam nihil labori concedens quam pote planissime quod in prima editione altitudinis et subtilitatis omiseram secunda commentatione complorem. Sed danda est prolixitati venia et operis longitudo libri obscuritate pensanda est. Sunt tamen gradus apud nos satisfacientes lectorum et diligentiae et fastidio cupientium facillime magna cognoscere. Huius enim libri post has geminas commentationes quoddam breuarium facimus, ita ut in quibusdam et fere in omnibus Aristotelis ipsius verbis utamur, tantum quod ille brevitate dixit obscure nos aliquibas additis dilucidiorem seriem adiectione faciamus, ut quasi inter textus brevitatem commentationisque diffusionem medius ingrediatur stilus diffuse dicta colligens et angustissime scripta diffundens. Atque haec posterius. Nunc autem quoniam ab Aristotele supra monstratum est in futuro contingentium propositionum veritatem et falsitatem non stabili neque definita ratione esse divisam et quidquid supra latissima disputatio complexa est, nunc haec eius intentio est, ut categoricarum propositionum numerum tradat, quaecumque cum finito vel infinito nomine simpliciter fiunt. Primo enim volumine dictum est nomen esse ut 'homo', infinitum vero nomen ut 'non homo'. Praedicativae autem et categoricae propositiones sunt quae duobus tantum simplicibus terminis constant: hae ƿ sive cum finito nomine, ut est: Homo ambulat  sive cum nomine infinito, ut est: Non homo ambulat  Harum igitur propositionum categoricarum atque simplicium tradere numerum contendit, quaecumque fiunt adiectione nominis infiniti. Sed quoniam propositiones omnes aut secundum qualitatem differunt aut secundum quantitatem (secundum qualitatem, quod haec quidem affirmativa est, illa vero negativa, secundum quantitatem vero, quod haec quidem plura complectitur, illa vero pauca): secundum quam differentiam hae propositiones quae dicunt homo ambulat et rursus non homo ambulat a se differunt? Secundum qualitatem an secundum quantitatem? Nam quod dico: Homo ambulat  qualitatem quandam substantiae id est hominem ambulare designat et rem definitam atque substantiam unamque speciem ambulabilem esse pronuntiat, quod autem dico: Non homo ambulat  nominem quidem rem definitam tollo, innumerabilia vero significo. Quare illa quidem quae dicit: Homo ambulat  secundum qualitatem, quae vero: Non homo ambulat  videbitur secundum quantitatem potius discrepare. An certe illud magis est verius: [ut et] quod dico: Homo ambulat  'homo' simplex nomen quasi affirmationi est proximum, quod vero dico: Non homo ambulat  'non homo' infinitum nomen negationis videtur esse consimile? Sed affirmatio et negatio secundum qualitatem differunt, haec autem affirmationi sunt negationique similia: qualitate igitur potius quam ulla discrepant quantitate. An magis illud est verius, quod quemadmodum ƿ se habet propositio quae dicit Socrates ambulat ad eam quae dicit guidam homo ambulat, ita sese habet homo ambulat ad eam quae dicit non homo ambulat? Propositio namque quae est: Quidam homo ambulat  si plures ambulent, necesse est ut vera sit, si autem plures ambulent, ut: Socrates ambulet  non est necesse. Possunt enim plures ambulare et Socrates non ambulare sed cum plures ambulant, quidam homo ambulat. Hoc autem ideo evenit, quia quod dicimus: Quidam homo ambulat  particularitatem iungimus universalitati id est homini et, si qui sub illa universalitate sunt id est sub homine ambulante, eam quae dicit: Quidam homo ambulat  veram esse necesse est. At vero cum dicitur: Socrates ambulat  quoniam Socrates circa unius cuiusdam proprietatem est, nisi ipse Socrates ambulaverit, quamquam omnes homines ambulent, non est verum dicere Socrates ambulat. Sicut ergo: Quidam homo ambulat  indefinita Socrates ambulat  propria ac definita: sic etiam in eo quod est homo et non homo. Qui dicit: Homo ambulat  dicit quoniam quoddam animal ambulat et hoc nomine et qualitate determinat dicens "Homo ambulat". Qui vero dicit: Non homo ambulat  non quidem omnia subruit sed hominem tantum, caetera vero animalia ambulabilia esse pronuntiat. Ergo sive equus sive bos sive leo ambulat, verum est "Non homo ambulat" sed non est verum "Homo ambulat", si non ipse homo ambulat. Quare ƿ quemadmodum se habet "Quidam homo ambulat" ad "Socrates ambulat", quod illic, si plures homines ambularent, verum erat "Quidam homo ambulat", non etiam "Socrates ambulat", nisi ipse Socrates ambularet: ita quoque in eo quod est "Homo ambulat" et "Non homo ambulat" dici potest. Nam si plura quae sunt non homines ambulent, verum est dicere quoniam non homo ambulat, non autem verum est dicere quoniam homo ambulat, nisi ipse homo ambulet. Secundum definitionem potius et proprietstem videntur discrepare quam aliquam totam quantitatem vel partem vel rursus aliquam qualitatem. Nam, sicut posterius demonstrabitur, ea quae dicit non homo ambulat affirmatio potius quam negatio est. Atque haec hactenus praedixisse sufficiat. QUONIAM AUTEM EST DE ALIQUO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID, HOC AUTEM EST VEL NOMEN VEL INNOMINE, UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE (NOMEN AUTEM DICTUM EST ET INNOMINE PRIUS; NON HOMO ENIM NOMEN QUIDEM NON DICO SED INFINITUM NOMEN; UNUM ENIM QUODAMMODO SIGNIFICAT INFINITUM, QUEMADMODUM ET NON CURRIT NON VERBUM SED INFINITUM VERBUM), ERIT OMNIS AFFIRMATIO VEL EX NOMINE ET VERBO VEL EX INFINITO NOMINE ET VERBO. PRAETER VERBUM AUTEM NULLA AFFIRMATIO VEL NEGATIO. EST ENIM VEL ERIT VEL FUIT VEL FIT, VEL QUAECUMQUE ALIA ƿ HUIUSMODI, VERBA EX HIS SUNT QUAE SUNT POSITA; CONSIGNIFICANT ENIM TEMPUS. QUARE PRIMA AFFIRMATIO ET NEGATIO EST HOMO, NON EST HOMO, DEINDE EST NON HOMO, NON EST NON HOMO; RURSUS EST OMNIS HOMO, NON EST OMNIS HOMO, EST OMNIS NON HOMO, NON EST OMNIS NON HOMO. In secundo (ut arbitror) libro praediximus omnem enuntiationem simplicem id est praedicativam ex subiecto et praedicato consistere, quorum semper praedicatio aut verbum esset aut quod idem posset, tamquam si verbi dictio poneretur: ut cum dicimus: Homo ambulat  verbum ponitur; cum vero dicimus: Homo rationalis  subaudiatur hic verbum 'est', ut totus intellectus sit "Homo rationabilis est". Quocirca necesse est aut verbum semper esse praedicatum aut quod sit verbo consimile idemque in enuntiationibus possit. Quod vero subiectum esset, aut omnino nomen esse aut quod vice nominis fungeretur. Quocirca illud maxime colligendum est omne in categorica propositione subiectum nomen esse, omne vero praedicatum verbum. Sed quoniam, cum de nomine loqueretur, aliud quoddam nomen introduxit, quod simpliciter quidem et per se nomen non esset, infinitum tamen nomen vocaretur, id quod cum negativa particula profertur, omnis autem propositio ex nominis subiectione consistit, est autem categorica propositio, quae aliquid de aliquo praedicat vel negat, et de quo praedicat quidem nomen est quoniamque in nomine infinitum etiam ƿ nomen dicitur, necesse est semper categoricam propositionem aut nomen habere subiectum aut illud quod dicitur infinitum. Infinitum vero nomen est quod ipse nunc INNOMINE vocat. Omnis ergo propositio praedicativa in duas dividitur species: aut ex infinito nomine subiectum est aut ex simplici nomine. Ex infinito quidem, cum dico: Non homo ambulat  ex finito autem et simplici, ut: Homo ambulat  Huius autem quae ex finito et simplici est species sunt duae: quae aut universale nomen subicit, ut "Homo ambulat", aut singulare, ut "Socrates ambulat". Quare ita fit divisio: omnium enuntiationum simplicium, quae ex duobus terminis constant, aliae sunt ex infinito nomine subiecto, aliae vero ex finito et simplici. Earum quae simplex habent subiectum aliae sunt quae universale simplex subiciunt, aliae quae singulare. Supra vero perdocuit quod sint differentiae propositionum simplex nomen in subiecto ponentium: quod aliae sint universales, aliae particulares, aliae indefinitae. Et secundum quantitatem quidem hoc modo differunt, secundum qualitatem vero, quod aliae affirmativae sint, aliae negativae. Idem quoque in his propositionibus quae ex infinito nomine subiecto enuntiantur. Aliae namque harum indefinitae sunt, aliae definitae. Definitarum aliae sunt universales, aliae particulares. Hic quoque secundum quantitatem nec minus secundum qualitatem eaedem infinitorum quoque nominum propositionibus differentiae sunt. Dicimus enim alias esse affirmativas, alias negativas. Subiecta vero descriptio docet, quae sint affirmativae simplices, ƿ quae sint negativae, et rursus quae sint affirmativae ex infinito nomine et quae negativae easque omnes in propriis determinationibus adiunximus nec minus etiam indefinitas in utraque specie propositionum posuimus singulare habentibus subiectum simplicibus propositionibus reiectis. Sint enim indefinitae simplices hae: Homo ambulat  Homo non ambulatcontra has vero divisae secundum infinitum nomen hae: Non homo ambulat Non homo non ambulat  Universales ex simplici subiecto nomine sint hae: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat  contra has divisse ex infinito nomine universales: Omnis non homo ambulat Nullus non homo ambulat  Rursus particulares ex finito nomine subiecto sint: Quidam homo ambulat Quidam homo non ambulat  rursus contra has divisae ex infinito nomine subiecto hae: Quidam non homo ambulat Quidam non homo non ambulat  Hoc autem subiecta descriptione declaratur: Indefinitae ex simplici nomine subiecto: Homo ambulat Homo non ambulat Indefinitae ex infinito nomine subiecto: Non homo ambulat Non homo non ambulat Universales ex simplici nomine subiecto: Omnis homo ambulat Nullus homo ambulat Universales ex infinito nomine subiecto: Omnis non homo ambulat Nullus non homo ambulat Particulares ex simplici nomine subiecto: Quidam homo ambulat Quidam homo non ambulat ƿParticulares ex infinito nomine subiecto: Quidam non homo ambulat Quidam non homo non ambulat Haec ergo partiens et de propositionibus ex duobus terminis constitutis faciens propositionem colligit omnis ex subiecto nomine propositiones et eas tantum ad divisionem sumit, quae ex infinito nomine fiunt, faciens huiusmodi divisionem principalem, ut sit: propositionum aliae sunt ex finito nomine, aliae ex infinito. Oportuerat quidem volentem cuncta partiri ad differentias propositionum non solum infinita sumere nomina sed etiam verba. Sed quoniam noverat nomen quidem infinitum conservare propositionem quam invenisset, ut si in affirmativa diceretur affirmativam servaret enuntiationem, ut est: Non homo ambulat  si in negativa negativam, ut est: Non homo non ambulat  verba vero quae sunt infinita iuncta in propositione non affirmationem sed perficere negationem, idcirco de his reticuit, quod hae magis quae ex verbo infinito sunt ad unam qualitatem pertinent propositionis id est ad negativam. Semper enim fit ex infinito verbo negatio. Haec igitur colligens ait: QUONIAM AUTEM EST DE ALIQUO SUBIECTO AFFIRMATIO SIGNIFICANS ALIQUID id est praedicans, hoc est quoniam omnis propositio ex subiecto et praedicato. Quod autem subiectum EST VEL NOMEN VEL INNOMINATUM. ƿInnominatum autem est quod propositum subruit nomen, ut est 'non homo'. Nomen enim quod est 'homo' differt nominis infiniti privatione quod est 'non homo' atque ideo et innominatum vocavit. Qualis autem debeat esse propositio de qua tractat ostendit dicens: UNUM AUTEM OPORTET ESSE ET DE UNO HOC QUOD EST IN AFFIRMATIONE, id est ex duobus terminis propositionem oportere consistere. Commemorat quoque quid sit innominatum se supra dixisse, quoniam quod diceremus 'non homo' nomen quidem Aristoteles non diceret sed quod nomen simpliciter non vocaret hoc addito infinito nomen diceret infinitum, idcirco quoniam unum quidem significat sed infinitum. 'Non homo' enim quod significationem eius quod dicimus homo tollit unum est et unam per se significationem subripiens, multa sunt quae intellegentium sensibus relinquantur. Commemorat etiam quoniam 'non currit' verbum superius infinitum vocavit et non simpliciter verbum. QUONIAM ergo aliquid de aliquo affirmatio est, hoc autem quod subiectum est aut nomen esse oportet aut innominatum id est infinitum nomen, duplex propositionis species invenitur. Omnis enim affirmatio vel ex nomine est et verbo vel ex infinito nomine et verbo. Eodem quoque modo et negatio. Neque enim reperietur ulla umquam affirmatio, cui negatio inveniri non possit. Quod si duplex species affirmationum, duplex quoque species est negationum. Illud ƿ quoque commemorat quod supra iam dixit. Nam licet ex nomine et verbo et rursus ex eo, quod non est nomen sed infinitum, nomine et verbo sit affirmatio et negatio praedicativa id est categorica: ut autem praeter verbum sit ulla affirmatio aut negatio aut praeter id quod idem significet verbo vel in subauditione vel aliquo alio modo fieri non potest. Ponit quoque verba quae paene in omnibus propositionibus aut sub ipsa cadunt aut quae idem valeant. EST ENIM, inquit, VEL ERIT VEL FUIT, VEL QUAECUMQUE ALIA consignificant tempus, verba sunt, sicut ex his doceri possumus quae ante posita sunt atque concessa, cum definitio verborum daretur: verba esse quae consignificarent tempus. Quare si haec consignificant tempus, non est dubium quin verba sins. Sed praeter haec aut praeter idem valentia propositio nulla est. Recte igitur dictum est praeter verba praedicativam propositionem non posse constitui. Iuste tamen aliquis quaestionem videatur opponere, cur cum iam dixerit praeter verbum enuntiationes nulla ratione posse constitui nunc idem repetit, quasi nil de his antea praedixisset. Sed superfivum videri non debet. QUONIAM enim finitum nomen cum negativa particula nomen est infinitum, idcirco putaretur fortasse negatio esse quod diceremus non homo. Quod si haec negatio, homo affirmatio. Ne in hunc ergo quisquam laberetur errorem, hoc dixit et congrue repetivit, quoniam praeter verbum esse enuntiatio non potest, tamquam si diceret: ƿ nemo arbitretur infinitum nomen esse negationem nec nomen affirmationem, praeter enim verbum affirmatio et negatio nulla umquam potest ratione constitui. In hoc illud quoque noverat quod verbum infinitum et negationem significaret et infinitum verbum. Id enim quod dicimus 'non ambulat' et infinitum est verbum et negatio sed per se quidem si dicatur simplex sine aliquibus aliis adiectionibus infinitum verbum est; sin vero cum nomine aut cum infinito nomine proferatur, non iam verbum infinitum sed negatio accipitur: ut 'non' negativa particula cum 'ambulat' iuncta infinitum verbum efficiat non ambulat sed in propositione quae est "Homo non ambulat" hominem non ambulare designet. Atque ideo ait subiecta quidem in propositionibus posse esse vel nomina vel infinita nomina, praedicata vero praeter verba esse non posse. Nam sive in affirmationibus quis coniungat quid, verbum sine dubio praedicavit, sive in negationibus, non infinitum verbum sed tantum verbum, cui addita non particula totem qualitatem propositionis ex affirmativa in negativam commPomba. Quare recte nullam differentiam propositionum de infinitis verbis fecit. Infinita enim verba tunc sunt infinita, cum sola sunt. Si vero cum infinito nomine iungantur aut nomine, non infinita verba iam sunt sed finita, cum negatione tamen in tota propositione intelleguntur. Si ergo, quemadmodum Stoici volunt, ad nomina negationes ponerentur, ut esset "Non homo ambulat" negatio, ambiguum ƿ esse posset, cum dicimus 'non homo' an infinitum nomen esset, an vero finitum cum negatione coniunctum. Sed quoniam Aristoteli placet verbis negationes oportere coniungi, infinita magis verba ambigui intellectus sunt, an infinita videantur, an cum negatione finita. Atque ideo ita discernitur: sumptum cum nomine infinitum verbum negatio fit et negativa propositio, ut est "Homo non ambulat", per se vero dictum infinitum verbum est, ut 'non ambulat'. Atque ideo hic solam differentiam nominum et infinitorum nominum in propositionibus dedit, non etiam verborum infinitorum, idcirco quod de coniunctis loquebatur, id est de nominibus vel infinitis nominibus atque verbis. In qua coniunctione id quod per se infinitum verbum dicitur negatio est. Neque enim oportet sicut omnis propositio aut ex finito nomine aut ex infinito constat, ita quoque aut ex verbo constare aut ex infinito verbo. Infinitum enim verbum in propositionibus non est sed quotiens aliquid (ut dictum est) tale ponitur, finitum quidem verbum est sed illi iuncta negatio totam propositionem privat ac destruit. Et verbum quidem infinitum iunctum nominibus negationem ut faciat necesse est, nomen vero infinitum iunctum verbis non necesse est ut faciat negationem. Quod enim dicimus "Non homo ambulat" affirmatio est, non negatio. Ergo quoniam affirmationem oportet aliquid de aliquo significare, nomen autem infinitum est aliquid, quotiens dicimus: Non homo ambulat  ambulationem (id est ALIQUID) de 'non homine' (id est DE ALIQUO) praedicamus. Sed si dicamus 'non ambulat' non potius de aliquo praedicavimus aliquid sed ab aliquo. Qui enim dicit homo non ambulat, ambulationem ƿ ab homine tollit, non de homine praedicat. Quare negatio potius quam affirmatio est. Si enim affirmatio esset, id est si verbum esset infinitum, aliquid de aliquo praedicaret. Nunc autem aliquid ab aliquo tollit: non est igitur verbum infinitum sed potius negatio, quotiens in tota sumitur propositione. Numerum vero propositionum, quarum nos supra quoque descripsimus, ipse subiecit: indefinitas quidem prius, post vero contra iacentes. Quod si quis vel ad illa reuertitur vel hic intendit animum, in quo vel nostra vel Aristotelica dispositio discrepet diligenter agnoscit. Nos enim et contrarias proposuimus et subcontrarias, Aristoteles vero solum contradictorie sibimet contra iacentes oppositasque proposuit. Sed Aristoteles non solum in praesenti tempore easdem propositionum dicit esse differentias quas proposuit sed etiam in aliis quoque temporibus quae sunt extrinsecus. Extrinsecus autem tempora vocat quae praeter praesens sunt praeteritum scilicet et futurum. QUANDO AUTEM EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR OPPOSITIONES. DICO AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN VEL VERBUM IN AFFIRMATIONE. QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT, QUARUM DUAE QUID EM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME. DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT. INTELLEGIMUS ƿ VERO QUOD DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO. EST ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Fertur autem etiam alia inscriptio quae est hoc modo: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, QUARE ET NEGATIO. Et rursus paulo post: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST HOMINI ADIACET. HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Quod autem dicitur perobscurum est et exponitur a pluribus incurate, quorum cum iudicio competenti enumerabo sententias. Postquam de his propositionibus expedivit, quae duobus constiterint terminis et subiectum habuerint aut nomen aut (ut ipse ait) innominatum id est infinitum nomen, nunc ad eas transit, in quibus est tertium adiacens praedicatur, uno subiecto duobus praedicatis: ut in eo quod dicimus homo iustus est homo subiectum est et iustus et est utraque praedicantur. Ergo in hoc duo sunt praedicata, unum vero subiectum. Et fortasse aliqui inquirat cur ita dixerit: quando autem est tertium adiacens praedicatur. Non enim tertium praedicatur sed secundum. Duo enim sunt quae praedicantur, unum vero subiectum est. Sed non ita dictum est, quasi est in ƿ propositione quae dicit homo iustus est tertium praedicaretur sed quoniam adiacet tertium et praedicatur. Ergo quod dicitur tertium ad adiacere refertur. Etenim in ea propositione quae dicit homo iustus est est tertium adiacet, praedicatur autem iam non tertium sed secundum. Ergo tertium numeratum adiacet, secundum vero numeratum praedicatur. Hoc est igitur quod ait: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, non quoniam tertium praedicatur sed praedicatur tertium adiacens, id est tertio loco. Facit igitur nunc in his propositionibus considerationem, in quibus est tertium adiacens secundum praedicatur. Et sicut in his in quibus tantum praedicatur 'est', non etiam adiacens praedicabatur, ut homo est, de subiecto considerationem fecit, quot modis sumptum subiectum differentias faceret propositionum (aut enim nomen esse subiectum aut infinitum nomen), sic nunc de praedicato loquitur et de praedicati differentiis tractat. In his enim propositionibus, IN QUIBUS EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, sumptum praedicatum alias nomen, alias infinitum nomen facit differentias propositionum. Praedicatum autem dico in ea propositione quae ponit: Homo iustus est  'iustus'. Hoc enim praedicatum de homine est, 'est' autem non praedicatur sed tertium adiacens praedicatur -- id est secundo loco et adiacens iusto, tertium vero in tota propositione praedicatur, non quasi quaedam pars totius propositionis sed potius demonstratio qualitatis. Non enim ƿ hoc quod dicimus est constituit propositionem totam sed qualis sit id est quoniam est affirmativa demonstrat. Atque ideo non dixit TERTIUM PRAEDICATUR tantum sed TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR. Non enim positum tertium praedicatur solum sed adiacens tertium secundo loco et quodammodo accidenter praedicatur. Potest etiam sic intelligi: idcirco dixisse Aristotelem 'est' in his tertium adiacens praedicari, quoniam possit aliquotiens et per se praedicari, ut si quis dicat: Socrates philosophus est  ut propositio haec hoc sentiat: Socrates philosophus vivit  'Est' enim pro 'vivit' positum est. Si quis ergo sic dicat duo inveniuntur subiecta est vero solum praedicatur, non etiam adiacens. Quod enim dicimus 'Socrates philosophus' utraque subiecta sunt 'est' autem praedicatur solum. Si quis autem dicat sic "Socrates philosophus est" ut non iam Socratem philosophum esse atque vivere sed Socratem philosophari et philosophum esse enuntiatione significet, tunc invenitur unum subiectum, duo praedicata. Socrates enim subiectum est, philosophus autem et est praedicata quorum philosophus quidem principaliter praedicatur, est autem adiacens philosopho et ipsum praedicatur sed non simpliciter praedicatur sed adiacens. Sunt autem etiam aliae propositiones hoc modo: Socrates in lycio leget  Et sunt hae ex tribus terminis. Sed de hac interim propositionum natura nil tractat sed de his solis in quibus est tertium adiacens praedicatur, ut est: Homo iustus est  Sed de his duas quidem oppositiones. Quocirca recte duae oppositiones quatuor propositionum sunt. Hoc autem huiusmodi est: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quod principaliter praedicatur aut nomen erit aut infinitum nomen. Et hae aut affirmative praedicandae sunt aut negative. Quocirca simplicis nominis affirmatio et simplicis nominis negatio una est oppositio et duae propositiones. Finitum autem et infivitum hic non subiectum sed sumitur praedicatum, ut in eo quod est homo iustus est iustus praedicatur. Hoc autem nomen erit aut infinitum nomen. Fiunt ergo ex his duae affirmationes: homo iustus est, homo non iustus est. Atque hoc quidem in indefinitis. Posterius autem monstrabitur hoc etiam in his es se, quae determinationem habent universalitatis vel particularitatis. Nunc autem horum ordo subiectus numerum oppositionemque declaret. Oppositio una: Affirmatio simplex: Negatio simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Oppositio una: Affirmatio ex infinito Negatio ex infinito. Homo non iustus est Homo non iustus non est  Simplices in superposita descriptione propositiones vocavi, in quibus nomen praedicatur, ut: Homo iustus ƿ est Homo iustus non est  Ex infinitis autem, in quibus nomen infinitum principaliter praedicatur, ut est: Homo non iustus est Homo non iustus non est  Sive autem est primo dicatur sive postea idem est nec hoc turbet quod Aristoteles 'est' primum dixit, nos vero postremum sed idem est. Fiunt igitur oppositiones duae, quatuor propositiones sunt. Hae quatuor propositiones ex senario propositionum numero ad pauciora reductae sunt. Si enim simplices et ex duobus terminis fuissent, hoc modo essent: Homo est Homo non est Iustus est Iustus non est Non iustus est Non iustus non est  et essent hae sex propositiones. Posset quidem adici hoc quidem etiam, ut de infinito nomine subiecto fierent propositiones, ut est: Non homo est Non homo non est  Sed de his posterius dicit. Nunc autem sex illae simplices in quatuor raptae sunt, idcirco quoniam res simplices iunctae naturaliter redeunt pauciores. Coniunctio enim ipsa numerum minuit, ut si sint decem res et singulae singulis iungantur, ut binae fiant, quinarius numerus coniunctionis redit. Ita etiam hic modo sex erant propositiones (ut supra docui) quae [et] simpliciter dicerentur sed hae adstrictae sunt et coniunctione deminutae. Nam quod posuerunt istae quatuor: Homo est Homo non est Iustus est Iustus non est  hae coniunctione in duas redactae sunt. Iunctus enim homo cum iusto duas propositiones fecerunt: Homo iustus est Homo iustus non est  Rursus ƿ ad eundem ipsum hominem infinitum cum praedicatur, aliae duae propositiones ex infinito praedicato rationabiliter oriuntur: Homo non iustus est Homo non iustus non est  Quorum duae sunt oppositiones, quatuor vero propositiones. Ita igitur ex sex propositionibus, id est: Est homo Non est homo Est iustus Non est iustus Est non iustus Non est non iustus(quae cum sex sint propositiones, tres tamen habent oppositiones) homo iusto et homo non iusto subiectus quatuor solas propositiones fecit, duplicem vero oppositionem. Qui vero dixerunt numerosiores fieri propositiones ex his, in quibus 'est' adiacens praedicaretur, quam ex his, quae duobus terminis constarent, illos non intellexisse rerum naturam manifestum est, quae ita fert, ut semper ex pluribus simplicibus rariores redeant res paucioresque coniunctae. Ait igitur: in his IN QUIBUS EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR: ut hoc quod ait TERTIUM non ad praedicationem referatur potius quam ad ordinem, ipse distinxit dicens: DICO AUTEM UT EST IUSTUS HOMO; EST TERTIUM DICO ADIACERE NOMEN VEL VERBUM IN AFFIRMATIONE. Non inquit tertium praedicari sed tertium adiacere, ad ordinem scilicet, non ad praedicationem, ut tertium quidem adiaceret, adiacens autem praedicaretur id est non simpliciter praedicaretur. Neque enim superius terminus in propositione est. Atque ideo si quis resoluere propositionem velit in suos terminos, ille non resolvit in 'est' sed in id quod est homo et iustus. Et erunt duo termini: subiectus quidem homo, praedicatus vero ƿ iustus, 'est' autem quod adiacens praedicatur et tertium adiacens non in termino sed in qualitate potius propositionis (ut dictum est) iustius accipietur. NOMEN autem VEL VERBUM ait 'est' propter hanc causam. Tertium enim nomen adiacere est dixit, ut doceret prima duo esse hominem scilicet et iustum, idcirco autem ait NOMEN VEL VERBUM, quoniam verba quoque nomina sunt. Hoc autem prius dixit dicens: IPSA QUIDEM PER SE DICTA VERBA NOMINA SUNT. Postquam igitur dixit, quid vellet ostendere per id quod ait EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, quoniam ad ordinem non ad praedicationem, subter exposuit quot fierent propositiones dicens: QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT. Dixit autem communem istis quatuor accidentiam, quam paulo post diligenter exponam. Quod autem accidit hoc est: cum sint hae quatuor propopositiones, quas subter positurus est, duae ipsarum se AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM ITA HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME. Sed hanc his propositionibus accidentiam paulo post demonstrabo. Nunc autem illud respiciamus, quemadmodum ipse quatuor fieri propositiones dicat. Ait enim: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO. Fiet enim duplex propositio, si 'est' aut iusto adiaceat aut non iusto, hoc modo: Est homo iustus Est homo non iustus  Quare, inquit, si est affirmativo modo positum nunc quidem cum iusto, nunc autem cum non iusto geminas fecit propositiones scilicet affirmativas, idem quoque est cum negatione coniunctum id est non geminas ƿ quoque faciet negationes eas scilicet quae sunt: non est homo iustus, non est homo non iustus. Hoc est autem quod ait: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT IUSTO ADIACEBIT AUT NON IUSTO. Si enim adiacet iusto, facit hanc affirmationem: Est iustus homo  si adiacet non iusto, facit hanc affirmationem: Est non iustus homo  Quare etiam negatio, quae iuncta cum est non est facit. Haec igitur negatio copulata iusto et non iusto duas efficiet negationes contra eas quas supra diximus propositiones. Si enim addatur iusto, talem facit negationem: Non est iustus homo  si non iusto: Non est non iustus homo  Hoc autem cur evenit? Quoniam est et non est iusto et non iusto adiacet, est cum iusto et non iusto duas faciente propositiones; non est iterum cum iusto et non iusto alias duas. Ex quibus quatuor duae oppositiones sunt, ut ait supra: QUANDO EST TERTIUM ADIACENS PRAEDICATUR, DUPLICITER DICUNTUR OPPOSITIONES. Quare sensus sese totus hoc modo habet. Sed quoniam est alia quoque scriptio loci, sic dicat: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, QUARE ETIAM NEGATIO. QUATUOR ERGO ERUNT. INTELLEGIMUS VERO QUOD DICIMUS EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO, est hoc loco et non est homini adiacente. Turbabat expositores ƿ et dubitabant quid hoc esset, quod cum supra dixisset: DICO AUTEM QUONIAM EST AUT HOMINI ADIACEBIT AUT NON HOMINI, in eorum exemplo et dispositione 'est' non apposuit homini aut non homini sed iusto et non iusto dicens: INTELLEGIMUS VERO QUOD DICITUR EX HIS QUAE SUBSCRIPTA SUNT. EST IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST IUSTUS HOMO; EST NON IUSTUS HOMO, HUIUS NEGATIO NON EST NON IUSTUS HOMO, et postquam iusto et non iusto est et non est apposuit quod ante non dixit sed ad hominem et ad non hominem est adiacere proposuit, postea infert: EST ENIM HOC LOCO HOMINI ADIACET, qui posuerat iusto et non iusto est et non est adiacere. Unde Alexander quoque dicit scripturae esse culpam, non philosophi recte dicentis et emendandam esse scripturam. Sed non eum oportuit confundi, si pro homine et non homine iustum et non iustum intulit. Haec enim exempla potius sunt quam propositionum necessitas. Quod enim dixit est homini et non homini adiacere ita sumpsit, tamquam si homo praedicaretur, ut in eo quod est: Socrates homo est  vel rursus: Socrates non homo est  Ergo volens sumere quodcumque praedicatum, nunc quidem simplex, nunc autem infinitum, intulit iustum et non iustum indifferenter habens, an homo et non homo praedicaretur, an iustus et non iustus, modo in praedicato alias sumeretur nomen, alias infinitum nomen. Non ergo oportuit conturbari Alexandrum aliosque in hac inscriptione, in qua nos philosophus exercere voluerit, sicut Porphyrium et Herminum non turbabat, qui dicunt exempla haec esse finiti praedicati et infiniti, in quibus quodlibet praedicatum [sit] aeque accipi oportere. Velut si, cum dixisset homini et non homini adiacere est et non est, album et non album postea intulisset, sufficeret. Hoc enim illud praedicatum alias finitum, alias infinitum sumere quibuscumque nominibus. Et quod ait homini et non homini adiacere est et postea intulit iusto et non iusto et subiecit hominem, non ita putandum est, tamquam de subiectis id est homine et non homine loqui voluerit et postea per errorem intulerit in praedicato iusto et non iusto sed potius ipsum homini et non homini ita sumpsit, tamquam in aliquo praedicaretur, ut (sicut dictum est): Socrates homo est Socrates non homo est  Hic ergo homo et non homo praedicatur. Rursus si quis dicat: Homo iustus est Homo non iustus est  nihil differt. Eodem enim modo praedicatum in una propositione simplex sumptum est, in altera infinitum, velut si dicam: Nix alba est Nix non alba est  eodem modo. Non ergo culpanda scriptura est quae, cum prius proposuisset homini et non homini adiacere est, iustum et non iustum intulit. Nil enim interest, sive iustum aut non iustum praedicetur sive homo aut non homo, dummodo praedicationem alias infinitam, alias vero sumat finitam, tunc cum est tertium adiacens praedicatur. Exercere igitur intellegentiam nostram acumenque philosophus voluit rerum omnium sollertissimus, non falsa scripture confundere. Quando autem ea quae supra dixit colligens ait: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST HOMINI ADIACET, hoc sentit, quoniam in hac propositione quae dicit "Homo iustus est", quam supra proposuerit, iustus de homine praedicatur, 'est' autem adiacens iusto adiacebit; et in ea quae dicit "Homo iustus non est", quoniam iustus praedicatur de homine, 'non est' autem adiacet, 'non est' igitur homini quoque adiacebit. Hoc est enim quod ait: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST HOMINI ADIACET. Nam si iustus praedicatur de homine, est autem et non est adiacet iusto, homini quoque adiacebit, ut dictum est. Hanc quoque scripturam emendandam esse Alexander opinatur faciendumque esse hoc modo, sicut prius quoque exposuimus: EST ENIM HOC LOCO ET NON EST IUSTO ET NON IUSTO ADIACET. Sed ordo quidem totius sententiae diligenter expositus est, sive illa scriptio sit sive illa. Neutra enim mutanda est. Et una quidem plus habet exercitii, altera vero facilitatis sed ad unam intellegentiam utraque perveniunt. Restat igitur ut id quod ait: QUARE IDCIRCO QUATUOR ISTAE ERUNT, QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME diligentius exponamus. Locus enim magna brevitate constrictus est et nimia obscuritate ac subtilitate difficilis. Et hunc quidem in prima editione huius operis transcurrentes exposuimus atque in brevissimam ut in aliis quoque dedimus expositionem. Nunc autem quid in se sensus habeat veri, quid hac brevitate latitet, quantum facultas suppetit, nos ipsi patefaciemus, et quantum valet animum lector intendat. Cui si forte paulo obscuriora videantur, rerum impPomba difficultati; si vero planiora quam putaverit, suo gratiam debebit acumini. Sed prius quid de hoc loco Herminus arbitretur quam possibiliter expediam. Ait Herminus tribus modis propositiones cum infinito nomine posse proferri: aut enim infinitum subiectum habent, ut est Non homo iustus est  aut infinitum praedicatum, ut: Homo non iustus est  aut infinitum praedicatum et infinitum subiectum, ut: Non homo non iustus est  Harum igitur, inquit, quaecumque ad praedicatum terminum habent nomen infinitum, similes sunt his quae aliquam denuntiant privationem. Denuntiant autem privationem hae quae dicunt homo iniustus. Ergo istis huiusmodi quae proponunt: Homo iniustus est  illae, inquit, consentiunt quae sunt ex infinito praedicato, ut ea quae est: Homo non iustus est  Idem enim est, inquit, esse hominem iustum quod hominem non iustum. Illae vero quae habent aut subiectum infinitum, ut est: Non homo iustus est  aut utraque infinita, ut est: Non homo non iustus est  non consentiunt ad privatoriam propositionem, quae est: Homo iniustus est  Nulla similitudo est enim eius propositionis quae dicit: Non homo iustus est  et eius quae dicit: Homo inustus est  Nec vero eius quae proponit: Non homo non iustus est  et eius quae enuntiat: Homo iniustus est  Namque illae quae infinitum nomen habent in praedicatione hae privatoriis consentiunt, illae vero propositiones quae aut subiectum habent infinitum aut utraque infinita privatoriis longe diversae sunt. Sed haec Herminus. Longe a toto intellectu ƿ et ratione sententiae discrepans has interposuit, quae aut ex utrisque infinitis aut ex subiecto fierent infinito. Quid autem esset quod ait SECUNDUM CONSEQUENTIAM vel quae duae haberent se secundum consequentiam ut privationes, quae vero non, exponens nihil planum fecit et sensus nihilo magis ante expositionem Hermini quam post expositionem obscurus est. Nos autem Porphyrium sequentes eique doctissimo viro consentientes haec dicimus: quatuor esse propositiones, quarum duae quidem ex finitis nominibus sunt, duae vero ex infinitis nommibus praedicatis. Sunt autem ex finitis nominibus hoc modo: affirmatio est iustus homo, negatio non est iustus homo. Ex infinitis vero nominibus praedicatis affirmatio est quae dicit: Est non iustus homo  negatio quae proponit: Non est non iustus homo  Sed has ex infinitis nominibus praedicatis propositiones in reliquo sermone infinitas vocabimus, ut affirmatio infinita sit extra expositionem ea quae dicit: Est non iustus homo  negatio infinita ea quae dicit: Non est non iustus homo  ut quod dicturi eramus propositionem ex nomine infinito praedicato hanc infinitam nominemus, illas autem duas quae nullum nomen habent infinitum nec subiectum nec praedicatum simplices vocamus. Sunt ergo simplices propositiones hae: Est homo iustus Non est homo iustus  Privatorias autem propositiones voco quaecumque habent privationem. Privatoriae autem sunt hoc modo: Est iniustus homo  haec enim iustitia subiectum privabit, et rursus: Non est iniustus homo  haec rursus iniustitia subiectum privabit. Ergo cum sint duae propositiones simplices, una affirmativa, altera negativa, et sint duae privatoriae, eae quoque una affirmativa, una negativa, necnon etiam sint aliae infinitae, affirmativa rursus et negativa, dico quoniam, quemadmodum se privatoriae propositiones affirmatio scilicet et negatio ad affirmationes et negationes simplices habuerint, sic se habebunt etiam quae sunt infinitae ad easdem ipsas simplices scilicet secundum consequentiam. Quod autem dico tale est. Disponantur prius duae simplices id est affirmatio quae dicit: Est iustus homo  et rursus negatio quae dicit: Non est iustus homo  Sub his autem disponantur privatoriae: sub affirmatione quidem simplici privatoria negativa, sub negativa simplici affirmativa privatoria, ut sub ea quae dicit: Est homo iustus  ponatur ea quae dicit: Non est homo iniustus  et sub ea quae dicit: Non est homo iustus  ponatur ea quae proponit: Est homo iniustus  Rursus sub privatoriis disponantur infinitae: sub affirmatione affirmatio, sub negatione negatio. Sub affirmatione quidem privatoria quae dicit: Est iniustus homo  disponatur affirmativa infinita: Est non iustus homo  sub negativa vero privatoria quae dicit: Non est iniustus homo  ponatur negativa infinita quae dicit: Non est non iustus homo  Hoc autem subiecta descriptio docet: SIMPLICES Affirmatio: Negatio: Est iustus homo Non est iustus homo PRIVATORIAE Negatio: Affirmatio: Non est iniustus homo Est iniustus homo INFINITAE Negatio: Affirmatio: Non est non iustus homo Est non iustus homo  His ergo dispositis dico quoniam, quemadmodum se habent privatoriae, id est affirmatio et negatio quae dicunt: Est iniustus homo Non est iniustus homo  ad simplices quae proponunt: Est iustus homo Non est iustus homo  secundum consequentiam, sic se habebunt etiam infinitae propositiones affirmatio et negatio hae scilicet quae sunt: Est non iustus homo Non est non iustus homo  ad easdem simplices quae sunt: Est iustus homo Non est iustus homo  Videamus quae sit simplicium et privatoriarum consequentia, ut utrum se sic habeant infinitae ad simplices, quemadmodum se habent privatoriae ad easdem simplices, cognoscamus. Dispositae igitur sunt in primo quidem ordine simplices propositiones, affirmatio simplex quae dicit: Est iustus homo  et negatio simplex quae dicit: Non est iustus homo  Sub his id est sub affirmatione simplici duae negationes, una privatoria quae est: Non est iniustus homo  et altera infinita quae est: Non est non iustus homo  Sub negatione vero simplici quae dicit: Non est iustus homo  duae affirmationes, una privatoria quae dicit: Est iniustus homo  altera infinita quae dicit: Est non iustus homo  Illud quoque in descriptione videndum est, quod angulariter se affirmationes negationesque respiciunt. Nam affirmatio quae est simplex: Est iustus homo  angulariter se contra utrasque respicit affirmationes infinitam scilicet et privatoriam quae sunt: Est non iustus homo Est iniustus homo  Rursus negatio simplex quae est: Non est iustus homo  angulariter ƿ respicit duas negationes infinitam scilicet et privatoriam. Et in veritate simplicem affirmationem privatoria negatio sequitur. Nam si verum est dicere quoniam est iustus homo, verum est dicere quoniam non est iniustus homo. Nam qui iustus est non est iniustus. Et possumus istam continuam propositionem coniunctamque proponere: si iustus est homo, non est iniustus homo. Sequitur ergo affirmationem simplicem privatoria negatio, ut si vera fuerit affirmatio simplex vera quoque sit negatio privatoria et affirmationis simplicis veritatem negationis privatoriae veritas consequatur. At vero non e converso est. Neque enim affirmatio simplex negationem sequitur privatoriam. Nam si verum est dicere quoniam non est iniustus homo, non est omnino verum dicere quoniam est homo iustus. Potest enim vere de equo dici quoniam equus non est iniustus homo (neque enim omnino homo est et ideo nec iniustus homo est) sed non potest dici de equo quoniam equus est homo iustus. Ita ergo, quoniam verum non est de equo quoniam est iustus homo equus, veritatem negationis privatoriae non sequitur veritas simplicis affirmationis. Atque ideo nec continua propositio hinc et coniuncta proferri proponique potest. Non est enim vera propositio, si quis dicat: "si non est iniustus homo, est iustus homo". De equo enim (ut dictum est) verum est quia non est iniustus homo, non tamen verum est iustum esse hominem equum. Quare negationem privatoriam simplex affirmatio non sequitur. Monstratum est igitur quoniam ƿ affirmationem simplicem negatio privatoria sequeretur, negationem vero privatoriam simplex affirmatio non sequeretur. Rursus videamus et in opposita parte qualis sit consequentia. In diversa enim parte affirmationem quidem privatoriam sequitur negatio simplex, negationem vero simplicem affirmatio privatoria non sequitur. Nam si verum est dicere quoniam est iniustus homo, verum est dicere quoniam non est iustus homo. Qui enim iniustus est, iustus non est. Et affirmativae privatoriae eius scilicet quae dicit: Est iniustus homo  veritatem sequitur negativa simplex quae est: Non est iustus homo  Hoc autem non convertitur. Neque enim simplicem negativam sequitur privatoria affirmativa. Nam si verum est dicere quoniam non est iustus homo, non est omnino verum quoniam est iniustus homo. De equo enim verum est dicere quoniam equus non est iustus homo (nam qui omnino homo non est nec iustus homo est) sed non de eodem equo dici potest vere quoniam equus est iniustus homo. Nam qui homo non est nec iniustus esse potest. Quare veritatem negativae simplicis non sequitur veritas privativae affirmationis, veritatem autem affirmationis privatoriae sequitur ex necessitate veritas simplicis negativae. Quocirca monstratum est hoc in utrisque, quoniam affirmationem quidem simplicem sequeretur negatio privatoria, negationem vero privatoriam non sequitur affirmatio simplex; rursus affirmationem privatoriam sequitur negatio simplex, negationem simplicem non sequitur affirmatio privatoria. His ergo ita positis de infinitis privatoriisque tractemus. Privatoriae namque et infinitae affirmationes affirmationibus, negationes consentiant negationibus ƿ hoc modo. Affirmatio enim privatoria quae dicit: Est iniustus homo  consentit infinitae affirmationi quae dicit: Est non iustus homo  Idem enim significant utraeque et privatoria affirmatio et infinita affirmatio et quamquam in aliquo sermone prolatione discrepant, tamen significatione nil discrepant, nisi tantum quod quem illa iniustum ponit id est privatoria, haec ponit esse non iustum. Et rursus negatio privatoria quae est: Non est iniustus homo  consentit atque concordat ei negationi quae est infinita: Non est non iustus homo  Hae quoque idem, quod sibi istae consentiunt. Sequitur autem simplicem affirmationem eam quae dicit: Est iustus homo  privatoria negatio quae dicit: Non est iniustus homo  sequitur igitur eandem ipsam simplicem affirmationem infinita negatio, id est eam quae dicit: Est iustus homo  ea quae proponit: Non est non iustus homo  Nam si sibi privatoria negatio et infinita consentiunt, quam consequitur privatoria negatio, eandem quoque infinita negatio consequitur. Sed affirmationem simplicem quae proponit: Est iustus homo  privatoria negatio sequitur quae dicit: Non est iniustus homo  quare sequitur etiam eandem simplicem affirmationem quae enuntiat: Est iustus homo  infinita negatio: Non est non iustus homo  Rursus e diversa parte idem evenit: quoniam affirmationem privatoriam quae dicit: Est iniustus homo  sequebatur negativa simplex quae proponit: Non est iustus homo  sequitur quoque infinitam affirmationem quae dicit: Est ƿ non iustus homo  simplex negatio quae dicit: Non est iustus homo  Nam si privatoria affirmatio et infinita consentiunt, quae sequitur privatoriam, eadem sequitur infinitam. Sed privatoriam affirmationem quae dicit: Est iniustus homo  sequitur simplex negatio quae proponit: Non est iustus homo  sed privatoria affirmatio et infinita affirmatio idem significant sibique consentiunt: sequitur igitur simplex negatio quae est: Non est iustus homo  infinitam affirmationem quae dicit: Est non iustus homo  Sed hoc e converso non evenit.Nunc enim demonstratum est quod simplicem affirmationem sequeretur infinita negatio et simplex negatio veritatem infinitae affirmationis sequeretur sed non est e converso, ut rursus infinitam negationem sequatur finita affirmatio et simplicem negationem infinita rursus affirmatio consequatur. Nam si idem privatoria negatio quae est non est iniustus homo et infinita negatio significat quae est: Non est non iustus homo  quoniam affirmatio simplex quae dicit: Est iustus homo  non sequitur privatoriam negationem quae est: Non est iniustus homo  ut supra monstravimus, eadem ipsa simplex affirmatio quae proponit est iustus homo non seqmiur infinitam negationem quae enuntiat: Non est non iustus homo  Rursus in parte altera si affirmatio privatoria quae proponit: Est iniustus homo  idem significat cum infinita affirmatione quae dicit: Est ƿ non iustus homo  privatoria autem affirmatio quae proponit: Est iniustus homo  non sequebatur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus homo  nec eandem quoque simplicem negationem quae proponit: Non est iustus homo  sequitur infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo  Sed quamquam hoc ratio consequentiae et necessitas monstret, nos tamen id quod demonstravimus ratione exemplis quoque doceamus. Dico enim affirmationem simplicem quae dicit: Est iustus homo  sequi infinitam negationem quae dicit: Non est non iustus homo  sicut eandem quoque simplicem affirmationem sequebatur privatoria negatio quae proponit: Non est iniustus homo  Nam si verum est dicere quoniam est iustus homo, verum quoque de eo dicere quoniam non est non iustus homo (nam qui iustus est non est non iustus) sicut verum erat dicere, quoniam idem qui iustus est non est iniustus. Quare simplicem affirmationem sequitur infinita negatio, sicut eandem quoque simplicem privatoria negatio sequebatur. Sed hoc non convertitur. Neque enim statim verum est, qui non est non iustus homo eundem esse iustum. Equus enim non est non iustus homo (neque enim omnino homo est: qui autem omnino homo non est, non poterit esse homo non iustus) sed de equo, de quo verum est dicere quoniam non est non iustus homo, non est de eo verum dicere quoniam est iustus homo, sicut de eodem equo verum esset dicere privatoriam negationem ƿ quae proponit: Non est iniustus homo  (haec enim poterat etiam de equo dici) nec erat verum quoniam sequeretur hanc id est privatoriam negationem simplex affirmatio quae diceret: Est iustus homo  Quare non sequitur infinitam negationem quae est: Non est non iustus homo  simplex affirmatio quae proponit: Est iustus homo  sicut ne illam quidem quae consentit infinitae negationi id est privatoriam negationem quae proponit: Non est iniustus homo  ea quae dicit: Est iustus homo  simplex affirmatio sequebatur. Concludenti igitur dicendum est quoniam affirmationem quidem simplicem sequitur infinita negatio, Sicut eam privatoria sequebatur, infinitam vero negationem non sequitur simplex affirmatio, sicut nec negationem privatoriam sequebatur. Rursus in parte altera idem e converso evenit. Affirmationem enim infinitam sequitur negativa simplex, sicut privatoriam quoque affirmationem eadem simplex negatio sequebatur. Nam qui est von iustus homo ille ex necessitate non est iustus, sicut etiam qui est iniustus homo ille ex necessitate non est iustus. At vero si verum est dicere quoniam non est iustus homo, non est omnino necesse ilium esse non iustum hominem. Equus enim non est iustus homo (nam qui omnino homo non est nec iustus homo esse potest) sed nullus de eodem dicere potest quoniam equus est non iustus homo (qui enim homo non est nec non iustus homo esse potest), sicut etiam cum diceremus: Non est iustus homo  non sequebatur privatoria affirmatio quae dicit: Est iniustus homo  Equus namque non est iustus homo sed de eodem equo nemo dicit quoniam est iniustus homo. Iterum igitur concludenti dicendum est affirmationem infinitam sequi simplicem negationem, sicut affirmationem quoque privatotiam sequebatur sed non convertere. Neque enim sequitur simplicem negationem infinita affirmatio, sicut eam nec privatoria affirmatio sequebatur. Sic ergo cum sint quatuor propositiones, duae simplices, duae infinitae, quarum duae simplices sunt: Est iustus homo Non est iustus homo  duae vero infinitae: Est non iustus homo Non est non iustus homo  (et harum quatuor duae quidem id est negatio infinita et negatio simplex sequuntur duas id est negatio infinita simplicem affirmationem, ea quae dicit: Non est non iustus homo  eam quae dicit: Est iustus homo  infinitam autem affirmationem simplex negatio, eam quae dicit: Est non iustus homo  ea quae proponit: Non est iustus homo  duae vero aliae id est affirmatio simplex et affirmatio infinita non sequuntur negationem infinitam et simplicem negationem. Hoc autem etiam in privatoriis evenit, ut affirmatio privatoria non sequatur simplicem negationem, cum illam simplex negatio sequatur, et rursus negatio privatoria sequatur affirmationem simplicem, cum simplex affirmatio non sequatur privatoriam negationem): recte dictum est harum quatuor id est duarum simplicium propositionum et duarum infinitarum duas duabus esse consequentes et habere quandam consequentiam ad alias, sicut infinita negatio et simplex negatio sequuntur simplicem affirmationem et infinitam affirmationem, sicut privationes ƿ quoque. Nam et privatoria negatio sequebatur simplicem affirmationem et simplex negatio sequebatur privatoriam affirmationem. Ergo duae habent consequentiam id est infinita negatio et simplex negatio consequentiam ad simplicem et infinitam affirmationem, sicut privationes quoque (namque et privationes similiter sunt, ut saepe supra monstravi), duae vero minime habent consequentiam. Neque enim negativam infinitam simplex sequitur affirmativa aut infinita affirmativa simplicem negativam sequitur, sicut in privationibus quoque fuit. In privationibus namque nec affirmatio simplex privatoriam negationem sequebatur nec simplicem negationem privatoria affirmatio consecuta est. Sensus ergo huiusmodi est: QUATUOR ISTAE ERUNT, id est quatuor propositiones, ex quibus duplicem fieri oppositionem dixerat. Quatuor autem istae sunt duae simplices: affirmativa est iustus homo, negativa non est iustus homo, et duae infinitae: affirmativa est non iustus homo, negativa non est non iustus homo. Quarum, inquit, duae, scilicet negative infinita et negativa simplex, sic se habebunt ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, id est ita alias duas affirmationes simplicem et infinitam ipsae duae negationes sequnutur, ut eas privationes sequebantur; DUAE VERO MINIME id est simplex affirmatio et infimita affirmatio: non se habebunt secundum consequentiam ipsae duae affirmationes ad duas negationes, infinitam scilicet et simplicem, quas non sequebantur, sicut nec dudum has negationes privatoriae quoque affirmationes secutae sunt. Quod vero ait secundum affirmationem et negationem non ita ƿ intellegendum est, quasi una sit affirmatio aut una negatio sed quoniam in quatuor propositionibus, in quibus duae quidem affirmationes erunt, duae vero negationes (affirmationes: simplex quidem "Est iustus homo", infinita autem "Est non iustus homo", negationes autem: simplex quidem "Non est iustus homo", infinita autem "Non est non iustus homo"), quoniam affirmationes duas, simplicem quidem: Est iustus homo  infinitam: Est non instus homo  duae negationes sequebantur (simplex negatio quae est "Non est iustus homo" infinitam affirmationem quae dicit "Est non iustus homo", et rursus infinita negatio simplicem affirmationem sequebatur), quoniam ergo (ut dictum est) duas affirmationes simplicem et infinitam duae negationes simplex et infinita sequebantur, hoc autem et in privationibus erat, idcirco dictum est ad affirmationem et negationem secundum consequentiam sic se habere harum quatuor propositionum duas, sicut etiam se privationes haberent. Ad affirmationem autem et negationem dixit, quod duas affirmationes duae negationes sequerentur, duae vero minime, id est duas negationes duae affirmationes non sequerentur. Neque enim sequebatur negationem infinitam simplex affirmatio aut simplicem negationem infinita affirmatio, sicut nec in privationibus erat, quod saepe supra monstratum est. Ne quis autem nos arbitretur de eodem genere propositionem dicere negationis affirmationisque. Neque enim dicimus negationem simplicem sequi affirmationem simplicem. Hoc enim impossibile est. Numquam ƿ enim sibi consentiunt simplex affirmatio simplexque negatio, nec rursus infinita negatio et infinita affirmatio. Neque enim fieri potest, ut aut negatio quae dicit: Non est iustus homo  affirmationi quae proponit: Est iustus homo  consentiat aut affirmatio quae dicit: Est non iustus homo  negationi quae dicit: Non est non iustus homo eam enim quae dicit: Est iustus homo  simplicem affirmationem sequitur privatoria negatio quae dicit: Non est iniustus homo  sed negativam, inquiunt, infinitam quae est: Non est non iustus homo  haec non sequitur affirmativa simplex quae dicit: Est iustus homo  Ergo quemadmodum negativa privatoria quae est: Non est iniustus homo  sequitur affirmativam simplicem quae dicit: Est iustus homo  non eodem modo eadem simplex affirmatio quae dicit: Est iustus homo  sequitur infinitam negationem quae dicit: Non est non iustus homo  Quibus dicendum est non eos hanc consequentiam recte intellegere nec quicquam in hac huiusmodi propositionum consequentia discrepare. Cur enim hoc notaverint, quod non sequatur negationem infinitam quae est non est non iustus homo finita affirmatio quae dicit: Est iustus homo  Nam hoc nil mirabile debet videri. Idcirco enim simplex affirmatio quae dicit: Est iustus homo  non sequitur infinii tam negationem quae dicit: Non est non iustus homo  quoniam nec antea privatoriam sequebatur. Neque enim sequebatur eadem simplex affirmatio quae dicit: Est iustus homo  privatoriam negationem quae dicit: Non est iniustus homo  et ea causa est cur infinitam quoque ƿ non sequitur. Infinita enim et privatoria (ut supra saepe iam dictum est) sibi consentiunt. Quare nulla est discrepantia. Nam si simplex affirmatio privatoriam negationem sequeretur, eandem quoque infinitam sequeretur. Nunc autem quoniam simplex affirmatio privatoriam negativam non sequitur, nec infinitam quoque sequitur negativam. Illi autem qui sumpserunt quoniam sequeretur privatoria negatio simplicem affirmationem et in eadem consequentia discrepare dixerunt, quod simplex affirmatio non sequeretur infinitam negationem, non ita oportuit discrepantiam sumere sed magis si, quemadmodum privatoria negatio affirmationem simplicem, sic infinita negatio non sequeretur simplicem affirmationem, tunc in consequentia discreparet, nunc autem nulla est omnino discrepantia. Atque in hac quidem parte nihil omnino discrepant atque discordant. Videamus nunc in altera parte, quam illi esse discrepantiam dicunt infinitarum consequentiae et privatoriarum ad simplices, ut in ea quoque si quid vere discrepant videamus. Dicunt enim affirmationi quidem privatoriae quae dicit: Est iniustus homo  consentientem esse et concordantem simplicem negativam quae dicit: Non est iustus homo  et sicut negatio simplex sequitur privatoriam affirmationem, aiunt, quoniam non ita sequitur simplicem negationem quae dicit: Non est iustus homo  infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo  Haec enim illam non sequitur. Quibus dicendum est rursus, quoniam idcirco infinita affirmatio quae dicit: Est non iustus homo  non sequitur ƿ simplicem negationem quae proponit: Non est iustus homo  quoniam privatoria affirmatio quae dicit: Est iniustus homo  non sequitur simplicem negationem quae proponit: Non est iustus homo  Quod si privatoria affirmatio sequeretur simplicem negationem, sequeretur sine dubio infinita quoque affirmatio eandem simplicem negationem. Nunc autem quoniam privatoria affirmatio simplicem negationem non sequitur, nec infinita affirmatio simplicem sequitur negationem. Affirmatio enim privatoria et affirmatio infinita sibimet consentiunt. Illi vero qui discrepantiam ostendere voluerunt infinitarum et privatoriarum consequentiae ad simplicem, quod cum negatio simplex sequeretur affirmationem privatoriam non eodem modo infinita affirmatio sequeretur simplicem negationem, non ita oportuit colligi discrepantiam sed potius si, quemadmodum affirmativa privatoria quae dicit: Est iniustus homo Est non est iustus homo  ita infinita affirmatio quae enuntiat: Est non iustus homo  sequeretur simplicem negationem quae est: Non est iustus homo  tunc oportuerat dicere aliquid discrepare consequentiam privatoriarum et infinitarum ad simplices. Nunc autem cum eodem modo privatoria affirmatio non sequatur, simplicem negationem, eodem quoque modo infinita affirmatio non sequatur simplicem negationem, manifestum est nullam esse in his discrepantiam, immo in omnibus simillimum, et illos nihil per hanc rationem ƿ quam volunt addere recte disserere, immo potius maioribus obscuram sententiam obscuritatibus implicare. Sed potius ita intellegendum est, ut id quod ait: QUARUM DUAE QUIDEM AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SESE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIANU UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME ita accipiamus tamquam si ita dixisset: quatuor propositionum, duarum simplicmm, duarum vero infinitarum, duas id est affirmationes simplicem et infinitam sequuntur duae negationes, simplex et infinita scilicet, sicut privationes quoque (in privationibus enim affirmativam simplicem sequebatur negatio privatoria et simplex negatio privatoriam affirmationem), reliquae vero duae, id est simplex affirmatio et infinita affirmatio nullam habent consequentiam ad negationes, id est simplicem et infinitam, sicut nec privationes quoque (nam affirmatio privatoria non sequebatur negationem simplicem nec simplex affirmatio privatoriam negationem), ut dicamus hoc modo: QUARE QUATUOR ISTAE ERUNT, duae simplices, duae infinitae, QUARUM id est duarum simplicium et duarum infinitarum DUAE QUIDEM id est negationes simplex et infinita habent se ad affirmationes simplicem et infinitam SECUNDUM CONSEQUENTIAM UT PRIVATIONES, DUAE VERO MINIME id est affirmationes simplex et infinita ad duas negationes, id est simplicem et infinitam. Hoc est enim quod ait: AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM SIC SE HABEBUNT SECUNDUM CONSEQUENTIAM id est consequentur negationes eas quae sunt affirmationes, UT PRIVATIONES ƿ sicut in privationibus quoque dicebatur, DUAE VERO id est affirmationes simplex et infinita non habebunt se secundum consequentiam ad duas negationes, id est simplicem et infinitam, sicut privationes quoque se secundum sequentiam non habebant. Nam privatoria affirmatio non sequebatur negationem simplicem nec simplex affirmatio privatoriam negationem. Est alia quoque simplicior expositio, quam Alexander post multas alias expositiones in quibus animum vertit edidit hoc modo: cum sint, inquit, quatuor propositiones, quarum duae sunt infinitae, duae vero simplices, duae, inquit, infinitae aequaliter se habent secundum affirmationem et negationem ad privatorias, duae vero simplices ad easdem privatorias se similiter non habent hoc modo: affirmativa enim infinita consentit affirmativae privatoriae. Ea enim quae dicit infinita affirmatio est non iustus homo ei consentit privatoriae affirmationi quae dicit: Est iniustus homo  Ea vero infinita negatio quae dicit non est non iustus homo privatoriae negationi consentit quae dicit non est iniustus homo. Atque hae quidem duae, id est infinita affirmatio et infinita negatio, ita sese habent AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT PRIVATIONES, id est eadem affirmant vel negant, quae etiam privationes affirmant vel negant, duae vero minime, id est duae simplices minime se ita habent ad affirmationem ƿ et negationem, sicut privationes. Nam omnino non contingit simplex affirmatio privatoriam affirmationem. Ea enim quae dicit: Est iustus homo  non consentit ei quae dicit: Est iniustus homo  Nec rursus negatio simplex privatoriae negationi consentit. Ea enim quae dicit: Non est iustus homo  quae simplex negatio est plurimum dissidet ab ea quae dicit: Non est iniustus homo  quae est privatoria negatio. Ergo cum sint quatuor, affirmatio simplex et negatio simplex, affirmatio infinita et negatio infinita, harum duae, id est affirmatio infinita et negatio infinita, ita aliquid affirmant vel negant ut privationes (hoc est enim quod ait: ITA SESE HABENT AD AFFIRMATIONEM ET NEGATIONEM, UT PRIVATIONES), DUAE VERO MINIME. Neque enim ita affirmant et negant duae simplices, sicut duae privatoriae. Affirmatio namque simplex ab affirmatione privatoria discrepat, et rursus negatio simplex a negatione privatoria longe dissidet atque discordat. Sed haec (ut diximus) Alexandri expositio est post multas alias simplicior, non tamen repudianda sed illa superior verior esse videtur, quod Aristoteles ipse testatur. Ait enim paulo post: HAEC IGITUR, QUEMADMODUM IN RESOLUTORIIS DICTUM EST, SIC SUNT DISPOSITA. Hanc enim consequentiam quam insuperiori expositione memoravi privatoriarum et infinitarum ad simplices in primi libri Priorum Resolutoriorum quae *analytika* Graeci vocant fine disposuit. Dicit autem Porphyrius fuisse quosdam sui temporis, qui hunc exponerent librum, et quoniam ab Hermino vel Aspasio vel Alexandro expositiones singulas proferentes multa contraria et expositionibus male ab illis editis dissidentia ƿ reperirent, arbitratos fuisse librum hunc Aristotelis, ut dignum esset, exponi non posse multosque illius temporis viros totam huius libri praeterisse doctrinam, quod inexplicabilem putarent esse caliginem. Nos autem brevissime hunc locum in prima editione praeteriimus sed quod illic pro intellectus simplicitate breviter posuimus, hic omni latitudine totam sententiae vim et prolixitatem digessimus. Quare quoniam superiora digne (ut mihi videtur) expressimus, sequentis textus ordinem sententiamque videamus. SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, UT OMNIS EST HOMO IUSTUS, NON OMNIS EST HOMO IUSTUS; OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, NON OMNIS EST HOMO NON IUSTUS. SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. De indefinitis quaedam propositionibus praelocutus nunc de his quae terminatae sunt secundum universalitatis et particularitatis adiectionem dicit, quod etiam ipsae similiter se habeant, sicut illae quoque quae sine ulla determinatione dicebantur, simplex scilicet oppositio atque infinita. Quod vero ait: SIMILITER AUTEM SE HABET ET SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, alii ita intellexerunt, ut quod ait similiter referant ad numerum oppositionum et propositionum. Nam sicut in his quae indefinitae sunt et ƿ indeterminatae duae sunt oppositiones, una simplicis negationis et simplicis affirmationis, altera infinitae affirmationis et infinitae negationis, quatuor autem propositiones, quod supra iam dictum est, ita quoque in his quae terminationem secundum universalitatem particularitatemque habent quatuor fiunt propositiones et oppositio duplex. Oppositio enim una est universalis affirmationis simplicis et particularis negationis simplicis, ut est: Omnis homo iustus est Non omnis homo iustus est  Et haec quidem una est oppositio. Alia vero infinitae universalis affirmationis et infinitae particularis negationis, ut: Omnis homo non iustus est Non omnis homo non iustus est  Quare hic quoque, cum duae sint oppositiones, erunt sine dubio quatuor propositiones, sicut in his de quibus supra dixerat, quae scilicet determinatione carebant. Alii vero qui Aristotelis animum penitus inspexerunt non aiunt similiter solum se habere determinatas propositiones ad numerum oppositionum et propositionum sed etiam ad consequentiam. Nam quae est consequentia negationum ad affirmationes in his propositionibus simplicibus et infinitis, quae praeter determinationem dicuntur, eadem se similitudo habet in his quae terminatione proferuntur. Sed quoniam non in omnibus omnia similia habent, idcirco addidit notans: SED NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO. Sensus autem totus huiusmodi est: similiter, inquit, se habent hae propositiones quae ƿ secundum determinationem dicuntur infinitae ad simplices et simplices ad infinitas, quemadmodum illae quoque sese habebant quae sine determinatione indefinitae dicebantur. Sed habent quandam dissimilitudinem, quod angulares propositiones in his quae cum determinatione dicuntur non eodem modo verae sunt, quomodo illae quae sine determinatione proferebantur vel infinitae vel simplices. Videamus ergo prius an eadem in his quae determinatae sunt sit consequentia quae in his est quae indefinitae proferuntur, post videamus quae sit in angularibus dissimilitudo. Disponantur ergo non solum eae quae simplices vel infinitae sunt sed etiam quae sunt privatoriae. Et prius quidem disponantur hoc modo: simplex affirmatio et simplex negatio et hae quidem indefinitae, id est praeter universalitatis aut particularitatis adiectionem. Sub his sub affirmatione quidem simplici ponatur negatio privatoria, sub negatione vero simplici affirmatio privatoria: hae quoque rursus indefinitae. Sub his autem ponantur sub affirmatione privatoria et sub simplici negatione affirmatio infinita, sub privatoria autem negatione et sub simplici affirmatione ponatur negative infinita, et hae quoque indefinitae et indeterminatae sine ulla vel universalitate vel particularitate. Sub his autem disponantur hae quas determinatas vel universalitatis quantitate vel particularitatis vocamus. Et primo quidem affirmatio universalis simplex, contra hanc negatio particularis simplex. Sub affirmatione autem universali simplici ponatur negatio particularis privatoria, sub negatione autem particulari simplici universalis affirmatio privatoria. Rursus sub negatione particulari privatoria et sub affirmatione universali simplici ponatur ƿ negatio particularis infinita, sub affirmatione vero universali privatoria et sub negatione simplici particulari ponatur universalis affirmatio infinita. Erit autem huiusmodi descriptio: INDEFINITAE Affirmatio simplex: Negatio simplex: Homo iustus est Homo iustus non est Negatio privatoria: Affirmatio privatoria: Homo iniustus non est Homo iniustus est Negatio infinita: Affirmatio infinita: Homo non iustus non est Homo non iustus est DEFINITAE Affirmatio universalis simplex: Negatio particularis simplex: Omnis homo iustus est Non omnis homo iustus est Negatio particularis privatoria: Affirmatio universalis privatoria: Non omnis homo iniustus est Omnis homo iniustus est Negatio particularis infinita: Affirmatio universalis infinita: Non omnis homo non iustus est Omnis homo non iustus est  In hoc ordine propositionum quem supra descripsimus quae sint angulares manifestum est. Sunt namque affirmationes quidem affirmationibus, negationes vero negationibus. Et in his quidem quae in definitae sunt eodem modo angulares sunt affirmationes. Simplex quidem affirmatio quae dicit: Est homo iustus  privatoriae affirmationi quae dicit: Est homo iniustus  et infinitae affirmationi quae proponit: Est homo non iustus  angularis est. Negatio vero simplex quae est: Non est homo iustus  negationi privatoriae quae dicit: Non est homo iniustus  et negationi infinitae quae est: Non est homo non iustus  angularis est. Item si quis ad definitas propositiones aspiciat, idem sine aliqua dubitatione reperiet. Affirmatio enim universalis simplex quae est: Omnis est homo iustus  affirmationi universali privatoriae quae enuntiat: Omnis est homo iniustus  et affirmationi universali infinitae quae proponit: Omnis est homo non iustus  angularis est, item negatio particularis simplex quae est: Non omnis est homo iustus  negationi particulari privatoriae quae dicit: Non omnis est homo iniustus  et negationi particulari infinitae quae proponit: Non omnis est homo non iustus  angularis. Sunt igitur affirmationes affirmationibus et negationes negationibus angulares et in ordine indefinitarum propositionum et in ordine definitarum. Quocirca de earum sequentia speculandum est. Dictum est enim prius quod affirmationem indefinitam simplicem sequeretur privatoria et infinita negatio, eas vero simplex affirmatio non sequeretur. Rursus infinitam affirmationem privatoriamque affirmationem sequitur simplex negatio, hae vero negationem simplicem non sequuntur. Rursus si quis ad ordinem definitarum respiciat, idem inveniet. Affirmationem namque universalem simplicem sequitur particularis privatoria negatio et particularis infinita negatio. Nam si vera est universalis affirmatio simplex quae dicit: Omnis est homo iustus,  vera est etiam particularis privatoria negatio quae dicit: Non omnis est homo iniustus  Hoc autem idcirco evenit, quod ea quae dicit: Non omnis homo iniustus est  idem potest quod simplex et similis est ei quae proponit: Quidam homo iustus est  particulari simplici affirmationi. Nam si non omnis homo iniustus est, quidam homo iustus est. Sed particularis affirmatio simplex sequitur universalem affirmationem simplicem. Quando enim vera est universalis affirmatio quae dicit: Omnis est homo iustus  vera est et particularis affirmatio quae proponit: Quidam homo iustus est  Sed est quae dicit: Quidam homo iustus est  consentit particularis negatio privatoria quae proponit: Non omnis est homo iniustus  Quocirca etiam particularis negatio privatoria universali simplici affirmationi consentiet. Sequitur igitur eam quae dicit: Omnis est homo iustus  universalem scilicet simplicem affirmationem ea quae proponit: Non omnis est homo iniustus  particularis negatio privatoria. Sed huic particulari negationi privatoriae quae dicit: Non omnis est homo iniustus  consentit infinita particularis negatio quae dicit: Non omnis est homo non iustus  Nam si verum est quoniam non omnis est homo iniustus, et verum est quoniam non omnis est homo non iustus. Idem est enim esse iniustum quod non iustum. Sed privatoria particularis negatio sequitur simplicem universalem affirmationem: infinita igitur negatio particularis sequitur simplicem universalem affirmationem eique consentit, si prius affirmatio universalis vera sit. Quocirca eam quae dicit: Omnis est homo iustus  universalem simplicem ƿ affirmationem sequuntur sine dubio particularis negatio privatoria: Non omnis est homo iniustus  et particularis negatio infinita: Non omnis est homo non iustus  Quare hic quoque affirmationem negationes sequuntur. Sed hoc non convertitur. Quoniam enim (ut dictum est) negatio particularis privatoria quae dicit: Non omnis est homo iniustus  consentit particulari affirmationi simplici, ei scilicet quae dicit: Quidam homo iustus est  hanc autem particularem affirmationem non sequitur universalis affirmatio (neque enim, si verum est quendam esse hominem iustum, idcirco iam et omnem esse hominem iustum necesse est): quare non sequitur affirmatio universalis simplex: Omnis est homo iustus  affirmationem particularem simplicem: Quidam est homo iustus  (potest enim hac vera id est particulari universalis esse falsa) sed particularis affirmatio simplex particulari negationi privatoriae consentit: quare nec privatoriam particularem negationem simplex affirmatio sequitur universalis. Eam igitur quae dicit: Non omnis est homo iniustus  non sequitur affirmatio universalis simplex quae proponit: Omnis homo iustus est  Sed particularis privatoria negatio consentit particulari negationi infinitae: universalis igitur affirmatio simplex non sequitur particularem negationem infinitam. Ea igitur quae dicit: Omnis est homo iustus  affirmatio universalis simplex non sequitur eam quae dicit: Non omnis est homo non iustus  particularem infinitam negationem. Duae igitur negationes infinita et privatoria particulares sequuntur universalem affirmationem simplicem, sicut in his quoque erat quae sunt ƿ indefinitae. Duae enim negationes infinita et privatoria indefinitae simplicem affirmationem sequebantur indefinitam. Sed non e converso. Affirmatio enim universalis simplex non sequitur negationes particularem infinitam et privatoriam, sicut nec indefinita qunque affirmatio simplex indefinitas sequebatur negationes privatoriam atque infinitam. Quare in hoc uno ordine similiter sese habent definitae his quae sunt indefinitae. Aequaliter enim affirmationibus veris verae sunt negationes, veras negationes affirmationum veritas non sequitur nec his consentit. Rursus in altera parte perspiciamus, quemadmodum affirmationes universales privatoriam scilicet et infinitam particularis negatio simplex sequatur. Namque affirmationem universalem privatoriam: Omnis est homo iniustus  sequitur particularis negatio simplex: Non omnis est homo iustus  Ea enim quae dicit: Omnis est homo iniustus  consentit simplici universali negationi quae dicit: Nullus homo iustus est  Nam si omnis est homo iniustus, nullus est homo iustus. Sed hanc, id est universalem simplicem negationem, sequitur particularis simplex negatio. Nam si vera est quoniam nullus homo iustus est, vera est quoniam non omnis homo iustus est. Sed universalis negatio simplex universali affirmationi privatoriae consentit: sequitur ergo particularis simplex negatio quae est: Non omnis est homo iustus  universalem affirmationem privatoriam quae proponit: Omnis est homo iniustus  Sed haec universali affirmationi infinitae consentit. Idem enim significant: Omnis est homo iniustus  ƿet: Omnis est homo non iustus  Quare sequitur quoque particularis negatio simplex quae est: Non omnis est homo iustus  universalem affirmationem infinitam quae dicit: Omnis est homo non iustus  Hic quoque affirmationes universales privatoriam atque infinitam sequitur simplex negatio particularis sed non convertitur. Etenim quoniam simplicem particularem negationem quae dicit: Non omnis est homo iustus  non sequitur universalis negatio quae proponit: Nullus homo iustus est  (neque enim si vera est non omnem hominem esse iustum, vera est nullum hominem esse iustum), haec autem, id est universalis simplex negatio, consentit unumque significat cum affirmatione universali privatoria: non sequitur igitur universalis privatoria affirmativa quae dicit: Omnis est homo iniustus  simplicem particularem negationem quae proponit: Non omnis est homo iustus  sicut nec eandem particularem negationem universalis negatio sequebatur. Sed privatoria universalis affirmatio consentit cum infinita affirmatione universali: igitur particularem negationem quae dicit: Non omnis est homo iustus  universalis affirmatio infinita non sequitur quae proponit: Omnis est homo non iustus  Quare hic quoque affirmationes duas universales, id est privatoriam atque infinitam, particularis simplex negatio sequitur, sicut affirmationes quoque duas indefinitas privatoriam atque infinitam negativa indefinita sequebatur. Sed duae affirmationes universales privatoria et infinita non sequuntur particularem simplicem negationem, sicut quae quoque indefinitae ƿ affirmationes privatoria et infinita indefinitam simplicem negationem non sequebantur. Similiter se igitur habent definitae indefinitis secundum consequentiam. Angulares autem non eodem modo sese habent. Nam indefinitarum propositionum angulares simul veras esse contingit. Nam si verum est quoniam est homo iustus, quae est indefinita affirmatio simplex, nihil prohibet veram esse etiam quae dicit: Est homo iniustus  et rursus eam quae dicit: Est homo non iustus  quae sunt indefinitae affirmationes privatoria et infinita. Rursus negationes negationibus quae sunt angulares veras esse contingit, ut ea quae est: Non est homo iustus  si vera est, nihil prohibet veram esse etiam quae dicit: Non est homo iniustus  et eam quae proponit: Non est homo non iustus  Angulares ergo sibi in indefinitis in veritate consentire nihil prohibet sed in his tantum terminis, ut in secundo huius operis volumine docuimus, quae neque naturalia sunt inesse neque impossibilia. Si quis enim dicat: Est homo rationabilis  huic angulares verae esse non possunt, hae scilicet quae dicunt: Est homo irrationabilis  et rursus: Est homo non rationabilis  Rationabilitas enim homini per naturam inest. Similiter autem et de impossibilibus dicendum est. Quod si sint talia quae neque impossibilia sint inesse nec naturalia sint inesse (ut in ea propositione quae dicit: Est homo iustus  iustitiam neque naturalem esse necesse ƿ est homini nec impossibile esse), manifestum est quoniam angulares sibimet semper in veritate consentiunt. Atque hoc idem de negativis quoque angularibus recte dicitur. In his igitur terminis qui nec naturales sunt nec impossibiles semper angulares et negationes negationibus et affirmationes affirmationibus simul veras esse contingit. Et hoc quidem in his quae indefinitae sunt. In his autem quae definitae sunt et universalitatis particularitatisque participes non eodem modo sunt. In quibusuis enim terminis sive possibilibus sive naturalibus sive impossibilibus affirmationes affirmationibus sibimet angularibus in veritate consentire non possunt, negationes autem negationibus angulares angularibus in his tantum terminis qui neque naturales neque impossibiles sunt in veritate poterunt convenire. Et primum quemadmodum affirmationes affirmationibus sibimet angularibus in veritate consentire non possunt in quibuslibet terminis demonstrandum est. Ea enim quae dicit: Omnis est homo iustus  et ea quae dicit: Omnis est homo iniustus  quae est scilicet angularis, verae simul esse non possunt. Ea namque quae dicit: Omnis est homo iniustus  nil differt ab ea quae proponit: Nullus homo iustus est  Sed "Omnis est homo iustus" et "Nullus homo iustus est", quoniam contrariae sunt, simul verae esse non possunt. Sed ea quae dicit: Nullus est homo iustus  convenit atque consentit ei quae proponit: Omnis est homo iniustus  quare: Omnis est homo iustus  et: Omnis est homo iniustus  simul verae esse non possunt. Sed eadem quae proponit: Omnis est homo iniustus  consentit (ut saepe dictum est) ei quae dicit: Omnis est ƿ homo non iustus  Quare in his nec haec in veritate consentire potest ei quae dicit quoniam omnis est homo iustus. Affirmatio igitur universalis simplex: Omnis est homo iustus  affirmationibus universalibus privatoriae et infinitae quae sunt: Omnis est homo iniustus  et: Omnis est homo non iustus  sibimet angularibus in veritate simul nulla ratione consentit, sicut ipsis quae indefinitae erant et affirmationes affirmationibus et negationes negationibus in veritate poterant consentire. In his autem quae sunt definitae affirmationes angulares simul verae esse non possunt. Recte igitur dictum est quoniam in aliis omnibus similis est consequentia definitarum et indefinitarum. Affirmationibus enim consentiunt in veritate negationes, negationibus autem affirmationes non omnino consentiont, quae similitudo consequentiae in utrisque est id est et in his quae definitae sunt et in his quae indefinitae. Sed est distantia, quod NON SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. Et affirmationes affirmationibus et negationes negationibus in indefinitis veras esse contingit eas scilicet quae sunt angulares. In his autem quae sunt definitae affirmationes affirmationibus angulares veras esse aliquando nulla ratione contingit. Hoc autem manifestum erit, si quis et ea sibi proponat exempla in quibus sunt termini naturales atque impossibiles et ea in quibus sunt possibiles et non naturales neque impossibiles. In omnibus enim inveniet affirmationes affirmationibus definitas ƿ definitis angulares simul veras esse non posse. Quod autem addidit CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO huiusmodi est: quamquam enim affirmationes affirmationibus angulares definitae simul verae esse non possint in quibuscumque propositis terminis, potest tamen fieri ut negationes negationibus verae inveniantur et sit haec similitudo ad indefinitas angulares. Nam sicut illic negationes negationibus indefinitae angulares verae esse simul poterant in his quae neque naturalia neque impossibilia essent, ita hic quoque id est in ordine definitarum negationes definitas negationibus definitis angulares angularibus simul veras esse contingit in his quae neque impossibiles sunt nec naturales. Negatio enim simplex particularis quae dicit: Non omnis est homo iustus  potest simul vera esse cum ea quae dicit: Non omnis est homo iniustus  Potest enim fieri ut quidam sint iusti, quidam autem non sint iusti et in eo utraeque verae sunt, et ea quae dicit: Non omnis est homo iustus  quia sunt quidam iniusti, et ea quae dicit: Non omnis est homo iniustus  quia poterunt esse aliqui iusti. Sed haec consentit infinitae negationi particulari quae dicit: Non omnis est homo non iustus  Idem est enim dicere "Non omnis est homo iniustus" quod "Non omnis est homo non iustus". Quocirca et hae sibimet angulares simul verae esse possunt. Nam si quidam sunt iusti, quidam iniusti, verum est dicere quoniam non omnis est homo iustus, quia sunt quidam iniusti, rursus verum est dicere non omnis est homo non iustus, quia sunt quidam iusti. Negationes igitur ƿ negationibus angulares definitae simul verae esse possunt et hoc est simile indefinitis, in quibus sicut affirmationes affirmationibus, ita quoque in veritate angulares negationes negationibus consentiunt. Sensus ergo totus huiusmodi est: SIMILITER AUTEM, inquit, SE HABET, id est similis erit consequentia propositionum, quemadmodum fuit in indefinitis, ETIAM SI UNIVERSALIS NOMINIS SIT AFFIRMATIO, id est etiam si definitae affirmationes negationesque ponantur, ut per subiecta exempla monstravit dicens affirmationi simplici universali OMNIS EST HOMO IUSTUS opponi NON OMNIS EST HOMO IUSTUS particularem scilicet simplicem negationem. Et rursus universalem affirmationem infinitam proponens eam scilicet quae est OMNIS EST HOMO NON IUSTUS huic illam opposuit quae dicit NON OMNIS EST HOMO NON IUSTUS. Hae, inquit, similiter se habent ad consequentiam quemadmodum ind efinitae. Quomo do autem se illae haberent ad c onsequentiam supra monstratum est. SED NON, inquit, SIMILITER ANGULARES CONTINGIT VERAS ESSE. In his enim quae erant indefinitae affirmationes affirmationibus angulares simul verae esse poterant. In his autem quae definitae sunt simul verae esse non possunt. CONTINGIT AUTEM ALIQUANDO, ut similiter angulares verae sint in his quae definitae sunt, quemadmodum et in indefinitis. Negationes enim negationibus angulares definitae simul in veritate consentiunt, ut in his quoque inveniebatur quas indefinitas supra descripsimus. Plenus est igitur huiusmodi intellectus. Herminus autem hoc aliter sic exponit: similiter, inquit, ƿ duas facient oppositiones quatuor propositiones, si fuerint duae simplices, duae infinitae, determinatione tamen adiecta. Hoc autem sic monstrat: proponit prius simplicem affirmationem universalem quae dicit: Omnis est iustus homo  contra hanc particularem simplicem negationem: Non omnis est iustus homo  sub affirmatione universali simplici affirmationem universalem infinitam quae dicit: Omnis est non iustus homo  contra hanc sub negatione particulari simplici particularem negationem infinitam quae proponit: "Non omnis est non iustus homo". Omnis est iustus homo Omnis est non iustus homo Non omnis est iustus homo Non omnis est non iustus homo. His ergo ita dispositis duae, inquit, fiunt oppositiones. Contra enim eam quae est omnis est iustus homo opponitur illa quae proponit: Non omnis est iustus homo  Hoc autem idcirco quoniam sibi contradictorie oppositae sunt universalis affirmatio simplex et particularis negatio simplex. Et est haec quidem una propositio. Rursus contra eandem affirmationem simplicem quae dicit: Omnis est iustus homo  opponitur universalis affirmatio infinita quae dicit: Omnis est non iustus homo  et hoc contrario modo. Ea namque quae dicit: Omnis est non iustus homo  idem significat eique consentit quae dicit: Nullus homo iustus est  Sed haec quae proponit nullus homo iustus est contrario modo opposita est ei quae dicit: Omnis est iustus homo  Quocirca etiam ea quae proponit: Omnis est non iustus ƿ homo  contrarie erit opposita ei quae dicit: Omnis est iustus homo  Est igitur haec quoque altera oppositio. Duae ergo sunt oppositiones, quemadmodum etiam in his quae sunt indefinitae: licet alio modo essent oppositae, tamen duae erant oppositiones. Secundum diametrum autem non similiter veras contingit esse, ut ipse ait. Illae enim quoniam indefinitae erant, et secundum diametrum quae erant simul veras esse contingebat et omnes omnibus. Quod si quis ad indefinitarum descriptiones redeat diligenter agnoscit. Hic autem, inquit, hoc est in his quae definitae sunt, non idem est. Hoc sic monstrat: ea enim propositio quae dicit: Omnis est iustus homo  non consentit contradictioni suae quae dicit: Non omnis est iustus homo  Rursus ea quae dicit: Omnis est non iustus homo  non consentit rursus ei quae dicit: Non omnis est non iustus homo  Haec enim contrariae ipsius consentiebat. Quare cum vera est universalis affirmatio simplex quae dicit: Omnis est iustus homo  sine dubio falsa est ea quae dicit: Omnis est non iustus homo  Sed hac falsa contradictio eius vera erit: vera igitur est ea quae negat dicens: Non omnis est non iustus homo  Quocirca hae duae propositiones angulares verae aliquotiens inveniuntur: Omnis est iustus homo Non omnis est non iustus homo  Contingit ergo aliquando veras esse sed non, inquit, omnino. Nam si a particulari negatione infinita coeperis, non idem est id est non eadem veritas venit. Hoc autem tali probatur modo: si enim vera est quoniam non omnis est non iustus ƿ homo, falsa est ea quae dicit: Omnis est non iustus homo  Est enim ei contradictorie opposita. Hac autem falsa quae dicit: Omnis est non iustus homo  non omnino veram necesse est esse eam quae proponit: Omnis est iustus homo  idcirco quoniam hae duae sibi contrariorum loco oppositae sunt. Contrarias autem propositiones simul falsas esse posse supra docuimus. Ergo non necesse est, si falsa est omnis est non iustus homo, veram esse eam quae dicit: Omnis est iustus homo  Quod si non necesse est, hoc potest fieri ut utraeque sint falsse. Quare evenit aliquando, ut vera hac propositione quae dicit: Non omnis est non iustus homo  falsa sit illa quae proponit: Omnis est iustus homo  Quare non similiter secundum diametrum in veritate propositiones sibi consentiunt. Atque hoc quidem Herminus non recte expositione dicens ordinem turbat. Si quis autem vel hoc quod Herminus ait diligenter agnoscit vel id quod supra nos diximus, cognoscit multam esse differentiam expositionis et meliorem superiorem iudicans ei, si quid nobis credit, recte consentiet. HAE IGITUR DUAE OPPOSITAE SUNT, ALIAE AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID ADDITO, UT EST IUSTUS NON HOMO, NON EST IUSTUS NON HOMO; EST NON IUSTUS NON HOMO, NON EST NON IUSTUS NON HOMO. MAGIS PLURES AUTEM HIS NON ERUNT OPPOSITIONES. HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT UT NOMINE UTENTES NON HOMO. Supra iam dixerat omne subiectum aut ex nomine simplici et finito aut ex nomine rursus infinito consistere et eorum oppositiones ostendit quod essent duae et quatuor propositiones, duae quidem simplex subiectum nomen habentes, duae vero infinitum. Post has quando est tertium adiacens praedicaretur, illic quoque dupliciter oppositiones fieri dixit, cum scilicet finitum nomen esset subiectum, vel infinitum praedicatum, earumque inter se eam consequentiam demonstravit, qualem haberent privatoriae ad easdem ipsas simplices, quibus ex infinito nomine propositiones compararentur. Et quoniam omnis harum varietas propositionum ita fit, cum est tertium praedicatur, ut aut et subiectum et praedicatum finita sint aut subiectum quidem finitum, praedicatum vero infinitum (de quibus supra locutus est, cum earum consequentiam demonstravit) aut infinitum habent subiectum, finitum vero praedicatum aut infinitum et subiectum et praedicatum. Et habent quidem propositiones utrumque finitum, ut est: Homo iustus est Homo iustus non est  finitum vero subiectum, infinitum praedicatum, ut est: Homo non iustus est Homo non iustus non est  Et harum quidem consequentia supra monstrata est. Aliae vero sunt, quae infinitum habent subiectum et quasi nomine utuntur nomine infinito, ut: Non homo iustus est Non homo iustus non est  Utuntur enim hae propositiones subiecto, id est ƿ 'non homo' ut nomine, praedicato vero eo quod est iustus. Hoc est enim quod ait: ALIAE AUTEM AD NON HOMO UT SUBIECTUM ALIQUID ADDITO. Si quis enim ponat non homo quidem subiectum et de hoc aut finitum nomen praedicet, ut est 'iustus', aut infinitum, ut est 'non iustus', utroque modo duplicem rursus faciet oppositionem. Quatuor sunt autem propositiones hae: Est non homo iustus Non est non homo iustus Est non homo non iustus Non est non homo non iustusIn his igitur quatuor propositionibus, oppositionibus vero duplicibus non homo quidem subiectus est sed in superiore oppositione finitum quidem praedicatur nomen quod est iustus,. Sed illae, inquit, quae praedicatum quidem infinitum habent, subiectum vero finitum vel quibus et praedicatum finitum est et subiectum, habent aliquam ad se consequentiam, hae vero quas postea memoravimus, id est quae infinitum haberent subiectum, praedicatum autem vel infinitum vel finitum, nullam habent consequentiam ad eas propositiones, quae sive finito praedicato sive infinito, ex finito tamen subiecto consisterent. Hoc est enim quod ait: HAE AUTEM EXTRA ILLAS IPSAE SECUNDUM SE ERUNT, id est nullam consequentiam ad superiores quae ex finito subiecto constarent habere eas quae infinitum subiectum in propositionis ordine retinerent. Postquam igitur enumeravit et quae ex utrisque finitis consisterent, id est et subiecto et praedicato, et has ƿ quae ex subiecto quidem finito, praedicato vero infinito essent, has etiam quae ex subiecto infinito essent et ex finito praedicato necnon illas addidit quae ex utrisque infinitis constare viderentur: postquam igitur has enumeravit, ait: MAGIS PLURES AUTEM HIS NON ERUNT OPPOSITIONES. Omnis enim oppositio (quod supra iam dictum est) aut ex utrisque finitis est, ut: Est homo iustus Non est homo iustus  aut ex finito subiecto, infinito praedicato, ut: Est homo non iustus Non est homo non iustus  aut ex infinito quidem subiecto, finito vero praedicato, ut: Est non homo iustus Non est non homo iustus  aut ex infinitis utrisque, ut: Est non homo non iustus Non est non homo non iustus  ut autem quinta oppositio reperiri possit, nulla rerum ratione possibile est. De his ergo haec dicta sint, in quibus est tertium adiacens praedicatur. IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON CONVENIT, UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE, IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI EST ADDERETUR, UT EST CURRIT OMNIS HOMO, NON CURRIT OMNIS HOMO; CURRIT OMNIS NON HOMO, NON CURRIT OMNIS NON HOMO. NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS HOMO SED NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. OMNIS ENIM NON UNIVERSALE SIGNIFICAT SED QUONIAM UNIVERSALITER. MANIFESTUM EST AUTEM EX EO QUOD EST CURRIT HOMO, NON CURRIT HOMO; CURRIT NON ƿ HOMO, NON CURRIT NON HOMO. HAEC ENIM AB ILLIS DIFFERUNT EO QUOD NON UNIVERSALITER SUNT. QUARE OMNIS VEL NULLUS NIHIL ALIUD CONSIGNIFICAT NISI QUONIAM UNIVERSALITER DE NOMINE VEL AFFIRMAT VEL NEGAT. ERGO CAETERA EADEM OPORTET APPONI. Sunt quaedam propositiones in quibus est quidem tertium adiacens praedicatur et hoc sono ipso et prolatione cognoscitur, aliae vero sunt in quibus tale verbum praedicatur, quod tertium quidem adiacens non praedicetur, habeat tamen contineatque intra se verbum est. Quae praedicatio si solvatur in participium atque verbum, quod ante solo verbo dictum praedicatum secundum praedicabatur, tertio loco praedicabitur est et fit similis propositio, tamquam si prolatione quoque haberet est verbum. Si quis enim dicat:"Omnis homo currit"in hac propositione unum subiectum est, alterum praedicatur. Homo enim subiectus est, praedicatur autem currit. Neque enim possumus in hac propositione tres esse terminos arbitrari, idcirco quod omnis quidem terminus non est sed subiecti termini determinatio. Significat enim quoniam res universalis, id est homo, universaliter subicitur cursui, cum dicit:"Omnis homo currit" Nulla est enim hominis exceptio, ubi omnem currere determinatio est. Ergo non ponitur loco termini id quod dicimus omnis sed potius ƿ subiecti termini determinatio est. Quo circa in hac propositione quae dicit:"Omnis homo currit"duo sunt termini: homo et currit. Ergo in eadem quamquam verbum est non praedicetur in prolatione, in verbi tamen quod est currit significatione concluditur. Si quis enim hanc propositionem quae dicit:"Omnis homo currit"solvat in participium atque verbum, faciet omnis homo currens est et idem significat participium verbo coniunctum quod significat verbum, quod utraque complectitur. Nam cum dico "Omnis homo currit", omni homini actionem praesto esse pronuntio; quod si idem rursus dicam "Omnis homo currens est", eandem actionem homini rursus adesse proponit. Idem igitur significat verbum currit quod currens est. Et in ea propositione quae dicit:"Omnis homo currit"licet in prolatione est non dicatur, tamen tertium potestate praedicatur, quod hinc cognoscitur, si tota propositio dissolvatur in participium scilicet atque verbum. Quamobrem sicut ex nomine infinito subiecto fit affirmatio, non eodem modo ex infinito verbo affirmatio fieri potest sed mox vis in ea negationis agnoscitur. Quomodo enim facimus affirmationem dicentes: Omnis non homo currit  'non homo' scilicet subiectum infinitum ponentes, non ita possumus dicere fieri affirmationem cum proponimus: Omnis homo non currit  Haec enim iam negatio est. Quare ubicumque fuerit 'non currit' vel 'non laborat' vel 'non ambulat' vel 'non legit', in omnibus negatio fit, in quibuscumque infinitum verbum praedicatur. Dubitabit autem aliquis an sicut ex infinito verbo fieri affirmatio non potest sed semper negatio ƿ ex hoc praedicamento fit, ita quoque si eadem propositio solvatur in participium atque verbum, an ex infinito participio possit affirmatio fieri. Quaeritur enim an sicut in hac propositione quae dicit: Omnis homo currit  qui ita proponit dicens: Omnis homo non currit  facere affirmationem non potest sed sine dubio negationem facit, ita quoque si eadem solvatur in participium et verbum, ut dicat quis: Omnis homo currens est  si fiat infinitum non currens et dicatur: Omnis homo non currens est  an haec affirmatio sit an certe negatio tantundem valens tamquam si aliquis dicat: Omnis homo non est currens  Sed fuerunt qui hoc cum ex multis aliis tum ex aliquo Platonis syllogismo colligerent et quid ex ea re definirent doctissimorum virorum auctoritate cognoscerent. Ex duabus enim negativis syllogismus fieri non potest. In quodam enim dialogo Plato huiusmodi interrogat syllogismum: sensus, inquit, non contingunt substantiae rationem; quod non contingit, nec ipsius veritatis contingit notionem: sensus igitur veritatis notionem non contingit. Videtur enim ex omnibus negativis fecisse syllogismum, quod fieri non potest, atque ideo aiunt infinitum verbum quod est non contingit pro participio infinito posuisse id est non contingens est. Est enim in pluribus aliis inveniendi facultas frequenter verbum infinitum positum pro nomine infinito. ƿ Quare verbum quidem dixere quidam semper facere negationem' si infinitum proponatur, participia autem vel nomina si sint infinita posse facere affirmationem. Et ideo quotienscumque a magnis viris infinitum verbum et duae negationes in syllogismo proponuntur, hac ratione defenditur, quod dicatur verbum infinitum pro participio esse propositum, quod participium nominis loco in propositione praedicatur. Et hoc quidem Alexander Aphrodisius arbitratur caeterique complures. Idcirco enim aiunt non posse fieri ex infinito verbo affirmationem, quoniam sicut verbum est infinitum verbum mox totem perficiet negationem, sic etiam verba quae in sese complectuntur verbum est non facient infinitam affirmationem sed potius negationem. Si quis enim sic dicat: Homo currens non est  nullus hanc dixerit affirmationem. Si quis vero sic: Homo non currit  idcirco nec haec propositio affirmatio est quoniam currit est verbum intra se continet et sicut ad est verbum iuncta particula negativa non facit affirmationem sed potius negationem, ita quoque ad illud verbum iuncta negatio quod intra se continet est verbum plenam perficit negationem. Aristoteles autem non videtur ista discernere sed similiter arbitrari, sive cum participio ponatur est verbum ƿ sive sine participio verbum illud quod verbum est intra se claudit atque complectitur. Dicit enim hoc modo: IN HIS VERO IN QUIBUS EST NON CONVENIT UT IN EO QUOD EST CURRERE VEL AMBULARE, IDEM FACIUNT SIC POSITA AC SI EST ADDERETUR. Et huius subiecit exemplum, UT EST CURRIT OMNIS HOMO. In hac enim propositione quae dicit: Currit omnis homo  non quidem convenit poni est verbum; eodem modo vel si quis dicat: Omnis homo ambulat  hic quoque est verbum poni non convenit sed haec talia sunt, tamquam si est adderetur. Quod exemplo docuit. Nam sicut "Est currens omnis homo" affirmatio est cursus praesentiam monstrans, ita quoque "Currit omnis homo" affirmatio idem valens idemque significans. Has ex simplicibus subiectis affirmationes in quibus est dici non convenit consequenter enumerat dicens: Currit omnis homo  mediam ponens determinationem, quod est omnis, inter currit quod est praedicatio et subiectum quod est homo: contra hanc opponit simplicem negationem dicens: Non currit omnis homo  Rursus facit affirmationem ex infinito nomine: Currit omnis non homo  huic opponit negationem infiniti nominis subiecti: Non currit omnis non homo  Et has idcirco proposuit, ut monstraret idem in his evenire in quibus est non convenit praedicari, quod in illis quoque in quibus est tertium adiacens praedicabatur. Sed quoniam in negatione infiniti nominis subiecti ƿ ait: Non currit omnis non homo  poterat quis dicere non recte fecisse negationem eius affirmationis quae est: Currit omnis non homo  hanc quae dicit: Non currit omnis non homo  sed potius ita debuisse oppositionem constitui: Currit omnis non homo Non currit non omnis homo  Ex hoc autem demonstrat ita faciendam esse negationem, ut eam ipse disposuit. Dicit enim: NON ENIM DICENDUM EST NON OMNIS HOMO SED NON NEGATIONEM AD HOMO ADDENDUM EST. Qui est sensus huiusmodi: quotiens facimus, inquit, negationem contra hanc affirmationem quae dicit currit omnis non homo, non est negativa particula non adiungenda ei quod est omnis sed potius subiecto id est nomini quod est homo. Cum enim ita dicimus: Currit omnis non homo  facienda est negatio: Non currit omnis non homo  Non enim dicendum est: Non currit non omnis homo  et non negativa particula non est adicienda ad omnis sed potius ad homo. Huius autem haec causa est quod omnis determinatio in terminorum numero non adscribitur sed potius ad vim suam id est ad determinationem. Non enim aliquid universale significat ipsum omnis sed significat quidem universale homo, omnis autem determinatio est, quoniam quis id quod universale est id est homo universaliter praedicat. Non ergo universale aliquid significat omnis determinatio sed potius quoniam universale ƿ nomen universaliter praedicatur. Atque ideo quotiens in his negatio fit, ad subiectum potius nomen trahi oportet negationem non ad determinationem. Sed ne forte quis dubitet, ut etiam in aliis quoque ita fieri oportere oppositiones dicat. In his enim quae subiectum habent finitum, cum dicimus: Omnis homo currit  si contra hanc contradictorie opposita negatio ponitur, ad determinationem particula negative constituenda est, ut contra eam quae dicit: Omnis homo currit  ea sit quae dicit: Non omnis homo currit  In his autem quae ex infinito nomine subiecto fiunt, sive in affirmatione sive in negatione, a subiecto nomine non est separanda negatio. Hoc autem ita esse facillima ratione cognoscitur, si determinationes paulisper auferantur et in his propositionibus ex infinito nomine subiecto quae sunt indefinitae speculatio fiat. Sit enim affirmatio indefinita: Non homo currit  Contra hanc erit negatio: Non homo non currit  Si igitur hae propositiones factae sunt in universalibus terminis (universalis enim terminus est homo) sed non habent additam determinationem, quoniam universaliter praedicantur, id est omnis, et servata est et in affirmatione et negatione ad subiectum negativa particula (semper enim fiebat necessarie infinitum), etiam tunc quando additur aliquid quod determinet, non ad determinationem addenda est negatio sed potius ad subiectum nomen. Quod cum in affirmatione fuerit infinitum, hoc idem infinitum ut in negatione reuertatur providendum est. Sicut enim finitum terminum et simplicem in his indefinitis ƿ propositionibus ad affirmationem et negationem custodiri oportet, ut dicamus: Currit homo Non currit homo  ita quoque in ea oppositione quae est ex infinito nomine subiecto idem servandum est, ut quod in affirmatione subiectum est idem seruetur etiam in negatione. Quod si hoc in his quae indefinitae sunt evenit, cur non etiam in illis idem fieri oportere videatur quae definitae sunt? Hoc solum enim definitae ab indefinitis differunt, quod cum indefinitae universalia praedicant praeter universalitatis determinationem, determinatae et definitae idem illud prasdicant universale cum adiectione et significatione quoniam universaliter praedicatur. Nihil igitur aliud omnis vel nullus significat, nisi quoniam id quod universale dicitur universaliter praedicatur. Ergo omnia eadem quae in affirmatione et negatione indefinitis ponebantur eadem quoque et in eisdem determinatis servanda sunt. Omnis enim et nullus non sunt termini sed universalis termini determinationes. His igitur ab Aristotele decursis nos quoque a Syriano, cui Philoxeno esse cognomen supra rettulimus, propositionum omnium numerum, de quibus in hac libri disputatione perpendit, nimis ad rem pertinentem atque utilem transferamus. Et prius perspiciendum est in categoricis propositionibus quot indefinitae sunt. Quantae enim fuerint indefinitae, tot ƿ erunt universales, tot particulares, tot singularium atque individuorum propositiones. Et prius quidem affirmationes perspiciamus hoc modo: quatuor modi sunt propositionum: aut enim indefinitae sunt aut universales aut particulares aut singularium atque individuorum. Si ergo perspiciantur quantae sint indefinitae affirmationes, has si per quaternarium numerum multiplicavero, colligitur mihi numerus affirmationum. Quem si duplico, colligitur etiam negationum hoc modo. Praedicatur enim est aut ipsum solum aut certe tertium adiacens cum alio. Et si solum praedicatur, aut ad nom en simplex atque finitum praedicandum est aut ad infinitum. Ex his duae sunt affirmationes: Est homo Est non homo  Quotiens autem est tertium adiacens praedicatur, hae quatuor erunt affirmationes: aut cum subiectum infinitum est solum, ut: Est iustus non homo  aut cum praedicatum infinitum est solum, ut: Est non iustus homo  aut cum utraque finita sunt, ut: Est iustus homo  aut cum utraque infinita sunt, ut: Est non iustus non homo  MAGIS PLURES AUTEM HIS, ut ipse ait, propositiones inveniri non possunt. Cum igitur sex sint affirmationes, duae quibus est praedicatur, quatuor vero adiacente, has si per quaternarium ducam, viginti et quatuor fient. Quas rursus si binario multiplicem, quadraginta octo mihi summa subcrescunt. Tot igitur erunt affirmationes et negationes quaecumque vel praedicato est verbo vel tertio adiacenti et praedicato fiunt. Qua in re quoniam tres ƿ sunt aliae qualitates propositionum, quae sunt necessariae, contingentes et inesse tantum significantes, secundum quas qualitates istae omnes propositiones proferuntur, has quadraginta octo propositiones si in ternarium numerum duxerimus, scilicet propositionum qualitates, centum quadraginta quatuor omnis propositionum praedicativarum, de quibus hoc libro tractat, numerositas crescet. Sed nunc praeter has tris qualitates quae sint quadraginta octo propositiones cum negationibus suis (quas si per qualitates propositionum, necessariam scilicet et contingentem et inesse significantem, multiplicavero, centum quadraginta quatuor fient) subter adscripsimus. EST SOLUM Est homo Non est homo Est non homo Non est non homo Est omnis homo Non est omnis homo Est omnis non homo Non est omnis non homo Est quidam homo Non est quidam homo Est quidam non homo Non est quidam non homo Est Socrates Non est Socrates Est non Socrates Non est non Socrates ITEM EST TERTIUM Est iustus homo Non est iustus homo Est iustus omnis homo Non est iustus omnis homo Est iustus quidam homo Non est iustus quidam homo Est iustus Socrates Non est iustus Socrates Est iustus non homo Non est iustus non homo Est iustus omnis non homo Non est iustus omnis non homo Est iustus quidam non homo Non est iustus quidam non homo Est iustus non Socrates Non est iustus non Socrates Est non iustus omnis homo Non est non iustus omnis homo Est non iustus quidam homo Non est non iustus quidam homo Est non iustus Socrates Non est non iustus Socrates Est non iustus non homo Non est non iustus non homo Est non iustus omnis non homoNon est non iustus omnis non homo Est non iustus quidam non homo Non est non iustus quidam non homo Est non iustus non Socrates Non est non iustus non Socrates  Has igitur propositiones Syriano calculis colligente nos quoque nominatim disposuimus, idcirco quoniam facilior fides habobitur numero, si per exempla prodantur, simul etiam quoniam male doctus de his propositionibus peruersissime contendebat et affirmationes quidem negationum loco ponens, negationes vero affirmationum totum ordinem confundebat. Quare ne quem illius oratio a rectae rationis veritate traduceret, idcirco hanc ad tenacioris memoriae subsidium fecimus dispositionem. QUONIAM VERO CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE ƿ EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM ILLA QUAE SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM, HAE QUIDEM MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM IPSO, HIS VERO OPPOSITAE ERUNT ALIQUANDO, NON OMNE ANIMAL IUSTUM EST EST ALIQUOD ANIMAL IUSTUM. Hoc quoque est diligentissime superius demonstratum, quod contrariae aliquotiens verum falsumque dividerent, si aut in rebus naturalibus aut in impossibilibus proponerentur: aliquotiens vero simul inveniri posse falsas, si res neque naturales neque impossibiles praedicarent. Contrarias autemesse dictum est, quaecumque vel affirmative vel negative universalem facerent enuntiationem. Ergo nunc hoc dicit: quae sunt, inquit, contrariae simul verae esse non possunt. Et hoc non sine quadam rerum determinatione locutus est. Ait enim: QUONIAM VERO CONTRARIA EST NEGATIO EI QUAE EST OMNE EST ANIMAL IUSTUM scilicet affirmationi ILLA QUAE SIGNIFICAT QUONIAM NULLUM EST ANIMAL IUSTUM SCILICET NEGATIO, HAE QUIDEM, inquit, quoniam sunt contrariae, quae simul verae esse non possunt, MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL NEQUE IN EODEM. Sed quod dixit neque verae simul huiusmodi est: nihil enim prohibet alio et alio tempore et affirmationem universalem et negationem veraciter ƿ posse proponi. Ut si quis dicat: Omnis homo iustus est  hoc si aureo saeculo diceretur, verissime proponeretur. Quod si quis rursus dicat: Nullus homo iustus est  hoc si ferreo saeculo enuntiet, erit vera propositio. Quare contingit et affirmationem universalem et negationem veras esse, quas manifestum est esse contrarias sed non simul: illa enim in aureo saeculo si ita contingit, illa in ferreo. Sed haec tempora diversa sunt et non sunt simul. Quare recte hoc quoque addidit ut diceret MANIFESTUM EST QUONIAM NUMQUAM ERUNT NEQUE VERAE SIMUL. Quod autem addidit NEQUE IN EODEM ad aliam eiusdem rei determinationem valet. Possunt enim rursus eodem tempore et simul universalis affirmatio et universalis negatio verae esse sed si non de eodem praedicentur. Ut si quis dicat: Omne animal rationale est  hoc si de hominibus praedicetur, vera est affirmatio. Quod si quis dicat: Nullum animal rationale est  hoc si de equis enuntiet, vera erit uno eodemque tempore contra universalem affirmationem universalis facta negatio sed non in eodem. Illa enim affirmatio de hominibus facta est, haec vero de equis negatio. Quamobrem recte dictum est numquam esse simul contrarias veras posse neque in eodsm id est nec uno eodemque tempore nec de uno subiecto. Sed quoniam his oppositae erant universali quidem affirmationi particularis negatio, universali vero negationi affirmatio particularis et has diximus idcirco subcontrarias dici, quod diversa quodammodo contrariis patiantur, manifestum est quoniam sicut contrariae verae simul esse non possunt, dividunt tamen aliquotiens inter se veritatem ƿ et falsitatem, ita quoque et subcontrariae dividunt quidem verum inter se falaumque aliquotiens, quando contrariae quoque diviserint, simul autem verae inveniri possunt, quando universales et contrariae simul falsae sunt, ut autem simul falsae sint, nulla rerum ratione contingit. Ergo contrarias quidem simul veras esse atque in eodem numquam quisquam poterit invenire, subcontrarias autem quae universalibus et contrariis oppositae sunt sibi inuicem comparatas veras inveniri possibile est: ut in eo ipso exemplo quod ipse proposuit: Non omne animal iustum est  vera est, rursus: Est aliquod animal iustum  haec quoque vera est. Quare contrariae simul verae esse non possunt, subcontrarias simul veras nihil prohibet inveniri. SEQUUNTUR VERO HAE: HANC QUIDEM QUAE EST NULLUS EST HOMO IUSTUS ILLA QUAE EST OMNIS EST HOMO NON IUSTUS, ILLAM VERO QUAE EST EST ALIQUI IUSTUS HOMO OPPOSITA QUONIAM NON OMNIS EST HOMO voN IUSTUS. NECESSE EST ENIM ESSE ALIQUEM. De consequentia propositionum simplicium atque infinitarum sufficienter quidem supra disseruit sed nunc haec est huic intentio non quae particularis affirmatio vel negatio quam universalem affirmationem vel negationem sequatur, quod iam supra monstravit, ƿ sed quae universalis negatio universalem sequatur affirmationem vel quae particularis negatio particulari scilicet affirmationi consentiat. Proponitque has quatuor dicens negationem quidem simplicem universalem et affirmationem infinitam universalem sese sequi et sibimet consentire nec minus his oppositas id est particularem affirmationem simplicem et particularem infinitam negationem et in veritate et in falsitate se sequi et a se nullo modo discrepare. Disponantur enim hae quatuor: prior affirmatio infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus  sub hac ei consentiens simplex universalis negatio quae proponit: Nullus est homo iustus  rursus in altera parte contra affirmationem infinitam particularis simplex affirmatio quae dicit: Est aliqui homo iustus  et sub hac particularis infinita negatio quae proponit:"Non omnis est homo non iustus" Omnis est homo non iustus Est quidam homo iustus Nulla est homo iustus Non omnis est homo non iustus.  His ergo ita dispositis si affirmatio universalis infinita vera sit ea quae dicit: Omnis est homo non iustus  vera est etiam ea quae proponit: Nullus est homo iustus  quae est universalis simplex negatio. Hoc autem melius in verioribus cognoscitur exemplis. Dicatur enim: Omnis est homo non quadrupes  vera, rursus: Nullus est homo quadrupes  haec quoque vera est. Quod si una harum falsa sit, falsa quoque erit et altera. Nam si falsa est quoniam omnis est homo non iustus, sicut vere quoque falsa est, illa quoque negatio simplex mendacissime praedicavit quae dicit: Nullus est homo ƿ iustus  quocirca affirmatio universalis infinita et negatio uniusrsalis simplex sibimet consentiunt, ut una vera alteram veram esse necesse sit, alterius falsitate reliquam quoque falsitas consequatur. Idem quoque evenit in parte altera. Nam si vera est quoniam quidam homo iustus est, vera quoque est quoniam non omnis est homo non iustus, est enim aliqui. Nam id quod dicitur non omnis tantundem est, tamquam si qui dicat quidam non est, quod in alio quoque exemplo manifestius apparebit. Si quis dicat: Non omnis homo iustus est  hoc est dicere "Quidam homo iustus non est". Ergo 'non omnis' 'quidam' non significat. Si quis ergo ita proponat: Quidam homo non iustus non est  quem dicit non esse non iustum iustum esse confirmat. Quare ille de quo dicitur quoniam non iustus non est erit iustus. Unde fit ut ea quae dicit: Non omnis est homo non iustus  consentiat ei quae dicit: Quidam homo non iustus non est  Sed haec consentit ei quae dicit: Quidam homo iustus est  haec igitur quoque consentit et ei quae proponit: Non omnis est homo non iustus  Sed quoniam hoc fortasse aliquatenus videtur obscurius, consequentiae ipsarum hoc modo sumendae sunt. Sitque nobis hoc positum affirmationem universalem infinitam et negationem universalem simplicem sibimet consentire, ut unius veritatem et falsitatem alterius veritas aut falsitas consequatur. Si falsa est affirmatio infinita universalis quae dicit: Omnis est homo non iustus  vera erit huic opposita particularis ƿ infinita negatio quae proponit: Non omnis est homo non iustus  Sed cum falsa est affirmatio universalis infinita, falsa quoque est universalis simplex negatio quae dicit: Nullus est homo iustus  Sed hac falsa particularem affirmationem quae huic contradictorie opposita est veram esse necesse est, quae est: Est quidam homo iustus  Quocirca quando affirmatio universalis infinita falsa est, vera est particularis infinita negatio et quando universalis negatio simplex falsa est, vera est simplex affirmatio particularis. Sed affirmatio universalis infinita et negatio universalis simplex simul falsae sunt et sibimet in falsitate consentiunt: simul igitur erunt verae simplex particularis affirmatio et infinita negatio particularis. Rursus si vera est affirmatio universalis infinita, falsa erit negatio particularis infinita: ei enim contradictorie opposita est. Si rursus vera est universalis simplex negatio, falsa est particularis simplex affirmatio. Sed universalis affirmatio infinita et universalis negatio simplex simul verae sunt: simul igitur erunt falsae particularis affirmatio simplex et particularis infinita negatio. Quare hae quoque, id est particularis affirmatio simplex et particularis infinita negatio, sibimet in veritate et falsitate consentiunt et veritatem suam et mendacium inuicem consequuntur. Quare affirmatio quidem et negatio utraque universalis, haec simplex, illa infinita, sequuntur sese sibique consentiunt. Particulares autem id est universalibus oppositae simplex affirmativa et negative infinita, ipsae quoque sibimet consentiunt. Quare rectus est ordo, ut sicut affirmationi universali infinitae consentit simplex universalis negatio, ita particulari ƿ affirmationi simplici particularis negatio infinita consantiat. MANIFESTUM EST AUTEM, QUONIAM ETIAM IN SINGULARIBUS, SI EST VERUM INTERROGATEM NEGARE, QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM EST, UT PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? NON; QUONIAM SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. IN UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, VERA AUTEM NEGATIO, UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? NON. OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS. HOC ENIM FALSUM EST. SED NON OMNIS IGITUR HOMO SAPIENS VERA EST; HAEC AUTEM EST OPPOSITA, ILLA VERO CONTRARIA. De consequentia propositionum disputans et sibi quemadmodum consentirent ilium tractatum parumper egressus docere proposuit, quae veniant in responsionem de singularibus, si ad praedicationem ipsorum sit particula negationis apposita, quae rursus in his quae de universalibus sunt propositionibus ad praedicationem addita particula negative concurrent. Neque enim oportet similiter facere enuntiationes. Non enim simile est quod ex utraque praedicatione contingit. Hoc autem ita manifestum est: si quis de singulari aliquo interrogatus neget, ille qui interrogaverit potest facere ex infinito nomine praedicato illam scilicet negationem iungens quam respondens ante negaverit, et hoc veraciter praedicabit. De universalibus autem apparebit non eandem ƿ veritatem posse contingere, si ex his affirmatio componatur. Si quis enim interroget alium PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? Si ille responderit NON, vere ille concludit dicens: SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sit autem hoc in alio quoque clariori exemplo manifestum atque interrogemus aliquem hoc modo: Socratesne Romanus est? Ille respondeat: non, nos vere concludere possumus: Socrates igitur non Romanus est, facientes ex negatione quam ille respondebat et ex nomine quod nos in propositione praedicavimus affirmationem ex nomine infinito quae dicit: Socrates non sapiens est vel Socrates non Romanus est. Has enim affirmationes esse ex infinito nomine supra monstratum est. Si igitur eodem modo aliquis in universalibus subiectis interroget dicens: OMNISNE HOMO SAPIENS EST? Nos utique respondebimus: NON. Tum ille eadem similitudine concludit. Dicit enim: OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS EST. Quocirca nullus homo sapiens est. Ea enim quae dicit: Omnis homo non sapiens est  consentire monstrata est ei quae dicit: Nullus homo sapiens est  Videbitur ergo quodammodo ex vera responsione falsa inlata esse conclusio. Cui nos dicimus negationem quidem nos respondisse, non ut ea negatio ad praedicatum iungeretur sed ad determinationem. Neque enim nos voluisse ab omni homine sapientiam tollere, cum interrogante an omnis homo sapiens esset ƿ nos negaremus sed ab omni potius id est determinatione voluisse nos abstrahere sapientiam, illud scilicet significantes, quod alicui esset et alicui non esset sapientia, ut quod diximus non tantum valeret tamquam si diceremus non omnis. Ergo si illa negatio ad nomen, id est ad sapientem iongatur, universalis fit affirmatio quae dicit: Omnis homo non sapiens est  consentiens universali negationi quae proponit: Nullus homo sapiens est  Sed haec contraria est interrogationi. Fuit enim interrogatio: Omnisne homo sapiens est?  Haec habet universalem affirmationem, cui contraria est universalis negatio, cui rursus negationi consentit affirmatio universalis infinita. Quocirca affirmationi quoque universali simplici, quae in interrogatione posita est, id est omnisne homo sapiens est? Contraria est ea quae dicit conclusio quoniam omnis homo non sapiens est. Quod si dicat: Non omnis homo sapiens est  et verum est et ei est opposita. Contra enim eam quae dicit interrogationem: Omnisne homo sapiens est?  Cum responsum fuerit non et iuncta negatio fuerit ad omnis, particularis negatio fit dicens: Non omnis homo sapiens est  quae est opposita universali affirmationi ei quae in interrogatione proposita est [universali]. Hoc est enim quod ait: HAEC AUTEM EST OPPOSITA, ILLA VERO CONTRARIA. Per verba autem sensus iste sic constat: ƿ MANIFESTUM EST AUTEM, inquit, QUONIAM IN SINGULARIBUS, ut est Socrates et quidquid individuum est, SI EST VERUM INTERROGATUM NEGARE, id est si quando quis aliquid interrogatus vere negaverit, cum aliquis interrogatur, an Romanus sit Socrates, ille neget, QUONIAM ET AFFIRMARE VERUM EST? ut ille qui interrogat ex negatione et nomine praedicato faciat infinitam affirmationem. Et huius exemplum: PUTASNE SOCRATES SAPIENS EST? Responsio NON. Conclusio quoniam SOCRATES IGITUR NON SAPIENS EST. Sed hoc non similiter in universalibus se habet, quod per hoc monstrat quod ait: IN UNIVERSALIBUS VERO NON EST VERA QUAE SIMILITER DICITUR, id est non est vera affirmatio infinita facta ex praedicato nomine et respondentis negatione sed potius vera est negatio, non affirmatio. Huius exemplum: nam interrogatio est UT PUTASNE OMNIS HOMO SAPIENS? Responsio NON. Falsa conclusio OMNIS IGITUR HOMO NON SAPIENS. Hoc enim falsum est et simile ei quod supra de singulari subiecto praediximus sed potius illa quae dicit: Non omnis igitur homo sapiens est  ut respondentis negatio ad omnis iungatur et fiat negatio particularis. Est enim haec vera haec autem est opposita. Nam cum affirmatio universalis interrogata esset ea quae dicit: Omnis homo sapiens est  ex negativa particula factum est: Non omnis homo sapiens est  in conclusione et sunt oppositae. ƿ Illa est enim affirmatio universalis, haec autem particularis negatio. ILLA VERO CONTRARIA. Nam si non negatio ad praedicatum iungatur, fit universalis affirmatio infinita, quae consentit universali negationi finitae. Sed haec contra affirmationem universalem finitam quae in interrogatione est posita contraria est. Contraria igitur erit etiam illa quae universalis est affirmatio infinita. Quae autem causa est cur in singularibus vel affirmatio ex infinito nomine vel negatio finita sibimet consentiant, in universalibus autem universalis affirmatio ex infinito nomine non consentiat particulari negationi finitae, quaerendum est. Etenim si quis dicat Socrates non sapiens est et Socrates sapiens non est, idem est et hae duae sibimet consentiunt? Si quis autem dicat: Omnis homo non sapiens est  et rursus: Non omnis homo sapiens est  hae duae sibi non consentiunt. Sed haec ratio est, quod in singularibus subiectis non sunt duplices oppositiones sed una tantum, id est quae negationem facit, in universalibus autem universaliter praedicatis duplex oppositio est, una contraria, una vero contradictoria. Si ergo sit huiusmodi affirmatio quae dicat: Socrates sapiens est  contra hanc una est oppositio quae proponit: Socrates sapiens non est  Si ergo dicat aliquis: Socrates non sapiens est  haec nullum alium habebit intellectum quam ea quae dicit: Socrates sapiens non est  Unam enim tautum solam diximus in singularibus oppositionem. Quare quaecumque aliae fuerint, eadem significatione ƿ concurrent. In universalibus vero universaliter praedicatis non eodem modo est. Nam si sit affirmatio universalis quae dicit: Omnis homo sapiens est  contra hanc etiam illa est quae dicit: Nullus homo sapiens est  etiam illa quae dicit: Non omnis homo sapiens est  Et illa est contraria, haec contradictoria. Duplex ergo haec oppositio sibi non potest consentire. Illa enim totum tollit quae est universalis negatio, illa partem finita quae est particularis negatio. Sed univerealis negatio universali affirmationi ex infinito nomine consentit: diversa igitur erit haec quoque a particulari finita negatione. Quoniam ergo duplex est oppositio in universalibus, simplex in singularibus, recte in eadem similitudine praedicationis non eadem veritas falsitasque contingit. ILLAE VERO SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA, UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL VERBO ESSE VIDEBUNTUR SED NON SUNT; SEMPER ENIM VEL VERAM ESSE VEL FALSAM NECESSE EST NEGATIONEM, QUI VERO DIXIT NON HOMO, NIHIL MAGIS DE HOMINE SED ETIAM MINUS verUS FUIT VEL FALSUS, SI NON ALIQUID ADDATUR. SIGNIFICAT AUTEM EST OMNIS NON HOMO IUSTUS NULLI ILLARUM IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO QUAE EST ƿ OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM SIGNIFICAT. Novimus propositiones ex infinitis fieri posse nominibus: has ergo dissoluens Aristoteles sumit proxime dictionem nominis infiniti et de ea disputat si contra finitum nomen comparetur haec quaedam enuntiativa oppositio videatur. Si quis enim sumat id quod dicimus non homo et opponat contra id quod dicimus homo, videbitur fortasse aliquatenus facere oppositionem. Quoniam enim omnis negativa particula adiecta verbo, quod continet propositionem, negationem facit, si modus aliquis propositionis non praedicetur, quod posterius demonstrandum est, [et] videtur cum adiecta fuerit negativa particula quandam facere negationem, ut si non particula inugatur ei quod est homo faciet non homo. Hoc est enim quod ait: ILLAE VERO QUAE SUNT SECUNDUM INFINITA OPPOSITAE NOMINA VEL VERBA, UT IN EO QUOD EST NON HOMO VEL NON IUSTUS, QUASI NEGATIONES SINE NOMINE VEL VERBO ESSE VIDENTUR. Si quis enim dicat non currit, haec fit sine nomine negatio; quod si quis dicat non homo, haec quoque est sine verbo negatio. Quae dictiones secundum infirutum nomen et verbum opponuntur fimto verbo vel nomini quod est currit et homo: videbuntur ergo hae negationes secundum infinitum nomen vel ƿ verbum quae praedicantur SED NON SUNT. Maxima enim probatio has negationes non esse conuincit, quod omnis negatio vel vera vel falsa est, quod autem dicimus non homo vel non currit, licet simplicia quoque et finita homo scilicet atque currit nihil verum falsumue significent, tamen haec infinita multo minus aliquid verum aut falsum demonstrant. Non quod simplicia verum aliquid falsumue significent, idcirco dicimus infinitas dictiones simplicibus minus verum falsumue monstrare sed quod quamquam nihil verum vel falsum designet simplex nomen aut verbum, tamen definitum quiddam proponit, ut in eo quod est homo finitum quiddam est et una species. Is vero qui dicit non homo, praesentem quidem speciem interimit, infinitas tamen alias dat intellegere ipse nihil ponens. Quocirca quamquam finita verba vel nomiha per se vera vel falsa esse non possint nisi cum aliis iuncta sint, tamen longe minus veritatis aut falsitatis capacia sunt nomina infinita vel verba, quae nec hoc ipsum quidem quod significant ponunt sed illud quidem perimunt, nihil autem per se aliud in significatione constituunt: postremo propinquius ad veritatis vel falsitatis finita intellectus. Minus igitur vera vel falsa est dictio nominis infiniti quam alicuius simplicis et finiti vocabuli. SIGNIFICAT AUTEM EST OMNIS NON HOMO IUSTUS ƿ NULLI ILLARUM IDEM NEC HUIC OPPOSITA EA QUAE EST NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS. ILLA VERO QUAE EST OMNIS NON IUSTUS NON HOMO ILLI QUAE EST NULLUS IUSTUS NON HOMO IDEM SIGNIFICAT. Postquam de propositionibus infinitum habentibus praedicatum sufficienti disputatione locutus est earumque oppositiones ostendit consequentiasque demonstravit, in medio de infinitis nominibus quod non essent negationes breviter pernotavit, nunc redit ad eas propositiones quae subiectum habent infinitum, praedicatum vero vel finitum vel infinitum. Et primum quidem an eaedem sint idemque significent habeantque ordine aliquam consequentiam hae propositiones quae ex infinito subiecto sunt cum his quae ex infinito praedicato sunt vel ex utrisque finitis docet. Ait enim has duas propositiones quae sunt EST OMNIS NON HOMO IUSTUS, NON EST OMNIS NON HOMO IUSTUS nulli illarum idem significare quae aut ex utrisque finitis esset aut ex praedicato infinito. Et disponantur quidem illae quae aut ex utrisque finitis sunt aut ex praedicato infinito. Et primum quidem ponatur simplex affirmatio universalis, sub hac negatio universalis ex praedicato infinito superiori simplici affirmationi consentiens. Contra vero ponatur universalis simplex negatio et sub hac universalis ex infinito praedicato affirmatio, quas constat sibimet consentire praesidente affirmatione universali quae est ex infinito scilicet praedicato. Est omnis homo iustus Nullus est homo iustus Nullus est homo non iustus Est omnis homo non iustus. Cum ergo ita sint affirmationes positae et negationes quae simplex quidem subiectum habeant, infinitum vero vel simplex praedicatum, nunc Aristoteles dicit quoniam hae propositiones quae subiectum habent infinitum nulli illarum superiorum quas disposuimus idem significant. Haec enim quae dicit: Est omnis non homo iustus  non consentit ei quae dicit: Est omnis homo iustus  nec rursus ei quae dicit: Est omnis homo non iustus  nec his rursus quae sunt: Nullus est homo iustus  vel: Nullus est homo non iustus  Hae enim omnes hominem subiectum habent, illa vero non hominem. Quocirca nec huius negatio, id est universalis affirmationis ex infinito subiecto particularis scilicet negatio, cum ulla earum quae finitum subiectum habent poterit consentire. Ea enim quae dicit: Non est omnis non homo iustus  neque cum ea quae proponit: Est omnis homo iustus  neque cum ea quae dicit: Est omnis homo non iustus  neque cum his quae enuntiant: Nullus est homo iustus  vel: Nullus est homo non iustus  Sed non hoc dicit, quoniam ex infinito subiecto propositiones diversae sunt his quae sunt vel ex finito praedicato vel ex infinito, subiecto tamen finito. Possunt enim diversae quidem esse praedicationes, idem tamen aliquotiens significare, ut ea quae dicit: Omnis est homo iniustus  cum sit diversa ab ea quae dicit: Nullus est homo iustus  idem tamen aliquando significant, si affirmatio privatoria praecesserit. Dictum est enim quod affirmationibus praecedentibus negationes sine dubio ƿ sequerentur ergo non hoc dicit, quoniam diversae sunt ex infinito nomine subiecto, praedicato vel finito vel infinito, subiecto tamen finito sed quod omnino sibi non consentiant nec idem significent id est tota sint propositionis virtute dissimiles. Atque haec quidem dixit de his quae finitum subiectum haberent, infinitum vero praedicatum. Venit autem nunc ad ipsarum consequentias quae ex infinito nomine subiecto constant et sicut supra consequentiam earum quae ex utrisque finitis erant vel ex infinito praedicato docuit, ita quoque nunc e converso quae ex utrisque infinitis nominibus constant vel infinito nomine subiecto qualem ad se habeant consequentiam monstrat dicens: illa vero quae est: Omnis non iustus non homo  illi quae est: Nullus iustus non homo  idem significat. Has duas tantum propositiones monstrat, affirmativam scilicet universalem ex utrisque infinitis quae dicit: Omnis non iustus non homo  ei consentire quae est universalis negatio ex solo infinito subiecto quae dicit: Nullus iustus non homo  In his autem subauditur particula est, ut sit tota propositio: Omnis non iustus non homo est  et rursus: Nullus iustus non homo est  Nam sicut in his, quae finitum habebant subiectum, infinitum vero vel finitum praedicatum, affirmationem ex finito subiecto et infinito ƿ praedicato eam scilicet quae dicit: Est omnis homo non iustus  sequebatur simplex universalis negatio quae ex utrisque finitis constat id est: Nullus homo iustus est  ita quoque in his permutatis tantum subiectis idem evenit. Nam sicut illic negatio ex utrisque finitis universalis sequebatur affirmationem ex finito subiecto et infinito praedicato universalem, ita hic quoque affirmationem ex utrisque infinitis universalem sequitur negatio ex infinito subiecto ipsa quoque universalis. Et has quidem duas propositiones adscripsit solam in his consequentiam, caeteras autem, quod putabat intellectu esse faciles, persequi neglexit. Nos autem eas ne quid relictum videatur apponimus. Est enim sequentia hoc modo: Omnis non homo non iustus est Quidam non homo iustus est Nullus non homo iustus est Non omnis non homo non iustus est Omnis non homo iustus est Quidam non homo non iustus est Nullus non homo non iustus est Non omnis non homo iustus est  ƿ Has igitur si quis diligenter inspexerit duas comparationes duabus convenientissimam consequentiam consensumque monstrabunt.  Maximam operis emensi partem ea quae sequuntur licet magnis quaestionibus impedita, tamen audacius atque animosius exsequimur nec defatigari in singulis partibus oportet totius dialecticae prodere adgressos atque expedire doctrinam. Itaque rectam commentationis seriem conteximus. TRANSPOSITA VERO NOMINA VEL VERBA IDEM SIGNIFICANT, UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. NAM SI HOC NON EST, EIUSDEM MULTAE ERUNT NEGATIONES. SED OSTENSUM EST, QUONIAM UNA UNIUS EST. EIUS ENIM QUAE EST EST ALBUS HOMO NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO; EIUS VERO QUAE EST EST HOMO ALBUS, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, ERIT NEGATIO VEL EA QUAE EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS. SED ALTERA QUIDEM EST NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA ƿ VERO EIUS QUAE EST EST ALBUS HOMO. QUARE ERUNT DUAE UNIUS. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO NOMINE VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST. Docet nunc quoniam si verba vel nomina transferantur et aliud prius, aliud vero posterius praedicetur, unam sine dubio significantiam retinere. Sive enim quis dicat: Est homo albus  sive: Est albus homo  sive: Homo albus est  sive: Albus homo est  sive quomodolibet aliter ordinem praedicationis permPomba, eadem sine dubio significatio permanebit. Et hoc quidem fortasse oratoribus vel poetis non eodem modo perspiciendum est quo dialecticis. Etenim qui ad compositionem orationis spectant, maximum differt quo verba et nomina praedicationis suse ordine proferantur. Multum enim interest in eo quod ait Cicero: Ad hanc te amentiam natura peptrit, voluntas exercuit, fortuna servavit  ita dixisse ut dictum est an ita: ad hanc te amentiam peperit natura, exercuit voluntas, servavit fortuna. Sic enim minor est sententiae magnitudo minusque in ea lucet id quod si componatur eminet et sese vel nolentibus hominum auribus animisque patefacit. Rursus cum dicit Vergilius: Pacique imponere morem, potuisset servare metrum  si ita dixisset: moremque imponere paci sed esset debilior sonus nec eo ictu versus tam praeclare nunc compositus diceretur. Ergo non idem valet oratoribus vel poetis verborum nominumque ordo mutatus. ƿ Qui enim ad compositionem spectant, multum in ordine sermonum ornamenti reperient. Dialecticis vero, quibus nulla ad orationis leporem cura dicendi congruit quibusque sola veritas perscrutatur, nihil differt quolibet ordine verba et nomina si permutentur, cum tamen eandem vim quam prius in significatione retineant. Sed nec apud ipsos modis omnibus permutato ordine dictionis eadem semper vis significatioque servatur. Haec enim particula quae negativa est, id est 'non', multum valet multamque differentiam perficit variis adiecta locis. Si quis enim dicat: Homo albus non est  faciet indefinitam simplicem negationem. Si quis vero dicat: Homo non albus est  faciet indefinitam ex infinito praedicato affirmationem. Si quis autem praedicet: Non homo albus est  idem quoque constituit ex infinito subiecto indefinitam affirmationem. Rursus si quis dicat hoc modo: Omnis homo non iustus est  haec consentit ei quae dicit: Nullus homo iustus est  Quod si idem non ad universalitatis determinationem ponatur, ut dicatur: Non omnis homo iustus est  non iam universalis affirmatio infinitae praedicationis consentiens universali simplici negationi fit sed potius particularis negatio simplex. Videsne igitur quam multas faciat differentias negativa particula diversae nominum praedicationi coniuncta? Sed quamquam haec ita sint, potest tamen eadem alio modo diversis in locis posita eandem vim significationemque servare. Si enim posita non particula cum universalitate sua cum eadem ipsa saepius permPombaur, idem sine dubio in significatione consistit. Si quis enim dicat: Non omnis homo albus est  particularis est negatio simplex. Si quis vero sic dicat: Homo non omnis albus est  eadem significatio est, vel si hoc modo: Homo albus non omnis est  nec haec a superiori significatione discedit, vel si quis amplius quoque permPomba dicens: Homo albus est non omnis  a priori significatione nil discrepat. Eodem modo vel si quomodolibet aliter permPombaur cum propria tamen universalitatis determinatione, diverso permutata modo idem semper necesse est in significatione seruetur. Eodem modo si eadem non particula cum alio nomine vel verbo iuncta saepius transferatur, ut cum dicimus homo iustus non est, rursus homo non est iustus, rursus non est homo iustus, eadem significatio retinetur. Quocirca si sola negativa parcula permutata sit et non eodem semper ordine praedicetur, multas differentias faciet propositionum. Sin vero iuncta cum alio nomine saepius (ut dictum est) transferatur, eadem in translationibus omnibus significatio permanebit. His igitur ita dispositis videndum est quae sit Aristotelis demonstratio verba et nomina transposita eandem semper vim significationemque subicere. Ait enim: TRANSPOSITA VERO VERBA VEL NOMINA IDEM SIGNIFICANT, UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. Haec enim transpositis nominibus atque verbis eandem retinet significationem. In illa enim prius albus est, posterior homo, in hac autem prior homo, posterior albus. Quod si hoc falsum est et non sunt eaedem ƿ sed a se diversae sunt, impossibile aliquid inconveniensque contingit. Erunt enim duae negationes unius affirmationis, quod est impossibile. Ostensum enim est quoniam una negatio unius affirmationis est. Nunc igitur videamus si hae affirmationes quae dicunt: Est albus homo  et: Est homo albus  non sunt eaedem sed diversae, quemadmodum unius affirmationis duae sint negationes. Et primo quidem disponantur hoc modo: Est albus homo Est homo albus  huius ergo propositionis quae dicit: Est albus homo  erit negatio ea scilicet quae proponit: Non est albus homo  Alia namque quae esse possit rationabiliter non potest inveniri. Disponantur igitur rursus eaedem et superior cum propria negatione: Est albus homo Non est albus homo Est homo albus  Cum igitur eius quae dicit: Est albus homo  negatio sit ea quae proponit: Non est albus homo  si ea quae dicit: Est homo albus  diversa erit ab ea propositiones quae enuntiat: Est albus homo  alia eius erit negatio. Sit ergo aut ea quae dicit: Non est non homo albus  aut ea quae dicit: Non est homo albus  Rursus igitur disponantur duae quidem affirmationes primae alternatim positae et e contrario confessa prioris negatio. Contra secundam vero utraeque hae negationes quas dicimus adscribantur. Est albus homo Non est albus homo Est homo albus Non est non homo albus Non est homo albus  ƿ His ergo ita descriptis eius propositionis quae dicit: Est homo albus  non potest illa esse negatio quae dicit: Non est non homo albus  Illius est enim negatio quae habet subiectum infinitum quae dicit: Est non homo albus  similiter autem et si quamlibet aliam quis posuerit negationem, eius sine dubio alia affirmatio reperietur. Unde fit ut relinquatur ea eius esse negatio quae proponit: Non est homo albus  Est ergo negatio eius quae dicit: Est homo albus  ea quae dicit: Non est homo albus  Sed eius affirmationis quae proponit: Est albus homo  negatio est et ista quae dicit: Non est homo albus  Quod probat ea res quod inter se verum falsumque dividunt. Nam si verum est esse album hominem, falsum est non esse hominem album. Quod si in aliquibus verum invenitur, hoc secundum definitionem propositionis agnoscitur, non secundum negationis formam, ut magis secundum quantitatem non sint sibi oppositae potius quam secundum qualitatem. Quod illa res nuonstrat si quis sic dicat: Est albus omnis homo  Si contra hanc ponatur non est omnis homo albus, perspicuum est quoniam inter se et veritatem dividunt et falsitatem. Unam enim veram esse necesse est, unam falsam. Quare etiam si determinationes auferantur, eadem oppositio redit, licet sit indefinita. Nam sicut in ea quae dicit: Omnis homo iustus est Non omnis homo iustus est  sublatis omnis et: Non omnis homo iustus est  et: Homo iustus non est  affirmatio et negatio sunt oppositae, ita quoque et in ƿ his sublato omnis et non omnis ea quae dicit: Est albus homo  ei quae dicit: Non est homo albus  opposita est. Additis enim determinationibus una semper vera est, altera falsa. Sed diximus quoniam eius affirmationis quae dicit: Est albus homo  negatio esset: Non est albus homo  Duae igitur negationes: Non est albus homo  et: Non est homo albus  unius affirmationis sunt quae enuntiat: Est albus homo  Quod evenit si negationes hae quae dicunt: Non est homo albus  et: Non est albus homo  a se diversae sunt. Quod ex eo contingit quod prius propositum est eam quae dicit: Est albus homo  diversam esse ab ea quae dicit: Est homo albus  Quod si hoc impossibile est ut una affirmatio duas habeat negationes et perspicuum est contra eam affirmationem quae dicit: Est albus homo  utrasque has negationes quae dicunt: Non est albus homo  et: Non est homo albus  opponi, hae a se diversae non sunt sibique consentiunt et tantum permutatione nominis distant, caeteris autem omnibus eaedem sunt. Quod si hae negationes eaedem sunt, eaedem quoque sunt affirmationes. Recte igitur dictum est quoniam transposita verba et nomina eandem vim significationemque servarent. Sensus ergo totus sese ita habet. Hoc modo autem ordo verborum: TRANSPOSITA VERO, inquit, NOMINA VEL VERBA IDEM SIGNIFICANT. Et horum exemplum: UT EST ALBUS HOMO, EST HOMO ALBUS. In his enim nomina transposita sunt. NAM SI HOC NON EST, id est si non idem significant verba nominaque transposita, quiddam impossibile et inconveniens. Ait enim EIUSDEM ƿ MULTAE ERUNT NEGATIONES, id est eiusdem affirmationis multae erunt negationes. Sed hoc impossibile est. Ostensum est enim quoniam una negatio unius affirmatio his est. Duas ergo negationes uni opponi affirmationi, si verba et nomina transposita non idem significant, sic demonstrat: EIUS ENIM QUAE EST EST ALBUS HOMO scilicet affirmationis NEGATIO EST NON EST ALBUS HOMO (contra illam enim affirmationem haec negatio iuste ponitur), EIUS VERO QUAE EST EST HOMO ALBUS, id est alterius affirmationis, SI NON EADEM EST EI QUAE EST EST ALBUS HOMO, id est si diversa est a priore propositione quae dicit: Est albus homo  et non est ei eadem, ac si diceret: si ei non consentit, ERIT NEGATIO VEL EA QUAE EST NON EST NON HOMO ALBUS VEL EA QUAE EST NON EST HOMO ALBUS vel quaecumque alia, quam si quis ponat, non esse negationem una ratione refellitur, qua haec quam posuit. Refellitur autem haec hoc modo: ait enim: SED ALTERA QUIDEM EST NEGATIO EIUS QUAE EST EST NON HOMO ALBUS, ALTERA VERO EIUS QUAE EST EST ALBUS HOMO. Inter duas enim negationes quas posuit, illam scilicet quae dicit: Non est non homo albus  et eam quae proponit: Non est homo albus  illa quae dicit: Non est non homo albus  negatio est affirmationis infinitum habentis subiectum quae dicit: Est non homo albus  alia vero scilicet quae proponit: Non est homo albus  eius est ƿ negatio quae est: Est albus homo  Cum ea enim verum dividit atque falsum. Quare erunt duae negationes unius affirmationis. Sed hoc impossibile est. QUONIAM IGITUR TRANSPOSITO NOMINE VEL VERBO EADEM FIT AFFIRMATIO VEL NEGATIO MANIFESTUM EST: superiorem argumentationem hac huius sententiae conclusione confirmans. Fecit autem hunc syllogismum in secundo modo hypothetico quem indemonstrabilem vocat hoc modo: si primum est, secundum est; sed secundum non est, primum igitur non est, id est si transpositis verbis et nominibus non sunt eaedem propositiones, unius affirmationis duae sunt negationes; sed hoc impossibile est: non igitur diversae sunt propositiones transpositis verbis atque nominibus. AT VERO UNUM DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE VEL NEGARE, SI NON EST UNUM EX PLURIBUS, NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. DICO AUTEM UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT POSITUM, NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS, UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT; EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM. QUARE NEC SI UNUM ALIQUID DE HIS AFFIRMET ALIQUIS ERIT UNA AFFIRMATIO SED VOX QUIDEM UNA, AFFIRMATIONES VERO MULTAE, NEC SI DE UNO ISTA SED SIMILITER PLURES. Multos talis loci huius caligo confudit, ut digne exsequi et quod ab Aristotele dicebatur expedire non ƿ possent. Nos autem supra iam diximus magnae fuisse curae apud Peripateticae sectae principes diiudicare, quae esset una affirmatio vel negatio, quae plures. Neque enim vocis sonitu cognoscuntur aut numero terminorum. Est enim ut una quidem res de una re praedicetur et non sit una enuntiatio. Potest item fieri ut vel plures de una re praedicentur vel una de pluribus, una tamen ex his omnibus enuntiatio fiat. Quae res magnae apud eos cautelae fuit, ut ubi incidisset perspecta regula non lateret. Nam si quis dicat: Canis animal est  non est una enuntiatio. Canis enim multa significat. Si quis vero dicat: Homo animal rationale mortale est  vel animal rationale mortale homo, singulae enuntiationes sunt, idcirco quoniam unum ex omnibus quiddam fieri potest. Nam de animali, mortali et rationali simul iunctis unus homo perficitur. Item alia sunt quae plurima praedicantur, de quibus unum aliquid effici constituique non possit. Neque si illa de altero praedicentur neque si de illis aliud, una affirmatio vel una negatio est sed tot dicendae sunt esse affirmationes quot sunt hae res quae vel de una praedicantur vel de quibus una dicitur, ut cum dicimus: Socrates calvus philosophus ambulat  Ex calvitia et philosophia et ambulatione nihil unum coniungitur, ut haec quasi alicuius speciem forment. Quocirca sive haec de uno praedicentur sive unus de istis, non poterit esse una enuntiatio. Et communiter quidem totius propositi sensus huiusmodi est. Nunc autem ad ipsa Aristotelis verba veniamus. Dicit enim: AT VERO UNUM DE PLURIBUS VEL PLURA DE UNO AFFIRMARE VEL NEGARE, SI NON EST UNUM ES PLURIBUS, NON EST AFFIRMATIO UNA NEQUE NEGATIO. Si, inquit, plura de uno praedices, ut cum dicis: Philosophus simus calvus Socrates est  vel rursus cum unum de pluribus praedicas, cum dicis: Socrates philosophus simus calvus est  si ex his pluribus quae vel praedicas vel subicis unum aliquid non fit, quemadmodum fieri unum potest de his quae praedicamus substantia animata sensibilis id quod est animal, non fit una negatio nec una affirmatio, quandoquidem plura vel praedicantur vel subiciuntur, ex quibus congregatis una species non exsistat. Quod si unum de uno aliquis praedicaverit, quorum unum nomen plura significet, ex quibus pluribus unum aliquid non fiat, rursus non est una affirmatio nec una negatio. Si quis enim dicat: Canis animal est  nomen canis significat et latrabilem et caelestem et marinum, ex quibus iunctis nihil unum efficitur. Quare quoniam ex his pluribus unum aliquid effici non potest, ex illo quoque nomine non fit una affirmatio et una negatio, quod praedicatur aut subicitur, cum multa significet ex quibus unum fieri non possit. Quod per hoc ostendit quod ait: DICO AUTEM UNUM NON SI UNUM NOMEN SIT POSITUM NON SIT AUTEM UNUM EX ILLIS. Potest enim fieri ut unum nomen de uno praedicetur sed si unum ipsorum plura significet, ex quibus unum non sit, non est una affirmatio nec una negatio. Neque enim vox una perficit enuntiationem sed eius quod significatur simplicitas, vel si plura sins, in unum collectorum ƿ aliquid unum faciendi potentia. Huius autem rei subiecit exemplum quo plurimos fefellit dicens: UT HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, EX ALBO AUTEM ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM. Putaverunt enim alii ita hunc dixisse, ut ostenderet exempli gratia se hanc quasi definitionem dedisse, ne forte aliquis arbitraretur hanc quasi veram hominis definitionem posuisse, quae est animal bipes mansuetum. Idcirco enim, inquiunt, dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM EST, ne quis omnino putaret huiusmodi esse hominis definitionem Aristotelem arbitrari. Alii vero hoc non ita dictum acceperunt sed potius in hanc sententiam scripturamque Aristotelis dictum interpretati sunt: UT HOMO EST AEQUE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM SED EX HIS UNUM FIT, ut ita intellegeretur: homo quidem aequaliter se habet ad id quod homo est et ad id quod animal bipes mansuetum est. Quocirca si idem et aequum est dicere hominem, quod animal bipes mansuetum, necesse est quotiens de uno haec plura praedicantur, id est animal bipes mansuetum de homine, quoniam aequale est homini, quod unum est, unum quiddam praedices, quamuis tres voces praedicare videaris. Sed omnes hi nihil omnino intellegunt sed est melior expositio quam Porphyrius dedit. Volens, inquit, Aristoteles monstrare, quae una esset affirmatio, quae non una, dixit primo, quoniam plura de uno praedicare vel plura uni subicere non est ad unam enuntiationem, nisi ex illis pluribus unum aliquid fieret. Videns item quod adhuc possint plures esse affirmationes etiam his praedicatis, quae cum plura sint, unum tamen ex his fieri possit, hoc dixit FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES EST ET MANSUETUM quod autem dico tale est: manifestum quidem sit, quoniam si plura de uno praedicentur, ex quibus unum fieri non possit, vel si plura uni subiciantur, ex quibus unum non sit, quoniam non est una affirmatio rel negatio.Nunc autem tractemus de his pluribus ex quibus unum aliquid fieri potest. Inveniemus enim et in his in modo ipso enuntiandi plures aliquotiens enuntiationes et non unam reperiri, quamquam ex pluribus unum fieri aliquid possit. Si quis enim sic dicat: animal rationale mortale homo est, simul iungens animal rationale mortale, quoniam continve dictum est et ex his unum aliquid fit, una est affirmatio. Sin vero sit aliquid interualli, ut ita quis dicat: homo animal et rursus rationale et aliquantulum requiescens dicat mortale est, non est una affirmatio nec una negatio. Haec enim intercapedo plurimas efficit enuntiationes. Rursus si cum coniunctione dicantur homo animal et rationale et mortale est, sic quoque multae propositiones sunt. Nec differt aliquid vel requiescendo vel interponendo coniunctiones dicere quam si quis sic dicat: Homo animal est Homo rationalis est Homo mortalis est  quae perspicue propositiones multae sunt. Videns ergo hoc Aristoteles ita dixit: HOMO EST FORTASSE ET ANIMAL ET BIPES ET MANSUETUM. Ad hoc inquit fortasse tamquam si ita diceret: de homine quidem et bipede et mansueto fit unum sed est aliquotiens forte ut plures propositiones sins, cum ea coniunctio quaedam separat atque discernit. Erit enim fortasse homo et animal, ut haec una sit propositio, et bipes ut altera et mansuetum ut rursus altera. Sed ex his unum aliquid fit, quae cum continve prolata sunt, quoniam ex his unum aliquid conficitur, una est propositio. Non autem idem evenit in omnibus. EX ALBO enim ET HOMINE ET AMBULARE NON UNUM FIT. Si quis enim dicat: Socrates homo albus ambulat  non est una affirmatio, quoniam ex homine albedine et ambulatione nulla omnino species fit. Quare conclusio est, quoniam nec si de his pluribus, ex quibus unum non fit, unum aliquid praedicetur, ut ex terreno latrabili et caelesti et merino quoniam unum non fit et de his unum aliquid praedicatur, quod dicimus canis, huiusmodi nomen quod plura significat, ex quibus unum non fit, si de altero praedicetur vel si subiciatur alteri, non fit una affirmatio nec una negatio sed erit quidem vox una, affirmationes vero plurimae. Sive enim unum de pluribus praedicetur, ex quibus non fit unum, vel plura huiusmodi de uno, vel si unum de uno praedicetur, quod praedicatum plura significet, ex quibus unum non fit, sive illud praedicatum alteri subiciatur, omnino non fit una affirmatio nec una negatio. Est autem regula huiusmodi: una affirmatio est, si aut duo termini singulas res significent aut si plura ita de uno praedicentur vel uni subiciantur, ut ex his aliquid unum fieri possit, aut unum nomen quod vel praedicatur vel subicitur talia significet plura, quae omnia unam quodammodo speciem valeant congregare. SI ERGO DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO, VEL PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, PROPOSITIO VERO UNIUS CONTRADICTIONIS EST, NON ERIT UNA RESPONSIO AD HAEC; NEC UNA INTERROGATIO, NEC SI SIT VERA. DICTUM AUTEM IN TOPICIS DE HIS EST. SIMILITER AUTEM MANIFESTUM EST, QUONIAM NEC HOC IPSUM QUID EST DIALECTICA EST INTERROGATIO. OPORTET ENIM DATUM ESSE EX INTERROGATIONE ELIGERE UTRAM VELUT CONTRADICTIONIS PARTEM ENUNTIARE QUIA OPORTET INTERROGANTEM DETERMINARE, UTRUM HOC SIT HOMO AN NON HOC. Quisquis dialectica utitur interrogatione, hic aut simpliciter interrogat atque unam propositionem in interrogatione ponit, ut contra eam sit una responsio, aut utrasque interrogans dicit, ad quas non fit simplex responsio sed una tota propositio respondetur. Si quis enim dicat interrogans: Socrates animal est?  Contra hanc talis est responsio: Aut ita aut non  Si quis vero hoc modo interroget: Socrates animal est an non?  Contra hanc non est una responsio. Si enim respondetur ita, de qua adnueris ignoratur, de affirmatione an de negatione; rursus si non responderis, nescitur quam negare volueris, affirmationem an negationem. Quare contra huiusmodi interrogationes tota propositio respondenda est, id est altera pars contradictionis, ƿ aut tota affirmatio aut tota negatio, ut dices aut est animal Socrates aut, si hoc non videtur, respondeas non est animal Socrates. In his igitur quae multa sunt, ex quibus unum fieri nequit, si fiat interrogatio, et ipsa reprehensibilis est et contra eam una responsio. Quisquis enim ea plura interrogat, ex quibus unum esse non possit, multas facit interrogationes. Contra quam si simpliciter respondeatur, etiam si vera sit ipsa responsio, tamen iure reprehenditur. Contra enim multiplicem interrogationem multiplex debet esse responsio. Si quis enim dicat interrogans: Socrates philosophus est et legit et ambulat?  Quia potest fieri ut sit quidem philosophus et legat, non autem ambulet vel ambulet sed non legat, potest item fieri ut et legat et ambulet, contra huiusmodi propositionem non est una responsio. Nam qui ita interrogavit: Socrates philosophus est et legit et ambulat?  Aut imperite aut captiose interrogavit. Contra quam interrogationem, si contigerit Socratem philosophum esse et ambulare et legere, si respondeatur: ita est, haec quoque responsio reprehenditur. Contra plures enim interrogationes una responsio non debet adhiberi, etiam si vere per illam unam respondeatur sicut in hac quoque, si et philosophus est et legit et ambulat. Quocirca si interrogatio dialectica responsionis petitio est, per quam responsionem fiat propositio, ut cum quis dixerit interrogans: Dies est?  Alius respondeat non, fiat inde negatio: Dies non est  vel certe altera pars propositionis, cum ita interrogatur: Dies est an dies non est?  Ut congrue scilicet respondeatur diem esse aut diem non esse, id est tota propositio: hae quae ex his pluribus fiunt atque interrogantur, ut unum ex his fieri non possit, non sunt simplices interrogationes. Quocirca nec ad eas simplex est reddenda responsio. De his autem se in Topicis dixisse commemorat. Rursus QUIA DIALECTICA INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO (ut supra dictum est) VEL PROPOSITIONIS VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, quod paulo post demonstrabitur, imperite illi interrogant qui ita dicunt: Quid est animal?  vel: Quid est homo?  Oportet enim qui dialectice interrogat dare interrogatione optionem, an sibi respondens affirmationem eligere velit an negationem. Qui vero sic interrogat, ut quid est aliqua res volit dicere respondentem, non est illa interrogatio dialectica. Interrogant autem quidam hoc modo: Putasne anima ignis est?  Cum respondens negaverit, addet: Nonne tibi aliquid videtur esse inter ignem atque aerem, medium corpus, ut sit anima?  Cum respondens hoc quoque abnuerit, ille persequitur: An fortasse magis tibi videtur aquam esse animam vel terram?  Cum ille neque terram neque aquam animam esse consenserit, tunc defessi interrogationibus ita interrogant: Quid est ergo anima?  Haec autem non est interrogatio dialectica sed potius discipuli ad magistrum aliquid addiscere cupientis. Qui enim aliquid cupit addiscere interrogat eum qui docere potest quid sit de quo ambigit. Dialecticus ƿ autem (ut dictum est) ita interrogare debet, ut respondenti sit optio an affirmationem an negationem velit eligere. Oportet autem scire, quoniam omnis INTERROGATIO RESPONSIONIS EST PETITIO, dialectica vero non cuiusdam responsionis sed eius quae in utraque parte habeat optionem. Ergo hoc ipsum quid est non est dialectica interrogatio. Oportet enim ita interrogare, ut ex interrogatione responsor possit eligere alteram contradictionis partem. Debet enim terminare et definire is qui interrogat, an hoc sit quod dicitur an non, ut: Homo animal est an non?  Ut ille aut affirmationem respondeat aut negationem. Quod autem dixit dialecticam interrogationem petitionem esse responsionis, vel propositionis vel alterius partis contradictionis, huiusmodi est: quisquis interrogat affirmationem; aut eandem exspectat ut auditor sibi respondeat aut contradictionem, ut si quis sic interroget: Homo animal est?  Si ille adnuerit, propositionem reddidit, eam scilicet quam proposuit interrogans; si vero interrogante aliquo, an homo animal sit, respondens dixerit: Non est  contradictionem respondisse videbitur. Ille enim affirmationem interrogavit, ille negationem respondet, quod est contradictio. Rursus si negationem interroget et ille respondeat negationem, eandem propositionem reddidit, quam is qui interrogabat ante proposuerat; sin vero interrogante alio negationem ille affirmationem responderit, contradictio responsa est. Hoc est igitur quod ait interrogationem responsionis petitionem esse et cuius responsionis addidit VEL PROPOSITIONIS, si idem respondeat, quod ille interrogat, VEL ALTERIUS PARTIS CONTRADICTIONIS, si cum ille affirmationem interrogat, ille responderit negationem, vel si cum ille negationem in interrogatione posuerit, ille affirmationem in responsione reddiderit. Interrogationis autem secundum Peripateticos duplex species est: aut cum dialectica interrogatio est aut cum non dialectica. Non dialecticae autem interrogationis duae sunt species, sicut Eudemus docet: una quidem quando sumentes accidens interrogamus, cui illud accidat, ut quando videmus domum Ciceronis, si interrogemus: Quis illic maneat?  vel quando subiectum quidem ipsum et rem sumimus, quid autem illi accidat interrogamus, ut si ipsum Ciceronem quis videat et interroget: Quo divertat  Et haec una species est eorum, quae secundum accidens non dialectice interrogamus. Altera vero quando proponentes nomen quid sit quaerimus aut genus aut differentiam aut definitionem requirentes, ut si quis interroget: Quid sit animal  vel quando definitionem aut aliquid superius dictorum sumimus et quaerimus, cuius illa sint, ut si quis quaerat, animal rationale mortale cuius sit definitio. QUONIAM VERO HAEC QUIDEM PRAEDICANTUR COMPOSITA, UT UNUM SIT OMNE PRAEDICAMENTUM EORUM QUAE EXTRA PRAEDICANTUR, ALIA VERO NON, QUAE DIFFERENTIA EST? DE HOMINE ENIM VERUM EST DICERE ET EXTRA ANIMAL ET EXTRA BIPES ET UT UNUM ET HOMINEM ET ALBUM ET HAEC UT UNUM. ƿ SED NON, SI CITHAROEDUS ET BONUS, ETIAM CITHAROEDUS BONUS. SI ENIM, QUONIAM ALTERUTRUM DICITUR, ET UTRUMQUE DICITUR, MULTA ET INCONVENIEN IA ERUNT. DE HOMINE ENIM ET HOMINEM VERUM EST DICERE ET ALBUM, QUARE ET OMNE. RURSUS SI A BUM, ET OMNE. QUARE ERIT HOMO ALBUS ALBUS ET HOC IN INFINITUM. ET RURSUS MUSICUS ALUS AMBULANS; ET HAEC EADEM FREQUENTER IMPLICITA. AMPLIUS SI SOCRATES SOCRATES ET HOMO, ET SOCRATES SOCRATES HOMO. ET BIPES, ET HOMO BIPES. Multa sunt quae cum singillatim vere praedicentur, si quis ea coniungat et praedicet, veram praedicationem tenent. Sunt autem alia quae, si per se et disiuncta praedicentur, vera sunt; sin vero coniuncte dicantur, veritatem in praedicatione non retinent. Quae ergo horum sit differentia oportet agnosci. Si quis enim dicat Socratem animal esse, verum dixerit, si quis rursus praedicet, quoniam Socrates bipes est, hoc ƿ quoque verum est. Quae si coniuncta dicantur, ut est: Socrates animal bipes est  a propria veritate non discrepat. Atque haec quidem in genere et ea differentia quae substantialis est Socrati. Quod si de accidenti quoque dicatur, potest idem nihilominus evenire. Si quis enim sic dicat: Socrates homo est  verum est, rursus: Socrates calvus est  hoc quoque verum est. Quod si iungat dicens: Socrates homo calvus est  veram rursus ex coniunctis faciet praedicationem. Atque in his quidem ea quae singillatim vere dicebantur, iuncta veraciter praedicata sunt. Sunt autem alia in quibus singillatim quidem praedicata vera sunt, iuncta vero qualitatem veritatis amittunt. Ut si quis dicat quoniam Socrates bonus est, verum est, rursus Socrates quoque citharoedus est, sit hoc quoque verum. Haec coniungere non necesse est, ut sit verum Socrates bonus citharoedus est. Potest enim bonus quidem esse homo et cum sit citharoedus, non tamen esse bonus sed in alia re quidem bonus, in alia tantum artis illius cognitor, non tamen in ipsa perfectus. Hoc autem facilius tall liquebit exemplo: si quis enim dicat quoniam Tiberius Gracchus malus est, verum est, rursus Tiberius Gracchus orator est, hoc quoque verum est. Si coniungens dicat: Tiberius igitur malus orator est, falso dixerit, optimus enim orator fuit. Sed ne quis nos ita dicentes ignorare pPomba oratoris esse definitionem utrum bonum dicendi peritum, aliter ista dicta sunt, ad exemplum potius quam ad veritatem. Atque ƿ haec quidem proposita ab Aristotele sunt, cuius in textu verba sic constant: QUONIAM VERO, inquit, ALIA QUIDEM PRAEDICANTUR coniuncta et COMPOSITA, ut ex his unum praedicamentum fiat eorum quae extra vere dicta sunt, alia vero cum extra singillatimque vere praedicarentur iuncta veram non faciunt praedicationem, inquirendum est quae eorum sit differentia. Exempla autem horum talia sunt. Eorum quidem, quae extra praedicantur vere nec si coniuncta sunt naturam veritatis amittunt, tale exemplum est: DE HOMINE VERUM EST DICERE, quoniam et animal est et bipes rursus quoniam animal bipes verum est de eodem homine dicere, ut de Socrate. De eodem quoque Socrate et hominem extra et album, si ita contingit, verum est dicere et de eo praedicare animal bipes a veritate non discrepat. Atque haec quid em extra singillatimque praedicantur vere et iuncta vera sunt. Quod si de aliquo praedicetur, quoniam citharoedus est, et verum sit et rursus quoniam bonus est, et verum sit non necesse est dici quoniam bonus citharoedus est potest enim esse solum quidem citharoedus, bonus autem homo. Hucusque quidem ista disposuit. Quoniam autem videbantur quidam arbitrari, quod omnia quae singillatim vere praedicarentur eadem quoque composita recte dicerentur, contra hos dicit, quoniam multa erunt inconvenientia multaque impossibilia sunt si quis dicat omne quod singillatim praedicatur veraciter id iunctum vere praedicari. De homine enim verum est dicere quoniam homo est. Nam de Socrate ƿ qui homo est vere dicitur quoniam homo est. Rursus de eodem vere potest dici quoniam albus est. Quare et si haec iungas et ut unum praedices, verum est dicere de aliquo homine quoniam homo albue est. Sed homo qui albus est verum est de eo dicere quoniam albus est: quare etiam haec si iungas: erit igitur praedicatio "Socrates homo albus albus est"! Nam de Socrate verum erat dicere quoniam homo albus est. Sed de homine albo verum est dicere quoniam albus est. Haec iuncta homo albus albus faciunt. Quod si de eodem homine albo album rursus praedicari velis, verum est: quocirca et si iungas: erit igitur praedicatio homo albus albus albus est. Atque hoc idem in infinitum. Rursus si quis de aliquo homine dicat quoniam ille homo musicus est, si verum dicat adiciatque quoniam idem homo ambulans est, verum dicit, si iungat quoniam ille homo ambulans musicus est. Sed si verum est de aliquo homine praedicare quod sit ambulans musicus, de ambulante autem musico verum est dicere quoniam musicus est, erit ille homo homo ambulans musicus musicus. Sed de eodem verum est dicere quoniam ambulans est, verum igitur erit de eo rursus dicere quoniam homo ambulans ambulans musicus musicus est. Amplius quoque Socrates Socrates est et rursus homo: erit igitur Socrates Socrates homo. Sed et bipes: erit igitur Socrates Socrates homo bipes. Sed de Socrate verum est dicere quoniam Socrates homo bipes est. Sed cum dixi hominem de eo, iam et bipedem ƿ dixi (omnis enim homo bipes est): verum est ergo de eo dicere quoniam bipes est. Sed verum erat dicere quoniam Socrates Socrates homo bipes est: vera erit igitur praedicatio Socrates homo bipes bipes est. Sed rursus hominem dixi atque in eo aliud bipes nominavi (omnis enim homo bipes est): Socrates igitur homo bipes bipes bipes est. Et hoc in infinitum protractum superfiva loquacitas invenitur. Non igitur fieri potest ut modis omnibus quicquid extra dicitur id iunctum vere praedicetur. QUONIAM ERGO SI QUIS SIMPLICITER PONAT COMPLEXIONES FIERI PLURIMA INCONVENIENTIA CONTINGIT DICERE MAVIFESTUM EST; QUEMADMODUM AUTEM PONENDUM, NUNC DICIMUS. EORUM IGITUR QUAE PRAEDICANTUR ET DE QUIBUS PRAEDICANTUR QUAECUMQUE SECUNDUM ACCIDENS DICUNTUR VEL DE EODEM VEL ALTERUM DE ALTERO, HAEC NON ERUNT UNUM, UT HOMO ALBUS EST ET MUSICUS SED NON EST IDEM ALBUM ET MUSICUM; ACCIDENTIA ENIM SUNT UTRAQUE EIDEM. NEC SI ALBUM MUSICUM VERUM EST DICERE, TAMEN NON ERIT ALBUM MUSICUM UNUM ALIQUID; SECUNDUM ACCIDENS ENIM MUSICUM ALBUM. QUARE NON ERIT ALBUM MUSICUM. QUOCIRCA NEC CITHAROEDUS BONUS SIMPLICITER SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM ACCIDENS. AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN ALTERO. QUARE NEQUE ALBUM FREQUENTER NEQUE ƿ HOMO HOMO ANIMAL VEL BIPES; INSUNT ENIM IN HOMINE BIPES ET ANIMAL. Quae superius comprehendit ea nunc apertissima ratione determinat dicens de his solis extra praedicatis veraciter non posse unam praedicationem fieri veram, si coniuncta sins, quaecumque aut accidentia sunt eidem, aut cum unum alii accidit, accidens aliud de illo accidenti praedicatur. Si quis enim de Socrate dicat quoniam Socrates citharoedus est, rursus Socrates bonus est, si utraque veraciter praedicet, duo accidentia de uno subiecto praedicavit, id est de Socrate. Quocirca non potest ex his una fieri praedicatio, ut dicatur Socrates citharoedus bonus est. Rursus si de Socrate praedicetur musicus (sit enim Socrates musicus), de musico autem si praedicetur albus, et hoc fortasse sit verum, non tamen iam necesse est musicum album esse. Si enim sit musicus Socrates, si de eodem musico albus praedicetur, praedicatur quidem de Socrate subiecto musicus, de musico autem quod est accidens praedicatur album, rursus aliud accidens: ergo non potest hic una fieri vera propositio ut dicatur: Socrates musicus albus est. Neque enim semper musicus albus esse potest sed hanc naturam habent accidentia, ut veniant et recedant. Ergo si eius, qui musicus albus est, in sole stantis cutem calor fuscaverit, non erit quidem albus cum sit musicus. Quocirca neque tunc cum vere praedicabatur, quoniam Socrates musicus albus est, neque tunc fuit recta veraque praedicatio. Non enim habet permanendi naturam accidens, ut semper vere praedicetur. Ratio autem verborum sic constat: quoniam ergo, inquit, si quis ƿ dicat omnino quomodolibet complexiones fieri, id est ut quod singillatim praedicaveras hoc complexum conexumque proponas, plurima inconvenientia dicere contingit (multa enim concurrunt impossibilia, sicut supra ipse monstravit, tunc quando ad nimiam loquacitatem perduxit eos eadem frequenter nomina repetentes), quemadmodum ponendum est nunc dicimus, id est quemadmodum autem debent quae singillatim vere dicuntur iuncta praedicari, nunc, inquit, dicimus. Omnia, inquit, quae praedicantur de alio et rursus de quibus alia praedicantur duplici modo sunt: aut enim accidentia sunt aut substantialia. Et aliae quidem praedicationes sunt secundum accidens, quotiens aut duo accidentia de substantia aut accidens de accidenti alicui substantiae praedicatur, alia vero non secundum accidens, quotiens aliquid de atliquo substantialiter dicetur. Eorum igitur quaecumque secundum accidens dicuntur, eorum si vel duo sint accidentia et de eodem praedicentur vel si alterum accidens de altero accidenti dicatur, ex his non potest una fieri propositio neque erit unum si iuncta sint. Homo enim et albus est et musicus sed album musicum, quoniam in unam formam non concurrunt, non facient unam propositionem. Non enim idem album et musicum. Utraque enim eidem sunt accidentia, non tamen idem sunt. Nec si album de musico praedicemus, id est accidens de accidenti, et hoc verum sit, non tamen necesse est id quod musicum est esse album. Neque enim unum est aliquid. Accidenter enim id quod musicum est ƿ album est. Quoniam enim id ipsum cui musicum accidit album est, idcirco musicum album dicitur. Non est autem idem musicum album. Quocirca eadem ratione tenetur, ut non possit idem esse citharoedus bonus nec in unum corpus coniuncta faciant aliquid unum, quamquam singillatim vere praedicentur. Quod si quis aliquid substantialiter praedicet duasque res singillatim dicat, possunt in unam propositionem redire, quae substantialiter vere seiuncte separatimque praedicantur. Homo enim, cum et animal sit et bipes, est animal bipes et fit ex his una praedicatio. Nam neque animal secundum accidens inest homini nec bipes. Quod per hoc ostendit quod ait: SED ANIMAL BIPES; NON ENIM SECUNDUM ACCIDENS. Addit quoque illud quoniam nec ea iuncta recte praedicantur, quaecumque vel latenter vel in prolatione in aliquo terminorum continentur, qui in propositione positi sunt. Idcirco enim de homine albo non debet dici albus, ut veniat praedicatio homo albus albus, quoniam iam in homine albo continetur album. Rursus de homine idcirco non debet praedicari bipes, quoniam licet non sit prolatum, tamen qui homo est bipes est. Sed de homine si quis bipes praedicet, de re duos habente pedes deque hac differentia quod est bipes praedicat bipes. Quocirca erit hic quoque homo bipes bipes. Homo enim continet intra se bipes et qui dicit hominem cum sua differentia dicit. Si quis ergo ad hunc praedicet bipes, de re duos habente pedes bipedem praedicavit. Erit igitur homo bipes bipes. Sed ita praedicari non debet. Continetur enim in homine bipes, ƿ ad quod si rursus bipes praedices, molestissimam facies repetitionem. Hoc enim est quod ait: AMPLIUS NEC QUAECUMQUE INSUNT IN ALIO: continentur vel prolatione, ut in eo quod est homo albus (continetur in eo albus, quoniam per prolationem iam dictum est) aut potestate et vi, ut in eo quod est homo continetur bipes, quamquam dictum penitus non sit. VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO ET SIMPLICITER, UT QUENDAM HOMINEM HOMINEM AUT QUENDAM ALBUM HOMINEM ALBUM; NON SEMPER AUTEM SED QUANDO IN ADIECTO QUIDEM ALIQUID OPPOSITORUM INEST QUAE CONSEQUITUR CONTRADICTIO, NON VERUM SED FALSUM EST, UT MORTUUM HOMINEM HOMINEM DICERE, QUANDO AUTEM NON INEST, VERUM. Haec quaestio contraria superiori est. Illic enim quaerebatur, si quae singillatim praedicabantur, an semper eadem vere coniuncta compositaque dicerentur; hic autem converso ordine idem quaerit, an ea quae composita vere praedicantur singillatim dicta vere dicantur. Post obitum enim Socratis possumus dicere hoc cadaver homo mortuus est et hominem mortnumque inugentes unam inde veram facere praedicationem. Solum autem hominem dicere cadaver illud non est verum. Rursus eundem Socratem vivum verum est dicere quoniam animal bipes est et singillatim verum ƿ est dicere quoniam animal est. Quare quaeritur quae sit huius quoque differentia praedicationis, ut cum coniuncta dicuntur et vere de subiectis praedicantur alias quidem et extra dici vere possint, alias vero praeter illam coniunctionem simplicia si dicantur falsa sint. Hoc autem quasi dubitans dixit. Ita enim legendum est, quasi si dubitans diceret sic: verum est autem dicere de aliquo compositum coniunctumque aliquid, ut de aliquo homine hominem aut de aliquo albo album, ita ut et horum aliquid simpliciter praedicetur, an certe non semper? Et dat regulam qua pernoscamus, an quae composita dicuntur eadem singillatim dici possint an minime. Quotiens enim talia sunt quae praedicantur cum alio, ut in se non habeant contradictionem praedicata, possunt dici et separata veraciter. Quodsi habeant in se aliquam contradictionem quae praedicantur et composita dicuntur vere, separata vere praedicari non possunt. Qui dicit cadaver hominem mortuum vere dicit, solum autem hominem dicere vere non potest, idcirco quoniam prius cum coniunctione praedicavit dicens hominem mortuum, mortuusque quod adiacet hominis praedicamento (cum homine enim praedicatum est mortuus) contradictionem tenet contra hominem. Est enim homo animal, mortuus vero non animal: ergo mortuus et homo contradictionem quandam inter se habent. Illud est enim animal, illud vero non animal. Quocirca quoniam inter se haec habent quandam contrarietatem, ƿ separatus homo de mortuo homine solus non dicitur. Eodem quoque modo est et si quis dicat manum esse marmoream statuae: verum dicit, solum autem manum dicere esse eam quae statuae est falsum est. Habet enim manus potestatem dandi accipiendique sed illa marmorea non habet. Ergo est quaedam contradictio inter manum et manum marmoream, quod illa dare atque accipere potest, illa non potest. Haec enim sibi contradictionis opponuntur modo. Ergo quotienscumque tale aliquid praedicatur, ut homo de cadavere, cui tale aliquid coniunctum sit atque adiaceat, quod faciat contradictionem contra praedicatum (ut hic adiacet mortnus homo simulque praedicatur de cadavere, ut faciat contra ipsum hominem contradictionem eamque in se contineat), non potest separari una praedicatio, ut singillatim dicatur, sin vero non sit ista contradictio, potest: ut in eo quod est: Socrates animal bipes est  Animal et bipes nulla contradictione opponuntur: quocirca potest de eo et animal singillatim atque simpliciter et bipes dici. Sensus quidem huiusmodi est, ordo autem se sic habet. Dubitans enim dixit: VERUM AUTEM DICERE DE ALIQUO composite et connexe et rursus simpliciter, ut quendam hominem hominem aut quendam album album, an certe non semper sed tunc quando in adiecto, id est in eo quod adiectum cum aliquo praedicatur, inest aliquid oppositorum talium quaecumque consequitur contradictio, id est quam oppositionem mox contradictio consequatur, ut oppositionem hominis et mortui sequitur contradictio, animal scilicet et non animal: si igitur sic sint, non est ƿ verum simpliciter praedicari sed falsum, ut mortuum hominem, quem coniuncte vere dicere possis, eundem hominem solum non vere praedicabis. Quando autem haec oppositio in his quae praedicantur non inest, verum est quod coniuncte praedicaveris et simpliciter praedicare. Adiectum est autem in quo venit aliquotiens oppositio huiusmodi, ut in eo quod est homo mortuus mortuus adicitur homini. Aliter enim vere homo de cadavere non potest praedicari. VEL ETIAM QUANDO INEST QUIDEM SEMPER NON VERUM, QUANDO VERO NON INEST, NON SEMPER VERUM, UT EOMERUS EST ALIQUID, UT POETA. ERGO ETIAM EST AN NON? SECUNDUM ACCIDENS ENIM PRAEDICATUR ESSE DE HOMERO; QUONIAM POETA EST SED NON SECUNDUM SE, PRAEDICATUR DE HOMERO QUONIAM EST. QUARE IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, IN HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT DICERE. QUOD AUTEM NON EST, QUONIAM OPINABILE EST, NON VERUM DICERE ESSE ALIQUID. OPINATIO ENIM EIUS NON EST, QUONIAM EST SED QUONIAM NON EST. Quoniam supra dixerat, quando esset in adiecto contradictio, non esse verum simpliciter praedicare, quando vero non esset, verum esse quod coniuncte ƿ diceretur simpliciter dicere, hoc ipsum quoniam videbatur in aliquibus non esse verum, consequenter emendat. Ait enim verum esse illud quod supra dictum est, quandocumque in adiecto esset aliqua contradictio, non esse verum simpliciter praedicare, quod coniuncte diceretur, quando autem non inest contradictio, non semper verum esse praedicare simpliciter, quod coniuncte vere diceretur sed aliquotiens verum, aliquotiens vero falsum. Huius rei tale exemplum est: cum dico: Homerus poeta est  est et poeta coniuncte de Homero vere praedicavi. Sin vero dixero: Homerus est  falsum est, quamquam non sit aliqua contradictio inter est et poetam, neque in adiecto est ulla talis est oppositio quam consequatur contradictio. Cur autem hoc eveniat, talis ratio est: de Homero enim poetam quidem principaliter praedicamus, cum dicimus Homerus poeta est, est autem verbum de poeta quidem praedicamus principaliter, de Homero autem secundo loco. Non enim idcirco praedicamus esse, quia Homerus est sed quia poeta est. Sublato igitur eo quod principaliter praedicatur, id est poeta, licet nullam contradictionem habeat est, quod adiacet poetae, contra poetam, non fit vera praedicatio dicendo Homerus est. Secundum accidens enim est praedicatur, non principaliter. Sublata autem principali praedicatione, quod secundum accidens praedicabatur, falsum continuo reperitur. Quod autem addit: QUARE IN QUANTISCUMQUE PRAEDICAMENTIS NEQUE CONTRARIETAS INEST, SI DEFINITIONES PRO NOMINIBUS DICANTUR, ET SECUNDUM SE PRAEDICANTUR ET NON SECUNDUM ACCIDENS, ƿ IN HIS ET SIMPLICITER VERUM ERIT DICERE huiusmodi est. Ea quae superius dixit una ratione collegit dicens: quaecumque eo modo praedicantur, ut neque in nominibus neque in definitionibus propriis aliquam teneant contrarietatem, haec et extra simpliciterque praedicata vera sunt, ut in eo quod est homo mortuus mortuus atque homo: haec quidem nominibus nullius contrarietatis contradictionisue sunt sed si horum pro no minibus definitiones sumantur, mox contrarietas oppositionis agnoscitur. Si quis enim dederit hominis definitionem, dicit animal esse rationale, si quis mortui, dicit esse corpus, verum vita privatum atque inanimum atque ex hoc tota vis contradictionis apparet. Quocirca si sumantur definitiones pro nominibus et in his aliqua contrarietas inesse videbitur vel si secundum accidens aliquid praedicetur, ut est de Homero, cum de poeta principaliter praedicetur, non praedicabuntur simpliciter vere quaecumque composita praedicabantur. Quod si neque contrarietas ulla sit et per se praedicentur et non per accidens, quicquid composite vere dicitur, hoc simpliciter vere praedicatur. Quoniam autem fuerunt quidam qui hoc ipsum quod non est esse dicerent totum syllogismum his propositionibus coniungentes: Quod non est opinabile est Quod autem opinabile est est Igitur est quod non est hoc igitur dicit: si verum est praedicare, inquit, de eo quod non est quoniam opinabile est, est quidem verbum de opinabili praedicamus, de eo autem quod non est secundum accidens. Quoniam enim quod non est opinabile est, idcirco secundo loco de eo quod non est verbum est praedicamus. Quare non possumus simpliciter dicere esse quod non est. Idcirco enim opinabile est, quia non est. Scibile enim esset, si per se esset, non opinabile, sicut Homerus idcirco esse dicitur, quia poeta est, non quia per se est. Vel certe idcirco dicitur Homerus esse poeta, quia poesis ipsius exstat et permanet, sicut aliquos in filiis suis saepe vivere dicimus. Quocirca id quod non est idcirco esse dicitur opinabile, quoniam ipsius est opinatio, non autem quoniam id quod non est per se aliquid esse potest. His igitur ante perstructis atque ordine terminatis ad propositionum modos, rem in dialectica utilissimam, de propositionibus tractatum disputationemque convertit. Restat nunc de propositionum modis oppositionumque disserere. Multis enim dubitatum est rationibus, an idem modus esset propositionum sine modo positarum, qui illarum quoque quae propriis modis et qualitatibus terminantur. Inchoat autem de his rebus dubitationem sic. HIS VERO DETERMINATIS PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET AFFIRMATIONES AD SE INVICEM HAE SCILICET QUAE SUNT ƿ DE POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON CONTINGERE ET DE IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO; HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. Omnis propositio aut sine ullo modo simpliciter pronuntiatur, ut Socrates ambulat vel dies est vel quicquid simpliciter et sine ulla qualitate praedicatur. Sunt autem aliae quae cum propriis dicuntur modis, ut est Socrates velociter ambulat. Ambulationi enim Socratis modus est additus, cum dicimus eum velociter ambulare. Quomodo enim ambulet, significat id quod de ambulatione eius velociter praedicamus. Similiter autem si quis dicat Socrates bene doctus est, quemadmodum sit doctus ostendit nec solum doctus dixit sed modum quoque doctrinae Socratis adiungit. Sed quoniam sunt modi alii per quos aliquid posse fieri dicimus, aliquid esse, aliquid necesse esse, aliquid contingere, quaeritur in his quoque quemadmodum fieri contradictionis debeat oppositio. In his enim propositionibus, quae simpliciter et sine ullo modo praedicantur, facile locus contradictionis agnoscitur. Huius enim affirmationis quae est: Socrates ambulat  negatio si ad verbum ponatur, ut est: Socrates non ambulat  rectissime oppositione facta ambulare a Socrate disiunxit. Rursus huius propositionis quae est: Socrates philosophus est  si quis ad est verbum negationem ponat, integram faciet negationem dicens: Socrates philosophus non est  Neque enim fieri potest ut ad aliud in simplicibus affirmationibus negatio ƿ ponatur nisi ad id verbum quod totius vim continet propositionis. Si quis enim in hac propositione quae est homo albus est non dicat fieri negationem eam quae est homo albus non est sed potius homo non albus est, hoc modo falsum ostenditur: proposito lapide interrogetur de eo: An lapis ille homo albus sit?  ut si ille negaverit ponens negationem eius quae est: Homo albus est  eam quae dicit: Homo non albus est  dicatur ei: si non est de hoc lapide vera affirmatio quae dicit: Homo albus est  vera erit de eo negatio ea scilicet quae dicit: Homo non albus est  Sed haec quoque falsa est. Omnino enim lapis homo non est atque ideo de eo non poterit praedicari quoniam homo non albus est. Quod si neque affirmatio neque negatio de eo vera est, hoc autem impossibile est, ut contradictoriae affirmationes et negationes de eodem praedicatae utraeque falsae sins, constat non esse eius affirmationis quae dicit: Homo albus est  illam negationem quae dicit: Homo non albus est  sed potius eam per quam proponitur quoniam albus non est. Nusquam igitur alibi ponenda negatio est in his quae simpliciter et sine modo aliquo praedicantur nisi ad verbum quod totem continet propositionem. De his autem sufficienter supra iam diximus. In his autem in quibus aliqui modus apponitur dubitatio est, an ad modum ilium ponatur negativa particula an locum suum serues ad verbum, sicut in his quoque propositionibus fiebat, ƿ quae simplices et sine modo ullo proponebantur. Nam si serues locum suum negativa particula, ut ponatur ad verbum, proprietas contradictionis excidit et verum inter se falsumque non dividit. Modus enim quidam est faciendi aliquid, quotiens dicimus possibile esse vel necesse esse vel quicquid huiusmodi est. Ergo si quis me dicat nunc posse ambulare, idem neget negationem ponens ad verbum quod est ambulare dicatque me posse non ambulare, affirmatio et negatio contradictoriae de eodem dictae verae simul invenientur. Me namque et ambulare posse et non ambulare posse manifestum est. Quod si in hoc modo possibilitatis non recte verbo particula negatira coniangitur, etiam in his quoque quae nullam habent differentiam, an ad modum an ad verbum negatio ponatur, custodienda est talis oppositio quae huic speciei propositionum quae cum modo proferuntur conveniat. In hac propositione quae dicit: Socrates velociter ambulat  sive quis ita neget: Socrates velociter non ambulat  ad verbum ponens negationem sive sic: Socrates non velociter ambulat  modo negativam particulam iungens, prope simile esse ridebitur. Dividit enim cum affirmatione veritatem falsitatemque utroque modo apta negatio. Sed quoniam sunt plurimi modi, in quibus si ad verbum inugatur particula negativa, non est negatio superius enuntiatae affirmationis, idcirco servanda est in omnibus secundum modum propositionibus ista oppositio, ut uno eodemque modo cunctarum ƿ fieri oppositiones dicantur, ut in illis quidem negatio quae simplices sunt rem neget, in his autem quae cum modo sunt modum neget, ut in eo quod est: Socrates ambulat  rem ipsam id est ambulat neget adimatque propositio dicens: Socrates non ambulat  in illis autem quae cum modo sunt rem quidem esse consentiat, modum neget, ut in ea propositione quae dicit: Socrates velociter ambulat  negatio dicat: Socrates non velociter ambulat  ut sive ambulet sive non ambulet nulla sit differentia, modum autem id est velociter ambulandi perimat ex adverso constitute negatio. Quamquam in quibusdam hoc non sit: simul enim cum modo ipso etiam rem perimi necesse est, ut in eo quod est: Socrates potest ambulare Socrates non potest ambulare  et modum et rem modo ipsi iuncta particula negationis intercipit. Sed hoc in his fere evenit, in quibus non fieri quidem aliquid dicitur et actus ipsius additur modus sed potius faciendi in futuro modus, ut si quis dicat Socratem ambulare posse, non quod iam ambulet sed quod eum sit ambulare possibile. Hic si possibili negatio coniungatur, etiam rem illam tulisse videbitur de qua illa possibilitas praedicatur. Si quis autem dicat quoniam Socrates velociter ambulat, facere eum aliquid dicit modumque illi actui iungit, ut quemadmodum illud faciat quod facere dicitur quilibet agnoscat. In his res quidem permanet, modus autem subruitur, ut superius dictum. An certe illud magis verius est dicendum, quod semper huiusmodi ƿ propositiones modum quidem auferant, rem vero de qua modus ille praedicatur non perimant? Et in quibus ponitur res, ut in eo quod est: Socrates velociter ambulat  et in quibus praedicatur actus ipse et praesens, quia fiat atque agatur, manifestum est modum quidem subrui, rem vero quae fieri dicitur permanere, ut cum dicimus: Socrates non velociter ambulat  ambulare eum quidem non subtractum est sed tantum haec negatio velocitatem ab ambulatione disiunxit. In his autem quae possibilitatem aliquid in futuro faciendi per modum ponunt nullus omnino actus ponitur sed tantum modus. Ad quem modum iuncta negatio modum quidem perimit sed res illa de qua modus praedicabatur non permanet, idcirco quoniam nec tunc cum praedicabatur cum modo aliquid fieri agive propositum est, ut si quis dicat: Socratem possibile est ambulare  positus quidem modus est, res vero actu constitute non est. Non enim dictum est quoniam ambulat sed quoniam eum possibile est ambulare. Hanc ergo possibilitatem tollit negatio in propositione quae dicit: Socratem non possibile est ambulare  sed in eadem propositione res de qua dicebatur modus ille non permanet. Hoc autem idcirco evenit, quia ne in affirmatione quidem posita est res de qua praedicatus est modus. Atque ideo non a negatione perempta res, quippe quam negatio positam non invenit sed tantum modus, qui etiam ab affirmatione constitutus est. Magna autem distantia est, an ad modum negatio ponatur an ad verbum. Nam si ad verbum ponam, praedicaho a subiecto disiungitur, ut est: Socrates non ambulat  Nam ambulat quod praedicatio ƿ est a subiecto quod est Socrates divisum est. Sin vero ad modum ponatur, non praedicatio a subiecto dividitur sed a praedicatione potius disiungitur modus, ut in eo quod est: Socrates non velociter ambulat  non ambulationem a Socrate propositio ista disiunxit sed velocitatem ab ambulatione id est modum a praedicato. Et hoc in his facilius evidentiusque apparet, quaecumque ita praedicantur ac fieri. Oportet autem quid possibile, quid necessarium, quid inesse definire eorumque significationes ostendere, quod nobis et ad huius loci subtilitatem proderit, quem tractamus, et superiora quaecumque de contingentibus dicta sunt magis liquebunt et Analyticorum nobis mentem apertissima luce vulgabit. Quatuor modi sunt quos Aristoteles in hoc libro de interpretatione disponit: aut enim esse aliquid dicitur aut contingere esse aut possibile esse aut necesse esse. Quorum contingere esse et possibile esse idem significat nec quicquam discrepat dicere cras posse esse circenses et rursus cras contingere esse circenses, nisi hoc tantum quod possibile quidem potest privatione subduci, contingens vero minime. Contra enim id quod dicitur possibile esse et negatio possibilitatis infertur aliquotiens, ut est non possibile esse, et privatio, ut est impossibile esse. Namque quod dicimus impossibile esse privatio possibilitatis est. In contingenti autem quamquam idem significet sola tantum opponitur negatio, nulla vero privatio ƿ reperitur: ut in eo quod est contingens, si hoc perimere volumus, dicimus non contingens et hoc negatio est, incontingens autem nullus dixerit quod est privatio. Cum igitur contingens esse et possibile esse idem significent, multa in his diversitas est secundum Porphyrium quae sunt necessaria et inesse tantum significantia et contingentia vel possibilia. Quod enim esse aliquid dicitur, de praesenti tempore iudicatur. Si quid enim nunc alicui inest, hoc esse praedicatur, quod vero ita inest, ut semper sit et numquam mPombaur, illud necesse esse dicitur, ut soli motus lunaeque cum terra obstitit defectus. Quae autem contingere dicuntur vel possibilia esse, illorum neque secundum praesens neque secundum aliquam immutabilitatem speculamur euentum sed tantum respicimus quantum contingentis propositio pollicetur. Quod enim posse esse vel contingere dicitur, nondum quidem est sed esse poterit. Sive autem eveniat sive non eveniat, quia tamen esse potest, contingens vel possibilis dicitur propositio. Non enim ex euentu diiudicantur huiusmodi propositiones sed potius ex significatione hoc modo: si quis enim dicat posse cras esse circenses, possibilis est contingensque affirmatio. Quod si cras sint circenses, non tamen aliquid est actu propositionis contingentis vel possibilis permutatum, ut necesse fuisse videatur, quod illa possibiliter promittebat. Quod si rursus non sint circenses, omnino nec sic aliquid permutatum est, ut necesse fuisse non esse circenses ƿ videatur. Non enim (ut dictum est) secundum euentum ista iudicantur sed potius secundum ipsius propositionis promissum. Quid enim dicit quisquis dixerit cras posse esse circenses? Hoc, ut opinor, sive sint sive non sint nulla tamen interclusum esse necessitate ne non sint. Quare quatuor modorum duo quidem idem sunt, contingens atque possibile, hi autem duo cum duobus reliquis atque ipsi reliqui a se dissentiunt. Possibile enim et contingens distat ab ea propositione quae esse aliquid dicit. Haec enim secundum possibilitatem futuri temporis affirmationem proponit, illa vero secundum praesentis actum. Utraeque vero, et ea quae esse et ea quae possibile esse vel contingere significat, a necessaria propositione disiunctae sunt. Necessitas enim non modo inesse uult aliquid sed etiam immutabiliter inesse, ut illud quod esse dicitur numquam esse non possit. Quocirca consequentiae quoque ordinis evidenter apparent. Quod enim est necessarium sine eo quod est esse vel contingere esse vel possibile esse dici non potest. Quidquid enim necessarium est et est et esse potest vel si esse non posset, nec esset omnino. Quod si non esset, nec necesse esse diceretur. Quare omne necessarium et est et possibile est. Sed neque omne est necessarium est (possunt enim esse quaedam, quae ut sint non est necesse, ut Socratem ambulare vel caetera quae de separabilibus accidentibus sumuntur) vel rursus quod contingit esse vel esse possibile est mox esse necesse ƿ est. Quare necesse est quidem sequuntur esse et possibilitas, Sed neque esse neque possibile esse necessitas ulla consequitur. Rursus omne esse sequitur posse esse. Quod enim est et potest esse. Nam si esse non posset, sine ulla dubitatione nec esset. Possibile autem esse non consequitur esse. Quod enim possibile est potest et non esse, ut me possibile est quidem nunc procedere sed hoc mihi non est esse. Non enim nunc procedo. Quare gradatim haec omnis est consequentia. Necesse est namque et esse sequitur et possibilitas. Rursus esse eadem sequitur possibilitas, possibilitatem autem nec esse sequitur nec necessitas. Liquet ergo, quoniam duo modi sunt possibilium: unum quod iam sequitur necessitatem, alterum quod non sequitur ipsa necessitas. Nam cum dico: Necesse est ut nunc sol moveatur  hoc etiam possibile est, cum vero dico: Possibile est me nunc sumere codicem  non est necesse. Recte igitur ab Aristotele paulo post dubitabitur, utrum sit illud possibile quod necessitati conveniat. Sed cum ad eadem loca venerimus, quid sibi ista possibilium similitudo velit vel quemadmodum discerni possit agnoscemus. Nunc autem quoniam affirmativarum propositionum consequentias explicuimus, negativarum rursus consequentias exploremus. Harum namque quatuor propositionum, quae fiunt ex esse, ex necesse esse, ex possibile esse vel contingit esse, quatuor negationes sunt id est non esse, non necesse esse, non possibile esse vel non contingere esse. Sed quemadmodum affirmationes contingere esse et possibile esse eaedem ƿ erant secundum significationum similitudinem, ita quoque negationes eaedem sunt. Neque enim discrepat quicquam dicere non possibile est quam si enuntiet non contingit. Consequentiae autem se in affirmativis habebant hoc modo, ut necessaries propositiones sequerentur esse aliquid significantes atque possibiles, eas autem quae esse aliquid dicerent eaedem possibiles sequerentur sed neque possibilibus esse aliquid significantes nec necessariae consentiebant. In negativis vero e contra est. Negationem enim possibilitatis sequitur et eius quae est esse aliquid significantis negatio et necessariae. Negationem vero necessarii neque eius quod est esse neque eius quod est possibile esse negatio sequitur. Disponantur enim in ordinem omnes hoc modo: Possibile esse Non possibile esse Contingens esse Non contingens esse Esse Non esse Necesse esse Non necesse esse  Repetendum igitur breviter est affirmativarum consequentias, ut quemadmodum e converso sint in negativis evidentius patefiat. Esse sequitur possibilitas et contingentia, possibilitatem vero et contingentiam esse non sequitur, necesse esse vero sequitur et esse et possibilitas et contingentia, possibilitatem autem et contingenham nec esse sequitur nec necessitas. In negationibus vero e contra est. Non posse esse et non contingere sequitur non esse. Quicquid enim non potest esse non est. Non esse autem non posse esse ƿ non sequitur. Quod enim non est non omnino interclusum est ut esse non possit. Nunc ego enim Traiani forum non video sed non est necesse ut non videam. Fieri enim potest ut propius acceders videam. Rursus non posse esse et non contingens esse nec non esse sequitur nec non necesse esse. Quod enim esse non potest non videbitur vere dici, quoniam illud non necesse est esse sed potius quoniam illud necesse est non esse. Negationem autem necessitatis, id est non necesse esse, neque non esse sequitur neque non possibile esse. Me enim cum ambulo non necesse est ambulare. Neque enim ex necessitate quisquam ambulat. Nec rursus quod non est necesse id non potest fieri. Quisquis enim ambulat non quidem illi ambulare necesse est sed tamen potest. Atque ideo quod non est necesse esse non omnino interclusum est ut esse non possit. Et de non contingenti eadem ratio est. Diverso igitur modo quam in affirmationibus negativa conversio est. Illic enim necessitatem et essentia et possibilitas sequebatur, essentiam autem possibilitas sed neque possibilitatem essentia vel necessitas nec rursus essentiam necessitas sequebatur. Hic autem non possibile esse et non esse et non necesse esse consequitur. Sed neque non necesse esse non esse sequitur neque utrasque possibilitatis negatio, quae non posse aliquid esse proponit. An magis illud dicendum est, quod sicut se in affirmationibus habet, ita quoque in negationibus, ut Theophrastus ƿ acutissime perspexit? Fuit enim consequentia in affirmativis, ut necessitatem et esse consequeretur et possibilitas, possibilitatem vero nec esse nec necessitas sequeretur. Idem quoque penitus perspicientibus in negationibus apparebit. Veniens namque negatio in necessario faciensque huiusmodi negationem quae dicit "non necesse est" vim necessitatis infringit et totam propositionem ad possibile duxit. Quod enim non necesse est esse fracto rigore necessitatis ad possibilitatem perductum est. Sed possibilitatem nec esse sequebatur nec necessitas. Recte igitur fractam necessitatem et ad possibile perductam, cum negatio dicit non necesse esse, nec non esse nec non contingere esse consequitur. Rursus qui dicit possibile esse, si ei disiunctio negationis addatur, tollit possibile et ad necessitatis perpetuitatem negativa forma totam propositionem reuocat, ut est non possibile. Quod enim non possibile est fieri non potest ut sit, quod autem fieri non potest ut sit necesse est ut non sit. Ergo necessariam quandam vim habet haec propositio in qua dicimus non posse esse aliquid. Sed necessitatem sequebatur et essentia et possibilitas. Non necesse autem esse ad possibilitatem respicit. Recte igitur non necesse esse, quod est iam possibilitatis, sequetur propositionem quae dicit non posse esse, quod est necessitatis. Alii ergo ordines propositionum sunt, vis tamen eadem, ut necessitatem cuncta sequantur, possibilitatem vero necessitas non sequatur. Hic oritur quaestio subdifficilis. Nam si necessitatem sequitur possibilitas, non necesse autem possibilitati confine est, cur non necesse esse sequatur id quod dicimus non necesse esse? Nam si possibilitas sequitur necessitatem, non necesse autem esse possibilitatem, sequi debet necessitatem id quod non necesse praedicamus. Quae hoc modo dissolvitur: non possibile esse quamquam vim habeat necessitatis, differt tamen a necessitate, quod illud affirmativam habet speciem, illud vero negativam. Sic etiam possibile esse et non necesse esse differunt eo tantum, quod illud est affirmativum, illud vero negativum, cum vis significationis eadem sit. Sed necessitatem affirmatio possibilitatis et contingentis sequebatur. Quamquam tamen possibilitatem imitetur eique consentiat id quod dicimus non necesse esse, tamen negatio quaedam est. Recte igitur affirmationem quod est necesse esse non sequitur negatio per quam aliquid non necesse esse proponimus. Et hanc quidem huius solutionem quaestionis Theophrastus vir doctissimus repperit. Nos autem his determinatis ad sequentia proMilanius. Sunt enim, ut ipse ait Aristoteles, in his multae dubitationes. Sed totius textus plenissimum sensum primo ponimus. Quod etsi longum est, tamen ne intercisa videatur esse sententia non grauabor apponere.  NAM SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES, QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET NON ESSE DISPONUNTUR, ƿ UT EIUS QUAE EST ESSE HOMINEM NEGATIO EST NON ESSE HOMINEM, NON, ESSE NON HOMINEM ET EIUS QUAE EST ESSE ALBUM HOMINEM, NON ESSE NON ALBUM HOMINEM SED NON ESSE ALBUM HOMINEM. SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE ESSE NON ALBUM HOMINEM. QUOD SI HOC MODO, ET QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT EIUS, QUAE EST AMBULAT HOMO NON, AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED NON AMBULAT HOMO; NIHIL ENIM DIFFERS DICERE HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM AMBULANTEM ESSE. QUARE SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON ƿ AMBULARE ET NON DIVIDI POSSIBILE EST. RATIO AUTEM, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE EST NON SEMPER ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON AMBULARE QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST VISIBILE. AT VERO IMPOSSIBILE DE EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA NEGATIO. CONTINGIT ENIM EX HIS AUT IDEM IPSUM DICERE ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONEA SI ERGO ILLUD IMPOSSIBILIUS, HOC ERIT MAGIS ELIGENDUM. EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NON POSSIBILE ESSE. EADEM QUOQUE RATIO EST ET IN EO QUOD EST CONTINGENS ESSE; ETENIM EIUS NEGATIO NON CONTINGENS ESSE. ET IN ALIIS QUOQUE SIMILI MODO, UT NECESSARIO ET IMPOSSIBILI FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO, EODEM QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM, SIMILITER ƿ AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE NON POSSIBILE. Haec Aristotele subtiliter discutiente illud oportet agnoscere, quod multum differt ipsius possibilitatis vim naturamque definire vel propriae scientiae qualitate concludere et possibilem enuntiationem qualis esse debeat iudicare. Namque in possibilis cognitione illud solum perspicitur, an id quod dicitur fieri possit nuilo extrinsecus impediente casu. Quod etiamsi accidat, nihil de statu prioris possibilitatis. Ipsius possibilis enuntiationis diiudicatio plurimum differt, quod mox poterit ex ipsa de possibilibus enuntiationibus disputatione cognosci. Nam sicut non est idem hominis definitionem respondere quaerentibus et ipsam definitionem alio termino definitionis includere, ita non idem est de possibili enuntiatione et quid ipsum possibile est tractare. Unde fit ut, cum possibile atque contingens idem in significationibus sit, diversum esse in enuntiatiombus videatur. Supra namque docuimus possibilitatem et contingentiam eiusdem significationis esse, ut quod contingeret fieri idem esset possibile, quod possibile esset idem quoque contingeret. Sed possibilis enuntiatio non est eadem quae contingens. Neque enim si quis possibilem affirmationem proponat eique opponat contingentem negationem, rectam faciet contradictionem. Si quis enim dicat quodlibet illud esse possibile, alius respondeat negans rem illam contingere, licet quantum in significatione est priorem possibilitatem abstulerit, non tamen est dicenda contradictio, ƿ in qua alii termini in negatione, alii in affirmatione enuntiati sunt. Possibilis enim affirmatio de possibilitate negationem, non de contingentia habere debebit. Idem quoque in contingentibus. Neque enim si quis aliquid contingere dixerit, opponenda illi est possibilitatis negatio, licet idem sit possibile quod contingens. Constat igitur diversissimam esse rationem modi per se diiudicandi et enuntiationis, quae cum modo et cum qualitate praedicatur. Unde fit ut quamquam idem in significationibus possibilitas et contingentia sint, quasi diversae ab Aristotele in modorum ordine proponantur. Illud autem ignorandum non est quod Stoicis universalius videatur esse quo distet possibile a necessario. Dividunt enim enuntiationes hoc modo: enuntiationum, inquiunt, aliae sunt possibiles, aliae impossibiles, possibilium aliae sunt necessariae, aliae non necessariae, rursus non necessariarum aliae sunt possibiles, aliae vero impossibiles: stulte atque improvide idem possibile et genus non necessarii et speciem constituentes. Novit autem Aristoteles et id possibile quod non necessarium est et id possibile rursus quod esse necessarium potest. Eodem namque modo non dicitur possibile esse, quod vel ex falsitate in verum transit aliquando vel rursus ex veritate in falsum. Ut si quis dicat nunc, quoniam dies est, verum dixerit, idem si hoc nocte praedicet, falsum est et haec veritas propositionis in falsum est permutata sic ergo quaedam sunt possibilitates, ut eas et esse et non esse contingat, quae non eodem modo dicuntur quemadmodum illae quae mutabilem naturam non habent, ut hae scilicet quas necessarias dicimus. Ut ƿ si quis dicat solem moveri vel solem possibile esse moveri, haec numquam ex veritate in falsitatem mutabitur. Sed nunc de Aristotelis Stoicorumque dissensione tacendum est. Illud tamen solum studiosius perquirendum est, quo loco sit ponenda negatio in his propositionibus, in quibus modus aliqui praedicatur, ut quae dicentur esse possibiles enuntiationes. Possibiles, contingentes et necessariae et quaecumque cum modo sunt propositiones illae veraciter esse dicentur, in quarum significationibus rei de qua prasdicantur subsistendi qualitas invenitur, ut cum dico: Socrates bene loquitur  modus quidam est loquendi Socratem. Ergo sicut in his propositionibus, quaecumque cuiuslibet illius rei subsistentiam promittunt, ad ipsam subsistentiam negatio ponitur (ut cum dicimus "Socrates est", ad esse aptatur negatio, cum negamue "Socrates non est"), ita quoque in his quae modum subsistentiae dicunt ad eum modum ponenda negatio est, qui ad illam subsistentiam videtur adiectus, ut cum dicimus: Socrates bene loquitur  modus ipsius rei est id quod praedicatum est bene: ad hunc igitur modum et qualitatem ponenda negatio est. Possibiles autem propositiones vel contingentes eas esse dicimus, in quibus modus ipse monstratur et potius non esse de modo dicitur sed modus de eo quod est esse. Cum enim dicimus possibile esse, esse quidem quiddam dicimus, quemadmodum autem sit additum est, id est possibile, ut non necessarium neque aliquo alio modo nisi tantum secundum potestatem dicatur. Fit ergo esse ƿ subiectum, praedicatio vero modus vel contingans vel possibilis vel necessarius vel quilibet alius. Atque hae quidem propositiones secundum modum dicuntur, in quibus de substantia nihil ambigitur, de modo autem et qualitate sola tractatur. Sin vero subiciatur quidem modus, praedicetur vero esse, tunc de substantia rei quaeritur non de modo, ut si quis dicat possibile est, ut ipsum possibile in rebus esse pronuntiet, huic propositioni nullus modus adiectus est. Cum enim dicimus possibile esse modum habere, hoc per se ita non dicimus sed particulam propositionis ablatam. Ita enim perspicimus quasi si cum propositione esset iuncta. Quam si cum propria propositione iunxerimus, et quali modo praedicetur apparet. Cum enim dicimus possibile est, ut modum significet, particula propositionis est. Quam si suo corpori adgregemus facientes aliquam propositionem, quid modus ille profiteatur agnoscimus. Age enim id quod dixi possibile est coniungamus aliis praedicamentis atque inde una enuntiatio conficiatur dicamusque Socratem ambulare possibile est. Videsne modum in propositione possibile, ut etiam sive Socrates ambulet sive non ambulet, posse eum tamen ambulare ex ipso propositionis modo quilibet agnoscat? Ita igitur auferentes de toto partem possibilem enuntiationem quasi si tota sit propositio speculamur, ut in his dictionibus fieri solet, quae pluralitatem determinant, ut si dubitemus contra omnis an nullus ponatur an non omnis, ita eas speculemur, quasi si integras propositiones, quas determinationes propositionum ƿ esse manifestum est. Concludenti igitur dicendum est: in his quae modum praedicant omnes aliae res subiectae sunt vel esse vel ambulare vel legere vel dicere vel quicquid aliud cum aliquo modo fieri dicetur, in his autem ubi modus ipse praedicatur, ut integra sit propositio, non enim propositionis, non est cum modo propositio sed ibi tantum de subsistentia modi proponitur. Ut si qui dicat possibile est, quiddam in rebus dicit esse possibile, et rursus contingens est, quiddam in rebus dicit esse quod contingat, et rursus necesse est, esse quiddam dicit in rebus quod sit necesse: hic non de modo sed de solo esse tractatur. Quare quotiens esse quidem subicitur, modus autem praedicatur, ut cum dicimus: Socratem ambulare possibile est  ad modum iungenda negatio est, quotiens vero modus subicitur, esse autem praedicatur, ad esse ponenda negatio est. Ut cum dicimus possibile est, quia ita dicimus tamquam si diceremus possibilitas est, et cum dicimus contingere est, ita dicimus tamquam si diceremus contingentia est, ad esse ponenda negatio est dicendumque possibile non est, quod idem valet tamquam si diceretur possibilitas non est. Eodem quoque modo et de contingentia. Non autem perfecte speculantibus idem semper videri debet subiectum, quod primo loco reperiri dicitur, idem praedicatum semper, quod secundo loco praedicatur. In quibusdam enim verum est, in ƿ aliis vero ex significatione potius propositionum colligimus, qui terminus subiectus sit, qui vero praedicatus. Nam cum dico: Homo animal est  prius mihi necesse est dicere hominem, post praedicare animal atque ideo subiectum dicitur homo, animal vero praedicatur. In his autem in quibus modus additur sic est: cum dicimus: Socrates bene loquitur  idem valet tamquam si dicamus: Socrates bene loquens est  et hic quidem bene prius dictum est, postea vero loquens est et videtur subiectum quidem esse id quod dictum est bene, praedicatum autem id quod dictum loquens est. Sed hoc falsum est. Et hinc facillime poterit inveniri, quod loquentem quidem esse eum nullus ignorat, quisquis audit Socratem bene loquentem esse, vim autem totius propositionis modus continet. In id enim intendendus est animus, non si loquatur. Hoc enim indubitatum est. Nam qui eum bene dicit loqui, loqui quoque consentit. Quare ad modum intendendus est animus, ad id quod dictum est bene. Socrates enim bene loquitur quod dixit, loqui quidem non sufficit dicere, nisi etiam dicat bene. Continet igitur totam propositionem modus. Sed rursus propositionem continet praedicatio: modus igitur in his propositionibus potius praedicatur. Concludendum igitur universaliter est omnem modorum contradictionem non secundum esse verbum fieri nec secundum id rursus verbum quod in se esse contineat sed potius secundum modum. Continere autem in se verba id quod est esse dicuntur, ut cum dicimus loquitur. Tantundem enim valet tamquam si dicamus loquens est. Quare quaecumque propositiones quemlibet illum in se retineant modum, ƿ dubitandum non est quin non ad id quod ponit esse negatio iuste applicetur sed potius ad eum modum quo aliquid esse fierive pronuntietur. Omnis namque cum modo affirmatio talis est, ut non intendere debeat animum auditor ad id quod esse dicitur sed ad id potius quomodo illud esse dicatur. Ut cum dicimus: Socrates bene loquitur  non perspiciendum est an loquatur sed illuc potius animi dirigenda intentio est quemadmodum loquatur. Hoc enim videtur totam continere propositionem. Ergo contra possibile esse non est ea negatio quae dicit possibile non esse sed non possibile esse. Eodem modo et contra eam quae dicit contingere esse non ea quae enuntiat contingere non esse sed potius ea negatio est quae dicit non contingere esse. Idem quoque et in necessariis impossibilibusque modis caeterisque, quae nunc Aristoteles pro solita brevitate transgressus est, faciendum videtur. Sed quoniam commentationis virtus est non solum universaliter vim sensus expromere, verum etiam textus ipsius sermonibus ordinique conectere, ea quae superius confuse dicta sunt nunc per sermonum ipsorum ab Aristotele dictorum ordinem dividamus. HIS VERO DETERMINATIS PERSPICIENDUM QUEMADMODUM SE HABENT NEGATIONES ET AFFIRMATIONES AD INVICEM HAE SCILICET QUAE SUNT DE POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ET CONTINGERE ET NON CONTINGERE ET IMPOSSIBILI ET DE NECESSARIO; HABET ENIM ALIQUAS DUBITATIONES. PERSPICIENDUM, inquit, est de affirmationibus negationibusque, qua ƿ ratione videantur opponi in his propositionibus, quas quidam modus continet, ut in his quae sunt possibiles vel contingentes vel necessariae vel impossibiles vel verae vel falsae vel bene vel male vel quicquid aliqua qualitate praedicatur. HABET ENIM, inquit, ALIQUAS DUBITATIONES et quas dubitationes habeat continuo eas subicit. NAM SI EORUM QUAE COMPLECTUNTUR ILLAE SIBI INVICEM OPPOSITAE SUNT CONTRADICTIONES, QUAECUMQUE SECUNDUM ESSE ET NON ESSE DISPONUNTUR. Sensus totus huiusmodi est: in omnibus complexionibus propositionum illa in his oppositio valet, quaecumque secundum esse et non esse fit. Ut cum dicimus: Homo est  huius negatio: Homo non est  sed non ea quae dicit: Non homo est  Et rursus eius quae proponit: Est albus homo  illa negatio est quae dicit: Non est albus homo  non ea quae proponit: Est non albus homo  Hoc ipsum autem, quoniam eius quae dicit: Est albus homo  non est negatio ea quae dicit: Est non albus homo  sed potius ea quae dicit: Non est albus homo  sic demonstrat: SI ENIM DE OMNIBUS AUT DICTIO AUT NEGATIO, LIGNUM ERIT VERUM DICERE ESSE NON ALBUM HOMINEM. Breviter dictum est sed ita posse videtur exponi: propositum, inquit, sit lignum, de quo duae enuntiationes dicantur. Illud tamen nobis manifestum sit de omnibus, si affirmatio vera est, falsam esse negationem, eam scilicet quae contradictorie opponitur, et si vera negatio, falsam affirmationem. Pronuntietur igitur de proposito ligno, quoniam lignum hoc est albus homo. Hoc falsum est. ƿ Si igitur haec affirmatio falsa est, vera debet eius esse negatio. Si igitur ea est negatio affirmationis quae dicit: Est albus homo  ea quae negat dicens: Est non albus homo  haec negatio vere praedicabitur de ligno dicente quolibet quod lignum hoc est non albus homo. Sed hoc fieri non potest. Perspicue enim falsum est lignum esse non album hominem. Quod enim omnino homo non est nec non albus homo esse potest. Falsae igitur utraeque, et affirmatio quae dicit de ligno quoniam est albus homo et negatio de eo quae dicit quoniam est non albus homo. Quod si sunt falsae utraeque, haec negatio illius affirmationis non est. Quaerenda igitur est alia quae cum ea verum dividat atque falsum. Qua in re nulla alia reperietur contra eam quae dicit: Est albus homo  praeter eam quae dicit: Non est albus homo  Nam si ea dicitur esse affirmationis huius quae dicit: Est albus homo  negatio quae enuntiat: Est non albus homo  erit ut de ligno de quo affirmatio dicta falsa est vera sit enuntiata negatio eritque de ligno verum dicere, quoniam lignum hoc est non albus homo sed hoc impossibile est. Constat igitur neque eam propositionem quae dicit: Est non albus homo  illius affirmationis esse negationem quae proponit: Est albus homo  et eam quae dicit: Non est albus homo  negationem esse eiusdem affirmationis quae dicit: Est albus homo  Videsne igitur ut prope in omnibus affirmationes et negationes secundum esse vel non esse fiant? Illa enim album quod esse dixit, illa negat album non esse dicens rursus illa dicit hominem esse, illa vero negat dicens hominem non esse et in caeteris eodem modo est. QUOD SI HOC MODO, ET IN QUANTISCUMQUE ESSE NON ADDITUR, IDEM FACIET QUOD PRO ESSE DICITUR, UT EIUS, QUAE EST AMBULAT HOMO, NON EA QUAE EST AMBULAT NON HOMO NEGATIO EST SED EA QUAE EST NON AMBULAT HOMO; NIHIL ENIM DIFFERT HOMINEM AMBULARE VEL HOMINEM AMBULANTEM ESSE. Nec hoc solum, inquit, in his evenire potest propositionibus, quae secundum esse vel non esse disponuntur sed etiam in his quaecumque verbis talibus continentur, ut verba illa vim eius quod est esse concludant, ut est: Homo ambulat  ambulat continet in se esse. Idem enim est ambulat quod est ambulans. Ad haec igitur verba quae in propositionibus esse continent aptanda negatio est. Si enim omnis contradictio secundum esse vel non esse fit, haec autem verba esse propria significatione concludunt quoniamque verba haec ita ponuntur tamquam si hoc ipsum esse poneretur, manifestum est ad ea verba quae esse continent negationem poni oportere ad earum similitudinem propositionum, quae secundum esse et non esse supra dicta ratione sibimet opponuntur. His igitur ante praedictis quid inconveniens ex his possit esse persequitur. QUARE SI HOC MODO IN OMNIBUS, ET EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE NEGATIO EST POSSIBILE NON ESSE, NON, NON POSSIBILE ESSE. VIDETUR AUTEM IDEM POSSE ET ESSE ET NON ESSE; OMNE ENIM QUOD EST POSSIBILE DIVIDI VEL AMBULARE ET NON AMBULARE ET NON DIVIDI POSSIBILE EST. Superius demonstratum est quemadmodum in his quae complectuntur enuntiationibus secundum esse potius et non esse fierent oppositiones, nunc hoc dicit: si hoc, inquit, in omnibus propositionibus faciendum est, ut earum contradictiones secundum esse et non esse ponantur, et in his quae aliquid possibile esse pronuntiant non ita ponenda negatio est, ut dicat non possibile esse sed potius secundum non esse constituenda est, ut dicatur possibile non esse negationem eius esse quae dicit possibile esse. Sed si hoc dicimus, inquit, affirmatio et negatio contradictoriae verum inter se falsumque non dividunt. Omne enim quod potest esse idem etiam potest non esse. Quod enim potest dividi idem potest non dividi et quod potest ambulare idem potest et non ambulare. Quae autem sit huiusmodi possibilitas, per quam cum dicitur aliquid fieri posse, illud tamen relinquatur posse non fieri, consequenter explanat dicens: RATIO AUTEM EST, QUONIAM OMNE QUOD SIC POSSIBILE EST NON SEMPER IN ACTU EST, QUARE INERIT EI ETIAM NEGATIO; POTEST IGITUR ET NON AMBULARE QUOD EST AMBULABILE ET NON VIDERI QUOD EST viSIBILE. AT VERO IMPOSSIBILE EST DE EODEM VERAS OPPOSITES ESSE DICTIONES; NON IGITUR EST ISTA NEGATIO. Causa est igitur, inquit, cur id quod posse esse dicitur idem possit non esse, quod omne quod possibile dicimus ita pronuntiamus, ut non semper in actu sit, id est non sit necessarium. Omne namque quod semper in actu est necessarium est, ut sol semper movetur: itaque illi semper agitur motus. Si quis autem me dicat ambulare posse, quoniam ƿ mihi ambulationis motus non semper agitur et inest mihi aliquotiens non ambulare, inest quoque illud ut vere de me dicatur posse me non ambulare, cum vere pronuntietur posse ambulare. Ergo quaecumque non semper in actu sunt et posse esse et posse non esse recipiunt. Potest igitur et quod est ambulabile, id est quod ambulare potest, non ambulare et quod est visibile non videri. Quocirca docetur non esse negationem eius quae dicit posse esse eam quae proponit posse non esse, idcirco quod utraeque sunt verae in his quae (ut ipse ait) NON SEMPER ACTU sunt. CONTINGIT ENIM unum ex utrisque quae Aristoteles dicit: AUT IDEM IPSUM DICERE ET NEGARE SIMUL DE EODEM AUT NON SECUNDUM ESSE ET NON ESSE QUAE APPONUNTUR FIERI AFFIRMATIONES VEL NEGATIONES, ut aut idem sint affirmatio et negatio sibique consentiant, si secundum esse et non esse in omnibus contradictio fit, ut est in eo quod est posse esse et posse non esse (idem enim utraeque sunt sibique consentiunt et si quis eam dicit contradictionem esse contradictionem sibi consentire dicit), aut certe non in omnibus negationibus secundum esse et non esse ea quae apponuntur fieri affirmationes vel negationes, id est non in omnibus negationibus secundum appositionem esse vel non esse vel eorum verborum quae esse continent fieri contradictionem. SI ERGO ILLUD, INQUIT, IMPOSSIBILIUS EST, HOC ERIT MAGIS ELIGENDUM. Duo supra posuerat quae ex supra dictis rationibus evenirent: aut unum et idem ipsum esse ƿ dicere et negare simul de eodem, id est ut dictio et negatio idem essent simul de eodem praedicatae sibique consentirent, aut non secundum esse vel non esse fieri contradictionem. Sed videntur utraque quasi quodammodo inconvenientia esse, quippe cum illud unum etiam impossibile sit, ut affirmatio negatioque consentiant, illud alterum id est non secundum esse et non esse fieri oppositiones inconsentiens sit aliis propositionibus, in quibus hoc modo contradictionem fieri manifestum est. Nunc ergo hoc dicit: quoniam utrumque, inquit, inconveniens est, unum autem ex his erit eligendum, quod minus est impossibile, hoc sumendum est. Minus autem est impossibile, ut secundum esse et non esse non fiant oppositiones. Hoc enim nihil prohibet, illud autem impossibilius, ut affirmatio negatioque consentiant. Hoc igitur erit eligendum potms: has quae cum modo sunt propositiones non eas habere oppositiones, quae secundum esse et non esse fiunt sed potius eas quae ad modum ponuntur. Non autem ita dixit impossibilius est, tamquam si altera impossibilis sit sed ad hoc potius rettulit quod utraeque quasi inconvenientes videntur, quarum unam etiam impossibilem esse non dubium est. Hinc quoque disponit secundum modum aliquem pronuntiatarum propositionum quae esse negationes ponuntur. Dicit enim: EST IGITUR NEGATIO EIUS QUAE EST POSSIBILE ESSE EA QUAE EST NON POSSIBILE ESSE, negationem scilicet ƿ addens non ad esse verbum sed ad modum quod est possibile. Eandem quoque rationem dicit esse et in contingentibus. Eius enim quae est contingere esse negatio est non contingere esse. Docet etiam de necessario et impossibili sibi idem videri. Quae autem natura huius oppositionis sit, licet breviter, veracissime tamen expressa est, de qua nos superius diutius locuti sumus. Quod si quis perspicacius intendit, illius intellegentiam loci cum hac gradatim proficiscente expositione communicat. FIUNT ENIM QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE APPOSITIONES, SUBIECTAE VERO RES HOC QUIDEM ALBUM, ILLUD VERO HOMO, EODEM QUOQUE MODO HOC LOCO ESSE QUIDEM SUBIECTUM FIT, POSSE VERO ET CONTINGERE APPOSITIONES DETERMINANTES QUEMADMODUM IN ILLIS ESSE ET NON ESSE VERITATEM, SIMILITER AUTEM HAE ETIAM IN ESSE POSSIBILE ET ESSE NON POSSIBILE. Appositiones vocat praedicationes. Dicit ergo in his propositionibus, quae praeter aliquem modum dicuntur, praedicantur quidem semper ess e et non es se vel ea verba quae esse continent, subiciuntur vero res de quibus illa praedicantur, ut album, cum dicimus album est, vel homo, cum dicimus homo est. Atque ideo quoniam in his praedicatio totam continet propositionem veritatemque et falsitatem praedicatio illa determinat, praedicatur autem esse vel quicquid esse continet, iure secundum esse et non esse contradictiones ponuntur. In his autem, id est in quibus modus aliqui praedicatur, esse quidem subiectum est vel ea verba quae esse continent, modus autem solus quodammodo praedicatur. ƿ Nam quod dicitur esse solum sine modo aliquo ipsius rei substantia pronuntiatur et quaeritur in eo quodammodo an sit: idcirco esse ponente affirmatione dicit negatio non esse. In his autem in quibus modus aliquis est non dicitur aliquid esse sed cum qualitate quadam esse, ut esse quidem nec affirmatio ambigat nec negatio, de qualitate autem, id est quomodo sit tunc inter aliquos dubitatur. Atque ideo ponente aliquo, quoniam Socrates bene loquitur, non ponitur negatio, quoniam bene non loquitur sed quoniam non bene loquitur, idcirco quoniam (ut dictum est) non ad esse vel ad ea verba quae es se continent propositio nem totam conficiunt sed potius ad modum intenditur animus audientis, cum affirmatio aliquid esse pronuntiat. Si igitur haec continent totius propositionis vim quod autem propositionis vim continet praedicatur et secundum id quod praedicatur semper oppositiones fiunt, recte solis modis vis negationis apponitur. His autem rationabiliter constitutis illud rursus exsequitur quod non modo contradictio non est posse esse et posse non esse, verum etiam huiusmodi propositiones, quae cum modis positae, negationem tamen habent ad esse coniunctam, omnino negationes non sunt sed affirmationes. Possunt enim earum negationes aliae reperiri. Ait enim: EIUS VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE NEGATIO EST NON POSSIBILE NON ESSE. In tantum inquit, non est ulla contradictio eius quae est posse esse et eius quae est posse non esse, ut ea quae dicit ƿ posse non esse non esse negatio sed potius affirmatio conuincatur. Affirmatio autem affirmationi numquam contradictorie opponitur. Docetur autem esse affirmatio ea quae dicit posse non esse, quod eius alia quaedam negatio reperitur, ea scilicet quae dicit non posse non esse. Simulque illud adiungit: cum sint, inquit, huius propositionis quae dicit aliquid posse esse duae quae videantur esse negationes, ea scilicet quae dicit posse non esse et ea quae proponit non posse esse, hinc agnoscitur quae harum sit contradictoria contra eam quae dicit posse esse affirmationem: quae enim verum falsumque cum ea dividit, ipsa eius potius potest esse quam ea quae illi consentit. Ei autem quae est posse esse consentit ea quae dicit posse non esse, ut supra iam docui: ea quae dicit non posse esse si falsa est, vera est ea quae dicit posse esse, haec rursus si falsa est, vera est illa quae enuntiat non posse esse. Dividunt igitur hae veritatem falsitatemque, quod in singulis exemplis facillime poterit inveniri. Age enim dicat quis posse me ambulare, ille verum dixerit, si quis vero dicat non posse me ambulare, mentitus est. Rursus si quis dicat posse solem consistere, mentitur, si quis vero dicat non posse solem consistere, de ipsius nullus ambigit veritate. Dividunt igitur veritatem falsitatemque hae scilicet quae dicunt posse esse et non posse esse, illae vero se sequuntur quae dicunt posse esse et posse non esse. Quae igitur consentiunt, contradictiones non sunt, quae autem veritatem inter se falsitatemque dividunt, ipsas contradictiones magis esse ƿ putandum est. Quod per hoc ait: QUARE ET SEQUI SESE INVICEM VIDEBUNTUR  Quae autem propositiones sese sequantur dicit:  IDEM ENIM POSSIBILE EST ESSE ET NON ESSE  Cur autem sese sequantur monstrat adiciens:  NON ENIM CONTRADICTIONES SIBI INVICEM SUNT  Si enim contradictiones essent, numquam sese sequerentur. Sed quae sint contradictiones declarat dicens: SED POSSIBILE ESSE ET NON POSSIBILE ESSE NUMQUAM SIMUL SUNT  Cur autem numquam simul sint, non tacuit. Ait namque: OPPONUNTUR ENIM. Nam idcirco numquam simul sunt et veritatem falsitatemque dividunt, quoniam opponuntur. Docet quoque eius propositionis quae dicit posse non esse illam esse negationem quae proponit non posse non esse. Ex eadem vi ad propositionem transit. Dicit enim: AT VERO POSSIBILE NON ESSE ET NON POSSIBILE NON ESSE NUMQUAM SIMUL SUNT,  per quod ostenditur illam esse affirmationem, illam vero negationem. Universaliter enim quaecumque idem de eodem haec ponit, haec aufert, si illa sit affirmatio, illa negatio et nihil aequivocationis aut universalium determinationis impediat, contradictorie sibimet opponuntur.  Caetera iam ita ut ait per se expedita sunt, ut longa expositione non egeant, nisi quaedam in eorum ordine permiscenda sunt, quae id quod per se est lucidum clarius monstrent. Persequitur enim similiter caeteros modos dicens quae propositiones quarum affirmationum non sint negationes et quae sint ƿ et eas, quas negationes non esse dicit, ut affirmationes esse demonstret, alias negationes opponit. SIMILITER AUTEM, inquit, ET EIUS propositionis QUAE EST NECESSARIUM ESSE NON est ea negatio quae dicit NECESSARIUM NON ESSE (haec enim affirmatio est, sicut mox negatione opposita comprobavit) SED POTIUS ea negatio est eius quae est necessarium esse quae dicit NON NECESSARIUM ESSE. Eodem quoque modo cuncta persequitur dicens: EIUS VERO QUAE EST NECESSARIUM NON ESSE, quam supra dixerat non esse oppositam ei quae dicit necessarium esse, illa negatio est quae proponit NON NECESSARIUM NON ESSE. Quaecumque enim negationem ad esse positam habent, illas si cum modo sint affirmationes esse putandas. EIUS VERO QUAE EST IMPOSSIBILE ESSE, NON est ea negatio quae dicit IMPOSSIBILE NON ESSE (non enim ad modum habet negativam particulam iunctam) SED potius ea quae dicit NON IMPOSSIBILE ESSE. Hae namque inter se verum falsumque dividunt. Illius vero quae ad esse habet negativam particulam, quam affirmationem esse manifestum est, id est eius quae dicit IMPOSSIBILE NON ESSE, ea negatio est quae dicit NON IMPOSSIBILE NON ESSE. Concludit etiam breviter id quod superius demonstravit dicens: ET UNIVERSALITER VERO (QUEMADMODUM DICTUM, EST) ESSE ƿ QUIDEM ET NON ESSE OPORTET PONERE QUEMADMODUM SUBIECTA, NEGATIONEM VERO ET AFFIRMATIONEM HAEC FACIENTEM AD UNUM APPONERE ET HAS PUTARE OPORTET ESSE OPPOSITAS DICTIONES. Universaliter, inquit, dicimus, sicut supra iam dictum est, in his propositionibus quae modos additos habent esse et non esse subiecta potius fieri, modos vero praedicari atque ideo ad unum quemlibet modum, id est secundum unum, fieri debere affirmationem semper et negationem, ut sicut affirmationem praedicatus modus continet, ita negativa particula ad modum iuncta totam contineat negationem. Proponit autem eas quas putat esse oppositas dictiones hoc modo: Possibile Non possibile Contingens Non contingens Impossibile Non impossibile Necessarium Non necessarium  Quod autem addidit VERUM NON VERUM, ad hoc pertinet ut omnes modos includeret. Vere enim modus quidam est, sicut et bene, sicut velociter, sicut laete, sicut graviter, et quicumque modi sunt, hoc modo facienda est contradictio: verum est, non verum est non autem non est verum, velociter ambulare, non velociter ambulare sed non illa quae dicit velociter non ambulare. Concludenti igitur semper ad modum inugenda negatio est. Illae enim semper sibimet opponuntur, ut supra iam dictum est, quae secundum praedicationes habent negativas particulas iunctas. Praedicantur autem in his modi, ut supra iam monstravimus. ƿ Secundum modos igitur in his negatio posita integram vim contradictionis efficiet. Expeditis modorum oppositionibus de consequentia propositionum atque consensu habebitur subtilis utilisque tractatus. Si igitur possibile esse simpliciter diceretur, simplex et facilis propositionum videretur esse consensus nec quicquam in earum consequentia posset errari: nunc autem quoniam dupliciter dicitur, secundum diversos modos non eaedem propositionum sunt consequentiae. Quod autem dico tale est. Possibilis duae sunt partes: unum quod cum non sit esse potest, alterum quod ideo praedicatur esse possibile, quia iam est quidem. Prior pars corruptibilibus et permutabilibus propria est. In mortalibus enim Socrates potest esse cum non fuit, sicut ipsi quoque mortales, qui sunt id quod antea non fuerant. Potest enim homo cum non loquitur loqui et cum non ambulat ambulare. Ergo haec pars secundum id dicitur quod non quidem iam est, esse tamen potest. Illa vero alia pars possibilis quae secundum id dicitur, quod iam est aliquid actu, non potestate, utrisque se naturis accommodat, et sempiternis scilicet et mortalibus. Nam quod in sempiternis est esse possibile est, rursus quod est in mortalibus nec hoc a subsistendi possibilitate discedit sed tantum differt, quia id quod in aeternis est nullo modo permutatur et semper esse necesse est, illud vero quod in rebus mortalibus invenitur poterit et non esse et ut sit non est necesse. Ego namque cum scribo inest mihi scribere, quocirca et scribere ƿ mihi possibile est sed quoniam sum ipse mortalis, non est haec potestas scribendi necessaria: neque enim ex necessitate scribo. At vero cum caelo dicimus inesse motum, nulla dubitatio est quin necesse sit caelum moveri. In mortalibus igitur rebus cum est aliquid et esse potest et ut sit non est necesse, in sempiternis autem quod est necesse est esse et quia est esse possibile est. Cum igitur principaliter possibilis duae sint partes: una quae secundum id dicitur quod cum non sit esse tamen potest, altera quae secundum id praedicatur quod iam est aliquid actu non solum potestate, huiusmodi possibile quod iam sit actu duas ex se species profert: unam quae cum sit non est necessaria, alteram quae cum sit illud quoque habet ut eam esse necesse sit. Nec hoc solius Aristotelis subtilitas deprehendit, verum Diodorus quoque possibile ita definit: quod est aut erit. Unde Aristoteles id quod Diodorus ait erit illud possibile putat quod cum non sit fieri tamen potest, quod autem dixit Diodorus est id possibile Aristoteles interpretatur quod idcirco dicitur esse possibile, quia iam actu est. Cuius possibilitatis modi duas partes esse docuimus: unam quam necessariam dicimus, alteram quam non necessariam praedicamus. Huius autem non necessariae duae rursus partes sunt: una quae a potestate pervenit ad actum, altera quae semper actu fuit, a quando res illa quae susceptibilis ipsius est fuit. Et illa quidem quae a possibilitate ad actum venit utriusque partis contradictionis susceptibilis est, ut nunc ego qui scribo ex potestate ad actum veni et agens possum scribere. ƿ Ante enim quam scriberem erat mihi scribendi potentia sed ex potestate scribendi veni ad actum scribendi. Quare utraque mihi conveniunt et non scribere et scribere. Possum enim et non scribere, possum et scribere, quae est quodammodo contradictio. Atque ideo quaecumque ex potestate ad actum renerunt, ea et facere possum et non facere et esse et non esse, ut qui loquitur, quia antea potuit loqui quam loqueretur et nunc ideo potest loqui quia loquitur, et potest loqui et potest non loqui. Alia vero quae numquam ante potestate fuit sed semper actu, a quando res ipsa fuit quae aliquid potestate esse diceretur, ad unam rem tantum apta est, ut ignis numquam fuit potestate calidus, ut postea actu calidus sentiretur, nec nix ante frigida potestate, post actu sed a quando fuit ignis actu calidus fuit, a quando nix actu frigida. Quocirca hae potentiae non sunt aptae ad utraque. Neque enim ignis frigus incutere nec nix calidum quicquam possit efficere. Quare facienda a principio huiusmodi divisio: possibilis alia pars est quae cum non sit esse tamen potest, alia vero quae actu est et ideo possibilis dicitur. Si enim non posset, nec esset omnino. Huius autem possibilitatis quae secundum illum dicitur modum, quod iam est actu, duae partes sunt: una secundum id quod ex necessitate esse dicimus, altera secundum id quod cum sit non tamen esse ex necessitate ƿ aliquid arbitramur. Huius autem non necessariae possibilitatis duae sunt aliae partes: una quae quoniam ex potestate ad actum venit et esse et non esse recipiet facultatem, altera quae quia numquam actum habere destitit, a quando fuit id quod dicitur ei esse possibile, ad unam tantum partem apta est atque possibilis, eam scilicet quam actus semper exercuit, ut igni calor vel nivi frigus vel adamanti durities vel aquae liquor. Sed nullus arbitretur ex necessariae possibilitatis specie esse id quod dicimus numquam potestate fuisse actus quosdam in quibusdam rebus, ut igni calorem. Ipse enim ignis exstingui potest. In illis autem quae necessaria sunt non modo qualitas a subiecta re discedere numquam debet, quod videtur etiam in igni, a quo sua caloris qualitas non recedit sed etiam illud quod subiecta illa substantia immortalis esse videatur, quod igni non accidit. Solem enim et caetera mundi huius corpora quae superna sunt et caelestia immortalia Peripatetica disciplina putat atque ideo consentienter sibi dicit solem necessario moveri, quod non modo a sole motus ille numquam recedit sed ne sol ipse esse quidem desinet. His igitur praedictis id ad quod haec praemissa sunt id est consequentia propositionum diligentius exsequenda est. ET CONSEQUENTIAE VERO SECUNDUM ORDINEM FIUNT ITA PONENTIBUS: ILLI ENIM QUAE EST POSSIBILE ESSE ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET NON IMPOSSIBILE ESSE ET NON NECESSARIUM ESSE; ILLI VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE NON ESSE EA QUAE EST NON NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE; ILLI VERO QUAE EST NON POSSIBILE ESSE ET NON CONTINGENS ESSE ILLA QUAE EST NECESSARIUM NON ESSE ET IMPOSSIBILE ESSE; ILLI VERO QUAE EST NON POSSIBILE NON ESSE ET NON CONTINGENS NON ESSE ILLA QUAE EST NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON ESSE. CONSIDERETUR AUTEM EX SUBSCRIPTIONE QUEMADMODUM DICIMUS. Haec Aristoteles consentienter his quae nos supra praemisimus addidit de consequentia propositionum. Quae etsi manifesta sunt acute perspicientibus, tamen ne nos nihil huic quoque loco addidisse videamur brevissima ea expositione percurrimus. Primum voluit demonstrare, quoniam quaecumque de possibili dicerentur eadem etiam de contingenti dici veracissime possint atque ideo ait: ILLI QUAE EST POSSIBILE ESSE consequentem esse illam quae dicit aliquid contingere. Et ne in his aliquid discrepans videretur, adiecit dicens: ET HOC ILLI CONVERTITUR, ut intellegeremus quod esset possibile hoc contingere et quod contingeret illud esse possibile. Quare quae sibi convertuntur, ea aequalia sunt atque eadem. Quicquid igitur in possibili dici potest, idem in contingenti praedicatur. Haec ergo, id est possibile atque contingens, sequi dixit illas propositiones quae dicerent non impossibile esse et eas quae necessarium negant id est non necesse esse aliquid ƿ praedicant. Ait enim: ILLI ENIM QUAE EST POSSIBILE ESSE ILLA QUAE EST CONTINGERE ESSE, ET HOC ILLI CONVERTITUR, ET EA QUAE EST NON IMPOSSIBILE ESSE ET NON NECESSARIUM ESSE, tamquam si hoc diceret: et possibile est sequitur contingentia et haec utraque sibi convertuntur sed has sequitur non impossibile esse et non necessarium esse. Hoc quam recte dictum sit neminem latet. Nam quod est possibile esse atque esse contingit, ut sit impossibile non est. Nam si esset impossibile, non diceretur posse esse, quod ut non esset ratio impossibilitatis adstringeret. Ergo id quod potest esse non est impossibile esse. Similiter non est necesse esse id quod posse esse dicitur. Hoc autem idcirco evenit, quia id quod possibile praedicamus ad utramque partem facile vertitur. Nam et ut sit fieri potest et ut non sit. At vero necessitas et impossibilitas in alterutra parte constringitur. Nam quod impossibile est esse numquam potest. Porro autem quod necesse est non esse numquam potest. Ergo id quod negamus impossibile esse consentire facimus possibilitati. Id autem quod negamus necessarium rursus eidem naturae vim possibilitatis adinugimus [ut sit hoc modo dicendum] et ut verius loquamur, ita dicendum est: quod possibile est et esse poterit et non esse, rursus quod impossibile est esse non potest, quod necesse est non esse non potest. Ergo si impossibilem enuntiationem negationis adiectione frangamus dicentes non impossibile esse, illi partem possibilitatis ƿ adiungimus in qua esse posse aliquid dicitur, sin vero necessariae propositionis rigorem negatione minuamus dicentes non necesse esse, illud evenit ut ad eam partem necessariam propositionem applicemus, quae in possibilitate est, ut possit non esse. Quare possibilitatem sequitur non esse impossibile, idcirco quia quod possibile est fieri potest. Eandem rursus possibilitatem sequitur propositio quae dicit non necesse esse, idcirco quia quod possibile est poterit et non esse. Aliter idem dicimus: quod possibile est non est verum dicere, quoniam impossibile est, quia fieri potest rursus quod possibile est non est verum dicere, quoniam necesse est esse. Potest enim quod possibile est esse idem non esse. Quare si de possibilitate impossibilitas et necessitas recte dici non potest, eorum negationes possibilitati consentient, quae sunt non impossibile esse et non necessarium esse. Sed meminisse debemus eandem semper in omnibus de contingenti et de possibili esse rationem, de eo scilicet possibili quod cum adhuc non sit poterit tamen esse aut non esse. Aliam rursus consequentiam dicit hoc modo: ILLI VERO QUAE EST POSSIBILE NON ESSE ET CONTINGERE NON ESSE EA QUAE EST NON NECESSARIUM NON ESSE ET NON IMPOSSIBILE NON ESSE. Propter eandem causam has quoque esse consequential dixit. Illi enim quae est possibile non esse et ei quae est contingere non esse illam consentire ait quae dicat non necesse esse non esse et non impossibile esse non esse. Hoc autem ideo quia quod potest non esse potest et esse et rursus quod contingit non esse contingit et esse. At vero quod necesse est non esse illud non potest esse, quod autem impossibile est non esse illud non esse nou poterit. Quare a possibili utraeque discrepant. Nam quia possibilitas posse esse aliquid promittit, contrarium sentit ea quae dicit necesse esse non esse. Rursus quia possibilitas habet in se vim, ut id quod potest esse possit et non esse, dissentit ab ea multumque discrepat quae dicit impossibile esse non esse. Quod si propositio quae praedicat necesse esse non esse et rursus quae dicit impossibile es se non esse a possibilitate dissentiunt, recte nimirum harum negationes possibilitati consentire creduntur. Possibiles autem propositiones voco huiusmodi quae vel in affirmatione vel in negatione possibilitatem aliquam monstrant altera parte non interclusa, ut quae dicit possibile esse aliquid esse ab hac non intercluditur ea per quam dici poterit possibile esse non esse vel si quis dicat possibile aliquid non esse, ab hac rursus non interclusum est, ut esse possit atque ideo affirmationem quae praedicat posse esse possibilem voco nec minus eam quae dicit aliquid posse non esse. Et in istis propositionibus quas Aristoteles ponit, in quibus dicit possibile non esse, non videatur ita dicere tamquam si hoc modo pronuntiet, ut velit intendere aliquid impossibile esse cum dicit possibile non esse. Ita enim hanc propositionem dicit non quo possibilitatem illam auferat sed quo dicat possibile esse aliquid ut non sit. Subaudiendum enim est adiungendumque ad possibile verbum quod est esse, ut cum ƿ ille dicit possibile non esse nos intellegamus possibile esse non esse, id est possibile esse ut non sit. Tertiam consequentiam ponit hanc in qua consentire dicit ILLI QUAE EST NON POSSIBILE ESSE ET NON CONTINGENS ESSE illam quae dicit NECESSARIUM NON ESSE ET IMPOSSIBILE ESSE. Hoc ita plenum est ut expositione non egeat. Quod enim non possibile est hoc fieri non potest, quod fieri non potest necesse est ut non sit, quod autem necesse est ut non sit ut sit impossibile est. Recte igitur dicitur eam propositionem quae dicit aliquid non posse esse et eam quae dicit non contingere esse consequi illas quae esse cum necesse est negant et quae impossibilitatem affirmant [non est contingens scilicet esse et non necessarium esse]. Reliquam consequentiam, in qua eas propositiones quae dicerent NON POSSIBILE ESSE aliquid NON ESSE ET NON CONTINGERE NON ESSE illas quae proponerent NECESSE ESSE ET IMPOSSIBILE NON ESSE, neque ullam habet obscuritatem. Nam quod non est possibile ut non sit hoc impossibile est ut non sit. Id quod enim dicimus impossibile esse idem valet tamquam si dicamus non possibile esse. Quod enim facit negatio in ea interpretatione in qua dicimus non possibile, idem facit privatio in ea in qua dicimus impossibile. Quod autem impossibile est non esse late patet, quia necesse est esse. Ergo et quod non est possibile ut non sit manifestum est quoniam esse necesse est. Idem quoque ƿ et de contingenti dicendum est. Describit autem eas hoc modo, ut non solum mente et ratione capiantur verum etiam subiectae oculis faciliores intellectu sint. Nos autem, ut sit lucidior explanatio, de his duos facimus ordines. Et in primo quidem eas proposuimus quae praecedunt, in secundo vero eas quae sequuntur, ut sit multa facultas vel per se earum rationes non intellegentibus, ad descriptionem tamen respicientibus, quae quam sequatur agnoscere. PRAECEDENTES: SEQUENTES: Possibile esse Non impossibile esse Contingens esse Non necesse esse Possibile non esse Non necessarium non esse Contingens non esse Non impossibile non esse Non possibile esse Necessarium non esse Non contingens esse Impossibile esse Non possibile non esse Necesse esse Non contingens non esse Impossibile non esse  Hac igitur descriptione facta, quid Aristoteles communiter de propositionibus universaliterque tractaverit, nulli sollertius intuenti videtur ambiguum. Caetera vero quae singillatim de eorum consequentiis disputavit, quoniam defetigari lectores nolumus, sextum volumen expediet.  Sextus hic liber longae commentationi terminum ponit, quae quodam magno labore constiterit ac temporis mora. Nam et plurimorum sunt in unum coaceruatae sententiae et duorum ferme annorum spatium continuo commentandi sudore consumpsimus. Neque ego arbitror quibusdam sinistre interpretantibus gloriose factum videri, ut quod dici breviter posset id nos ostentatione doctrinae non ad lectorum scientiam potius quam prolixitate ad fastidium tenderemus. Quibus responsum velim non haec tam mendaciter esse sensuros, si prioris commenti perlegerent brevitatem. Nam neque brevius explicari potuit angustissimorum obscuritas impedita sermonum et quam multa ad plenam libri huius intellegentiam desint agnoscitur. Quid autem utrumque opus legentibus utilitatis exhibeat, hinc facillime mihi videtur posse perpendi, quod cum hanc secundam editioneni in manus quisquam primum sumpserit rerum ipsarum spatiosa varietate confunditur, ut qui in maioribus intendere mentem nequit editionis primae brevitatem simplicitatemque desideret. Quod si quis ad prioris editionis duos libros rector accesserit, sumpsisse sibi ad scientiam quiddam fortasse videbitur sed cum postremo hanc secundam cognoverit editionem, quam multa in prima ignorarit agnoscit. Nec homines a legendo longum opus labore deterreat, cum nos non impedierit ad scribendum. Sed ne ipsum quoque prooemium tendi longius videatur, ad Aristotelis seriem et ad ea quae de consequentia propositionum diligenter exsequitur reuertamur. Ea quae communiter universaliterque de propositionibus omnibus et de earum ad se inuicem consequentiis speculanda fuerant in superiori propositionum ipsarum descriptione disposuit nunc vero quae singillatim singulis accidunt diligentissimo tractatu persequitur. Ait enim ita: ERGO IMPOSSIBILE ET NON IMPOSSIBILE ILLUD QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON POSSIBILE SEQUITUR QUIDEM CONTRADICTORIE SED CONVERSIM; ILLUD ENIM QUOD EST POSSIBILE ESSE NEGATIO IMPOSSIBILIS, NEGATIONEM VERO AFFIRMATIO; ILLUD ENIM QUOD EST NON POSSIBILE ESSE ILLUD QUOD EST IMPOSSIBILE ESSE; AFFIRMATIO ENIM EST IMPOSSIBILE ESSE, NON IMPOSSIBILE VERO NEGATIO. Consequentia propositionum (ut superior descriptio docet) secundum possibile et necessarium facta est. Quam rem illa quoque secuta est, ut et de contingentibus ƿ et impossibilibus propositionibus consequentiisque diceretur. Nam cum contingens recto modo possibili consentiat, impossibile converso ordine necessarium est, ut paulo post docebimus. Speculatur ergo de possibili contingenti et impossibili, quemadmodum ad se inuicem vel quas habeant consequentias idque constituit hoc modo dicens: impossibile et non impossi bile sequuntur quidem possibile et non possibile contradictorie quidem sed conversim. Hoc autem huiusmodi est: scimus affirmationem privatoriam esse eam quae dicit impossibile esse, huius vero negationem non impossibile esse, rursus affirmationem possibilem eam quae dicit possibile esse, huius negationem quae proponit non possibile esse. Sequitur ergo affirmationem possibilem negatio impossibilitatis. Nam quod possibile est idem est non impossibile. Alioquin si ea quae dicit non impossibile est non sequitur possibilitatem, sequitur eius affirmatio, id est impossibile esse. Erit ergo quod possibile est impossibile, quod fieri non potest. Quod si impossibilitas possibilitatem non sequitur, non impossibile esse sequitur possibilitatem. At vero negationem possibilitatis sequitur affirmatio impossibilitatis. Nam quod non possibile est impossibile est. Eandem enim vim optinet negatio in propositionibus quam etiam privatio. Et de contingenti eodem modo. Nam quod contingens est illud est non impossibile. Nam si contingens et possibile se sequuntur, possibile vero et non impossibile consentiunt, contingens et non impossibile idem designant. Rursus non contingens ƿ et impossibile idem videri poterit perspicienti, quod non contingens quidem et non possibile idem sentiunt. Sed non possibile impossibilitati consentit. Quocirca et non contingens quoque impossibile aliquid esse denuntiat. Fit ergo ut affirmatio impossibilitatis contradictionem possibilitatis sequatur sed non ut affirmatio affirmationem, nec ut negatio negationem sed conversim, id est ut affirmatio negationi, negatio vero affirmationi consentiat. Affirmationem namque quae est possibile es se sequitur negatio impossibilis quae dicit non impossibile esse, negationem vero possibilitatis quae est non possibile esse sequitur impossibilitatis affirmatio quae proponit impossibile esse. Idem quoque et de contingenti dicendum est. Affirmationem namque contingentis sequitur negatio impossibilitatis, negationem vero contingentis sequitur affirmatio impossibilitatis. Omnino enim quicquid de possibilitate proponitur idem de contingentibus iudicatur. Disponantur ergo hoc modo: primum quidem affirmatio impossibilis, contra eam negatio impossibilis, et sub affirmatione impossibili ponantur ex contingentibus et possibilibus, quas ipsa sequitur impossibilitas, sub negatione vero impossibilitatis illae possibilis et contingentis propositiones, quibus ipsa impossibilitatis negatio consentit, hoc modo: ƿ AFFIRMATIO CONTRADICTIO NEGATIO Impossibile esse Non impossibile esse NEGATIO CONTRADICTIO AFFIRMATIO Non possibile esse Possibile esse Non contingens esse Contingens esse  Patet ergo ut contradictiones quidem aliis contradictionibus consentiant. Qua in re illud quoque manifestum est, quod affirmationes negationibus, negationes vero affirmationibus consentiunt. Seusus ergo totus talis est, sermonum vero ratio haec est: IMPOSSIBILE, inquit, ET NON IMPOSSIBILE scilicet quod est contradictio duas contradictiones id est ILLUD QUOD EST CONTINGENS ET POSSIBILE ET NON CONTINGENS ET NON POSSIBILE SEQUITUR QUIDEM CONTRADICTORIE (nam una contradictio impossibilis duas sequitur contradictiones, id est contingens et non contingens, possibile et non possibile) sed quamquam contradictionem sequatur alia contradictio, CONVERSIM tamen sibi consentiunt. Nam QUOD EST POSSIBILE ESSE SEQUITUR NEGATIO IMPOSSIBILIA, ut superior descriptio docet, NEGATIONEM VERO possibilis AFFIRMATIO scilicet impossibilis. Nam quod est non possibile consentit ei quod est impossibile. Est autem affirmatio impossibilis ea quae dicit impossibile esse. Et quamquam inuoluta sit sermonum ratio, tamen si quis secundum superiorem expositionem ad ipsius Aristotelis sermones superiores ƿ redeat et quod illis deest ex nostra expositione compenset, sensus planissimus a ratione non denat. NECESSARIUM VERO QUEMADMODUM, CONSIDERANDUM EST. MANIFESTUM QUONIAM NON EODEM MODO SED CONTRARIAE SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE AUTEM EXTRA. NON ENIM EST NEGATIO EIUS, QUOD EST NECESSE NON ESSE, NON NECESSE ESSE, CONTINGIT ENIM VERAS ESSE IN EODEM UTRASQUE; QUOD ENIM EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST NECESSARIUM ESSE. Impossibilis atque possibilis dudum comparatione didicimus, quod affirmationem possibilem impossibilis negatio sequeretur, rursus negationi possibilis impossibilis affirmatio consentiret. Quaerens ergo nunc, quemadmodum possibilium et necessariarum propositionum fiat consequentia, dicit non eodem modo in his evenire quemadmodum in illis evenit quae ex possibilis et impossibilis comparationibus nascebantur. In illis enim contradictiones oppositae contradictiones rursus oppositas sequebantur, ut affirmationem negatio, negationem affirmatio sequeretur. In his autem hoc est in necessariis et possibilibus non eodem modo est sed contrariae quidem sequuntur, contradictoriae vero et oppositae extra sunt et non sequuntur. Et prius quidem quae sint contrariae, quae contradictoriae disponamus. Propositionis enim quae dicit necesse esse ea quae proponit non necesse esse contradictoria est, ea ƿ vero quae dicit necesse esse non esse contraria: ut si quis dicat solem necesse esse moveri, huic est opposita contradictorie solem non necesse esse moveri, contraria vero solem necesse esse non moveri. Possibilem igitur propositionem sequitur contradictio necessarii, contradictionem vero possibilis non sequitur necessitas (quod eveniret si in his sese oppositae sequerentur) sed potius ea quae est contraria necessitati. Age enim propositioni quae dicit possibile esse videamus quae ex necessariis consentiat. Illa quidem quae dicit necesse esse non ei poterit consentire. Quod enim possibile est esse potest et non esse, quod autem esse necesse est non esse non poterit. Ergo si possibilitatem necessitas non sequitur, sequitur eam necessitatis contradictio. Non sequitur ergo propositionem eam quae dicit possibile esse ea scilicet quae proponit necesse esse: sequitur ergo propositionem possibilem contradictio necessitatis quae proponit non necesse esse. Sed contradictioni possibilis necessitas non consentit. Neque enim dicere possumus, quoniam eam propositionem quae dicit non possibile esse sequatur ea quae proponit necesse esse sed potius contraria necessariae illa quae dicit necesse esse non esse. Nam cum non possibile est, necesse est non esse. Disponantur enim hae scilicet quae se sequuntur et sub his necessaria et quae sit contradictio, quae contrarietas adscribatur. ƿ Possibile Non possibile Non necesse esse Necesse esse non esse CONTRADICTIO CONTRARIETAS Necesse esse  Nulli ergo dubium est quin affirmationem possibilis sequatur necessarii negatio, negationem vero possibilis necessarium non sequatur sed potius contrarietas necessarii. Nam cum possibile esse sequatur contradictio necessitatis, quod est non necesse est, contradictionem possibilis quae dicit non possibile esse non sequitur necessitas ipsa sed potius contraria ea scilicet quae proponit necesse esse non esse. Sensus ergo huiusmodi est, talis vero est ordo sermonum: NECESSARIUM VERO, inquit, QUEMADMODUM id est quas habeat consequentias, CONSIDERANDUM EST. Primo quidem definit dicens: MANIFESTUM EST QUONIAM NON EODEM MODO, quo loco subaudiendum est: quemadmodum in his quae sunt possibiles et impossibiles SED CONTRARIAE SEQUUNTUR, CONTRADICTORIAE VERO EXTRA sunt et non sequuntur. Namque contradictionem possibilis necessarii non contradictio sed (ut supra docuimus) contrarietas sequebatur. Non enim contradictio contradictioni in hac necessarii consequentia consentiebat. Sequebatur namque possibilitatem illud quod est non necessarium, non possibile autem sequebatur ea propositio quae diceret necesse esse non esse, non autem necesse esse. Sed rursus necesse esse non esse et non necesse esse non sunt contradictiones sed non necesse esse quidem negatio necessarii est, illa vero quae dicit necesse esse non esse contraria necessarii. Contra se autem non sunt contradictoriae. Possunt enim in uno eodemque simul inveniri. Quod per hoc ait quod dixit:CONTINGIT ENIM VERAS ESSE IN EODEM UTRASQUE. NAM QUOD EST NECESSARIUM NON ESSE, NON EST NECESSARIUM ESSE ut quoniam necesse est hominem quadrupedem non esse, non necesse est esse hominem quadrupedem. Nam si hoc falsum est, necesse erit hominem esse quadrupedem, cum necesse sit non esse. Quocirca manifestum est, quoniam simul aliquando inveniri possunt non necesse esse et rursus necesse esse non esse propositiones. Quae cum ita sint, contradictiones non sunt. Causam vero reddens cur, cum secundum possibilis comparationem ad contradictiones sit reddita consequentia, non eodem modo in necessariis potuerit evenire, sic dicit: CAUSA AUTEM CUR NON CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO REDDITUR IDEM VALENS. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE SED NON ESSE; SI VERO IMPOSSIBILE NON ESSE, HOC NECESSARIUM EST ESSE. QUARE SI ILLA SIMILITER ƿ POSSIBILE ET NON, HAEC E CONTRARIO: NAM IDEM SIGNIFICAT NECESSARIUM ET IMPOSSIBILE SED (QUEMADMODUM DICTUM EST) CONTRARIE. Causa est, inquit, cur consequentia in necessariis ita reddatur, quod necessarium semper impossibili contraria ratione consentit. Nam quod impossibile est esse hoc necesse est non esse, et rursus quod necesse est esse hoc impossibile est non esse. Fit igitur contrarietas quaedam. Nam cum impossibilitas esse habet, necessitas non esse, et cum necessitas esse, impossibilitas non esse. Ergo idem valet impossibilitas et necessitas non eodem modo reddita sed si necessitas secundum esse, impossibilitas secundum non esse, et si impossibilitas secundum esse, secundum non esse necessitas. Quare idcirco evenit ista contrario modo consensio. Nam ubi est impossibile esse, ibi est necesse non esse sed impossibile esse et non possibile esse consentiunt: igitur non possibile esse et necesse non esse consentiunt. Nulli ergo dubium est idcirco necesse esse non esse sequi possibilis negationem, quoniam impossibilitas quae sequitur possibilis negationem consentit ei quae dicit necesse non esse. Hoc autem ideo quia impossibilitas et necessitas idem valent (ut dixi) si contrarie proponantur. Quare quod dicitur hoc modo est: CAUSA AUTEM est, inquit, CUR NON CONSEQUATUR SIMILITER CAETERIS, id est quae secundum possibile et impossibile factae sunt, QUONIAM CONTRARIE IMPOSSIBILE NECESSARIO REDDITUR IDEM valENS, id est contrario ƿ modo reddita et pronuntiata impossibilitas necessitati idem valet. NAM SI IMPOSSIBILE EST ESSE, NECESSE EST HOC, NON ESSE SED necesse NON ESSE hoc est quod impossibile est esse. Nullus ergo dixerit quoniam esse necesse est sed potius quoniam necesse est non esse, tamquam si ita dixisset: nam si impossibile est esse, necesse est hoc non esse sed non putandum est quoniam impossibile est esse hoc est quod necesse est esse. Quod si rursus impossibile est non esse, hoc necesse est esse. Conversim igitur et contrarie impossibilitas necessitati redditur idem valens [id est contrario modo reddita et pronuntiata impossibilitatis necessitati]. Quod si impossibilitas ad possibile simili contradictione et contradictionum conversione consequentiam reddit, idem autem valet impossibilitas et nesessitas contrarie praedicata, nulli dubium est quin recte hic contraria et non opposita fuerit consequentia. An certe ita exponendum est: quoniam in consequentia impossibilis et non impossibilis ad eas quae proponebant possibile et non possibile eam quae est non possibile ea quae dicit aliquid esse impossibile sequebatur, contrarie vero impossibile idem valet quod necessarium, manifestum est quoniam, si similiter se habet, id est eo modo quo dictum est, impossibile ad consequentiam possibilis et non possibilis, impossibile vero ei quod est non possibile consentaneum sit, id quod e contrario idem valet, id est necessarium non esse, id sequi eam propositionem quam etiam impossibilitas ƿ sequebatur. Est autem contrarie idem valens impossibilitati ea quae est necessarium non esse sequiturque impossibilitas eam propositionem quae est non possibile esse: et necessarium non esse igitur sequitur eam quae est non possibile esse, ut sit sensus hic: quoniam impossibile necessario idem potest e contrario, similiter vero sese habet, id est eo modo quo dictum est, impossibilis consequentia ad eas quae sunt possibile et non possibile. AN CERTE IMPOSSIBILE SIC PONI NECESSARII CONTRADICTIONES? NAM QUOD EST NECESSARIUM ESSE, POSSIBILE EST ESSE, NAM SI NON, NEGATIO CONSEQUETUR; NECESSE ENIM AUT DICERE AUT NEGARE. QUARE SI NON POSSIBILE EST ESSE, IMPOSSIBILE EST ESSE: IMPOSSIBILE IGITUR EST ESSE QUOD NECESSE EST ESSE, QUOD EST INCONVENIENS. AT VERO ILLUD QUOD EST POSSIBILE ESSE NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR, HOC VERO ILLUD QUOD EST NON NECESSARIUM ESSE. QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE NON NECESSARIUM ESSE, QUOD EST INCONVENIENS. AT VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE NEQUE NECESSARIUM NON ESSE; ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE, HORUM AUTEM UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. SIMUL ENIM POSSIBILE ESSE ET NON ESSE; SIN VERO NECESSE ESSE VEL NON ESSE, NON ƿ ERIT POSSIBILE UTRUMQUE. RELINQUITUR ERGO NON NECESSARLUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. HOC ENIM VERUM EST ET DE NECESSE ESSE. HAEC ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR NON POSSIBILE ESSE; ILLUD ENIM SEQUITUR IMPOSSIBILE ESSE ET NECESSE NON ESSE, CUIUS NEGATIO NON NECESSE NON ESSE. SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM PRAEDICTUM MODUM ET NIHIL IMPOSSIBILE CONTINGIT SIC POSITIS. Superius quidem propositionum facta conversio est ita, ut possibilem propositionem necessarii negatio sequeretur. Atque his ita positis non evenit, ut contradictio contradictionem sequeretur nec ut converso modo sequeretur, quod in illis scilicet eveniebat in quibus possibilium et impossibilium sequentia considerabatur, quoniam contradictio necessarii, quod est scilicet non necessarium esse, sequebatur possibilem propositionem, possibilis vero contradictionem non consecuta est necessitas sed contrarium necessitatis. Hoc permutare volens intendit ita constituere consequentias, ut simili modo contradictio quidem contradictioni consentiat sed conversim. Hoc autem hac ratione disponit. Dicit enim: erravi fortasse quod necessarii et possibilis consequentiam ex possibili inchoavi et non ex necessario, ut eius hoc consensionem metiretur. Posuit enim praecedens ƿ possibile esse eique sicut consentiens non necessarium esse. Et haec quidem superius. Nunc autem convertit et dicit: an fortasse, inquit, errore lapsi ita has consequentias constituimus, ut primo poneremus possibile esse, huic autem adiungeremus velut consequens necessarii negationem quae diceret non necesse esse? Ac potius illud verum est, ut posito prius necessario necessitati possibilitas consentiens subsequatur? Videtur enim omnem necessariam propositionem possibilitas subsequi. Quod si quis neget, illi confitendum est, quoniam negatio possibilis sequitur necessitatem. In omnibus enim aut affirmatio aut negatio est. Ergo si necessariam propositionem non sequitur possibilitas, possibilitatis negatio consequitur. [Ut ita dicatur] ergo recta consequentia ita dicit: quod necesse est esse non possibile est esse. Sed dudum dictum est, quod ei propositioni quae proponeret non possibile esse impossibilitas consentiret. Sed non possibile esse consequitur necessitatem, et impossibilitas igitur consequitur necessitatem. Erit itaque recta propositionum consequentia: si necesse est esse, impossibile est esse. Sed hoc fieri non potest. Si igitur impossibilitas non sequitur necessitatem, sequitur autem propositio quae aliquid non posse esse denuntiat impossibilem propositionem, necessariae propositioni possibilitatis negatio quae est non possibile esse non consentit. Quod si haec necessariae enuntiationi non consentit, consentiet affirmatio. Necessitatem igitur possibilitas consequitur. ƿ Erit ergo recta propositionum consequentia hoc modo: si necesse est esse, possibile est esse. Sed rursus alia nobis ex his impedimenta nascuntur. Nam si quis dicat necessitati propositionem possibilem consentire quoniam possibilitati ea propositio quae dicit non impossibile esse et rursus ea quae enuntiat non necesse esse consentit, quod superior ordo praedocuit, erit ut necessariae propositioni consentiat ea quae dicit non necesse esse. Erit igitur recta consequentia: si necesse est esse, non necesse est esse. Sed hoc rursus est impossibile. Quod si ita est, aliquid in possibilis consequentiis propositionum permutandum est, ut possit ipsa sibi ratio consentire. Aut igitur illud primo inconvenienter dictum est, quod necessarii negatio affirmationem possibilem sequeretur, ut ea quae est non necesse esse sequatur eam quae dicit possibile esse vel certe illud non recte sensimus ad possibilem propositionem necessarium consentire. Quod quia perabsurdum est (nullus enim dixerit necessitati possibilitatem esse contrariam: evenit enim quod necesse est' hoc fieri non posse) rectaque est haec consequentia: si necesse est, possibile est, fit ut potius necessarii negatio propositionem possibilem non sequatur. Sed cum haec dicuntur, illud intellegi placet, quod necessitatem possibilitas sequatur, ut id quod necesse est, hoc dicatur esse possibile, illud autem quod per se possibile est non modis omnibus sit necesse. Nam si necesse est, fieri non potest ut non sit, quod vero possibile est, et non esse potest. Igitur quod possibile ƿ est non est necesse. Dico autem quia neque ea propositio sequitur possibilitatem, quae necessitati omnino contraria est. Est namque necessariae propositioni contraria ea quae dicit necesse est non esse. Hanc possibilitati consentire nullus impellet. Nam quod necesse est non esse, illud non potest esse, quod autem possibile est, et esse et non esse potest. Necessitas ergo propositionis quae secundum esse praedicatur idcirco non sequitur possibilitatem, quoniam possibilitas quidem et non esse potest, necessitas vero quae secundum esse est non esse non potest. Rursus necessitas quae secundum non esse praedicatur a possibilitate differt eamque non sequitur, quod necessitas ea quae secundum non esse dicitur non potest esse, possibile vero et esse et non esse potest. Quid igitur ut neque opposita negatio necessarii possibilitatem sequatur, quae non necesse esse proponit, neque ipsa necessitas affirmandi quae dicit necesse esse neque huic contraria quae dicit necesse esse non esse? Sed in his quatuor videbuntur. Est enim necessaria affirmatio quae dicit necesse esse, huic opposita est ea quae praedicatur non necesse esse, rursus contraria necessitati affirmatio est quae dicit necesse est non esse, huic opponitur ea quae proponit non necesse est non esse, quod subiecta docet subscriptio: Necesse est esse Non necesse est esse Necesse est non esse Non necesse est non esse  Si igitur neque ea quae dicit necesse est esse neque huic opposita quae proponit non necesse est esse nec necessitati contraria, cuius sententia est quoniam ƿ necesse est non esse, possibilitati consentit, restat ut ei consentiat quarta quae dicit non necesse est non esse, quae scilicet quarta aliquatenus etiam ipsi necessitati consentit, necessitas vero possibilitati minime. Omne enim quod necesse est esse et possibile est esse et ut non sit non est necesse. Idcirco autem haec propositio quae dicit non necesse est non esse necessitati consentit, quia necessitati quidem contraria est ea quae dicit necesse est non esse, haec vero opposita est huic propositioni quae dicit necesse est non esse, ea scilicet quae proponit non necesse est non esse: quare consentiet ei propositio quae contraria est sibimet oppositae affirmationi. Quod si quis attentius inspicit et ad supra scriptum omnino reuertitur, facile cognoscit. Si igitur possibile est (ut dictum est) sequitur ea propositio quae dicit non necesse est non esse, negationem possibilis sequitur huic opposita quae dicit necesse est non esse eritque huiusmodi consequentia: si possibile est, non necesse est non esse, rursus si non possibile est, necesse est non esse. Reuersa est igitur illa consequentia quae contradictorie quidem fiebat sed conversim, sicut supra de possibilibus dictum est. Hic namque affirmationem possibilem negatio sequitur quae necessarium quidem destruit sed id quod ad non esse ponitur, ea scilicet quae dicit non necesse est non esse, rursus negationem possibilis affirmatio sequitur necessaria quae secundum non esse ponitur. Est igitur hic quoque eadem conversio, ut contradictio quidem contradictionem sequatur sed conversim, ut affirmatio negationi, negatio vero affirmationi conveniat. Melius vero hoc si sub ƿ oculos caderet liquere credidimus atque ideo apertissime sententiam rei subiectae dispositionis nos ordo commoneat. Affirmatio possibilis Negatio possibilis oppositae secundum esse: secundum esse: Possibile esse Non possibile esse Negatio necessaria Affirmatio necessaria secundum non esse: secundum non esse: Non necesse est non esse Necesse est non esse  Omnis quidem sententia est talis, ordo autem sermonum huiusmodi est: postquam dixit de possibilium et impossibilium consequentia, quod contradictiones quidem contradictionibus convenirent sed conversim, id est quod affirmatio negationi, negatio vero consentiret affirmationi, haec eadem, inquit, consequentia quemadmodum in necessariis evenit, videndum est. Speculatus igitur et de necessariis idem non repperit. Nam cum dixisset necessarii negationem consentire possibilitati, affirmatio necessaria negationi possibilitatis non consensit. Eiusdem rei reddens causas illud arguit quod impossibilitas necessitati idem valeret contrarie reddita. Quam rem emendare volens ita dixit: AN CERTE, inquit, IMPOSSIBILE EST SIC PONI NECESSARII CONTRADICTIONES? Ut negationem scilicet necessarii possibilitati consentire diceremus. Addit autem dubitationem quandam, quae ita sese habet. NAM QUOD EST, inquit, NECESSARIUM ESSE, illud sine dubio POSSIBILE EST ESSE. NAM SI NON, id est si quod necessarium est possibile non est, NEGATIO possibilitatis CONSEQUITUR. NECESSE EST ENIM in omnibus rebus AUT DICERE id est affirmare AUT CERTE NEGARE. In omnibus namque rebus aut affirmatio vera est aut negatio. QUARE SI NON POSSIBILE EST ESSE, id est si hoc est non possibile esse [quod impossibile est, fiet id] quod necessarium est esse, sequitur autem propositionem quae dicit non possibile est esse illa quae proponit IMPOSSIBILE EST ESSE, fit aliquid impossibile ut dicatur: IMPOSSIBILE IGITUR EST ESSE ID QUOD NECESSE EST ESSE. Sed hoc inconveniens est. Ergo hic docuit, quod necessitatem possibilitas sequeretur. Nunc autem aliud addit: quoniam supra dixit possibili propositioni necessariae affirmationis negationem consentire, nunc de eadem re dubitationem dicens: AT VERO ILLUD QUOD EST POSSIBILE ESSE NON IMPOSSIBILE ESSE SEQUITUR. Nam quod possibile est, hoc non est impossibile sed quod non est impossibile esse non necesse est esse. Ergo si non impossibile esse sequitur possibilitatem, non impossibilitatem autem sequitur id quod dicitur non necessarium esse sequiturque possibilem propositionem id quod dicimus non necessarium ƿ esse, nulli dubium est quin, si necessitatem possibilitas sequitur, sequatur affirmationem necessariam negatio necessariae. QUARE CONTINGIT QUOD EST NECESSARIUM ESSE id ipsum NON NECESSARIUM ESSE. QUOD EST INCONVENIENS. Constat ergo quoniam affirmationem possibilem non sequitur opposita negatio necessariae affirmationi, idcirco quod illud removendum est: aut, quod supra diximus, ne sequatur possibilem affirmationem negatio necessariae, aut ne necessitatem possibilitas sequatur. Quod quia fieri nullo modo potest, illud est removendum, ne possibilitatem necessitati opposita negatio subsequatur. Igitur ea quae dicit non necesse est esse non sequitur possibilitatem. Et quia haec omnia in medio tacuerat, supra dictis addit: AT VERO NEQUE NECESSARIUM ESSE SEQUITUR POSSIBILE ESSE, hoc scilicet sententiae includens possibilitati non consentire necessarium, nec hoc solum sed NEQUE illud quod dicimus NECESSARIUM NON ESSE. Hoc ut tractatum sit ipse planius monstrat. ILLI ENIM id est possibili UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE et esse scilicet et non esse, HORUM AUTEM, id est necessarii secundum esse et necessarii secundum non esse, UTRUMLIBET VERUM FUERIT, NON ERUNT ILLA VERA. Hoc ipse exponit. De possibili enim utroque ita dicit: SIMUL ENIM POSSIBILE EST ET ESSE ET NON ESSE (hoc est ergo quod ait: ILLI ENIM UTRAQUE CONTINGIT ACCIDERE); SIN VERO, INQUIT, NECESSE EST ESSE ƿ VEL NON ESSE, id est si non potest non esse et non poterit esse, NON ERIT POSSIBILE UTRUMQUE, ut si esse necesse est, non poterit non esse vel si non esse necesse est, non poterit esse. Tres igitur propositiones non necesse esse, necesse esse, necesse esse non esse possibilitatem non sequuntur. RELINQUITUR ERGO id est ut quarta propositio, quae opponitur necessario secundum non esse affirmatur, possibilitatem sequatur, id est NON NECESSARIUM NON ESSE SEQUI POSSIBILE ESSE. Sed quia possibile consentit necessario, haec quoque necessario consentit. Namque hoc est quod dixit: HOC ENIM VERUM EST ET DE NECESSE ESSE. Nam quod necesse est, non necesse est ut non sit. Haec igitur propositio quae dicit non necesse est non esse contradictio est eius affirmationis quae sequitur negationem possibilitatis eam scilicet quae dicit non possibile esse. Nam cum affirmationem eam quae est scilicet possibile esse sequatur necessarii secundum non esse negatio ea quae proponit non necesse est non esse, negationem possibilis eam scilicet quae proponit non possibile est esse sequitur affirmatio necessaria secundum non esse quae dicit necesse est non esse, quam eandem quae proponit non possibile esse, quae est scilicet negatio possibilitatis, impossibilis affirmatio sequitur quae proponit impossibile esse. Hoc est ergo quod ait: HAEC ENIM FIT CONTRADICTIO EIUS QUAE SEQUITUR ID QUOD EST NON POSSIBILE ESSE. Nam cum possibilem affirmationem sequatur necessariae secundum ƿ non esse negatio quae dicit non necesse est non esse, haec necessaria secundum non esse negatio contradictio est eius quae sequitur negationem possibilitatis. ILLUD ENIM, id est negationem possibilitatis, SEQUITUR ID QUOD EST IMPOSSIBILE. Nam cum negatio possibilitatis sit quae dicit non possibile esse, hanc sequitur ea quae dicit impossibile est esse, cui consentit ea quae dicit necesse esse non esse. Sequitur igitur possibilis propositionis negationem ea quae dicit necesse esse non esse, cuius est contradictio ea quae dicit non necesse esse non esse. Fit ergo hic quo que ut contradictio contradictionem sequatur sed conversim. Quod ait per hoc cum dixit: SEQUUNTUR IGITUR ET HAE CONTRADICTIONES SECUNDUM PRAEDICTUM MODUM eum scilicet, ut affirmatio negationem, negatio vero sequatur affirmationem, et nihil quidem erit vel inconveniens vel impossibile ita positis consequentiis, ut affirmationem quidem possibilem negatio necessarii secundum non esse sequatur, negationi vero possibilis affirmatio necessaria secundum non esse consentiat. Quibus explicitis alias rursus adicit dubitationes. Sopra namque consequentias ita disposuit, ut praecedens necessarium possibilitas sequeretur, nunc de eodem ipso ambigit. Sive enim quis ponat consentire necessario possibile, sive quis neget, utrumque videtur incongrnum, quoniam si quis neget possibilitatem ƿ necessitati congruere, is dicit quoniam possibilitatis negatio necessariae propositioni conveniet. Si quis enim abnuat propositioni quae dicit aliquid necesse esse consentire eam quae proponit possibile esse, is illud abnuere non potest, quia negatio possibilitatis necessitati consentiat, eritque integra consequentia: si necesse est esse, non possibile est esse, quandoquidem illa falsa est consequentia quae dicit: si necesse est esse, possibile est esse. Quod si hoc fieri non potest, ut possibilitatis negatio necessariae consentiat affirmationi, illud verum est affirmationem possibilem necessariae convenire. Sed in hoc quoque maior inerit difficultas. Omne namque quod possibile est esse, possibile est et non esse. Sed si possibilitas necessitatem sequitur, erit id quod necesse est ut possit esse et possit non esse secundum naturam scilicet possibilitatis, quae ipsi convenit necessitati. Sed hoc impossibile est: non igitur possibilitas sequitur necessitatem. Quod si possibilitas necessitatem non sequitur, negatio possibilitatis sequitur, ea scilicet quae est non possibile esse, evenientque ea rursus incommoda, quae dudum cum eum locum tractaremus expressimus. Quod si quis possibilitatis non velit esse negationem eam quae dicit non possibile esse sed potius eam quae dicit possibile esse non esse, quamquam ille non recto ordine affirmationem negationi accommodet dictumque supra sit, quotiens cum modo propositiones dicuntur ad modos ipsos potius negationem poni oportere quam ad verba, dandae tamen manus sunt, ut cum eo quoque concesso, quod ad defensionem ƿ utile aliquibus videri possit, argumentationis falsam sententiam fregerimus, penitus atque altius sit veritas constituta. Sit ergo haec negatio possibilitatis quam ipsi volunt, id est ea quae dicit possibile esse non esse sed haec quoque necessitati non convenit. Si quis enim dicat quoniam possibile esse necessarium non sequitur, sequitur mox possibilis contradictio necessitatem. Quod si quis contradictionem possibilis ponat eam quae dicit possibile esse non esse eaque necessitati consentire putatur, erit secundum eum recta consequentia: si necesse est esse, possibile est non esse sed hoc fieri non potest. Quod enim necesse est esse non potest non esse. Si igitur possibilitas non sequitur necessitatem (erit enim quod necesse est contingens, possibile namque et contingens idem valet), negationes possibilitatis, sive ea quae dicit non possibile esse, sive ea cuius sententia est possibile esse non esse, necessitati convenient. Sed utrumque impossibile est. Quod si haec non sequuntur, sequitur ea quae est earum affirmatio, id est possibilitas. Sed hoc quoque fieri non potest, ut saepius supra monstravi. Haec ergo huiusmodi quaestio in sequenti ordine ab ipso resolvitur. Nunc quoniam quaestionis supra dictae talis sensus est, verba ipsa sermonumque ordo videatur. Ait namque ita: DUBITABIT AUTEM, inquit, ALIQUIS, SI ILLUD QUOD EST NECESSARIUM ESSE POSSIBILE ESSE SEQUITUR, ƿ id est si necessitati possibilitas consentit. NAM SI NON SEQUITUR, id est si neget aliquis ut possibilitas necessitatem sequatur, CONTRADICTIO CONSEQUITUR, possibilitatis scilicet contradictio. Nam quod possibilitas non sequitur, contradictio possibilitatis sequitur, ea scilicet quae dicit non possibile esse. Et praetermisit quod ex his esset impossibile. Hoc autem est ut, si necessitatem possibilitas non sequatur et contradictio possibilitatis consentiat, sit recta consequentia: si necessarium est esse, non possibile est esse, quod est inconveniens. ET SI QUIS NON HANC DICAT ESSE CONTRADICTIONEM, id est si quis neget possibilitatis contradictionem esse quae dicit non possibile esse, illud certe ei NECESSE EST DICERE quod possibilitatis contradictio ea sit quae dicit POSSIBILE esse NON ESSE. SED UTRAEQUE FALSAE SUNT DE NECESSE ESSE. Nam quod necesse est, fieri non potest ut non possibile sit, et rursus quod necesse est, fieri non potest ut possibile sit non esse. RURSUS IDEM VIDETUR ESSE POSSIBILE INCIDI ET NON INCIDI. Possibilitas enim affirmationi negationique communis est. Namque ET ESSE ET NON ESSE potest quod possibile esse dicitur. HOC AUTEM FALSUM est, id est de necessario praedicari. Necessarium namque si est, non esse non poterit; si non est, nulla ratione contingit. Quod si quis dicat quoniam possibilitas necessitatem sequitur, eadem possibilitas consentit contingenti et ERIT NECESSE ESSE CONTINGERE NON ESSE, id est erit contingens id quod necesse ƿ esse praedicatur. Nam si quod possibile est potest non esse, quod autem potest non esse contingit ut non sit, non dubium est quin, si necessitatem possibilitas sequitur, sequatur eam quoque et contingentia. Sed, contingens possumus dicere in negatione, ut dicatur contingit non esse: est igitur quod necesse est esse contingens non esse. HOC AUTEM FALSUM EST. Atque hic quidem ordo sermonum est, ut in aliis fere omnibus perplexus atque constrictus: alias enim similitudo enuntiationum, alias id quod deest implicitam reddit obscuramque sententiam. Quod si quis Aristotelis verbis seriem nostrae expositionis adnectat et quod illic propter similitudinem confusum est per expositionis nostrae distinctionem ac separationem disgreget, quod vero in Aristotelis sermonibus minus est hinc compenset, sententiae ratio totius elucebit.Nunc ergo quoniam proposuit quaestionem, eam continenter exsequitur his verbis: MANIFESTUM AUTEM QUONIAM NON OMNE POSSIBILE VEL ESSE VEL AMBULARE ET OPPOSITA valET SED EST IN QUIBUS NON SIT VERUM, ET PRIMUM QUIDEM IN HIS QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT, UT IGNIS CALFACTIBILIS ET HABET viM IRRATIONABILEM. ERGO SECUNDUM RATIONEM POTE, STATES IPSAE EAEDEM PLURIMORUM ETIAM CONTRARIORUM. IRRATIONABILES VERO NON OMNES SED QUEMADMODUM DICTUM EST, IGNEM NON EST POSSIBILE ƿ CALEFACERE ET NON, NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT. ALIQUA VERO POSSUNT ET SECUNDUM IRRATIONABILES POTESTATES SIMUL QUAEDAM OPPOSITA. SED HOC QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST QUONIAM NON OMNIS POTESTAS OPPOSITORUM EST NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Cum de possibilis et necessarii consequentia dubitasset cumque si possibilitas necessitati consentiret, quod erat incommodum, vel si possibilitas rursus necessitatem sequeretur necessitas ipsa cui possibilitas consentiret in se et esse et non esse susciperet, nunc incongruentem ambiguitatem rationabili argumentatione dissolvit dicens. Non vere illud metui, ne possibilitas necessitatem sequens ipsam naturam necessitatis atque rigorem frangeret, ut id quod necesse esset in contingentiam permPombaur neque enim, inquit, omne quod possibile est esse et possibile est non esse. Sunt enim plura quae unam tantum vim continent et ad negationem nullo modo sint apta, ut in his possibilitatibus quas irrationabilis actus efficit. Nam cum sit possibile ignem calefacere, non est possibile ut non calefaciat. Quare haec potestas non potest opposita. Si qua enim potestas opposita potest, illa et esse potest et non esse et facere et non facere, quae vero non potest opposita, unam ƿ rem tantum potest, quae affirmationem tantum dat, negationem vero repudiet. Si quis ergo ponat possibilitatem necessitati consentire, non idcirco iam necesse est ipsam necessitatem in contingentiam verti, cui contingenti scilicet possibilitas consentit. Non enim, inquit, omne possibile utrumque potest, id est et posse esse et posse non esse, atque ideo non omne possibile contingentiae consentit. Docet autem hoc his modis: IN HIS, inquit, QUAE NON SECUNDUM RATIONEM POSSUNT, possibilitas quae esse dicitur non valet opposita, ut ignem calefacere irrationale est. Nulla onim ratio est cur ignis calefaciat: omnium namque quae naturaliter fiunt nulla ratio est. Ergo haec quorum potestas irrationabilis est non possum opposita, ut ignis non potest calefacere et non calefacere. Si enim utrumque possint, opposita possum. Calefacere enim et non cale. Facere opposita sunt. Cum ergo irrationabiles potestates et opposita agendi non habeant facultatem, illa quae secundum rationem fiunt ad oppositorum aecum actuary poterunt retineri, ut quicquid ex voluntate et ratione conceptum est ad utrumque valeat, medicinam mihi exercere et possibile est et possibile non est vel rursus ambulare. Quod enim quisquis animi ratione vel appetentia uult, hoc ex ratione venire dicitur. Et in his omnibus illa potestas est quae ad utrumque valeat, id est et ad affirmationem et ad negationem, ut sit scilicet et non sit. In his autem quae sunt ƿ irrationabilia, licet in solis evenire possit, ut ea potestas quae dicitur non etiam possit opposita, tamen non omnis irrationabilis potestas opposita non potest, ut aqua et friget et humida est: ergo et frigescere potest facile et humectari sed eadem permutata in calidam potest frigescendi non habere vim, cum non possit humectandi amittere potestaten, dum aqua sit. Quocirca non omnis potestas opposita valet sed valet quidem opposita potestas ea quae secundum rationabiles motus valuit, illa vero potestas quae opposita non valet in solis irrationabilibus invenitur, licet non in omnibus. Sunt enim irrationabiles potestates quae utrumque possint, ut id quod dictum est de aquae frigore. Et tota quidem sententiae vis talis est, nunc quis sermonum ordo sit explicetur. MANIFESTUM, inquit, est QUONIAM NON OMNE POSSIBILE VEL ESSE VEL AMBULARE ET OPPOSITA valET. Quod ita dictum esse manifestum est, non ut putaremus quoniam omne quod ambulare potest vel quod esse potest non possit opposita, id est non possit non esse: hoc enim videtur textus ostendere sed nemo ita intellegat potiusque sic dictum videatur: manifestum est quoniam non omne possibile, ut possibile frequenter solemus usurpare, cum dicimus possibile esse ambulare, opposita valet. Neque enim quod omnis potestas affirmationi negationique conveniat sed sunt quaedam quae unum tantum possint, ut supra iam diximus. Atque hoc apertius intellegitur si ita dicamus: manifestum est autem quoniam non ƿ omne possibile et opposita valet, quoniam scilicet possibile frequenter et de esse et de ambulare praedicamus. Hoc ita cogitans facilius quis agnoscit, quid ipsius textus verba denuntient, cum etiam adminiculari quis debeat obscuris sensibus patientia atque consensu, quod ad sententiam potius dicentis exspectet, etsi se sermonum ratio ita non habeat. Hoc ergo ita constituto manifestum esse scilicet non omnes potestates opposita valere sed esse quasdam IN QUIBUS NON SIT VERUM dicere quoniam opposita valent, [et] datur exemplum: in his quidem primum quae irrationabiliter possunt, id est non secundum aliquam rationem, quarum scilicet potestatum reddi ratio non potest, quod ipsarum natura sit, ut quoniam ignis calfactibilis est, idcirco de eo ratio reddi non potest: hoc namque illi naturaliter adest. Et haec quidem ignis potestas non valet opposita, scilicet sit irrationalis, quae vero rationabiles sunt et secundum rationabilem potestatem EAEDEM PLURIMORUM ETIAM CONTRARIORUM SUNT. Nam quibus ratio dominatur, ad utraque opposita natura ipsorum apta est, ut eaedem potestates sint plurimorum quae sunt contraria, ut si est mihi possibile ambulare, quoniam hoc ex ratione et ex voluntate fit, sit possibile non ambulare et est haec potestas non unius sed plurimorum eorumque contrariorum. Licet enim affirmatio et negatio sit quodammodo ambulare et non ƿ ambulare, tamen nunc ab Aristotele in contrarii vice disponitur. Et hoc quidem in omnibus rationabilibus potestatibus planum est eas plurimorum esse contrariorum et opposita valere, quae vero secundum rationem non sunt, licet sint quaedam quae opposita valeant, non tamen omnia. Nam cum aqua frigendi habeat potestatem, quod est irrationabile, est ei rursus alia potestas calefaciendi, cum ipsa sit calefacta sed non in omnibus potestatibus irrationabilibus hoc inveniri potest. Ignis enim (ut dictum est) unam calefaciendi tantum videtur habere potestatem. Hoc est enim quod ait: IRRATIONABILES VERO NON OMNES, id est opposita valent sed QUEMADMODUM DICTUM EST, IGNEM NON EST POSSIBILE CALEFACERE ET NON, daturque in omnibus regula quae non sint possibilia contrariorum, ea scilicet quae semper unam rem actu continent, ut ignis semper calet, sol semper movetur et caetera huiusmodi, quod per hoc ait quod dixit: NEC QUAECUMQUE ALIA SEMPER AGUNT. Aliqua vero possunt quaedam opposita etiam secundum irrationabiles potestates, ut dictum est de aqua. Sed hoc idcirco dictum esse testatur, ut cognosceremus nihil evenire contrariorum, si quis diceret possibilitatem necessario consentire. Cum enim non omnis possibilitas contraria valeret, ea scilicet necessitati consentit, quae contraria non valet sed unam rem semper agit. Hoc est enim quod ait: SED HOC QUIDEM IDCIRCO DICTUM EST, QUONIAM NON OMNIS POTESTAS OPPOSITORUM EST, NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR. Quod ait: NEC QUAECUMQUE SECUNDUM EANDEM SPECIEM DICUNTUR tale est: non modo, inquit, omne quod dicitur possibile contrariorum esse potest sed etiam quae sub eadem specie sunt quaedam contraria non possunt, ut ea quae sunt irrationabilium. Nam cum omnium irrationabilium in eo quod irrationabilia sunt una sit species, tamen ne in his quidem inveniri potest, ut in omnibus eadem sit contrariorum potestas, ut de igne quod supra iam dictum est. Nam cum eius irrationabilis sit potestas, non tamen talis est ut ad contraria transferatur. Recte igitur dictum est, quoniam nec quae sub eadem specie sunt poterunt omnia contrariorum esse potentia. Nam cum ignis potestas cum aliis omnibus potestatibus irrationabilibus sub eadem sit specie, quod irrationabilis est potestas, tamen non valet opposita. Atque hoc quidem quod attemptare possit totam quaestionem, non tamen validissime dissoluere praedixit: quo vero maxime dirigat dubitationem ambiguitatemque constituat, ipse continuata oratione adicit dicens: QUAEDAM VERO POTESTATES AEQUIVOCAE SUNT. POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER DICITUR SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST UT IN ACTU, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST ESSE QUONIAM IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE, ILLUD VERO QUOD FORSITAN AGET, UT POSSIBILE EST AMBULARE QUONIAM AMBULABIT. ET HAEC QUIDEM IN MOBILIBUS SOLIS EST POTESTAS, ILLA VERO ET IN IMMOBILIBUS. IN ƿ UTRISQUE VERO VERUM EST DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET AGIT ET AMBULABILE. SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO SIMPLICITER DICERE, ALTERUM AUTEM VERUM EST. QUARE QUONIAM PARTEM UNIVERSALE SEQUITUR, ILLUD QUOD EX NECESSITATE EST SEQUITUR POSSE ESSE SED NON OMNINO. Quid haec sententia contineret, quam nunc Aristoteles proposuit, quinto quidem libro diligenter expressimus et nunc eam breviter exsequimur. Expositionis enim causa doetrinaeque hunc nobis secundum expositionis sumpsimus laborem, non augendi prolixitate fastidii. Talis ergo est tota sententia: possibile quod frequenter in rebus dicimus non simpliciter dicitur atque ideo quoniam possibile a potestate traductum est, ipsa quoque potestas aequivoca est. Hoc hinc manifestum est, quod quaedam possibilitates ad hoc dicuntur non quoniam aguntur sed quoniam ut agantur nihil impedit, ut si de aliquo sano corpore omnibusque aliis quae impedire poterant remotis sedente dicatur possibile esse eum ambulare, non quoniam ambularet sed quoniam ut ambularet nihil omnino prohibet. Quaedam vero potestates ita dicuntur quoniam iam actu sunt atque aguntur, ut si quis de ambulante homine dicat possibile eum esse ambulare. Atque ideo illa possibilitas quae non secundum actum aliquem dicitur sed secundum id quod posset agere dicitur, eo quod agere non prohibetur, a potestate possibilitas ƿ nominatur. Haec vero quae iam agit atque in actu est, actus ipse, possibilitas appellatur. Duae ergo significationes sunt possibilitatis: una quae eam possibilitatem designat quae est potestate, quae scilicet actu non sit, altera quae eam possibilitatem significet quae iam actu sit. Haec autem possibilitas quae iam actu est aut ex potestate ad actum transit aut semper in actu naturaliter fuit, ut cum homo ex eo quod sedet ambulat, potest ambulare atque ideo ex potestate in actum vertit, sol vero cum movetur, numquam ex potestate in actum vertit (neque enim aliquando hunc motum non egit) neque ignis ut nunc caleret, aliquando non caluit. Ergo ea rursus possibilitas quae secundum actum aliquem dicitur duas intra se species continet: unam quae talem actum possibilitatis designet, quem non esse non liceat, et haec dicitur necessaria et numquam ex potestate in actum vertit sed in actu naturaliter mansit; alterum vero quod liceat et non esse, quod scilicet ex potestate in actum migravit, et hoc non necessarium, cum sit actu. Et haec talis potestas, quae ex potestate in actum vertit, in solis mobilibus est, hoc est quae moveri possunt, haec autem sunt corporalia. Incorporalia enim non moveri quibus rationibus adstruatur paulo post dicemus. Illae vero quae semper in actu propria naturae qualitate manserunt, et in mobilibus inveniuntur, ut igni calor qui semper actu et numquam fuerit potestate, ƿ et in his quae sunt immobilia, haec autem sunt incorporalia et divina. Quare potestas ea quae ex potestate in actum migravit solorum est corruptibilium et corporalium, ea vero quae semper actu fuit divinis corporalibusque communis est. Ut igitur tota ratio breviter accingatur, ita dicendum est: possibilitas aequivoca est et multa significans. Est enim una possibilitas quae ipsa quidem non sit in actu, esse tamen possit atque ideo de ea possibilitas praedicetur, est autem alia quae iam est actu. Haec autem potestas quae iam actu est non est aequivoca sed genus. Habet enim sub se species eam potestatem quae actu quidem est sed ex potestate migraverit, aliam vero quae actu est sed ex potestate non migravit. Et illa quidem quae ex potestate non migraverit, ipsa dicitur necessaria, quae numquam relinquet subiectum, illa vero quae ex potestate ad actum transiit sine ulla dubitatione dicitur non necessaria, idcirco quod poterit relinquere aliquando subiectum. Sed de his utrisque, scilicet quae vel in potestate vel in actu possibilitates dicuntur, communis poterit esse praedicatio, si dicamus utrasque esse non impossibiles. Nam et qui potest ambulare, cum non ambulet, et qui iam ambulat, verum est de his dicere quoniam non est impossibile eos id agere quod possunt agere vel agunt. Cum vero sub significatione possibilitatis duo sint: una possibilitas quae actu non est, alia vero quae actu est, illa possibilitas quae secundum potestatem dicitur necessario non accommodatur neque aliquando necessitati poterit consentire. Restat igitur, ut sub ea possibilitate necessitas ponatur quae actu est. Sed ea ƿ quoque habet unam speciem per quam ex potestate in actum migrat, quae est non necessaria: quare ne in hac quidenu potest poni necessitas. Restat igitur ut, quoniam id quod necesse est esse nullus negat esse possibile, sub possibili est autem et ea quae potestate esse dicitur sed necessitas non ponitur neque sub ea potestate quae actu est et poterit subiectum relinquere, ponatur sub eo actu qui subiectum relinquere non potest, ut sit necessitas possibilitas quae sit actu et subiectum numquam relinquat, eo quod ad actum ex potestate non venerit. Species igitur quaedam erit necessitas possibilitatis, siquidem illic ponitur, ubi est ea possibilitas quae actu semper est. Quod quoniam speciem sequitur genus et ubi est species genus deesse non potest, sequitur speciem suam, id est necessitatem, genus proprium, id est possibilitas sed non omne. Ea vero possibilitas necessitatem non sequitur, quae potestate tantum est, non etiam actu, neque ea quae cum sit actu relinquere subiectum potest sed ea tantum quae cum actu sit numquam poterit a subiecto discedere. Sequitur ergo possibilitas necessitatem nihilque evenit impossibile sed ea, ut dictum est, quae in actu sit et numquam in subiecto natura esse desistat. Totus quidem sensus huiusmodi est, ratio vero verborum ita constabit: QUAEDAM VERO, inquit, POTESTATES AEQUIVOCAE SUNT. Hoc idcirco dictum est, quoniam non omnis potestas aequivoca est. Est enim potestas quae ut genus sit, ea scilicet quae secundum actum praedicatur. Quemadmodum autem quaedam potestates aequivocae sint exsequitur dicens: POSSIBILE ENIM NON SIMPLICITER ƿ DICITUR, ET HOC PARTITUR: SED HOC QUIDEM QUONIAM VERUM EST UT IN ACTU, UT POSSIBILE EST AMBULARE, QUONIAM AMBULAT, ET OMNINO POSSIBILE EST ESSE, QUONIAM IAM EST ACTU QUOD DICITUR POSSIBILE. Hoc planius nihil poterit demonstrari quin illud possibile dicat, quod iam agitur. Quod si quis possibile esse neget, hoc agi et fieri atque esse dicit quod impossibile est sed hoc omnem modum irrationabilitatis excedit. Aliam vero partem significationis possibilitatis hanc dicit: ILLUD VERO QUOD FORSITAN AGET, et dat huius exemplum, UT POSSIBILE EST AMBULARE, QUONIAM AMBULABIT. Non ergo quod iam agit sed QUOD FORSITAN AGET, id est quod ut agat fortasse nihil prohibet. ET HAEC QUIDEM, inquit, IN MOBILIBUS SOLIS EST POTESTAS, haec scilicet possibilitas quae potestate dicitur non secundum actum. Mobilia vero, ut dictum est, sola corpora dicit. ILLA VERO, id est quae actu sunt, ET IN IMMOBILIBUS, id est divinis. Atque ideo addidit haec cum dicit et IN IMMOBILIBUS, ut non suspicemur in solis esse divinis actus possibilitatem sed etiam in mortalibus atque corporeis. IN UTRISQUE VERO VERUM EST DICERE NON IMPOSSIBILE ESSE AMBULARE VEL ESSE, ET QUOD AMBULAT IAM ET QUOD AGIT ET AMBULABILE. In utrisque, inquit, significationibus una praedicatio poterit convenire, ut dicamus non esse impossibile ƿ vel ambulare quod iam ambulat vel ambulare quod potest ambulare et non ambulat, quod per hoc ait quod dixit AMBULABILE. Ambulabile enim est quod non quidem ambulet, possit tamen ambulare. His addit: SIC IGITUR POSSIBILE NON EST VERUM DE NECESSARIO SIMPLICITER DICERE, id est sic possibile, quemadmodum aequivoce possibilitas praedicatur, non est verum de necessario simpliciter et universaliter atque omnino praedicare, hoc est non omne possibile necessario consentit. ALTERUM AUTEM id est possibile VERUM EST, hoc est de necessario praedicare, illud scilicet quod secundum actum dicitur immutabilem. QUARE QUONIAM PARTEM suam, id est speciem, id quod est UNIVERSALE, id est genus, SEQUITUR, ILLUD QUOD EX NECESSITATE EST, quod scilicet species est possibilitatis, SEQUITUR POSSE ESSE, id est possibilitas SED NON, inquit, OMNINO. Nam illa possibilitas, quae in actu praedicatur et relinquere subiectum potest, non sequitur necessitatem sed ea tantum, quae cum in actu sit neque ex potestate in actum vertit neque poterit subiectum relinquere. Atque haec quidem quae Aristoteles dixit huiusmodi sunt, quae vero nos distulimus, ut doceremus immobilia esse divina, mobilia vero sola corpora vocari brevissime demonstrandum est. Sex motus species esse manifestum est, sicut in praedicamentorum libro Aristoteles digessit, quamquam hoc in physicis permutaverit. Sed nunc ita ponamus tamquam si omnino sex sint. Si secundum nullam motus speciem moveri divina atque incorporalia ratio declaravit, ordine conuincitur non moveri divina. Ergo neque generantur neque corrumpuntur neque crescunt neque minuuntur neque de loco in locum transeunt, quippe quae plenitudine naturae suae ubique tota sunt nec de deo aliquid intellegi fas est, nec rursus aliqrubus passionibus permutantur. Quod si secundum nullum horum motuum divinarum rerum permutabilis est natura, manifestum est ea omnino non esse mobilia atque sex motus hos solis corporibus evenire. Atque hoc quidem de plurimis quae de ea re possunt dici rationibus atque argumentis limasse sufficiat. Nunc quoniam Aristoteles consentire necessario possibilitatem non omnem docuit et quae ei conveniret expressit, rursus de ipsorum consequentia et quid primo, quid posterius poni debeat, memoriter subicit dicens: ET EST QUIDEM FORTASSE PRINCIPIUM QUOD NECESSARIUM EST ET QUOD NON NECESSARIUM OMNIUM VEL ESSE VEL NON ESSE, ET ALIA UT HORUM CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET. MANIFESTUM EST AUTEM EX HIS QUAE DICTA SUNT, QUONIAM QUOD EX NECESSITATE EST SECUNDUM ACTUM EST, QUARE SI PRIORA SEMPITERNA, ET QUAE ACTU SUNT POTESTATE PRIORA SUNT. ET HAEC QUIDEM SINE POTESTATE ACTU SUNT, UT PRIMAE SUBSTANTIAE, ƿ ALIA VERO CUM POTESTATE, QUAE NATURA PRIORA SUNT, TEMPORE VERO POSTERIORA, ALIA VERO NUMQUAM SUNT ACTU SED POTESTATE SOLUM Postquam de possibilis et necessarii consequentia quid videretur exposuit, haec ad emendationem quodammodo superioris ordinis apponit, ut quoniam superius a possibili inchoans caeteras omnes propositiones ad possibile et contingens et ad eorum consensum reduxit, nunc hoc rationabiliter mPomba, ut non potius a possibilitate inchoandum sit sed a necessitate. Nam si quis animadvertat diligentius superiorem descriptionem, primo positum est possibile et contingens et ad eadem cunctorum consensus relatus est. Nunc autem hoc permutatum videtur. Dicit enim fortasse hoc esse rectius, ut magis propositionum consequentia a necessariis inchoetur. Est autem totus sensus huiusmodi: quoniam, inquit, necessaria sempiterna sunt, quae autem sempiterna sunt omnium aliorum quae sempiterna non sunt principium sunt, necesse est ut id quod necessarium est caeteris omnibus prius esse videatur. Ergo consequentiae quoque eodem modo faciendae sunt, ut primo quidem necessitas, post vero possibilitas et caetera proponantur, sintque consequentiae hoc modo: Necesse esse Non necesse esse Non possibile esse non esse Possibile esse non esse Necesse esse non esse Non necesse esse non esse Non possibile esse Possibile esse  ƿ Videsne igitur ut primo quidem necesse esse et non necesse esse propositum sit, secundo vero loco ad necessitatis caetera consensum consequentiamque relata sint? Hoc est ergo quod dixit fortasse principium quoddam esse omnium vel esse vel non esse id quod esset necessarium, ut a necessario speculandarum propositionum principium sumeretur, quod esse aliarum propositionum vel non esse secundum consequentiam consensum constitueret. Et quoniam prius positum est necesse esse, huic consentit ea quae dicit non possibile esse non esse. Istius ergo propositionis quae dicit non esse possibile ut non sit, quae scilicet non esse denuntiat (tollit enim possibile quod modus est), principium est necessitas, cui sine ulla dubitatione consentit. Et rursus quoniam ei quae dicit non necesse esse consentit ea quae dicit possibile est non esse, huius propositionis, quae aliquid esse constituit, id est possibile, principium est ea propositio quae dicit non necesse est. Ergo sive affirmative necessitas proponatur sive negative, vide principium quoddam esse caeterorum et caetera velut his, id est necessarlis, consentientia iudicari oportere. Et hoc est quod ait: ET ALIA QUEMADMODUM ISTA CONSEQUENTIA CONSIDERARE OPORTET. Cur autem istud eveniat, consequenter ostendit dicens: quoniam ea quae necessaria sunt actu ƿ sunt, ut frequenter supra monstratum est, ea vero quae necessaria sunt sempiterna sunt, quae vero sempiterna sunt priora sunt his quorum sunt huiusmodi potestates quae in actu nondum sint, manifestum est quoniam et quae actu sunt et potestate ad actum non veniunt priora sunt. Sed de eo actu loquimur, qui ex potestate ad actum non venit sed semper actu propriae naturae constitutione permansit, ut cum ignis calet vel sol movetur et caetera huiusmodi ita sunt, ut actum numquam reliquerint neque ab his actus afuerit aliquando neque ex potestate ad hunc venerint actum. Quoniam ergo huiusmodi fuerunt ut semper essent, quae autem semper sunt, ea omnibus sunt priora, erunt etiam potestate secundum propriam naturam priora. Sed quae priora semper sempiterna sunt et rursus eadem necessaria, actu sunt et necesse est, ut ea quae actu sunt his quae sunt potestate priora sint. Post haec fit ab Aristotele divisio rerum hoc modo: rerum aliae sunt actu semper, qui ex potestate non venerit, et istae sunt quarum nullae sunt potestates sed semper in actu sunt. Aliae vero quae in actum ex potestate migraverint, quarum quidem substantia et actus secundum tempus posterior est potestate, natura vero prior. In omnibus enim illud quod est actu prius est et nobilius quam id quod potestate est. Illud enim quod potestate est adhuc ad actum festinat atque ideo perfectio quidem est actus, ƿ potestas vero adhuc quiddam est imperfectum, quod tunc perficitur cum ad actum aliquando peruenerit. Quod autem perfectum est eo quod est imperfectum generosius et prius esse manifestum est. Nam si res quae ad actum suum ex potestate venerunt, prius fuerunt potestate, post vero actu, ergo actus earum rerum posterior est potestate, si ad tempus referamus, prior vero eadem potestate, si ad naturam. Et hoc est quod ait: alias res esse, quae cum possibilitate sunt et actu sunt sed actum potestate tempore quidem posteriorem habeant, natura vero priorem, quasdam autem res esse in quibus sola potestas sit, numquam actus, ut numerus infinitus. Crescere enim potest in infinita numerus, quicumque vero numerus dictus sit vel centum vel mille vel decem milia et caeteri finitos; esse necesse est. Ergo actu numerus numquam est infinitus, quoniam vero potest in infinita concrescere, idcirco solum potestate est infinitus. Eodem quoque modo et tempus. Quantumcumque enim tempus dixeris finitum est sed quoniam tempus potest in infinita concrescere, idcirco dicimus tempus esse infinitum, quod potestate sit infinitum, non actu. Nihil enim actu esse poterit infinitum. Quod autem supra dixit quae semper actu essent primas esse substantias, non ita putandum est primas eum substantias dicere quemadmodum in categoriis, ubi primas substantias indinduas dicit. Hic autem primas substantias quae semper ƿ actu sunt idcirco nominat quia, ut dictum est, quae semper actu sunt principalia caeterarum rerum sunt atque ideo primas eas substantias esse necesse est. UTRUM AUTEM CONTRARIA EST AFFIRMATIO NEGATIONI ET ORATIO ORATIONI QUAE DICIT QUONIAM OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST NULLUS HOMO IUSTUS EST AN OMNIS HOMO IUSTUS EST EI QUAE EST OMNIS HOMO INIUSTUS EST? CALLIAS IUSTUS EST, CALLIAS IUSTUS NON EST, CALLIAS INIUSTUS EST: QUAE HARUM CONTRARIA EST? Post propositionum consequentias pertractatas easque subtili inquisitione dispositas illud exoritur inquirendum, quod magnam in se utilitatem ita praefert, ut quanta in eo vis utilitatis sit, prima quoque fronte legentium mentibus ingeratur. Nam cum sit manifestum, quoniam affirmationem opposita negatio semper oppugnat maximeque perimet universalem affirmationem universalis negatio quoniamque non ignoratur, quod affirmatio quae contrarium affirmat ipsa quoque contrarii perimat propositionem, quaeritur quae magis perimat magisque oppugnet affirmativam, utrumne ea quae universalis negatio est an ea quae contrarii vel privationis affirmatio. Sit enim positum hanc esse affirmationem quae proponit OMNIS HOMO IUSTUS EST, hanc ergo duae perimunt propositiones, et universalis scilicet negatio quae dicit quoniam NULLUS HOMO IUSTUS EST et ea quae privationem ƿ iustitiae praedicat affirmando, ea scilicet quae dicit OMNIS HOMO INIUSTUS EST. Affirmatio igitur quae proponit: Omnis homo iustus est  perimitur et a negatione propria universali quae dicit: Nullus homo iustus est  et ab affirmatione privatoria quae proponit: Omnis homo iniustus est  Cum igitur ab utrisque perimatur, quod autem perimitur ei quod [eam] perimit videtur esse contrarium quoniamque a duobus, ut dictum est, perimitur et duae unius contrariae esse non possunt, quae duarum propositionum quas supra memoravimus, id est negationis universalis et privatoriae affirmativae, contraria sit universali affirmationi superius comprehensae? In qua re quam sit utilis quaestio nullus ignorat, qui cogitat, quia nisi hoc ab Aristotele quaesitum enodatumque esset, magnam fore dubitationem, an illud reciperetur, ut duo unius possent esse contraria, quod manifesto fieri non potest. Nam cum duo unam rem perimant, quis esset qui dubitaret aut unam rem duabus opponi aut duabus unam rem perimentibus quaeri oportere, quae magis earum videretur contraria? Contrarias autem nunc dicimus non secundum eum modum, quem Aristoteles in praedicamentis explicuit sed tantum ad id quod res rem vel propositio perimit propositionem, ut quasi hoc modo ƿ quaeratur: affirmatio universalis secundum quam magis perimitur, utrumne secundum eam quae universalis est negatio an secundum eam quae vel prirationem praedicat vel quodlibet aliud quod ex ipsa oppositione vim contrarii repraesentet? Unde etiam illud latere non oportet, nulli esse dubium inter universalem affirmationem privatoriam et universalem negationem quae esset opposita contrarie. Supra enim iam dictum est affirmationi universali negationem universalem esse contrariam sed hic, ut dictum est, non hoc dicitur sed illud potius quae magis perimat rem. Nam quae magis perimit ea propemodum magis videbitur esse contraria. Atque ideo non solum de universalibus proposuit sed ne suspicaretur quis quod illam contrarietatem diceret quam vel in praedicamentis locutus est vel rursus supra cum de universali affirmatione et negatione loqueretur, de particularibus adiecit, quibus non erat contrariae oppositionis affirmatio atque negatio. Nam si recte superius comprehensa meminimus, affirmatio universalis et negatio universalis contrariae esse dicebantur. Nec solum hoc sed etiam secundum iustum et iniustum constituit quaestionem, quod habitus et privatio potius est quam ulla contrarietas. Quare, ut diximus, intellegendum est esse nunc in quaestione, quae propositio quam propositionem proxime efficaciusque destruat ac perimat. Huius inquirendae rei via exsistet hoc modo: NAM SI EA QUAE SUNT IN VOCE SEQUUNTUR EA ƿ QUAE SUNT IN ANIMA, ILLIC AUTEM CONTRARIA EST OPINIO CONTRARII, UT OMNIS HOMO IUSTUS EI QUAE EST OMNIS HOMO INIUSTUS, ETIAM IN HIS QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONIBUS NECESSE EST SIMILITER SESE HABERE. QUOD SI NEQUE ILLIC CONTRARII OPINATIO CONTRARIA EST, NEC AFFIRMATIO AFFIRMATIONI ERIT CONTRARIA SED EA QUAE DICTA EST NEGATIO. QUARE CONSIDERANDUM EST, QUAE OPINATIO VERA FALSAE OPINIONI CONTRARIA EST, UTRUM NEGATIONIS AN CERTE EA QUAE CONTRARIUM ESSE OPINATUR. DICO AUTEM HOC MODO. EST QUAEDAM OPINATIO VERA BONI QUONIAM BONUM EST, ALIA VERO QUONIAM NON BONUM FALSA, ALIA VERO QUONIAM MALUM. QUAENAM ERGO HARUM CONTRARIA EST VERAE? ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Haec investigatio, quae magis sit universali affirmationi contraria, utrumne privatoria universalis affirmatio an universalis negatio, hinc sumitur quod omnis fere proprietas, quam in vocibus venire necesse est, ex opinionibus venit quas voces ipsae significant. Quod igitur quaerendum in vocibus est, hoc prius est in opinionibus perspiciendum. Neque enim fieri potest ut, cum vocum significatio ex opinionibus veniat, quas scilicet voces ipsae significant, non prius proprietates vocum in opinionibus reperiantur. Requirendum igitur ƿ est quemadmodum se ista in opinionibus posita habeant, ut quod in his fuerit repertum ad voces rationabiliter transferatur. Quaeratur igitur prius in opinionibus hoc modo: si opinio privatoriae universalis affirmationis magis est contraria opinioni simplicis universalis affirmationis quam opinio universalis negationis, manifestum quoniam privatoria universalis affirmatio magis perimit universalem simplicem affirmationem quam universalis negatio. Quod si illud magis ratio reppererit, quod opinio negationis universalis opinionem affirmationis universalis magis perimat potius quam opinio privatoriae affirmationis opinionem universalis affirmationis, constat quod universalis negatio magis contraria est universali affirmationi potius quam privatoria affirmatio. Hoc autem ut inveniatur, ita faciendum est: ponatur opinio quaedam vera, contra eam duae falsae, quarum una affirmatio sit privatoria, altera universalis negatio. De duabus igitur falsis quam mendaciorem ratio invenerit, eam dicimus verae opinioni magis esse contrariam. Sint igitur tres opiniones, una vera, duae falsae, et sit quidem vera haec quae id quod bonum est bonum esse arbitratur, ea scilicet quam dicit Aristoteles opinionem esse BONI QUONIAM BONUM EST; sit autem ex falsis una quae id quod bonum est non bonum esse arbitratur, quam Aristoteles dicit falsam opinionem ƿ boni quoniam NON BONUM EST; reliqua quae id quod bonum est malum esse arbitratur ea est quae ab Aristotele dicta est opinio boni quoniam malum est. Ex his igitur tribus, una vera, duabus falsis, quaerendum est quae magis sit contraria verae. Sed quia contingit saepe et negationem et privationem unum significare, in his praesertim contrariis in quibus nulla medietas invenitur, addit: ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Hoc autem huiusmodi est: in his contrariis in quibus nulla medietas est idem negatio valet quod etiam privatio, in his vero in quibus est quaedam medietas affirmatio privatoria et negatio non eiusdem significationis sunt. Age enim sint huiusmodi contraria quae sint immediata genitum esse et ingenitum esse. In contrariis igitur immediatis idem privatoria affirmatio quod negatio valet, in his autem quae medietatem habent non idem. Neque enim aequum est dicere quemlibet illum esse malum et rursus non esse bonum. nam cum bonum negatur, potest aliquid medium audientis animus suspicari; cum vero malum ponitur, tota audientis suspicio in contrarium reiecta est, atque ideo non idem significant. Sed quia saepe (ut dictum est) privatio vel contrarietas negationi consentit, quotiens tales quaedam propositiones reperiuntur, in quibus nihil negatione diserepet privatoria affirmatio, quaerendum est, ut Aristoteli videtur, secundum quam potius prolationem ƿ vel opinionem verae affirmationi vel opinioni contraria propositio vel opinio fiat. Quamquam enim interdum idem eignificent, alio tamen modo ipsis propositionibus utuntur. Nam qui negationem ponit id quod est dicit non esse, qui vero privationem id quod non est dicit esse. Cum igitur diversum initium et diversa intentio quodammodo sit propositionum sub eadem significatione, et quae earum magis verae propositioni contraria sit et secundum quem motum animi magis vera propositio perimatur quaerendum est. Hoc est enim quod ait: ET SI EST UNA, SECUNDUM QUAM CONTRARIA? Non enim dicit quoniam omnino negatio et privatio idem sunt sed in his in quibus idem sunt, hoc est in immediatis contrariis, et quando idem significant, quoniam non secundum unum motum animi unam significationem dicunt, qui contrarium vel privationem ponunt et qui negationem, secundum quam contraria magis est propositio, utrumne secundum eam quae privationem ponit an secundum eam quae negationem? Post hoc quemadmodum sit contrarietatis natura designat. NAM ARBITRARI CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI IN EO, QUOD CONTRARIORUM SUNT, FALAUM EST. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST ET MALI QUONIAM MALUM EADEM FORTASSE ET VERA, SIVE PLURES SIVE UNA SIT. SUNT AUTEM ISTA CONTRARIA SED NON EO QUOD CONTRARIORUM SINT CONTRARIAE SUNT SED MAGIS EO QUOD CONTRARIE. Sensus quidem breviter expeditus sed summa rationis veritate contextus est. Cum enim de contrariis disputat, quemadmodum contrariae opiniones esse pos sint prima fronte disponit. Arbitratur enim quidam contrarias esso opiniones, quae de contrariis aliquid arbitrarentur sed hoc falsum esse conuincitur. Neque enim si bonum et malum contrarium est et aliqui de bono et malo opinetur, mox necesae est ut contrarietas subsequatur. Age enim quilibet de bono opinetur quoniam bonum est et rursus de malo opinetur quoniam malum est. Cum igitur idem de bono et de malo opinetur, illud quoniam bonum, illud quoniam malum, tamen contrariae opiniones non sunt. Neque enim contrarium est opinari id quod bonum est bonum esse et id quod malum est malum esse. Utraeque enim verae sunt, opinionum autem contrarietas in falsitate cognascitur. Quo autem modo huiusmodi opiniones contrariae esse possunt, quae de eadem quodammodo affectione animi proficiscuntur, id est opiniones cognoscentes quod verum est? Non igitur si quis contrariorum aliquam opinionem habeat et quicquam de contrariis arbitretur, statim necesse est subsequi in opinionibus contrarietatem. Ergo non est contrarietas opinionum in ea arbitratione, quae contrariorum est vel quae de contrariis habetur sed potius contrarietas in opinionibus tunc fit, quotiens de una eademque re contrarie quisquam opinatur. Ut ƿ quaelibet res sit proposita bona: de ea si quis contrario modo opinetur, quoniam bonum est, de eadem rursus quoniam malum est, opinio quae id quod est bonum bonum esse putat vera est, altera vero quae id quod est bonum malum esse arbitratur falsa est, vera autem et falsa contrariae sunt. Recte igitur has opiniones quas veritas falsitasque disiungit contrarias esse dicimus et sunt non contrariorum sed de una eademque re per contrarietatem ductae. Recte igitur dictum est non oportere definire contrarias opiniones in eo quod contrariorum sint sed potius in eo quod de eadem re contrarie suspicentur. Ordo vero sermonum talis est: NAM ARBITRARI, inquit, CONTRARIAS OPINIONES DEFINIRI IN EO, QUOD CONTRARIORUM SINT, id est in eo quod quaedam de contrariis opinentur, FALSUM EST. Quomodo autem falsum sit ipse declarat. BONI ENIM QUONIAM BONUM EST ET MALI QUONIAM MALUM est EADEM FORTASSE est, id est non sibi sunt contrariae opiniones sed utraeque idem sunt. Quemadmodum autem idem sint ipse subiunxit dicens ET VERA. Idcirco enim idem sunt, quia verae sunt, contrarietas autem in veritate, ut dictum est, et falsitate est posita. Qua in re si consentiunt, idem in veritate et falsitate esse videbuntur. Nec hoc numerositas impediet. SIVE ENIM PLURES SIVE UNA SIT, in eo quod verae sunt idem sunt. SUNT AUTEM, inquit, ISTA CONTRARIA, id est quae in opinionibus versantur. SED NON EO QUOD VEL CONTRARIORUM SUNT vel do contrariis arbitrantur, contrariae opiniones inveniuntur sed ipsarum contrarietas inde nascitur, quod de una re contrario modo opinantur. Hoc est qund ait: sed magis eo quod contrarie. Hic enim contrarie adverbii loco positum est, tamquam si diceret: sed magis ea re contrariae sunt, quod contrarie opinantur, et subintellegimus de una scilicet re. Si enim non de una re contrarie opinentur sed de pluribus, poterunt non esse contrariae. Quod facile cauteque perspiciens unusquisque reperiet. SI ERGO EST BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM, EST VERO QUONIAM ALIQUID ALIUD QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, ALIARUM QUIDEM NULLA PONENDA EST, NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINANTUR NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST (INFINITAE ENIM UTRAEQUE SUNT, ET QUAECUMQUE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST ET QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST) SED IN QUIBUS EST FALLACIA. HAE AUTEM EX QUIBUS SUNT GENERATIONES. EX OPPOSITIS VERO GENERATIONES, QUARE ETIAM FALLACIA. Validam quidem sententiam brevissimis sermonibus clausit, cuius, ut breviter dicendum sit, haec vis est: qui de contrarietate propositionum nosse quaerebat, debebat primo quae propositionum non esset infinita constituere atque ad eam vim contrarietatis aptare. In omnibus enim contrariis unum uni contrarium est. Si autem sit quaedam in propositionibus infinitas, illa. Tota infinitas propositionum uni propositioni contraria esse non poterit. Hoc sumendo totum textum argumentationis ingreditur aitque non solum exspectari oportere in propositionibus quod falsa verae sit contraria sed quod inter omnes falsas illa falsa sit verae contraria, quae una est et non infinita. Possum esse infinitae propositiones et falsse, potest una finita eadem quoque falsa, quae verae contraria esse rationabiliter ponenda est. Volens ergo constare, quoniam negatio potius contraria sit affirmationi quam ea affirmatio quae contrarium ponit, hoc dicit: potest, inquit, esse opinatio quaedam quae id quod est de unaquaque re esse opinetur. Est etiam alia quae id quod non est rem ullam esse arbitretur. Est alia quae id quod secum habet res ulla proposita non eam habere pPomba. Est rursus alia quae id quod est res ipsa non eam id esse arbitretur. Ut autem hoc per uagatum luceat exemplum, sumpsit propositum de quo opinaretur aliquis id quod est bonum. Si quis igitur hoc bonum bonum esse opinetur, vere opinabitur. Rursus si quis hoc esse bonum quod non est bonum pPomba, falsa opinabitur: ut si quis arbitretur quoniam bonum laedit, quoniam inutile est, quoniam bonum iniustum est, is ea de bono opinabitur quae non sunt et hoc falsum est Rursus qui id quod in se habet bonum non habere arbitratur, is opinabitur hoc modo: bonum non esse utile, bonum non esse iustum, bonum non esse expetendum, et is quoque fallitur. Quod si quis sit qui hoc ipsum quod est bonum, non esse bonum arbitretur, ut non pPomba bonum neque malum esse, id est quod non est, neque expetendum esse, id est quod in sese habet sed id quod est ipsum bonum non esse, ita arbitratur bonum non esse bonum. Caeterae igitur omnes opiniones infinitae sunt. Possumus enim permulta colligere falsa quae cum non sint de unaquaque re ea tamen esse dicamus, ut in eo ipso bono possum dicere, quia malum est, possum quia turpe, quia iniustum, quia vitabile, quia periculosum, et caetera quaecumque in bono nullus inveniet et haeo sunt infinita. Rursus possum dicere ea quae habet bonum non esse in bono, ut si dicam bonum non esse utile, bonum non esse expetendum, bonum non esse quod auget atque haec quidem rursus infinita sunt. Sed quando id quod est aliqua res aufert opinio, hoc facere nisi semel non potest. Neque enim aliqua per id effici possum, si quod bonum est non esse bonum arbitratur. Ergo caeterae quaecumque aut id ƿ quod non est bonum esse arbitrantur aut id quod habet in sese bonum non esse arbitrantur falsae sunt sed in infinitum. Bonum autem ita nunc usurpat, tamquam si dicat bonitas. Si quis autem ipsam bonitatem non esse bonum arbitretur, is et falsus est et definito modo falsus est. Sed in falsis quae definita sunt et una numero, ea magis et proxime veris videntur esse contraria. Una enim res semper uni rei est contraria. Quocirca recte haec magis contraria est quae negat id quod est potius quam ea quae negat vel id quod in sese habet vel affirmat quod in se non habet. Hoc autem ut ostenderet non recto sermone usus est sed ad quiddam aliud orationem detorsit, quae res confusionem non minimam fecit. Nam cum dixisset non debere nos illas potius ponere contrarias verae opinioni quae infinitae sunt, subiunxit illud quod ait: SED IN QUIBUS EST FALLACIA. Haec autem est ex his ex quibus sunt et generationes. Hoc autem talem sententiam claudit: inquit opiniones veris opinionibus opponendum esse contrarias in quibus principium est fallaciae. Fallaciae autem ex his nascuntur ex quibus etiam et generationes, generationes autem in oppositis inveniuntur. Hoc autem tale est: omnis generatio ex permutatione eius quod fuit surgit. Nisi enim id quod fuit prius esse desierit, non potest esse generatio. Omne enim quod gignitur in aliam quodammodo formam substantiae permutatur. Ergo cum non fuerit id quod fuit tunc gignitur et est quiddam aliud quam fuit et qui fallitur id quod est quaelibet ƿ res non esse arbitratur. Nam qui quod bonum est malum esse putat fallitur sed fieri aliter non potest ut sit malum, nisi non sit bonum et in caeteris eodem modo. Fallacia igitur est et principium fallaciae est, quod quis id quod est aliqua res non eam esse arbitratur. Haec autem fallacia ex his est ex quibus sunt generationes. Omnis enim, ut dixi, generatio ex detrimento surget, ut quod fit dulce non fit ex albo sed ex non dulci, et rursus quod fit album non fit ex duro sed ex non albo, et caeterae generationes es negationibus potius proficiscuntur et est prima inde fallacia. Quod si ubi prima fallacia [ex quibus sunt generationes], ibi integerrima falsitas est et proxima verae opinioni, haec autem in oppositis reperiuntur, hoc est in affirmationibus et negationibus, dubium non est quin negationis opinatio magis contraria sit ea opinione quae contrarium aliquid in arbitratione confirmat. Et sensus quidem huiusmodi est, verba autem sese sic habent: SI ERGO EST, inquit, BONI QUONIAM EST BONUM OPINATIO, quae scilicet vera est, EST AUTEM QUONIAM NON BONUM EST, quae falsa est ac definita, EST VERO QUONIAM ALIQUID ALIUD EST QUOD NON EST NEQUE POTEST ESSE, id est ea quae id esse adscribit quod non est, ALIARUM ƿ QUIDEM omnium NULLA PONENDA EST, dicit, NEQUE QUAECUMQUE ESSE QUOD NON EST OPINATUR, id est quae id quod non est res proposita esse eam putat, NEQUE QUAECUMQUE NON ESSE QUOD EST, id est neque ea quae id quod habet res proposita in opinionibus negat. Cur autem istae non ponantur contrariae docet hoc modo: INFINITAE ENIM, inquit, UTRAEQUE SUNT, ET QUAE ESSE OPINANTUR QUOD NON EST, ET QUAE NON ESSE QUOD EST. Sed quae magis ponenda est? IN QUIBUS EST, inquit, FALLACIA, id est in quibus principium fallaciae. Principium autem fallaciae unde ducitur? Ex his ducitur, EX QUIBUS SUNT ET GENERATIONES. Unde autem sunt generationes? EX OPPOSITIS. Omnis enim, ut dictum est, generatio ex eo quoniam non est id quod fuit, quod scilicet ad negationem vergit. Quare, inquit, etiam fallacia et principium fallaciae in oppositis invenitur, ubi etiam generahones, ex quibus est ipsa fallacia. SI ERGO QUOD BONUM EST ET BONUM ET NON MALUM EST, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, ILLUD VERO SECUNDUM ACCIDENS (ACCIDIT ENIM EI MALO NON ESSE), MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST, ETIAM FALSA, SIQUIDEM ET VERA. ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST ƿ BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD EST SECUNDUM ACCIDENS. QUARE MAGIS ERIT FALSA DE BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST CONTRARII.  Licet haec omnia in primae editionis secundo commentario diligentissime explicuerimus, ne tamen curta expositio huius libri esse videatur, hic quoque eadem repetentes explicabimus. Est namque ingressus huius argumentationis huiusmodi: si, inquit, posita vera propositione plures sint quae eam perimunt falsae, illa inter eas verae propositioni magis erit contraria, quaecumque magis est falsa. Quaerendum igitur est quae inter plures falsas propositiones magis falsa sit, ut ea verae propositioni magis videatur esse contraria. Hoc autem per veritatem dicendum est. Nam cum vere et per ipsam rem aliquid dici possit et per accidens, illud tamen maxime veritatis naturam tenet, quod secundum rem ipsam dicitur potius quam quod secundum aecidens venit. Ut si quis de bono opinetur, quoniam bonum est, hic secundum ipsam rem veram opinionom habet, sin vero aliquis arbitretur, quoniam bonum utile est, verum quidem opinabitur sed ista veritas de bono per accidens fit boni. Accidit ƿ enim bono ut utile quoque sit. Quare illa quae bonum bonum esse arbitratur per se vera est, id est secundum ipsam rem vera est, illa vero quae id quod bonum est utile esse opinatur per accidens boni vera est. Quare propinquior naturae bonitatis est ea quae id quod bonum est bonum esse arbitratur quam ea quae id quod bonum est utile. Quod si ita est, verior illa est quae secundum ipsam rem vera est potius quam ea quae secundum accidens videtur. His igitur ita constitutis et de falsitate idem dicendum. Falsa enim propositio quae illi verae contraria est, quae secundum se est, magis falsa est quam ea quae illam veram perimit, quae secundum accidens vera est. Nam si verior ea quae de ipsa natura rei verum aliquid opinatur, illa erit magis falsa quae perimit veriorem. Quod si illa, quamquam sit vera, minus tamen, quae de rei accidente pronuntiat, minus quoque illa erit falsa quae minus veriorem perimit. His igitur ita constitutis videamus nunc quemadmodum se in his habeant opinionibus vel propositionibus de quibus nunc tractatur. Idem igitur sit exemplum: ut supra dictum, id quod est bonum et bonum est et non malum sed quod bonum est secundum ipsam rem est, quod vero malum non est accidit ei. Nam id quod bonum est per naturam bonum est, quod vero malum non est secundo loco et quasi accidenter est. Ergo opinio de bono quoniam bonum est verior erit propinquiorque naturae ea opinione quae est de bono ƿ quoniam malum non est. Si igitur ita est et ea quae veriorem opinionem perimit magis falsa est quam ea quae illam quae quamquam vera sit minus tamen est vera, manifestum est quoniam negatio magis est falsior quam ea affirmatio quae contrarium ponit. Nam negatio dicit non esse bonum quod bonum est, affirmatio vero malum esse quod bonum est: negatio ea quae est non esse bonum quod bonum illam secundum se opinionem veram perimit quae dicit bonum esse quod bonum est, illa vero affirmatio contrarii quae est malum esse quod bonum est illam opinionem perimit veram quae de bono secundum accidens est, id est non malum esse quod bonum est. Constat igitur magis falsam esse opinionem quae dicit non esse bonum quod bonum est potius quam eam quae opinatur malum esse quod bonum est. Quod si haec falsior, magis contraria: magis igitur contraria est negationis opinio quam contrariae affirmationis. Expedito igitur sensu verba ipsa discutienda sunt. SI ERGO, inquit, QUOD BONUM EST sit bonum et non sit malum, ET HOC QUIDEM SECUNDUM SE, id est ut quod bonum est bonum sit, ILLUD VERO SECUNDUM ACCIDENS, hoc est quod bonum est ut malum non sit, (ACCIDIT ENIM EI MALUM NON ESSE), MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA, QUAE SECUNDUM SE EST, nam quod secundum uniuscuiusque naturam est propinquius ƿ est ei rei cui secundum naturam: quocirca et veritas secundum rem, quia rei proxima est, verior est quam est ea quae secundum accidens est (hoc est enim quod ait: MAGIS AUTEM IN UNOQUOQUE EST VERA QUAE SECUNDUM SE EST): quod si hoc ita est, ETIAM FALSA, id est etiam illa est falsitas magis falsior quae illam perimit opinionem vel propositionem quae secundum se vera est, siquidem illa secundum naturam rei vera verior est quam quae secundum accidens vera est, hoc est enim quod dixit: SIQUIDEM ET VERA. Hoc igitur disponens exemplo confirmat: ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, hoc est illa quae opinatur illi opinioni quae secundum se vera fuit. Hoc enim haec verba demonstrant, quod dixit: ERGO EA QUAE EST QUONIAM NON EST BONUM QUOD BONUM EST EIUS QUOD SECUNDUM SE EST FALSA EST, id est quae ipsum bonum negat bonum esse per se verae propositionis falsa est, id est opposita. Falsitas enim veritati opponitur. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EIUS QUOD EST SECUNDUM ACCIDENS, hoc est illa opinio quae id quod bonum est malum arbitratur esse falsa est et apta ei propositioni quae est secundum accidens vera, id est quae ƿ opinabatur bonum non esse malum. QUARE MAGIS ERIT FALSA DE BONO EA QUAE EST NEGATIONIS OPINIO QUAM EA QUAE EST CONTRARII, id est magis contraria est negatio quam affirmatio contrarii, siquidem cum sint de bono utraeque praedicatae, falsior tamen negatio reperitur. Sed quod dixit bono accidere, ut malum non sit, non ita intellegendum est, quemadmodum solemus dicere substantiae aliquid acoidere. Neque enim fieri potest sed accidere hic intellegendum est secundo loco dici. Principaliter enim quod est bonum dicitur bonum, secundo vero loco dicitur non est malum. Hoc autem tractum est a similitudine substantiae et accidentis. Unaquaeque enim substantia principaliter quidem substantia est, secundo vero vel alba vel bipeda vel iacens vel quicquid substantiis accidere potest. FALSUS EST AUTEM MAGIS CIRCA SINGULA QUI HABET CONTRARIAM OPINIONEM; CONTRARIA ENIM EORUM QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT. QUODSI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, MAGIS VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS, MANIFESTUM EST QUONIAM HAEC ERIT CONTRARIA. Vis omnis argumentationis, ut brevissime expediatur, huiusmodi est: omne verum aut secundum se verum est aut secundum accidens, quare necesse est etiam falsum aut secundum se falsum esse aut per accidens. Verum autem illud esse verius constat quod secundum se est potius quam illud quod per accidens. Qui vero contrariam de re aliqua habet opinionem quam res ipsa est, necesse est ut plurimum falsus sit. Etenim contrarietas opinionum, quotiens de una eademque re longissime a se absistentes opiniones sunt. Quod igitur magis falsum est, hoc erit etiam falsum contrarium. Illud enim quod magis a veritate abest, hoc magis falsum est. In opinionibus vero quae a se plurimum differunt, ea sunt contraria illa igitur in opinionibus contraria est quae plurimum falsa est. Est autem, ut dictum est, plurimum falsa, quae secundum se falsa est, id est quae illam perimit propositionem quae secundum se vera est. Quocirca (haec enim est negatio) negatio contraria est affirmationi potius quam ea affirmatio quae contrarium ponit. Talis igitur sensus his verbis includitur: FALSUS EST AUTEM MAGIS, inquit, CIRCA SINGULA QUI HABET CONTRARIAM OPINIONEM. Quamquam enim possit esse quilibet falsus, etiamsi de eadem re contrariam non habeat opinionem, ille tamen magis fallitur qui contrarium aliquid opinatur. Hoc autem cur eveniat dicit: CONTRARIA ENIM EORUM SUNT QUAE PLURIMUM CIRCA IDEM DIFFERUNT. Idcirco enim maxime falsa contraria opinantur, quia contrarietas non nisi in plurimum discrepantibus invenitur. QUOD SI HARUM CONTRARIA EST ALTERA, id est quod si harum propositionum, quae per se falsa est vel quae per accidens, unam contrariam esse necesse est, MAGIS VERO CONTRARIA CONTRADICTIONIS, hoc est magis autem falsa negatio ƿ (hoc enim quod ait: MAGIS VERO CONTRARIA hoc sensit tamquam si dixisset: magis vero falsa contradictionis est, id est magis vero falsa negatio est), concludit: si illa, ut dictum est superius, ita sunt, MANIFESTUM esse, QUONIAM HAEC, id est contradictionis, ERIT CONTRARIA. ILLA VERO QUAE EST QUONIAM MALUM EST QUOD BONUM IMPLICITA EST; ETENIM QUONIAM NON BONUM EST NECESSE EST FERE IDEM IPSUM OPINARI.Postquam idcirco contrariam potius negationem esse monstravit, quod haec magis esset falsa quam ea quae contrarium affirmaret, et distinctione falsitatis contrariam esse propositionem opinionemque quae rem propositam negaret edocuit, nunc ex simplicibus implicitisque propositionibus opinionibusque idem nititur approbare. Dicit enim quod ea affirmatio quae contrarium ponit implicita et non simplex sit. Idcirco autem implicita est, quod quae arbitratur id quod bonum est malum esse mox illi quoque opinari necesse est id quod bonum est bonum non esse. Neque enim aliter esse malum potest, nisi bonum non sit. Quare qui quod bonum est malum esse arbitratur, et rem bonam malum putat et eandem ipsam non esse bonum. Non igitur simplex est haec opinio de bono, quoniam malum est. Continet enim intra se illam, quoniam non est bonum. Qui vero opinatur non esse bonum quod bonum est, non illi quoque necesse est opinari quoniam ƿ malum est. Potest enim et non esse aliquid bonum et malum non esse. Atque hoc quidem in his innititur rebus in quibus aliqua medietas poterit inveniri. Hoc quoque cautissime addidit. His igitur ita positis quoniam contrarii opinio non est simplex, simplex vero est negationis, necesse est ut contra simplicem opinionem simplex potius videatur esse contrarium. Est autem simplex opinio boni quoniam bonum est vera, simplex vero boni quoniam non bonum est falsa. Simplici igitur opinioni de bono quoniam bonum est simplex erit contraria, negationis scilicet, quae est boni quoniam non est bonum. Tota vero vis huius argumentationis hinc tracta est: quotiens vera est quaedam propositio et duae quae eam perimere possint, si una earum nihil indigens alterius veram propositionem perimat, reliqua vero praeter alteram eandem veram propositionem perimere non possit, illa magis dicenda contraria est, quae sibi sufficiens nec reliquae indigens propositam propositionem perimere valet. Veram autem propositionem de bono quoniam bonum est sola perimere potest et ad illius verae interitum est sibi ipsa sufficiens illa quae opinatur non esse bonum quod bonum est. Illa vero quae opinatur malum esse sibi sola non sufficiet, nisi illa quoque ei auxilietur, quae est id quod bonum est bonum non esse. Idcirco enim contraria illa aufert, quia secum negationem trahit. Manifestum est hanc quae ad verae ƿ propositionis interitum sibi ipsa sufficit recte magis videri contrariam quam eam quae sibi ipsa non sufficit, nisi ei vis negativae propositionis addatur. AMPLIUS, SI ETIAM IN ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM; AUT ENIM UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS AUT NUSQUAM. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIA, DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, UT QUI HOMINEM NON PUTAT HOMINEM FALSUS EST. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT, ET ALIAE CONTRADICTIONIS.Quod de his, inquit, propositionibus dicimus si hoc in omnibus invenitur, firmum debet esse quod dicimus. Neque enim verisimile est in aliis quidem propositionibus negationes esse contrarias, in aliis vero affirmationes quae contrarium ponunt sed si hoc in omnibus propositionibus invenitur et contradictionibus, ut contradictio potius contraria sit, id est negatio, quam quae contrarium habet, nihil est dubium quin haec ratio consistat in omnibus: sin vero in aliis ea quae contrarium ponit magis contraria est quam negatio, hic quoque ita sese manifestum est non habere. Ubi enim inveniri potest contrarietas, in his dubitatio est, quaenam sit contraria, utrumne ea quae contrarium affirmat an ea quae id quod propositum est negat. Ergo in his in quibus dubium non est quemadmodum ƿ sit hoc speculandum est. Dubium autem non est in his in quibus nulla est contrarietas, ut in substantiis. Hic enim solae sunt contrariae negationes. Si ergo huic opinioni quae est de homine quoniam homo est illa opponitur quae est de homine quoniam homo non est, manifestum est in aliis quoque in quibus contrarietas invenitur locum contrarietatis negationem potius optinere. [Nam si in his in quibus contrarietas est, ut in bono vel malo, manifestum est potius illam esse contrariam quae bonum negaret quam eam quae malum opponeret ei quae id quod bonum est bonum esse arbitretur, nec in his eam contrariam esse oporteret in quibus contrarietas nulla est.] Quid enim attinet cum de homine dicimus, quod contrarium non habet, ibi esse negationem contrariam, cum vero de bono, quod contrarium habet, ibi non esse sed potius eam quae contrarium poneret? Quodcumque enim convertitur a negatione suam vim in omnibus servare debet.Quod ergo dicitur ab Aristotele, ut breviter explicem, tale est: si in aliis negatio est contraria, hie quoque negationem esse contrariam manifestum est quod si in aliis minime, in his quoque quae supra posuit. Sed in omnibus aliis in quibus contrarietas non invenitur contradictio contrarietatis locum tenet, et in his igitur in quibus est aliqua contrarietas eundem locum neque alium tenebit. Quod in his verbis ƿ explicuit: AMPLIUS, SI ETIAM IN ALIIS SIMILITER OPORTET SE HABERE, ET HIC VIDEBITUR BENE ESSE DICTUM. Nam si in caeteris omnibus ita se habere necesse est, et in his quae supra sunt dicta ita sese habet et id quod dictum est optime dictum esse videbitur. AUT ENIM UBIQUE EA QUAE EST CONTRADICTIONIS alicubi quidem contrariam reperiri, alicubi vero minime. QUIBUS VERO NON EST CONTRARIUM, ut in substantiis in quibus nulla est contraria (hoc enim nos, si bene meminimus, praedicamenta docuerunt), DE HIS EST QUIDEM FALSA EA QUAE EST VERAE OPPOSITA, id est in his invenitur quidem opposita falsa opinio verae opinion) sed quae sit ista manifestum est. Nam ubi nulla contrarietas, liquet contradictionis esse contrarietatem. UT QUI HOMINEM NON PUTAT HOMINEM FALSUS EST. Haec enim sola contrarietas verae propositionis invenitur. SI ERGO HAE CONTRARIAE SUNT, et illae aliae quae sunt CONTRADICTIONIS, id est si in his quae contrarietatem non habent negationes sunt contrariae (necesse est enim aliquas esse contraries), in aliis omnibus etiam in quibus est aliqua contrarietas, ut bono et malo, negatio locum optinet contrarietatis. AMPLIUS SIMILITER SE HABET BOND QUONIAM BONUM EST ET NON BOND QUONIAM NON BONUM ƿ EST, ET SUPER HAS BONI QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI QUONIAM BONUM EST. ILLI ERGO QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM VERAE OPINIONI QUAE EST CONTRARIA? NON ENIM EA QUAE DICIT QUONIAM MALUM; SIMUL ENIM ALIQUANDO ERIT VERA, NUMQUAM AUTEM VERA VERAE CONTRARIA EST; EST ENIM QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE CONTINGIT SIMUL VERAS ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET HAEC ERUNT. RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM CONTRARIA EA QUAE EST NON BONI QUONIAM BONUM, QUARE ET EA QUAE EST BONI QUONIAM NON BONUM EI QUAE EST BONI QUONIAM BONUM. Quaecumque superius dicta sunt, ea rursus validiore per proportionem argumentatione confirmat. Proportio autem est rerum inter se inuicem similitudo. Si igitur positae sint res quatuor, quarum duae sint praecedentes, reliquae sequentes, et sic se habeat prima ad secundam quemadmodum tertia ad quartam, necesse est ita sese habere primam ad tertiam quemadmodum fuerit secunda ad quartam. Hoc enim ipsum ƿ breviter facillimeque numeris agnoscamus. Sit enim primus numerus II, secundus VI, rursus inchoantibus tertius IIII, quartus XII. II VI IIII XII  In his igitur praecedentes quidem unt duo et quattuor, sequentes vero sex et duodecim. Sunt autem ut duo ad sex, ita quatuor ad duodecim. Nam sicut duo senarii tertia pars est, ita quaternarius duodenarii tertia pars est. Quocirca sicuti quaternarius praecedens ad sequentem, ita alius praecedens ad alium sequentem erit; ut praecedens ad praecedentem, ita sequens ad sequentem. Sed duo ad quatuor qui sunt praecedentes medietas est, et sex igitur ad duodecim medietas est. Igitur in omni proportione hoc respiciendum, quod si de quatuor propositis rebus sicut prima est ad secundam, ita tertia ad quartam, erit ut prima ad tertiam, ita secunda ad quartam. Ista igitur numerorum proportio ad propositionum vim naturamque transferatur sintque duae propositiones primae, quarum una praecedens, altera sequens, et aliae rursus duae, quarum una praecedens, altera similiter sequens, et in his sit aliqua similitudo. Sit enim prima boni quoniam bonum est, hanc sequatur boni quoniam ƿ bonum non est. Rursus sit praecedens tertia non boni quoniam non bonum est, hanc autem sequens quarta non boni quoniam bonum est. I II Boni quoniam bonum est Boni quoniam boni non est III IIII Non boni quoniam non bonum est Non boni quoniam bonum est  Praesciatur igitur in his quae sit proportionis similitudo. Est enim ut prima boni quoniam bonum est ad secundam boni quoniam bonum non est, ita tertia non boni quoniam bonum non est ad quartam non boni quoniam bonum est. Nam sicut boni quoniam bonum est vera propositio est, falsa autem boni quomam non est bonum, ita quoque non boni quoniam non est bonum vera propositio est, falsa autem non boni quoniam bonum est. Quod si ita est et eodem modo sese habet opinio boni quoniam bonum est ad opinionem quae est boni quoniam bonum non est, quemadmodum etiam opinio non boni quoniam non bonum est ad opinionem non boni quoniam bonum est, et quemadmodum se habet prima ad tertiam, ita sese habebit secunda ad quartam. Quemadmodum sese habet igitur boni quoniam bonum est ad eam quae est non boni quoniam non bonum est, cum utraeque sint verae, ita sese habet opinio boni quoniam bonum non est ad opinionem non boni quoniam bonum est, quod ipsae quoque utraeque sunt falsae. Nam ut istae ƿ simul verae, ita illae simul falsae. Quocirca ut est prima ad tertiam, ita secunda ad quartam. Ostensa igitur hac proportione immutato ordine eaedem disponantur. Sed sit prior opinio ea quae est non boni quoniam bonum non est eamque sequatur boni quoniam bonum est et sub his praecedens tertia non boni quoniam bonum est, quarta sequens boni quoniam bonum non est. I VERA II VERA Non boni quoniam bonum est Boni quoniam bonum est III FALSA IIII FALSA Non boni quoniam bonum est Boni quoniam bonum non est  Ut igitur superius demonstratum est, ita se habet opinio non boni quoniam non bonum est ad eam opinionem quae est boni quoniam bonum est, quemadmodum non boni quoniam bonum est ad eam quae est boni quoniam non est bonum. Ut enim illae simul verae, ita hae simul falsae eademque proportio est. Quocirca erit sicut prima quae est non boni quoniam non bonum est ad tertiam eam quae est non boni quoniam bonum est, ita erit secunda boni quoniam bonum est ad quartam boni quoniam non est bonum. Requirendum igitur est quemadmodum hic nunc sit prima ad tertiam, ut ex eo speculemur, quemadmodum sit secunda ad quartam. Dico enim, quoniam huic opinioni quae arbitratur non esse bonum quod bonum non est contraria illa est quae arbitratur id quod ƿ bonum non est bonum esse. Age enim, si potis est, contra eam opinionem quae id quod bonum non est non bonum putat sit ea quae id quod bonum non est malum putat. Sed hoc fieri non potest. Contrariae enim opiniones simul numquam verae sunt, possunt autem simul hae esse verae. Si quis enim parricidium quod non est bonum pPomba non esse bonum, idem quoque parricidium quod per naturam non est bonum malum pPomba, vere in utraque opinione arbitratur. Igitur non est contraria opinio ei quae id quod bonum non est non bonum putat ea quae id quod bonum non est malum arbitrator. Rursus ponatur eidem opinioni de non bono quoniam non est bonum contraria ea quae arbitratur id quod non est bonum non esse malum. Id quoque interdum est. Fieri enim potest ut id quod bonum non est nec malum sit. Neque enim omnia quaecumque bona non sunt statim mala sunt sed est ut bona quidem non sint, nec tamen mala sint. Si quis enim lapidem nequiquam iacentem, quod per se bonum non est, non bonum esse pPomba, vere arbitrabitur, idem ipsum lapidem, quod per se bonum non est, si non malum pPomba, nihil eius opinioni falsitatis incurrit. Quare quoniam ea quae est non boni quoniam non bonum est et cum ea quae est non boni quoniam malum est et cum ea quae est non boni quoniam non est malum vera aliquotiens ƿ invenitur, neutri contraria est. Restat igitur ut ei sit contraria opinio non boni quoniam non bonum est quae opinatur id quod non est bonum bonum esse, haec autem est non boni quoniam bonum est. Contraria igitur est non boni quoniam non bonum est ei quae est non boni quoniam bonum est. Sed hic ita sese habebat opinio non boni quoniam bonum est ad opinionem non boni quoniam non bonum est, quemadmodum opinio boni quoniam bonum est ad eandem opinionem quae est boni quoniam non est bonum. Sed prima tertisque contrariae, secunda igitur quartaque secundum similitudinem proportionis sunt sine ulla dubitatione contrariae. Potest vero et simplicius intellegi hoc modo: si boni quoniam bonum est opinio et non boni quoniam non est bonum opinio similes secundum veritatem sunt, boni autem quoniam non est bonum et rursus non boni quoniam bonum est ipsae quoque similes secundum falsitatem sunt, si una falsarum uni verarum opinionum inventa fuerit contraria, erit reliqua falsa reliquae verae contraria, quod sola efficit similitudo. Ostenditur autem una falsa uni verae, quemadmodum supra exposuimus, contraria, hoc est ea quae dicit id quod non est bonum bonum esse ei quae arbitratur id quod non est bonum non esse bonum. Relinquitur igitur ea quae arbitratur id quod bonum est non esse bonum contraria esse ei quae opinatur id quod bonum est esse bonum. Qua in re colligitur negationem potius quam contrarium ƿ ponentem affirmationem verae affirmationi esse contrariam. Perplexa igitur sententia his modis quibus diximus expedita est sed se sic habet ordo sermonum: AMPLIUS, inquit, SIMILITER SE HABET BONI QUONIAM BONUM EST ET NON BONI QUONIAM NON BONUM EST, quae utraeque verae sunt, ET SUPER HAS BONI QUONIAM NON BONUM EST ET NON BONI QUONIAM BONUM EST, quae sunt utraeque mendaces. ILLI ERGO QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM est VERAE OPINIONI QUAENAM EST CONTRARIA? Hoc quasi interrogativo modo dictum est. NON ENIM EA QUAE DICIT QUONIAM MALUM est, quoniam simul aliquando esse poterit vera. Hoc autem in contrariis non potest inveniri. NUMQUAM enim VERA VERAE CONTRARIA EST. Quemadmodum autem fieri potest, ut simul sint verae? Quoniam est QUIDDAM NON BONUM MALUM, QUARE CONTINGIT SIMUL VERAS ESSE. AT VERO NEC ILLA QUAE EST NON MALUM; SIMUL ENIM ET HAE ERUNT, id est possunt aliquando simul esse verae, in his praesertim rebus quae inter bonum malumque sunt. RELINQUITUR ERGO EI QUAE EST NON BONI QUONIAM NON BONUM, quae scilicet vera est, CONTRARIA EA QUAE EST NON BONI QUONIAM BONUM est, quae falsa est et simul vera non potest inveniri. QUARE, ad similitudinem superius positam proportionis reuertitur, ut dicat ET EAM QUAE EST BONI QUONIAM NON BONUM EST EI QUAE EST BONI QUONIAM ƿ BONUM est contrariam. Quod si quis ea quae superius dicta sunt diligentius intuetur, nec in totius sententiae statu nec quicquam in ordine fallitur. MANIFESTUM VERO QUONIAM NIHIL INTEREST, NEC SI UNIVERSALITER PONAMUS AFFIRMATIONEM; HUIC ENIM UNIVERSALIS NEGATIO CONTRARIA ERIT, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST EA QUAE EST QUONIAM NIHIL EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST. In superiori argumentatione omnia de indefinitis explicuit sed quoniam fortasse aliquis poterat suspicari non eandem rationem esse posse in his propositionibus quae sunt definitae atque in his aliquid interesse, utrum eadem demonstratio in his quae indefinitae sunt eveniret, hoc addit nihil interesse, utrum eandem demonstrationem, quam ipse superius in propositionibus indefinitis fecit, quisquam faciat in universalibus, quae iam sine dubio definitae sunt. Si quis enim secundum indefinitarum propositionum superiorem dispositionem definitas disponat easque secundum praedictum modum speculetur, non aliam universatis affirmationis opinioni contrariam reperiet quam eam quae est universalis negationis opinio. Nihil enim interest inter indefinitas definitasque propositiones, nisi quod indefinitae quidem sine determinatione, definitae ƿ vero cum augmento determinationis sunt, vel universalitatis vel particularitatis. Hoc est enim quod ait: NIHIL INTEREST, NEC SI UNIVERSALITER ponatur affirmatio. Universali namque affirmationi universalis contraria erit negatio, UT OPINIONI QUAE OPINATUR QUONIAM OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST, quae scilicet est universalis affirmationis, EA SIT CONTRARIA QUAE EST QUONIAM NIHIL EORUM QUAE BONA SUNT BONUM EST, hoc est opinio universalis negationis. Hoc autem cur fiat ostendit. NAM EA QUAE EST BOVI QUONIAM BONUM, SI UNIVERSALITER SIT BONUM, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID EST BONUM QUONIAM BONUM EST. NIHIL DIFFERT AB EO QUOD EST OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER AUTEM ET IN NON BONO. Gradatim indefinitam propositionem ad similitudinem universalis adduxit. Dicit autem: quaecumque fuerit indefinita propositio, ei si quod in sermone solemus dicere quicquid addatur, universalis fit, ut nihil omnino distet ea quae ad rem in affirmatione omne praedicat. Ut ea opinio vel propositio quae est de bono quoniam bonum est hoc scilicet opinatur, quoniam bonum bonum est, huic si addatur quicquid, ut ita dicamus: quicquid bonum est bonum est, nihil differt ab ea quae opinatur omne bonum bonum esse. Quare eadem vis est superioris demonstrationis in ƿ propositionibus indefinitis, quae etiam in universalibus, quae paruulum quiddam distant, quod non ad qualitatem nec ad vim propositionis sed ad quantitatem refertur. Universalitas enim quantitatis ponitur. Et sensus quidem huiusmodi est, verba vero sic sunt. Superius proposuerat nihil interesse, an indefinita esset propositio an universalis. Cur autem nihil intersit hoc modo dicit: NAM EA QUAE EST BONI QUONIAM BONUM est, id est indefinita affirmatio, SI UNIVERSALITER SIT BONUM, id est si bonum universaliter proferatur, EADEM EST EI QUAE OPINATUR QUICQUID BONUM EST QUONIAM BONUM EST, id est nihil discrepat ab ea opinione quae opinatur quicquid bonum est bonum esse. Huiusmodi autem opinio NIHIL DIFFERT AB ea, quae aperte universaliter proponitur, quae est OMNE QUOD EST BONUM BONUM EST. SIMILITER AUTEM ET IN NON BONO, id est non bonum quoque eadem ratione dicimus. Ea namque propositio vel opinio quae opinatur non bonum esse quod non bonum est, si ei adicitur universalitas, nihil differt ab ea quae dicit quicquid non bonum est non est bonum. Haec autem nullo distat ab ea, quae universaliter aperte proponitur, quae est omne quod bonum non est non est bonum. QUARE SI IN OPINIONE SIC SE HABET, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET ƿ NEGATIONES NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM AFFIRM ATIONI CONTRARIA QUIDEM NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS, UT EI QUAE EST QUONIAM OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EA QUAE EST VEL QUONIAM NULLUM VEL NULLUS, CONTRADICTORIE AUTEM AUT NON OMNIS AUT NON OMNE. Superiores omnes argumentationes ad unum colligit redigitque ad conclusionem omnem quaestionis vim. Supra enim negationes et affirmationes earumque contrarietates de opinionibus pensari oportere praedixerat, nunc vero quoniam in opinionibus repperit illam contrariam esse, quae esset universalis negatio, idem refert ad propositiones, quas manifestum est, quoniam voces sunt et significativae, passiones animi designare. In principio enim libri significativas voces passiones animae monstrare veraciter docuit, nunc ea velut probaturus est: quoniam in opinionibus illa potius contraria universali affirmationi reperta est, quae esset universalis negatio potius quam ea quae contrarium universali affirmationi affirmaret, idem quoque arbitratur in vocibus provenire, hoc est affirmationi universali non affirmationem contrariam rem ponentem sed universalem negationem esse contrariam, ƿ contradictorias vero eas quae, cum affirmatio universalis esset, particularis negatio inveniretur. Atque hoc quidem planissime dictum est nec aliquis in verbis error est sed nos, ut caetera nihil ambiguum relinquentes ipsorum quoque verborum, eorum ordinem persequemur. Ait enim: QUARE SI IN OPINIONE SE SIC HABET, id est quod opinio negationis contraria invenitur opinioni affirmationis potius quam contrarium ponens affirmatio, SUNT AUTEM HAE QUAE SUNT IN VOCE AFFIRMATIONES ET NEGATIONES NOTAE EARUM QUAE SUNT IN ANIMA (nam sicut in voce affirmatio et negatio est, ita quoque etiam in opinione, cum ipse animus in cogitatione sua aliquid affirmat aut quid negat, quod nos alio loco diligentius expediemus): ergo quoniam affirmationes et negationes quae sunt in voce notae earum sunt affirmationum vel negationum quae sunt in anima, MANIFESTUM EST, QUONIAM ETIAM AFFIRMATIONI CONTRARI. QUIDEM EST NEGATIO CIRCA IDEM UNIVERSALIS. CIRCA IDEM autem addidit, ne disiunctas affirmationes et negationes contrarias diceremus sed ut affirmatio et negatio de una eademque re illa quidem universaliter affirmaret, illa vero universaliter negaret. Earum autem exempla haec sunt: UT EI QUAE EST QUONIAM ƿ OMNE BONUM BONUM EST VEL QUONIAM OMNIS HOMO BONUS EST EA QUAE EST QUONIAM NULLUM, id est nullum bonum bonum est, quae contraria est, VEL NULLUS, hoc est quoniam nullus homo bonus est. CONTRADICTORIA AUTEM AUT NON OMNIS, id est non omnis homo bonus est contra eam quae dicit: Omnis homo bonus est  AUT NON OMNE, hoc est non omne bonum bonum est contra eam quae dicit quoniam omne bonum bonum est. Constat igitur in his propositionibus quas supra proposuit illam magis esse contrariam, affirmationi quae dicit: Omnis homo iustus est  eam quae dicit: Nullus homo iustus est  potius quam eam quae dicit: Omnis homo iniustus est  MANIFESTUM AUTEM QUONIAM ET VERAM VERAE NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM NEC OPINIOVEM NEC CONTRADICTIONEM. CONTRARIAE ENIM SUNT QUAE CIRCA OPPOSITA SUNT, CIRCA EADEM AUTEM CONTINGIT VERUM DICERE EUNDEM; SIMUL AUTEM EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA. Post haec libri terminum expedit in ea speculatione et demonstratione, per quam, licet verum sit manifestumque omnibus duas propositiones veras non esse contrarias, tamen id ipsum demonstrare conatur. Est autem huius argumentationis ingressus huiusmodi: ea quae sunt contraria opposita sunt, opposita vero non possunt eidem simul inesse: contraria igitur eidem simul inesse non possunt. De quibus autem aliquid simul verum dici potest, illa simul eidem inesse possunt, quae vero simul eidem inesse ƿ non possunt, de his simul verae propositiones, affirmatio et negatio, esse non possunt. Sed contraria simul eidem inesse non possunt: quae igitur simul verum dicunt contrariae non sunt, idcirco quoniam de quibus et affirmatio et negatio simul verae esse possunt, illa simul eidem insunt. Quocirca quae simul verae sunt contrariae non sunt. Sensus hic est, verba autem sic constant: MANIFESTUM AUTEM EST, inquit, QUONIAM ET VERAM VERAE NON CONTINGIT ESSE CONTRARIAM, id est duas veras propositiones non posse esse contrarias? NEC OPINIONEM NEC CONTRADICTIONEM: si opinio non est vera verae contraria, multo magis nec contradictio quae ex opinionibus venit. Contradictio autem hic pro contrarietate posuit: de ea enim non agebatur. CONTRARIAE ENIM SUNT QUAE CIRCA OPPOSITA SUNT, id est omne contrarium oppositum. CIRCA EADEM AUTEM CONTINGIT VERUM DICERE, idcirco quod de his solis et negatio et affirmatio verae simul esse possunt, quae eidem simul esse contingit, SIMUL AUTEM EIDEM NON CONTINGIT INESSE CONTRARIA, ut concludatur: quoniam de quibus affirmatio et negatio simul verae sunt, ea simul eidem inesse possunt, contraria vero simul eidem inesse non possunt, quae simul verae sunt non possunt esse contrarialNoster quoque labor iam tranquillo constitit portu. Nihil enim, ut arbitror, relictum est quod ad plenam ƿ huius libri notitiam pertineret. Quare si rem propositam studio diligentiaque perfecimus, erit perutile his qui harum rerum scientia complectendarum cupiditate tenebuntur: sin vero minus id eiecimus, quod nobis propositum fuit, ut obscurissimas libri sententias enodaremus, labori nostro nihil ut aliis nocituro, et si non proderit, obloquitur.  Multa ueteres philosophiae duces posteriorum studiis contulerunt, in quibus priusquam ad res profunda mersas caligine peiuenirent qandam quasi intelligentiae luctatione praeluderent: hinc institutionum breuior compendii facilitate doctrina, hinc per ea quae illi *prolegomena* uocant, ad intelligentiam promptior uiam unitur. Huius igitur aemulus prouidentiae statui obscura rum aditus doctrinarum praemissae institutionis luce reserare, et praesentem operam syllogismis quorum connexionibus omnis ratio continetur, addicere, modumque eum custodire dicendi, ut facilitati atque intelligentiae seruientes, astringamus a ueteribus dicta latius, enuntiata breuius porrigamus, obscurata improprii nouitate sermonis consueti uocabuli proprietate pandamus. Sed qui ad hoc opus lector accedit, ab eo primitus petitum uelimus ne in hic quae nunquam alias attigerit statim audeat iudicare, neue si quid in ludo puerilium disciplinarum rudis adhuc et nondum firmus acceperit, id amplexandum atque etiam colendum pPomba; alia enim teneris atque imbuendis adhuc auribus accomotata, alia firmis ac robustioribus doctrina mentibus, reseruatur. Quare si quid est quod discrepet, ne statim obstrepat sed ratione consulta, quid ipse sentiat quid nos afferamus, ueriore mentis acumine et subtiliore consideratione diiudicet. Idem namque eueniet, ut quae in primo statim studendi aditu didicerunt, perspecta penitus ac potius deprehensa contemnant. At si iam quisque duae scientiae defensor esse cupidus malit (habent hoc quoque uitii homines quos comprehendit discendi uetus ac longa, segnities, ut si arreptis semel opinionibus non recedant, ne in senectute discendo, nihil usque in senectutem didicisse uideantur), si, inquam, malunt uindicare quam uertere quae uulgatis semel etudiis imbiberunt, nemo expetit ut priora condemnent sed ut maiora quaedam construant atque altiora coniungant. Non enim una atque eadem diuersarum ratio disciplinarum, cum sit diuersissimis disciplinis una atque eadem substantia materies. Aliter enim de qualibet orationis parte grammatico, aliter dialectico disserendum est, nec eodem modo lineam uel superficiem mathematicus ac physicus tractant. Quo fit ut altera alteram non impediat disciplina, sed multorum consideratione coniuncta fiat uera naturae atque ex omnibus  explicata cognitio.  Sed de his hactenus; nunc de propositis ordinamur. Quoniam igitur nobis hoc opus est in categoricos syllogismos, syllogismorum uero compago propositionibus texitur, propositionum uero partes sunt nomen et uerbum, pars autem ab eo cuius pars est, prior est; de nomine et uerbo, quae prima sunt, disputatio prima ponatur, dehinc de propositione ad ultimum de syllogismorum connexione tractabitur.  Nomen est uox significatiua secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars significatiua eit separata; quae definitio paulo enodatius explicanda est.  Nomen enim uocem esse dicimus, quoniam uox nominum genus est; omne autem genus de sua specie praedicatur, omnisque definitio a genere sumitur, ut si definias hominem prius animal dicas, quod est genus, Post uero differentias iungas quae sunt rationale et mortale. Ita igitur nos quoque in nominis difinitione uocem quidem ut genus sumimus, caetera autem uoci quasi differentiae aggregamus, uelut quod nomen designatiua uox dicitur. Sunt enim uoces quae nihil designant, ut syllabae, nomen uero designatiua uox est, quon iam nomen designat id semper cuius nomen est.  Secundum placitum uero adiunctum est, quoniam nullum nomen natura significat sed secundum placitum ponentis constituentisque uoluntatem. Illud enim unaquaeque res dicitur quodei placuit qui primus rei nomen impressit. Aliae enim sunt uoces naturaliter significantes, ut canum latratus, iras canum significat, et aliae eius quaedam uox blandimenta; gemitus etiam designant dolorem, sed non sunt nomina, quia non designant secundum placitum sed secundum naturam.  Sine tempore uero, quod et uerba uoces sunt significatiuae et secundum placitum sed distant a nominibus, quia nomina quidem sine tempore sunt, uerba uero cum tempore.  Cuius nulla pars significatiua est separata, nomina ab oratione disiungit. Oratio namque uox est significatiua secundum placitum et aliquoties sine tempore, ut hic uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior Hyblae. Sed orationis partes, separatae a tota oratione, designant: nominum uero nihil extra designat, atque in illis quidem nominibus quae figurae sunt simplicis nihil pars omnino significare manifestum est, ut in eo quod est Cicero, nulla pars separata [763C] designat neque ci, neque ce, neque ro.  At si nomen compositum fiat, significare aliquid separata, partes uidentur; sed in eodem nomine quod ex utrisque compositum est, separate nihil designant, ut si dicam magister, partes eius nominis sunt magis atque ter, quae sumpta extrinsecus et a nominis parte separatae significatione non carent, utraque enim ad uerbi aliter significat quantitatem; sed cum magister quod est compositum nomen alicuius artis peritum doctoremque significet, magis neque partem doctoris, neque totum doctorem poterit designare. Eodem quoque modo ter, neque in toto significat, neque in parte doctorem, id est, rem illam quae magistri uocabulo subiecta est nulla ratione designat.  Compositorum ergo nominum partes nihil eius rei quam in unum conuenientes uocabulum designabant disiunctae distractaeque significant; alia uero significare possunt sed tunc non partes nominis sed ipsa sunt nomina. Quod enim coniuncta significant, id diuisa atque se posita non designant. iuncta autem magis et ter doctoris significationem tenebant, separata igitur omnem significationem doctoris amitunt.  Sed ne quis superius posito calumnietur exemplo, nec magister compositum nomen esse concedat, uir fortis esse compositum nomen, si uno praeferatur accentu nullus negabit, cuius partes uir atque fortis quod in eo quod est uir fortis significare dicantur, non iam nominis partes sed ipsa sunt nomina, nec uir fortis unius erit nomen sed potius oratio, quae duorum nominum collata significatione conuincitur, quod uir fortis cum unius accentus intentione prolatum non est oratio sed nomen, cuius partes nomina esse non poterunt, ac si nomina non sunt, cum neque naturales affectus neque actus, ut uerba significent, omnino non nihil designant. Quare concludendum est, cum quaelibet uoces propriam significationem tenent, non partes nominum, sed ipsa esse nomina, cum uero unius formam nominis copulauerint, eo considerantur ut partes uim propriae significationis amittere.  Sed de his in commentario libri *Peri hermeneias* Aristotelis satis dictum est, et maior eius rei tractatus est quam ut nunc totus ualeat expediri.  Sed quoniam sunt quaedam uoces quae et designatiuae sunt et secundum placitum, et sine tempore, quarumque partes nihil extra significant, neque tamen proprietates nominis naturamque obseruent, discernendae prius sunt, additisque differentiis a nomine segregandae, ut quae sit uis nominis euidenter appareat. Adiecta enim semper negatio nomini, uocem dubiam facit, quae neque uerbo neque orationi, etsi interius consideratum sit, neque nomini possit annecti, ut si quis dicat, non homo, uox est significatiua. Designat enim quidquid homo non fuerit, secundum placitum. Eas enim omnino partes habet quis ad significationem uel negationis uel hominis placitum uocabula ponentis assumpsit. Sine tempore, quae res eam uocem quae dicit non homo separat ac seiungit a uerbo, cuius partes nihil extra significant, ne oratio esse uideatur. Non homo enim uox seiuncta est ex negatiua particula et homine, quae in eodem nomine separata nihil designant, significat enim non homo, uel equum, uel canem, uel quidquid (ut dictum est) non homo non fuerit. Sed quae est negatiua, neque hominis, neque equi, neque ullius substantiae significationem tenet. Item homo neque canem, neque quidquid homo non fuerit, significare potest; quocirca in ea uoce quae est non homo partes nihil separatae significant eius rei quam tota uocis compositio designabat. Atque ideo nec in oratione quidem poni potest. Si quis enim eam uocem quae est non homo orationem concedat, nihil aliud eam esse fatebitur quam negationem. Negatio autem omnis uera uel falsa est. Qui autem dicit non homo, neque ueritatem nuntiat, neque mendacium. Praeterea ab omni negatione si quis negatiuum seiungat aduerbium, affirmatio relinquetur; ab ea autem uoce quae est non homo, si quis aufert id quod est negatiuum aduerbium, homo relinquetur, quod nondum est affirmatio. Quocirca si non homo haec uox negatio esse non potest, nihil autem aliud esse uideretur si esset oratio, concludendum est negationem iunctam eum nomine orationem esse non posse. Nomen enim omne certum aliquid definitumque significat, ut homo, equus, canis et caetera; non homo autem uox aufert quidem quod significatur a nomine, nec praescribit quid ipse significet. Quocirca quoniam significat quidem aliquid sed non finitum negatio iuncta cum homine, infinitum nomen uocetur.  Addenda est ergo definitioni nominis differentia, scilicet ut nomen sit quod cum caeteris quae dicta sunt sit definitae significationis. Iam uero casus nominum non altius intuentibus nomina uideantur. Quid enim Catonis, et Catoni, atque huiusmodi uoces quae rectis nominibus inflectuntur, nomina esse non existimet? Sed hae quoque uoces a nomine quadam differentia discrepabunt. Omne enim nomen iunctum cum est uerbo, enuntiationem reddit ac suscipit mendacii ueritatisque naturam, ut Cato est, uel dies est, at si est uerbum casibus adiungatur, neque enuntiatio sit, neque plena sententia orationis absoluitur, ut Catonis est, nec sententiam habet absolutam, nec ueri aliquid potest notare nec falsi, atque idcirco non nomina, sed casus nominum nuncupantur. Nam cum id a quo quidquam flectitur primum sit, illud uero quod ab inflexione primi nascitur sit secundum, neque idem primum ac secundum esse possit, manifestum est casus nominum non idem esse quod nomina: idcirco caeteros quidem genitiuum, datiuum, accusatiuum, casus appellant grammatici, primum uero rectum ac nominatiuum quod hic locum principem in significatione possederit.  Facienda est igitur nominis plena neque ullo diminuta definitio sic: Nomen est uox significatiua secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid finitum designans, cum est uerbo coniuncta faciens enuntiationem.  Separat igitur nomen uox quidem ab articulis atque inanimatis sonis; designatiua uero a uocibus quae nihil significant, secundum placitum a uocibus aliquid natura significantibus; sine tempore a uerbo quod a temporis significatione non recedit, cuius nulla pars separata significat, ab oratione, cuius quemadmodum partes extra significent, paulo posterius disseram; aliquid definitum designans, ab his uocibus quae nomen negationemque coniungunt et nomina faciunt infinita, cum est uerbo faciens enuntiationem, a casibus qui cum est copulati non possunt plenam perficere atque explicare sententiam.  In uerbo quoque eadem fere cuncta conueniunt, nisi quod in significatione temporis a nomine separatur. Omne enim uerbum actionem passionemue designat, quae fieri sine temporis notatione non potest. Est itaque uerbi definitio haec: uerbum est uox significatiua secundum placitum cum tempore, cuius nulla pars significatiua est separata, ut currit, uincit; sed si uerbis negatiua copulentur aduerbia, fiunt infinita uerba, sicut fieri nomina diximus infinita, ut cum currit, nut uincit, certum aliquid finitumue designet, addita negatione, id quidem quod a uerbo designatur intercipit, quid uero aliud fieri dicat tali significatione non terminat; praeterea negatio iuncta cum uerbo siue in eo quod est, siue in eo quod non est, recte dici potest, ut homo non currit. Non esse autem orationem aut enuntiationem negatiuam illa prorsus argumenta monstrabunt, quae infinitum nomen ab oratione aut negatione diuidebant. Sed quoniam principaliter praesentia quaeque sentimus, his autem rebus quas praesenti sensu concipimus indita esse a mortalibus uocabula manifestum est, recte dicis uerbum semper significationis temporis habere praesentis, ut currit aut uincit. Curret autem aut uincet, et cucurrerit aut uicerit, non sunt uerba sed uerborum casus, scilicet quia a praesentis temporis significatione flectuntur; est ergo uerbi plena definitio sic: Verbum est uox significatiua secundum placitum cum significatione temporis, cuius nulla pars significatiua est separata, aliquid finitum designans et praesens.  Restat igitur ut de oratione dicamus sed prius uidetur esse monstrandum utrumne nomen et uerbum sola in partibus orationis ponantur, an ut grammatici uolunt et reliquae orationis partibus debeant aggregari. Grammatici enim considerantes uocum figuras, octo orationis partes annumerant. Philosophi uero, quorum omnis de nomine uerboque tractatus in significatione est constituta, duas tantum orationis partes esse docuerunt, quidquid plenam significationem tenet, siquidem sine tempore significat, nomen uocantes, uerbum uero si cum tempore: atque ideo aduerbia quidem atque pronomina nominibus iungunt, sine tempore enim quiddam constitutum definitumque significant, nec interest quod flecti casibus nequeunt, non est hoc nominum proprium ut casibus inflectantur. Sunt enim nomina quae a grammaticis *monoptota* nominantur, participium uero quia temporis significationem trahit, etsi casibus effertur, uerbo tamen recte coniungitur. Interiectiones autem siquidem, naturaliter significent, nec uerbo, nec nomini copulandae sunt; uerbi enim ac nominis definitiones non habent esse naturalia sed ad ponentis placitum constituta, atque ideo nec in orationis partibus numerabuntur. Oratio enim positione significat, nam si naturaliter significaret oratio, non diuersa gentes orationes loquerentur. Si quae uero interiectionem positione significant, quoniam finitam sine tempore affectionem designant, recte nominibus annumerantur. Quae uero ipsa, quidem nulla propria significatione nituntur, cum aliis uero iunctae designant, ut coniunctiones atque praepositiones, illae ne partes quidem orationis esse dicendae sunt; oratio enim ex significatiuis partibus iuncta est. Quocirca recte nomen ac uerbum solae orationis partes esse dicuntur. Oratio est uox significatiua secundum placitam, cuius partes aliquid extra significant ut dictio, non ut affirmatio.  Oratio igitur habet simul cum uerbo et nomine commune, quod uox est, quod significatiua est, quod secundum placitum est. Separatim uero cum nomine illi commune, est quod aliquando sine tempore est, ut Virgilianus quem supradiximus uersus: Nerine Galathea thymo mihi dulcior Hyblae  et qui sequitur: Candidior cygnis, bedera formosior alba.  Cum uerbo autem quod interdum cum temporis significatione profertur, ut: Si qua tui Coridonis habet te cura, uenito.  Differt autem ab utroque quod partes orationis a tota separatae oratione significant. Sunt enim partes orationis nomen et uerbum quae significatiua esse dum ea definiremus ostendimus. Significant igitur partes orationis ut dictio, non ut affirmatio, quanquam aliquoties quidem ut affirmatio sed non semper tamen, semper autem ut dictio. Est enim dictio simplex uerbi ac nominis nuncupatio. Nam cum dicimus: Si dies est, lux est  hanc totam orationem si diuidere in partes uelimus, scilicet dies est, lux est, utraque pars ut affirmatio significabit, dies est, lux est, aftirmationes esse manifestum est. At si minutatim tota orationis membra carpamus, usque in nomina ac uerba postrema fiet resolutio. Dicemus enim partes esse superius positae orationis, dies et lux et est, quae per se prolata non sunt affirmationes sed tantum dictiones. Omnis uero oratio, quoniam ex uerbis nominibusque consistit, in nomina et uerba solui potest. Non enim omnem orationem in affirmationem cedi possibile est, ueluti si quis dicat lux est, huius partes sunt, lux atque est, quas non esse affirmationes sed simplices dictiones nullus ignorat. Cum igitur oratio quidem non semper in affirmationem solui queat semper autem in simplices dictiones, iure dictum est orationis partes extra aliquid designare non ut affirmationes sed potius ut dictiones.  Orationis autem species (ut arctissime diuidamus) sunt quinque, interrogatiua, ut  Quo te, Meri, pedes? an quo uia ducit in urbem?  Imperatiua, ut: Suggere tela mihi.  Inuocatiua, ut: Dii maris et terrae, tempestatumque potentes.  Deprecatiua: Ferte uiam, uenti, facilem, et spirate secundi.  Enuntiatiua: Est mihi disparibus septem compacta cicutis Fistula.  Quarum quidem praeter enuntiationem nulla uel esse aliquid, uel non esse designat. Caeterae namque uel interrogant, uel inuocant, uel imperant, uel precantur. Enuntiatio uero semper esse aliquid aut non esse significat. Atque ideo sola enuntiatio est, in qua ueritas uel falsitas inueniri queant. Unde etiam enuntiationis nascitur definitio, est enim enuntiatio quae uerum falsumue denuntiat. Hanc etiam proloquium uel propositionem Tullius uocat, quae quidem partim simplex, partim composita. Simplex est quae conditione seposita esse aliquid uel non esse proponit, ut: Plato philosophus est.  Composita uero quae ex duabus simplicibus copulante conditione consistit, ut: Plato si doctus est, philosophus est.  Simplicium uero enuntiationum alias in qualitate sitas, alias in quantitate differentias inuenimus. In qualitate quidem quod alia affirmatiua, alia negatiua est. Enuntiatio affirmatiua est enuntiatio aliquid de aliquo significans, ut: Plato philosophus est  philosophum de Platone praedicamus. Negatiua uero est enuntiatio aliquid ab aliquo praedicatione seiungens, ut: Plato philosophus non est  philosophum enim a Platone tali praedicatione seiunximus. Secundum quantitatem uero differentiae enuntiationum sunt, quod aliae quidem uniuersales aliae particulares aliae indefinitae, alio singulares. Uniuersales sunt quae siue affirment, siue negent, uniuersaliter tamen enuntiant uniuersale subiectum, ut: Omnis homo sapiens est. Nullus homo sapiens est  homo uniuersale quiddam est. Multos enim sub se indiuiduos coercet et continet, qui uniuersaliter enuntiantur, dum ei omnis uel nullus adiungitur. Particulares uero quae uel affirmando uel negando ambitum subiecti uniuersalis in partem redigunt, ut: Quidam homo sapiens est. Quidam homo sapiens non est  hic enim uniuersalitas hominis, adiecta particulari determinatione minuta est, atque in partem redacta. Indefinitae uero sunt quae absque uniuersalitatis et particularitatis determinatione dicuntur, ut: Est homo sapiens. Non est homo sapiens  Singulares uero sunt quae de singulari aliquid et de indiuiduo affirmando negandoue proponunt, ut: Socrates sapiens est. Socrates sapiens non est  Differt autem particularis propositio a singulari, quod particularis quidem unum aliquem subiicit, nec quis sit iste designat, ut: Quidam homo sapiens est  quis iste homo sit propositio non declarat. Singularis uero unum aliquem sumit, et quis iste sit significat, ut: Socrates sapiens est  unum enim et hunc Socratem sapientem esse proposuit. Amplius particularis omnis uniuersalem quidem terminum ponit sed ei detrahit uniuersalitatem, dum qualitatem particularitas adiungit, ut in propositione: Quidam homo sapiens est  Homo uniuersalis est terminus, multos enim propria praedicatione concludit. Sed quia dicitur quidam, ad unum homo redigitur, qui uniuersale persisteret, nisi particularitas fuisset adiuncta; in singularibus uero propositionibus praedicato termino semper indiuiduum supponitur, ut: Socrates sapiens est  Socrates enim singularis est, atque indiuiduus; idcirco igitur illa particularis propositio quae partem ex uniuersalitatem detrahit, haec singularis quae in singularis atque indiuidui praedicatione consistit.  Simplicium uero enuntiationum partes sunt subiectum atque praedicatum. Subiectum st quod praedicati suscipit dictionem, ut in ea propositione quae est: Plato philosophus est. Plato subiectum est, de ipso enim philosophos praedicatur, et in eo philosophi suscipit dictionem. Praedicatum uero est quod dicitur de subiecto, ut in eadem propositione, philosophos dicitur de Platone subiecto, semper enim quod subiectum est uel minus est, uel aequale praedicato: minus quidem ut in ea propositione de qua paulo ante tractauimus. Plato enim philosophi nomen non potest aequare neque solus Plato philosophus est; aequalis uero est subiectus terminus praedicato, ut si quis dicat: Homo risibilis est  homo enim qui subiectus est terminos praedicato risibili coaequatur. Unde fit ut possit reddi reciproca praedicatio, scilicet, ut uices subiectum praedicatumque permutent, subiectumque fiat quo erat antea praedicatum, uersoque ordine praedicetur quod fuerat ante subiectum, ut si dicatur quod risibile est homo est; omnia enim quae sunt aequalia de se inuicem praedicantur. Ut uero id quod subiectum est maius possit esse praedicato, nulla prorsus enuntiatione contingit, ipsa enim praedicata natura minora esse non patitur. Sed quod aequale uel maius est, id semper de aequali uel minore praedicatur. Has uero enuntiationum partes, id est praedicatum atque subiectum terminos appellamus. Termini uero dicuntur quod in eos postrema sit resolutio: itaque in singularibus uel indefinitis propositionibus duos terminos semper inuenimus, et uerbum quod propositionis determinet qualitatem, ut in propositione qua dicimus: Socrates sapiens est  Socrates quidem ac sapiens terminos esse manifestom est. Est uero uerbum non est terminus sed designatio qualitatis, et qualis propositio sit negatiuam affirmatio significat, et nunc quidem solo est uerbo propositioni accommodato facta est affirmatio. At si non, quod est abuerbium negatiuam esset ad iunctum ita diceretur: Socrates sapiens non est  atque hoc modo mutata qualitate fieret de affirmatione negatio.  "Est" igitur et "non est" non sunt termini sed, ut dictum est, significatio qualitatis. Eadem omnia etiam in indefinita propositione conueniunt; quod si sint tales orationes: Socrates est, dies est  "est" ui gemina fungitur, scilicet praedicati, est enim uerbum de Socrate et die praedicatum, et signi qualitatis, idem namque est solum positum affirmationem efficit, cum negatiuo aduerbio negationem. At si sint propositiones quae differentias secum habeant quantitatum, ut sunt uniuersales ac particulares, eadem uis permanet terminorum; "omnis" enim ac "nullus" et "quidam" terminis non annumerantur sed enuntiationem significant qualitatem.  Atque ideo recte quod subiicitur ac praedicatur termini nuncupati sunt, quoniam in eos tantum resoluitur propositio. Caetera enim quae simplicibus enuntationibus adiunguntur, aut qualitatem propositionum retinent, aut quantitatem significant.  Propositionum uero simplicium aliae sunt quae in nulla parte conueniunt, ut: Plato philosophus est  et: Virtus bona est  utraque enim aliud quiddam de alio praedicatur, nec babent aliquid in proponendi ratione commune. Illa enim Platonem philosophum dicit, illa uirtutem bonam esse pronuntiat. Aliae uero sunt quae aliqua terminorum participatione iunguntur. Id autem duobus fieri modis potest, aut enim ordine eodem, aut per ordinis commutationem. Eodem uero ordine duplici modo, si uel simplices terminos in utriusque constituas uel si per oppositionem fiat participatio terminorum: quod tribus neque amplius continget modis, nam uel praedicato, uel subiecto, uel utriusque terminis negatio copulatur. Ordinis etiam commutatione conueniunt duobus modis, aut enim per simplicem terminorum praedicationem, aut per eorumdem terminorum oppositionem. Haec quoque oppositio terminorum triplicem recipit modum, cum negatio uel praedicato, uel subiecto, uel utrisque coniungitur; illae uero quae altero termino participant et tribus modis, uel cum in una propositione quod praedicatur in altera subiectum est, uel cum idem in utriusque praedicatur, uel cum idem in utrisque subiectus est. Et quoniam omnium sibimet conuenientium propositionum ordinatissimam fecimus diuisionem, nunc de singulis quibusque tractemus, ac primum de ea propositionum conuenientia, quae cum utrisque participet terminis, participandi tamen ordinem seruent, ea est huiusmodi: Omnis homo sapiens est. Nullus homo sapiens est.  Utraque enim propositio hominem subiicit, et praedicat sapientiam, et cum utroque termino congruant, sunt tamen diuersae, quoniam haec affirmatio est, illa negatio. Et hoc quidem exempli gratia dictum sit, plenius uero fiet de tali participatione tractatus hoc modo.  Cunctarum simplicium propositionum differentias, uel in qualitate, uel in quantitate sitas esse ostendimus; in quantitate cum uniuersaliter pronuntiat [F. pronuntiantur] uel particulariter uel indefinite, uel singulariter proferuntur, in qualitate uero cum hae quidem affirmatiuae sunt, illae uero negatiuae. Si igitur duas affirmatiuas aggregamus fiunt mixtae cum utrisque octo differentiae, quae simul qualitatem quantitatemque contineant. Sunt autem mixtae hae, affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affimatio particularis, negatio particularis, affirmatio indefinita, negatio indefinita, affirmatio singularis, negatio singularis.  Quarum quidem indefinitas singularesque segregemus, et de uniuersalibus ac particularibus disseramus. Describatur ergo uniuersalis primum affirmatio: Omnis homo iustus est  cuius aduersum tenet locum negatiua propositio uniuersalis: Nullus homo iustus est  item sub uniuersali affirmatione ponatur particalaris affirmatio, quidam homo iustus est, hanc aduersa fronte respiciat, sitque uniuersali negatiuae supposita particularis negatio: Quidam homo iustus non est.   Uniuersalis affirmatio:  Omnis homo iustus est.  Uniuersalis negatio: Nullus homo iustus est. Particularis affirmatio: Quidam homo iustus est  Particularis negatio: Quidam homo iustus non est  Harum igitur affirmatio atque negatio uniuersalis qualitate quidem discrepant sed quantitate concordant; nam quod haec quidem affirmatio est, illa uero negatiua est, sunt in qualitate diuersae, quia uero utraque unuersalis est quantitate conueniunt. Harum igitur uel utrasque falsas, uel alteram ueram alteram falsam recipere possibile est, utraeque autem simul uerae nequeunt inueniri, nam in proposita descriptione affirmatio quae est: Omnis homo iustus est  et negatio quae est: Nullus homo iustus est  cum utraeque sint uniuersales, neutra tamen est uera. At si sit affirmatio: Omnis homo animal est  atque uniuersaliter denegetur ita: Nullus homo animal est  uel ita: Omnis homo lapis est. Nullus homo lapis est  unam ueram, alteram falsam esse necesse est. Atque ideo quoties ea praedicantur quae et conuenire subiecto et ab eo ualeant segregari et uniuersaliter illa confirmat haec denegat, utrasque falsas contingit, et superius positis declaratur exemplis. Iustitia enim cum esse in hominibus possit, non tamen ita hominibus inhaesit, ut ab eis separari nullo modo queat, atque ideo neque omnis homo iustus est, neque omnis homo iustus non est, contingit utrasque mentiri; at si tale sit quod a subiecto abstrahi separarique non possit, uel quod nunquam possit euenire subiecto, et quae uniuersaliter affirmatiua est uniuersaliter abnuatur, euenit uni ueritatem, alteri semper adesse mendacium sed ita ut si a subiecto quod praedicatur non potest segregari, uera sit semper affirmatio, falsa negatio; at si quod euenire non potest praedicatur, affirmatio quidem falsa sit sed uera sit negatio. Nam quoniam anima non ab homine potest segregari, quae hominem animal esse confirmat uera est, falsa uero illae quae denegat; item si quod non potest fieri praedicetur, fiatque affirmatio, omnem hominem esse lapidem, idque aduersa propositio neget, nullumque hominem lapidem esse concedat, negatio quidem ueritati, affirmatio autem iuncta est mendacio: simul autem ueras esse affirmationem uniuersalem uniuersalemque negationem nulla poterunt exempla monstrare. Atque ideo uniuersalis quidem affirmatio, uniuersalisque negatio contraria dicuntur, nam ut in contrariis aliquid medium cortinentibus potest neutrum inesse subiecto, ut corpus neque nigrum sit neque album, quoniam est quod praeter ea esse possit, ut rubrum, itemque in contrariis medietate carentibus necesse est alterum semper inesse subiecto ut omne animal aut dormita ut uigilat, quoniam inter dormire ac uigilare nihil medium est; autem simul atque in eodem utraque contraria reperiantur fieri nequit. Ita etiam in uniuersalibus affirmatione ac negatione: ut utraeque falsae sint, exemplo contrariorum aliquid medium claudiunt; uel altera uera, falsa uero altera, sicut in contrariis quae medio carent fieri posse manifestum est sed impossibile est ut utriusque sententia in ueritate conueniat, sicut nulla contraria simul esse patiuntur. Atque ideo uniuersalis aftirmalio uniuersalisque negatio contrariae nominantur. Hae igitur non eam uim ipsa semper aduersitate conseruant, ut eis sit perpetua atque inconciliata discordia, nec se semper inuicem perimunt, quae cum sententia dissideant communi tamen falsitate concordant.  Si igitur earum una sub mota sit, non necesse est ut esse altera consequatur: fieri enim potest ut neutra sit, uelut si omnem iustum esse hominem destruat, non est consequens ut nullus homo sit iustus. Quae autem sub his propositionibus collocantur, id est particularis affirmatiua atque negatio, subcontrariae nomen habent, idcirco quod uniuersalitati particulare commune subiectum est; cum igitur uniuersales intelliguntur esse contrariae, subcontrarias esse necesse et quae sub uniuersalibus contrariis collocantur. Horum quoque quantitas est eadem, quoniam utraeque sunt particulares; diuersa qualitas intelligitur, quoniam affirmatio haec est, illa uero negatio; sed quanquam contrariis uideantur esse subiectae, conuerso tamen modo particulares in ueritate sibimet, noii in falsitate consentiunt. Nam ut haec uerum, falsum illa pronuntiet, atque utraeque sint uerae tacile propositis declaratur exemplis; ut uero utraeque falsae sint, non potest inueniri. Nam si quod neque separari, neque possit adesse subiecto, alterutra enuntiet propositio, una est ueritati, altera cognata mendacio. Et siquidem quod a subiecto separari non potest praedicetur, affirmatio sola ueritatis calculum tenet; at si quod subiecto impossibile adesse dicatur, sola obtinet negatio ueritatem, ut si quis enuntiet: Quidam homo animal est  et alius neget: Quidam homo animal non est  uel ita: Quidam homo lapis est. Quidam homo lapis non erat  utraque affirmationum negationumque oppositio uerum inter falsumque partitur. Sed in prioribus quidem affirmatio, in posterioribus autem uera negatio est. At si quod euenire quadem possit sed a subiecto tamen aliquando ualeat segregari, affirmatio particularis, negatioque pronuntietur, utrasque ueras esse necesse est, ut: Quidam homo iustus est Quidam homo iustus non est  ut uero utraeque falsae sint, nulla potuerunt exempla congruere. Quocirca ne ista quidem quas subcontrarias appellamus semper sese inuicenm perimunt, quandoquidem aliquoties in ueritate concordant.  At si omnibus differentiis dissidentes ac inuicem destruentes inuenire conemur, respiciendae sunt angulares; hae uero sunt uniuersalis affirmatio et negatio particularis, uel uniuersalis negatio et affirmatio particularis; his enim tanta inter se discordia manifesta est, ut neque in falsitate unquam, neque in ueritate conueniant, semperque necesse est cum affirmatio sit uera, negationem esse mendacem, cum negationi adsit ueritas, affirmationi esse propriam falsitatem. At primum cum geminas esse propositionum differentias dixerimus in qualitate scilicet et quantitate, harum et qualitas diuisa esse probator et quantitas: nam quod haec affirmatio est, illa negatio, in qualitate dissentiunt; quod uero haec uniuersalis, in particularis quantitate discordant.  Item neque in falsitate, neque in ueritate unquam poterunt conuenire.  Siue enim de his quae a subiecto abesse non possunt unam semper ueram esse necesse est, alteram falsam, nam si talis terminus praedicatur, ut cum uel adesse subiecto uel non adesse contingat, uniuersales semper falsae sunt, particulares uerae sunt, si quis enim ita proponat: Omnis homo iustus est  atque alius neget: Quidam homo iustus non est  uniuersalis affirmatio falsa est, particularis est uero negatio, similiter autem si quis ita pronuntiet: Nullus homo iustus est  uniuersalis negationis falsa, particularis affirmationis uera sententia est; ita in his quae uel adesse subiecto, uel abesse contingant, uniuersales falsitati coniunctae sunt, particulares obtinent ueritatem.  At si tales termini sint, qui separari atque a subiecto diuidi nequeant, siue illa sit uniuersalis, siue particularis, haerebit semper affirmationi ueritas, negationi mendacium, ut si quis uniuersaliter enuntiet omnem hominem esse animal, aliusque particulariter neget, quemdam hominem non esse animal affirmatio uniuersalis uerum loquitur, particularis negatiuae falsa sententia est. Item si quis uniuersaliter negando proponat nullum hominem esse animal, particularem affirmationem ueritas sequitur, haeret uniuersalis negatio falsitati; quod si sint quae predicantur ut nunquam possint adesse subiecto, seu illae uniuersaliter seu particulariter proponantur, negationes ornat ueritas, affirmationes falsitas decolorat. Si quis enim confirmat dicens omnem hominem lapidem esse, aliusque quemdam hominem non esse lapidem respondeat, uniuersalem affirmationem falsitas, particularem negationem ueritas tenet; quod si ita quis uniuersaliter neget: Nullus homo lapis est  et particulariter affirmet: Quidam homo lapis est  uniuersali constat negatione ueritas, particularis affirmatio non caret falsitate. Quoquo igitur modo praedicata uel subiecta mutaueris, si tamen uniuersalem affirmatiuam particulari negatiuae, uel uniuersalem negatiuam particulari affirmatiuae consertam a singulari consideratione committas, si haec falsa illam reram esse contingit, et si haec uera est illam falsam necesse est inueniri, atque idcirco has inter se oppositas et contradictorias nuncupamus.  Et hactenus quidem affirmationes et negationes auersis intentionibus conferentes, quid in eis discordiae ac diuersitatis esset ostendimus; nunc uniuersalem affirmationem particulari affirmatiuae, et uniuersale in negationem particulari negatiuae ad ueritatis falsitatisque conuenientiam comparemus. Harum namque inter se nulla discordia est, atque ideo non de earum dissensu sed de consensu potius uidetur esse quaerendum.  Primum igitur uniuersalis affirmatio et particularis affirmatio subalternae dicuntur, quoniam altera subiacet alteri, id est particularis affirmatio uniuersali affirmationi supposita est atque subiecta, ueluti pars intra totius semper ambitum latet; idemque de uniuersali et particulari negatiua dicendum est, subalternae enim uocantur, quod superior atque amplior uniuersalis negatio intra se particularem negationem claudit et continet.  Haec igitur tali ratione consentiant, si enim uniuersales in ueritate praecedant, particulares ueras esse necesse est, ut si quis uniuersaliter affirmando proponat, omnem hominem animal, ea cum sit uera, particularis sibi affirmationis ueritatem comitem trahit, ea uero est: Quidam homo animal est.  Nam si uerum est omnem hominem esse animal, uerum est esse aliquem; item si quis uniuersaliter enuntiet nullum hominem esse lapidem, et uerum dixerit, subiecta ei particularis negatio idem retinet, nec mentitur qui dixerit quemdam hominem lapidem non esse; ita igitur uniuersalibus affirmatione ac negatione uera dicentibus, particularis affirmatio et negatio ueram uniuersalium sententiam consequuntur. At si uniuersales falsae sint, non necesse est particulares uniuersalium consensu praebere mendacinm, uelut in his uniuersalibus qua proponunt omnem hominem esse iustum, uel nullum hominem esse iustum, quae cum una sit affirmatio, altera negatio, utraeque sunt falsae; sed eas particularium falsitas non ex necessitate consequitur, nam et quemdam hominem esse iustum, quae particularis est affimatio, uere quis dixerit, atque ideo falsis uniuersalibus, particulares ueras esse non necesse est. Quod enim uniuersalis affirmatio falsa dicatur omnem hominem esse lapidem, errat particularis affirmatio quae proponit quemdam hominem esse lapidem. At si uniuersalis negatio falsa proponatur nullum hominem esse animal non idcirco partirularis erit uera negatio, si pronuntiet quendam hominem non esse animal, atque ideo uniuersalibus quidem in ueritate manentibus, particulares necesse est uniuersalium consentire ueritati, at si uniuersalibus falsitas inhaerebit, particulares tum ueras, tum etiam falsas esse possibile est, ueras quidem si quidtale praedicetur quod adesse subiecto possit, et a subiecto ualeat separari, falsas esse utrasque, affirmationem quidem particularem, si in eo sit uniuersalis falsa affirmatio quod subiecto non potest conuenire, negationem particularem, si in eo uniuersalis negatio mentiatur quod a subiecto non potest segregari, ut posita superius exempla declarant.  Quod si ad ueritatis et falsitatis consequentiam particulares propositiones locum principem sortiantur, contraria eis uniuersalis propositionis ratione conueniunt. Nam si sint falsae, particulares falsas esse necesse est; sin uero particulares uerae sint, tum uniuersales uerae sunt, tum etiam falsae. Nam si particularis affirmatio est falsa, quae dicit aliquem hominem esse lapidem, uniuersalis quoque affirmatio falsa est quae proponit omnem hominen esse lapidem. Item si particularis est falsa negatio quae decernit quemdam hominem non esse animal, falsa erit uniuersalis negatio quae nullum hominem animal esse contendit. At si particularis affirmatio uel negatio uerae sunt, idque praedicatur quod a subiecto diuidi ac segregari queat, affirmationem negationemque uniuersales non est dubium posse mentiri, ut quod iam uerae sint particulares quae proponunt quemdam hominem esse iustum, et quemdam hominem non esse iustum, his suppositas uniuersales falsas esse manifestum est, ut ea quae dicit: Omnis homo iustus est  et: Nullus homo iustus est.  At si quid tale affirmatio particularis pronuntiet quo subiectum carere non possit, uera erit superposita affirmatio uniuersalis, ut cum aliquis enuntiat quemdam hominem esse animal, huic uniuersalis affirmatio in ueritate consentit, quae est omnis homo animal est. At si quid particularis negatio tale proponat, quod subiecto nequeat inhaerere, ueritatem particularis negationis uniuersalis negatiuae ueritas necesso est consequatur, ut cum aliquis dicit quemdam hominem lapidem non esse, consonat uniuersalis ueritas propositionis quae nullum hominem lapidem esse pronuntiat: quo fit ut praecedentibus quidem uniuersalibus ueris, particulares ueras esse necesse sit; praecedentibus uero in falsitate particularibus, uniuersalium ueritas non subsequatur; manentibus uero uniuersalibus falsis, particulares mendacium dicere non sit necesse, sicut ne uera quidem particularibus proponentibus, ueram uniuersalium necesse est esse sententiam. Et hoc quidem exempla docuerunt: ut autem firma demonstratione clarescat, utilis ad euidentiam rerum descriptio proponatur. Ex his ergo quae superius dicta sunt intelligi potest contrarias quidem uel uerum inter se falsumque diuidere, uel simul posse mentiri, ueras simul esse non posse; subcontrarias uero uel utrasque ueras esse, uel alteram ueram, alteram falsam, nunquam tamen simul proferre mendacium; angulares autem neque in ueritate unquam, neque in mendacio consonare sed uni semper ueram, alteri semper falsam esse sententiam.  Nunc demonstrandum est uniuersalibus ueris particulares non posse mentiri, falsis autem uniuersalibus posse particulares non falsa proferre. Dico enim si uniuersalis affirmatio sit uera, particularem quoque affirmationem ueram futuram; nam si falsa est, erit uera quae particulari affirmationi opponitur uniuersalis negatio sed posita est uera affirmatio uniuersalis; hoc igitur modo utrasque simul ueras esse contingit, affirmationem scilicet uniuersalem uniuersalemque negationem, quod euenire non posse monstratum est; non igitur fieri potest ut affirmatiua uniuersali uera proposita, particularis affirmatio mentiatur.  Rursus si uera est uniuersalis negatio, particularem quoque negationem ueram esse concedo, nam si falsam quis dixerit uniuersalem affirmationem, quae est ei opposita ueram necessario esse fatebitur. At si uniuersalis negatio uera esse proposita est, simul igitur uniuersales negationem et affirmationem ueras esse contingit; quod fieri non posse superius posita exempla docuerunt.  At si falsa est uniuersalis affirmatio, particularis uel falsum poterit enuntiare uel uerum: quo posito nihil impossibile comitatur, siue enim falsa sit, erit uera negatio uniuersalis, seu uera illa sit, uniuersalem negationem falsitas obtinebit. Quod fit ut falsa uniuersali affimatione, uniuersalis negatio, tum si falsitate consonet, tum ab ea ueritate discordet, quod non esse impossibile superioribus docetur exemplis.  Eodem quoquo modo et si uniuersalis negatio falsa sit, particularem negationem, uel ueram uel falsam esse possibile est, neque idcirco aliquid sequitur incongruum. Particulari namque negatione uera, uniuersalis affirmatio mentietur; eadem falsa, uerum uniuersalis affirmatio pronuntiat: quo fit ut falsa uniuersali negatione proposita, affirmationem uniuersalem tum ueram, tum falsam rationis demonstret euentus, quod impossibile non est.  Rursus si particulares false sunt, uniuersalis quoque falsitas sequitur. Nam si particularis affirmatiua pronuntiet mendacium, uniuersali quoque affirmationi falsitas inhaerebit, nam si haec uera est, falsa erit ei apposita negatio particularis; sed affirmationem particularem constituimus esse mendacem, simul igitur particularis affirmatio et negatio falsa sunt, quod esse inconueniens praecedens tractatus declarauit.  Item, si particularis negatio falsa dicatur, uniuersalis quoque negationis falsitas consonabit: nam si negatio uniuersalis uera est, falsa est opposita, quae est affirmatio particularis, quomodo utrasque particulares, affirmationem scilicet ac negationem, simul falsas esse contingit, quod fieri non posse praediximus.  At si uera sit affirmatio particularis, falsa uel uera uniuersalis affirmatio esse potest: sed si falsa sit particularis, negationem ueram esse necesse est; si uera sit, habebit particularis negatiua mendacium. Sed cum uera sit affirmatio particularis, negationem particularem uel falsam esse uel ueram nihil est impossibile.  Rursus si negatio particularis teneat ueritatem, uniuersalis negatio uel ueritatem tenere potest uel proferre mendacium. Nam si uera est, oppositam affirmationem particularem falsam esse manifestum est; si falsa est, ueritatem particularis affirmatiua custodiet: quo fit ut si particularis negatio teneat ueritatem, affirmatio particularis uera uel falsa sit, quorum neutrum impossibile. non esse praemissa docuerunt.  Atque haec quidem de uniuersalibus dicta sufficiant.  Nunc de infinitis ac singularibus disseramus, quarum quidem indefinitae sunt, quibus nulla significatio determinationis adiungitur sed praeter uniuersalis et particularis intelligentiam quantitatis proferuntur, ut: Homo iustus est. Homo iustus non est  quibus tametsi ut, dictum est, nulla significatio determinationis adiungitur, uim tamen obtinent particularium propositionum. Namque ut illae quas subcontrarias in priore descriptione signauimus, alias quidem inter se uerum falsumque distribaunt, alias quidem inuicem ueritate conspirant, nunquam tamen simul uidentur posse mentiri, ita etiam indefinitae, siquidem tale est quod enuntiat quod subiecto semper inesse necesse sit, affirmatio est uera, falsa negatio, ut in his propositionibus: Homo animal est. Homo animal non est.  At si id in indefinitis propositionibus efferatur quod subiecti natura non suscipit, negatio quidem uera est sed affimatio iuncta est falsitati, ut si quis dicat: Homo lapis est. Homo lapis non est  ut uero utraeque in pronuntianda falsitate consentiant, non potest inueniri. Eadem tamen ab uniuersalibus affirmatiuis atque negatiuis, ita dissentiunt, ut quoquo modo subiecta permutes, una semper ueritatis, altera sit semper plena mendacii. Exemplum uero huiusmodi praedicati, quod subiecto semper inhaereat, hoc est: Omnis homo animal est. Homo animal non est. Nullus homo animal est. Homo animal est.  Hic indefinitae ui eadem funguntur qua et particularis, huius uero quod nunquam inhaeret, hoc est: Omnis homo lapis est. Homo lapis non est. Nullus homo lapis estt. Homo lapis est  in his quoque indefinita, uniuersalibus oppositae per unamquamque oppositionem unam ueram, falsam alteram reddiderunt, item quod suscipere subiecti naturam ualeat et possit amittere. Omnis homo iustus est. Homo iustus non est. Nullus homo iustus est. Homo iustus est  in his etiam indefinitae particularibus immutatae sunt, quae uniuersalibus obiecta per unamquamque propositionum aduersitatem, uni semper uerum, alteri diuisere mendacium. Praeterea quoque modo terminorum exempla ponantur, si affirmationes affirmationibus, negationes negationibus comparemus, uniuersalibus ueris indefinitarum ueritas prouenit, ut cum uerae sunt, omnem hominem esse animal, et nullum hominem esse lapidem, constat ueritas indefinitis quae proponunt, et hominem animal esse, et hominem lapidem non esse. At si uniuersalium falsitas antecedat, indefinitarum uel ueritas, uel mendacium uariabit, hoc modo. Falsa enim est uniuersalis enuntiatio quae proponit omnem hominem esse iustum; sed ea quae dicit hominem esse iustum, tenet in humanae naturae parte ueritatem. Nam si non habet omnis homo iustitiam, cum tamen aliquis habeat, uere dici potest hominem esse iustum.  Item, cum proponitur uniuersaliter: Nullus homo iustus est  falsum est, at si id indefinitae denegetur, a ueritate non discrepat. Nam cum sit aliquis homo non iustus, non mentietur qui pronuntiauerit hominem esse non iustum. Item cum sit falsa quae uniuersaliter affirmat dicens omnem hominem esse lapidem, falsa est quae idem indefinita enuntiatione confirmat dicens hominem esse lapidem.  Rursus cum sit falsa negatio per quam proponitur nullum hominem esse animal, falsa est indefinita negatio quae pronuntiat hominem non esse animal. Hic quoque particularium similitudo seruata est. Nam in subalternis uera uniuersalitas ueritatem particularitatis trahebat. Falsa uero uniuersalitas nec ueritatis, nec mendacii necessitatem particularibus afferebat. Eadem omnia uniuersalium atque indefinitarum collatione proueniunt.  Rursus indefinitas primum falsas constet, uniuersales quoque necesse est esse mendaces, ut si falsum sit esse hominem iustum, falsum erit omnem hominem esse iustum, quandoquidem non capit ueritatem, si iustus uel unus homo non fuerit. Item, si indefinita negatio mentiatur, uerum uniuersalis negatio non habebit, ueluti si falsa sit ea qeae dicit hominem non esse iustum, quandoquidem non potest uniuersaliter ab homine denegari, si uel uni hominum probabitur adesse iustitia. At si indefinitae sententiam ueritatis obtineant, uniuersales tum ueras, tum eueniet esse mendaces: uelut cum dicimus hominem esse iustum uerum est, est enim homo qui iustitia non careat. Huius uniuersalis negatio mentietur, cum quis dixerit nullum hominem esse iustum. At si id affirmabitur indefinite quod a subiecto diuelli secernique non possit, uera nihilominus erit affirmatiua que proponit omnem hominem esse animal. At si id quod subiecti naturam non recipit proponit indefinita negatio, ueluti si dicat hominem lapidem non esso nihil ab eius ueritate uniuersalis negatiua dissentiet ut ea quae nullum animal esse proponit. Nihil igitur dubium est indefinitas particularibus esse consimiles, eamdemque uim ueritatis ac falsatis significationibus obtinere: de quibus sufficienter dictum est.  Nunc de singularibus explicemus, quae nihil superioribus similes exstant.  Illae namque quoniam constituebant uniuersale subiectum, de quo praedicatum terminum dicerent, idcirco suscipiebant etiam differentias quantitatis. Nam quod uniuersale est et uniuersaliter et particulariter et indefinite poterit pronuntiari. At hae quae unum aliquid ponunt, singuiariter atque indiuidue differentias quantitatis habere non possunt, atque ideo sola in eis relinquitur discrepantia qualitatis, quod haec quidem affirmatio, illa uero negatio. Semper igitur inter se affirmatio et negatio singularis uerum falsumque distribuent, si non caetera impediant quae sensum in alias atque in alias significationes solent deflectere ac detorquere.  Cum uero unum atque idem praedicatum atque subiectum in affirmatione et negatione constiterit, uno eodemque sumptum tempore, uno eodemque prolatum modo, ad unum atque idem relatum, de una atque eadem parte propositum, necesse est ex his unam semper esse ueram, alteram semper esse falsam. Nam siue aequiuocos terminos sumant siue non ad idem tempus procedant, siue alius utrisque insit modus, siue ad alias partes uel ad aliquid aliud referantur, ueras utrasque esse contingit. Age enim aequiuocum terminum sumat affirmatio, dicatque: Cato Uticae se peremit  negetque negatio: Cato se Uticae non peremit.  Hic igitur utraeque sunt uerae, quoniam Cato aequiuocum est. Namque Cato praetorius Uticae sibi manus intulit, Cato uero censorius minime. Item proponatur affirmatiua hoc modo: Nocte lucet  negatio respondeat: Nocte non lucet.  Hic igitur lucere aequiuocum est. Atque ideo nihil impedit quominus utraeque in ueritate permaneant. Affirmatio namque cum dicit lucere nocte, lunae loquitur locem. Illa uero cum negat, de solis luce significat. Hic igitur aequiuocum praedicatum utrasque uerum conseruare permisit.  Item si quis de Socrate proponat dicens: Socrates sedet  atque alius neget: Socrates non sedet  utraeque uerae esse queunt, si ad diuersa tempora referantur. Potest enim nunc quidem Socrates sedere, alio uero tempore non sedere. Rursus si quis humani oculi colorem nigrum esse confirmet, aliusque nigrum non esse contendat, utrique uerum loquentur, si ad singulas oculi partes affirmatio negatioque referantur. Nam quod circa orbem est qui medius pupulam tenet, album est. Ipse uero orbis niger uisitur.  Rursus si de Socrate inter duos locato quis dixerit: Socrates dexter est  aliusque respondeat: Socrates dexter non est  utrisque constare ueritas potest. Ad eum qui cum sinistra Socratis est, dexter est. Ad eum uero cuius laeuo lateris pars Socratis dextra coniungitur, dexter non est.  Item, si quis ouum animal esse constituat, aliusque ouum animal esse neget, utraeque a ueritate non dissonant: namque ouum potestate animal est, actu animal non est. Ita igitur inter se singulariam subiectorum propositiones uerum faleumque distribuent, ut unam ueritatem necesse sit habere, alteram mendacium, si neque quod subiectum est, neque quod predicatum, aliqua sit aequiuocatione confusum ad idem tempus, ad easdem partes, ad eumdem modum, eademque rem ad quam affirmatio retulit ea quae proponuntur in negatione afferatur, ut si quis de Socrate pronuntiet: Socrates caluus est Socrates caluus non est  si igitur de Socrate eodem affirmatio negatioque proponant, si eamdem caluitii significationem affirmatio sumpserit et negatio, si eamdem utraeque capitis partem loquantur, si uel actum utraeque potestatemue significant, si nulla diuersitate temporis erretur, si non ad alium affirmatio, ad alium negatio referatur, una semper ueritati coniuncta est, retinet semper altera falsitatem.  Quoniam de ea conuenientia propositionum quae utrisque simplicibus terminis eodemque ordine captaretur explicui, nunc de ea partici patione dicendum est quae et utrosque terminos et eumdem ordinem seruat; hoc autem (ut dictum est) tribus contingere modis potest -- aut enim predicatus tantum, aut subiectus terminus, aut uterque cum negatione proponitur. At tum enuntiatio uel ab infinito subiecto, uel ab infinito praedicato, uel ab infinitis utrisque consistit. Quoties enim nomini negatio subiungitur, nomen redditur infinitum. Atque ideo per oppositionem participatio fieri dicitur. Nomini enim simplici semper infinitum nomen opponitur, ut "homo" "non homo", "animal" "non animal", et caetera: quae cum ita sint, disponantur simplices, atque ex earum natura caeteras colligamus. Primo igitur propositionum series describatur, ea scilicet quae utrisque iungitur finitis, propositisque simplicibus ita ex infinitis omnibus copulatarum propositionum ordo iungatur, ut affirmationes affirmationibus, negationes negationibus, aduersis frontibus collocentur. Omnis homo rationalis est. Omnis non homo non rationalis est. Nullus homo rationalis est. Nullus non homo non rationalis est. Quidam homo rationalis est. Quidam non homo non rationalis est. Quidam homo rationalis non est.   Quidam non homo non rationalis non est.  Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo non grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est.  Quidam non homo non grammaticus non est.  Omnis homo lapis est.  Omnis non homo non lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non homo non lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam non homo non lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam non homo non lapis non est.  Omnis homo iustus est. Omnis non homo non iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus non homo non iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo non iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo non iustus non est.  Omnis homo risibilis est. Omnis non homo non risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis est. Quidam non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo non risibilis non est.  Harum igitur talis est consocianda falsitate uel ueritate proprietas, ut affirmationes quidem inter se uniuersales particularesque negationes uel in ueritate uel in mendacio consentire queant, uel uerum inter se falsumque diuidere. Si quid enim de subiecto tale praedicetur quod uel de subiecto nequeat segregari, ut ab homine rationabilitas, uel a subiecto quidem recedere queat sed subiecti naturam non possit aequare, ut hominis grammaticus, unam ueram, alteram falsam esse proueniet. Nam qui dicit: Omnis homo rationalis est  uerum loquitur, et qui dixerit: Omnis non homo non rationalis est  mentietur. Diuinae namque substantiae rationis quidem compotes sunt sed homines non sunt.  Item si quis pronuntiet, omnis homo grammaticus, est falsum dixerit. At qui proponit: Omnis non homo non grammaticus est  uerum dixerit. Nam qui homo non est, grammaticus esse non potest. At si id de subiecto praedicetur quod uel nunquam subiecto ualeat conuenire, ut lapis homini, uel conueniens ab eo possit abscedere, cum sit maius atque uniuersalius subiecto, ut iustitia homini, simul utrisque falsitas prouenit. Nam si quis dicit: Omnis homo lapis est  falsam fecerit propositionem. Eodem quoque modo qui dixerit, omnis non homo non lapis est, cum silex homo non sit sed lapis. Item propositio: Omnis homo iustus est  falsa est, cuius sequitur falsitatem: Omnis non homo non iustus est.  Nam diuinis substantiis adest semper iustitia, cum non sit humanitas.  At si quid tale de subiecto praedicetur quod et semper ei copuletur, neque tamen subiectum possit excedere, ut risibile homini, utrinque sententia in significandi ueritate concurrit: Omnis homo risibilis est  uera est: Omnis non homo non risibilis est  haec retinet ueritatem. Nam quia risibile hominis proprium est, recte dicitur non esse risibile quidquid homo non fuerit. Eadem omnia in particulari negatione redduntur. Nam siue quae sunt maiora subiecto atque ab eo discedere nequeunt, at rationabilitas ab homine, uel quae discedunt quidem sed sunt maiora subiecto, ut grammaticus homine, de subiecto praedicentur, unam ueram, alteram falsam faciunt. Nam qui dicit: Quidam homo rationalis non est  falsum proposuit; qui uero respondet: Quidam non homo non rationalis non est  uerum loquitur.  Diuina quippe substantia non est quidam homo sed carere non potest humanae ratione naturae. Item: Quidam homo grammaticus non est  uera est sed falsa est si dicam: Quidam non homo non grammaticus non est. Cum illud sit uerius, quoniam qui homo non fuerit, non potest esse grammaticus.  At si quae uel nunquam de subiecto possunt uere praedicari, ut lapis de homine, uel praedicantur quidem et sunt maiora subiecto sed ab eo discedere separarique patiuntur, ut iustitia ab homine, ueras protinus utrasque conseruant. Nam qui dicit: Quidam homo lapis non est  uerum dixerit. At si quis respondeat: Quidam non homo non lapis non est  is quoque uerum dixerit: si quidem de silice uel de huiusmodi caeteris uelit intelligi, quae cum non sint homines, non lapides non sunt.  Item: Quidam homo iustus non est  propositio ueritatem tenet. Sed ne illa quidem falsa est quae proponit: Quemdam non hominem non iustum non esse  hoc enim, ut dictum est, diuinis substantiis inuenitur, ut iustitiam teneant, quamuis ab hominis definitione seiunctae sunt.  Item, si id quod abesse non potest, et sit aequale subiecto, de eodem subiecto praedicetur, ut risibile homini, incurrit utrisque mendacium. Nam:  Quidem homo risibilis non est  falsa est, cuius falsitati sese aemulam praestat quae proponit: Quidam non homo non risibile non est  quasi qui homo non sit possit esse risibilis. Ita igitur quidem in affirmationibus uniuersalibus et particularibus negatiuis ueritas falsitasque et simul aliquoties inuenitur, et inter utrasque diuiditur. Negationes uero uniuersales et particulares affirmationes non simili respondent modo. Sed negationes quidem uniuersales, unam uerum dicere, alteram falsam, simul utrasque falsas esse possibile est. Simul autem ueras nunquam esse contingit. Nam si id quod adesse subiecto non potest, praedicetur, ut lapis homini, unam ueram faciunt, alteram falsam, ut est: Nullus homo lapis est  uera est; falsa est quae proponit: Nullus non homo non lapis est  omnia quippe animalia praeter hominem ita non sunt lapides, sicut ab hominum natura seiuncta sunt.  Quidquid uero aliud de subiecto praedicetur, neutri constare ueritas potest, ut si quis proponat: Nullus homo rationalis est  falsum dixerit; aliusque respondeat: Nullus non homo non rationalis est  hanc quoque conuincit ratio mentiri, equus quippe non homo est, nec eum quis dixerit rationis esse participem; ut autem simul uerae sint, nullus poterit terminus approbare.  Particulares autem affirmatiuae in differentiam ueritatis falsitatisque discedunt, quoties aliquid tale de subiecto dicitur, quod nunquam possit adesse subiecto, ut lapis: nam si quis enuntiet: Quidam homo lapis est  falsa propositio est; at si quis respondeat: Quidam non homo non lapis est  tenet contrariam ueritatem, equus quippe non homo est, nec lapis esse dicetur. Quidquid uero aliud de subiecto praedicabitur, est eas in ueritatis significationem conuenire, ut: Quidam homo rationalis est  uera est, Quidam non homo non rationalis est  huic quoque ueritas constat, equus quippe non homo est, nec ratione subsistit; ut uero simul falsae sint, nullis reperietur exemplis. Ad hunc igitur modum ei de caeteris quae uel subiectum uel praedicatum retinent infinitum, ad ueritatis falsitatisque consensum enuntiationum proprietas consideranda est, de quibus modo breuiter quid eueniat tetigisse sufficiat, singula uero lectoris exploranda diligentiae, et per conuenientes terminos rimanda permittimus. Disponantur igitur propositiones quae ex utrisque simplicibus terminis constant, easque quarum subiectum tantum abnuatur ex aduerse parte respiciant. SIMPLICES EX SUBIECTIS FINITIS  Omnis homo rationalis est. Omnis non homo rationalis est. Nullus homo rationalis est.  Nullus non homo rationalis est. Quidam homo rationalis est. Quidam non homo rationalis est. Quidam homo rationalis non est. Quidam non homo rationalis non est.  Omnis homo risibilis est. Omnis non homo risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo risibilis est. Quidam homo risibilis est.Quidam non homo risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo risibilis non est.  Omnis homo iustus est. Omnis non homo iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus non homo iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo iustus non est.  Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est.  Quidam non homo grammaticus non est.  Omnis homo lapis est.  Omnis non homo lapis est Nullus homo lapis est. Nullus non homo lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam non homo lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam non homo lapis non est. In harum igitur affirmationibus quidem uniuersalibus ueritas et falsitas distribuitur, si quis tale de subiecto praedicetur quod abesse non possit, siue illud maius sit, ut animal homine, siue aequale, ut risibile homini. In his enim unam ueram, alteram falsam esae neoesse est, quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam semper ueritas, alteram semper falsitas non sequetur: ut autem simul uerae sint nequit ostendi.  Particularium uero in affirmationibus quidem, siquidem ea praedicentur quae ualeant transire subiectum, siue ab eo separari nequeunt, ut animal ab homine, seu possint, ut iustitia ab homine, loquitur utraque uera sententia. Quidquid uero praeter ea fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram falsitas tenet; falsae uero simul nequeunt inueniri. Negationes uero particulares siquidem id praedicent quod a subiecto non possit abscedere, siue illud maius sit, ut rationale homine, seu aequale, ul risibile homini, uni constabit ueritas, aItera mentietur. Si quid uero praeter ei fuerit praedicatum, ueras semper utrasque constat, ut ineas communis falsitasnunquam possit incidere. Item disponantur in ordinem primum quidem simplices, has e regione respiciant quae subiecto simplici denegantur praedicato.  SIMPLICES EX INFINITO PRAEDICATO  Omnis homo lapis est.  Omnis homo non lapis est Nullus homo lapis est. Nullus homo non lapis est. Quidam homo lapis est. Quidam homo non lapis est. Quidam homo lapis non est. Quidam homo non lapis non est.  Omnis homo animal est.  Omnis homo non animal est Nullus homo animal est. Nullus homo non animal est. Quidam homo animal est. Quidam homo non animal est. Quidam homo animal non est. Quidam homo non animal non est.  Omnis homo risibilis est. Omnis non homo non risibilis est. Nullus homo risibilis est. Nullus non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis est. Quidam non homo non risibilis est. Quidam homo risibilis non est. Quidam non homo non risibilis non est.  Omnis homo iustus est.  Omnis non homo non iustus est. Nullus homo iustus est. Nullus non homo non iustus est. Quidam homo iustus est. Quidam non homo non iustus est. Quidam homo iustus non est. Quidam non homo non iustus non est. Omnis homo grammaticus est. Omnis non homo non grammaticus est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non homo non grammaticus est. Quidam homo grammaticus non est.  Quidam non homo non grammaticus non est. Harum igitur affirmationes uniuersales, siquidem praedicent quod subiecto nequeat conuenire, ut lapis homini, uel a subiecto, cum sit aequale uel sit maius, non possit abscedere, ut animal uel risibile ab homine, unam semper necesse est ueritatem. alteram proferre mendacium: quidquiduero praeterea fuerit praedicatum, utrisque falsitas inuenitur, ut ad ueritatem conuenire non possint. Negationes uero uniuersales siquidem id de subiecto praedicent quod subiecto adesse possit et abesse, ita ut excedat, ut uirtus hominem, uel id quod adesse quidem queat sed non possit adaequare subiectum, ut grammaticus hominem, utraeque in falsitate communicant. Quidquid uero aliud fuerit praedicatum, unam ueritas, alteram falsitas consequetur; ut autem simul uerae sint, nequit ostendi.  Particularium uero affirmationes quidem simul uerae sunt, si id quod uel adesse possit uel abesse praedicetur, siue illud maius sit ut iustitia homine, seu minus ut grammaticus ab homine. Si quid uero aliud fuerit praedioatum, ueritas in eas ac falsitas distribuitur, ita ut nunquam communem consonent falsitatem. Particulares quoque negatiuae in similibus terminis ueritate concordant. Nam si quod adesse uel abesse potest, siue illud maius sit ut iustus ab homine, siue minus, ut grammaticus ab homine, de subiecto praedicetur, ueritas utrisque constabit. In aliis uero cunctis praedicationibus uni ueritas, alteri falsitas cedit. Nunquam tamen utraeque in prodenda falsitate consentient.  Praeter hanc autem inter se conuenientiam propositionum, habent aliquid hae proprium quae praedicatum adiecia negatione pronuntiant, quod caeteris inesse non possit.Affirmationes namque negationibus, negationesque affirmationibus, quarum uniuersalis est propositio, itemque particulares affirmationes negationibus, negationes affirmationibus ita conueniunt, ut nunquam neque in falsitate, neque in ueritate discordent. Conuenientium autem ordinem seriemque describimus quas si quis in superius posita respexerit; uidebit angulariter conuersas.  Omnis homo rationalis est. Nullus homo non rationalis est. Omnis homo non rationalis est. Nullus homo rationalis est Quidam homo non rationalis est. Quidam homo rationalis non est. Quidam homo rationalis est. Quidam homo non rationalis non est. Quod idcirco in his tantum uidetur euenire, quod de eodem subiecto uterque intelligitur ordo oppositionis. Nam quae dicit: Omnis homo rationalis est  de homine rationale praedicauit; item quae proponit: Omnis homo non rationalis est  de eodem homine rationale seiunxit, ut merito simplices affirmationes negationi consentiant. At non in aliis intelligitur idem esse subiectum. Nam et illa quae proponit omnem non hominem esse rationalem, et illa quae enuntiat omnem non hominem esse non risibilem, de homine non loquantur sed quolibet alio quod hominis negatione relinquitur. Atque ideo uelut extraneae atque a semet alienae, nec in ueritate possidet aliquam nec in falsitate concordiam.  Indefinitas autem propositiones, quoniam particularibus similes esse monstrauimus, adiungendas superioribus non putaui. Id enim indefinitis necesse est euenire, quod particularibus solet incurrere.  Expeditis igitur his propositionibus quae ex utrisque communicant terminia atque eodem ordine collocatis, nunc eam propositionum conuenientiam uel participationem loquimur, quae in utrisque quidem terminis conuenientia sed ordinis commutatione consistunt, cuius disceptationis hic finis est, de propositionum conuersione docuisse, quid enim est aliud propositiones mutato ordine conuenire utrisque terminis, nisi propositiones conuerti? Conuerti autem uel sibi uel aliis propositiones dicuntur, quoties, mutato ordine terminorum, id est quod subiectum fuerat praedicato et quod praedicabatur ante subiecto, ueritatem simul obtinent uel falsitatem. De quibus plenissime hic disputandi sumemus exordium.  Quatuor propositiones esse praediximus, quae habeant differentias quantitatum et utrisque terminis absque ordinis permutatione participant. Hae uero sunt affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio particularis, negatio particularis.  Harum igitur particularis affirmatio particulariter quidem sibi ipsa conuertitur, uniuersali autem affirmationi per accidens, et rursus uniuersalis negatio, loco principe sui recipit conuersionem, ad particularem uero negationem per accidens conuerti potest.  Affirmationis uero uniuersalis ad se ipsam perpetua non potest esse conuersio, ad particularem uero affirmationem per accidens potest. Nec uero negationis particularis ad se ipsam principaliter stabilis ac firma conuersio est sed negationi uniuersali secundo loco atque accidentaliter. Quae omnia facilius declarantur exemplis. Affirmatio enim particularis, ut ea quae proponit: Quidam homo albus est  facile sibi ipsa conuertitur, si dicamus, quoddam album homo est, atque in utrisque simul ueritas constat. At si quis proponat quendam hominem esse lapidem, eamque conuertat dicens quemdam lapidem esse hominem, mansit in utrisque mendacium. Hoc igitur modo affirmatio particularis sui recipit conuersionem.  Item negatio uniuersalis conuerti potest, ut si quis enuntiet nullum hominem esse lapidem, eamdemque conuersis terminis dicat nullum lapidem esse hominem, simul ueritatem tuentur. At si quis dicat nullum hominem esse animal, atque eamdem sub terminorum conuersione proponat dicens nullum animal esse hominem; neutra suam perdidit falsitatem. Hoc igitur modo uniuersalis quoque negatio sibi ipsa conuertitur, uniuersalis uero affirmatio non tenet perpetuam conuersionem: quamuis enim quoties de speciebus propria praedicentur conuerti uniuersales affirmationes queant, ut si quis dicat: Omnis homo risibilis est  poterit terminorum ordinem permutare, omne risibile esse hominem, tamen non est haec aequalis atque in omnibus terminis fida conuersio. Quid enim cum quis ita proponit: Omnis homo animal est  nunquid conuertere uere potest, ut omne animal hominem esse pronuntiet? Quare cum aliquoties uniuersalis affirmatio conuersa propriam non teneat ueritatem, dicitur conuersionis naturam non posse suscipere.  Negatio quoque particularis interdum uidetur posse conuerti, ueluti si quis enuntiet quemdam hominem lapidem non esse, uerum loquetur, cum dixerit quemdam lapidem hominem non esse; sed est instabilis et incerta conuersio: nam cum quidam homo grammaticus non sit, falsum est dicere quemdam grammaticum hominem non esse. Ita igitur haec quoque conuersio protinus a sua ueritate deficit.  Superius igitur propositarum quatuor enuntiationem duae quidem oppositae, id est particularis affirmatio et uniuersalis negatio, conuersionem sui firmam perpetuamque suscipiunt; duae uero oppositae, id est affirmatio uniuersalis et negatio particularis, conuersionis non tenent firmitatem sed quia uniuersalis affirmatio, quae in sui conuersione uidetur instabilis, si uera est, particularem quoque affirmationem ueram esse necesse est. Si autem particularis affirmatio conuersa non amittit propriam ueritatem, uniuersalis quoque affirmatio conuersa particulari affirmationi eamdem ueritatem sonabit, uelut his exemplis probabitur. Si quis enim proponat omnem hominem esse animal, uerum dixerit, huius subalterna particularis affirmatio quemdam hominem esse animal, ea quoque uera est, quoniam uniuersalis affirmationis ueritas antecessit. Sed eamdem conuerti sibi uerissime potest, dicitur enim quoddam animal esse hominem. Quocirca affirmatio uniuersalis quae proponit omnem hominem esse animal, et conuersa particularis affirmatio quae pronuntiat quoddam animal esse hominem, utraeque simul a ueritatis significatione non deficiunt. Ita igitur uniuersalis affirmatio, quae sui conuersionem perpetuam ferre non poterat, per accidens particulari affirmationi conuersa est. Per accidens autem idem quoniam particularis affirmatio principe sibi ipsa loco conuertitur, conuersae autem particulari affirmationi uniuersalis affirmatio eamdem retinet in ueritate sententiam. Eadem ideo est etiam uniuersalis negationis, quae quoniam ipsa principaliter conuerti potest, conuersaeque negationi uniuersali illa quae subalterna est eamdem.  ueritatis refert sententiam. Particularis negatio conuersa ad ueritatis signiticationem poterit conuenire, ut si quis nullum hominem esse lapidem confiirmet, et huius conuersio est, nullum lapidem esse bominem, quae cum uera praecedat, subalternae particularis negatiuae perficit ueritatem: ea uero est, quidam lapis homo non est, quae comparata uniuersali negationi quae dicit nullum hominem esse lapidem, quamuis terminis discrepans, tamen similis ueritate proponitur. Igitur particularis negatio, quae sibi ipsi conuerti non poterit, uniuersali negationi per accidens conuerti potest. Per accidens autem idcirco quoniam uniuersalis negatio in se ipsam priore loco conuerti potest. Per conuersionem autem sui cum particulari negatione similem ueritatis uidetur obtinere sententiam. Itaque concludendum est particularem quoque affirmationem uniuersalemque negationem conuersionem sui firmam ac stabilem custodire. Affirmationem autem uniuersalem particularemque negationem in conuertendo firmas esse non posse sed hanc affirmationi particulari, illam uniuersali negationi per accidens, posse conuerti.  Restat nunc de ea propositionum conuenientia uel participatione disserere, in qua utrinque terminorum ordine permutato, uni uel utrique eorum negatiuum copulatur aduerbium.  Sed quanquam huiusmodi participationis plures esse differentias nouerimus, ad instructionem tamen Categoricorum Syllogismorum de hac tantum proposuisse sufficiat, quarum quidem propositionum pars ex simplicibus nominibus constat, pars uero ex infinitis. Nam propositio uniuersalis, quae est: Omnis homo animal est  ex utrisque nominibus finitis constat. Namque et homo et animal finita nomina esse manifestum est. Ea uero affirmatio quae proponit omne non animal non hominem esse infinitorum terminorum positione coniuncta est. Non animal enim et non homo nomina esse infinita, in nominis definitione praediximus, quae quidem sese ad ueritatis falsitatisue rationem sic habent, ut enim negationibus adiunctis infinita nomina simplicibus opponuntur, ita etiam conuersio propositionum econtrario contingit quam paulo ante in simplicibus hababatur. Atque in his enuntiationibus conuerti termini per appositionem dicuntur, unusque enim terminorum negatione praeposita terminis simpliciter pronuntiatis uidetur oppositus. Huius uero participationis est triplex modus: aut enim praedicato tantum termino, negatio iungitur, aut subiecto, aut utrique termini denegantur. Primum igitur supposita descriptione pandantur exempla. Post autem quemadmodum se habent ad ueritatis falsitatisue consensum consequentis ordine dispPombaur. Ac primum quidem de hac disserimus cuius subiectum praedicatumque negatur. Post uero cuius subiectum solum, postremo cuius qui praedicatur terminus cum negatione profertur. Atque earum quidem naturam atque ordinem ex simplicibus informabimus. Simplices autem, in quantitatum differentiis constitutas, quatuor esse monstrauimus. Sit igitur prima quidem affirmatio uniuersalis, quae proponat omnem hominem esse animal; aduersum hanc collocetur affirmatio uniuersalis, quae non solum conuersis terminis enuntietur uerum in uno quoque termino negatiuum aduerbium habeat adiunctum hoc modo: Omne non animal non homo est.  Rursus proponatur uniuersalis negatio, ea quae est: Nullus homo animal est  huic aduersam teneat locum uniuersalis negatio terminis cum negatione conuersis, id: Nullum non animal non homo est. Item sit particularis affirmatio simplex: Quidam homo animal est  huic terminus atque ex aduerso referatur particularis affirmatio, quae, commutatis in ordinem terminis, negationes utrisque gestet oppositas, ut est: Quoddam non animal non homo est.  Item sit particularis simplex negatio quae proponat quemdam hominem animal non esse; hanc ex aduerso respiciat particularis negatio, quae, permutatis ad ordinem terminis, aduerbium negationis adiecerit, ut est: Quoddam non animal non homo non est. SIMPLICES CONVERSAE UTRISQUE INFINITIS  Omnis homo animal est. Omne non animal non homo est Nullus homo animal est. Nullum non animal non homo est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal non homo est. Quidam homo animal non est. Quoddam animal non homo non est. In illis enim affirmatio uniuersalis particularisque negatio conuersionem stabilem non tenebant. Affirmatio autem particularis atque uniuersalis negatio conuersae certissime tuebantur uel in ueritate, uel in falsitate consensum. Hic omne diuersum est. Uniuersalis namque affirmatio et particularis negatio per oppositionem sibi ipsa conuertitur, uniuersalis autem negationis et particularis affirmationis non est ad ueritatis falsitatisue consensum fide conuersio.  Ac primum de uniuersali affirmatio tractemus, quae cum in simplicibus uera sit, ueritatem quoque per oppositionem conuerse custodit, ut ea qua dicit omnem hominem esse animal, uera est, atque illi per oppositionem conuertitur, id est: Omne non animal non homo est  eam quoque ueram esse necesse est. Propositionis autem huius ista sententia est, quoniam non est homo, quidquid animal non est, quod uerum esse nullus ignorat. Item si sit falsa uniuersalis affirmatio in simplicibus terminis constituta, falsa quoque eius per oppositionem probabitur esse conuersio: nam cum dicimus: Omnis lapis animal est  falsa est, atque illi per oppositionem conuertitur, id est: Ommne non animal non lapis est  eam quoque fals&m esse necesse est. Id enim ex tali enuntiatione sentitur, quoniam quidquid animal non fuerit, id lapis non est, quod apertissime falsum est, cum lapis ipse animal non sit: quod si uniuersalis affirmatio terminorum oppositionem conuersa sibimet in ueritate conuenit et in falsitate, non est dubium quin uniuersalis simplex affirmatio stabili per oppositionem conuersione monstretur. Idem de simplici etiam particulari negatione dicemus. Nam cum haec falsa est, ut ea quae dicit: Quidam homo animal non est  illa quoque falsitatem tenebit, quae huic terminorum oppositione conuertitur, ut ea quae proponit:  Quoddam non animal non homo non est.  Id enim ex bac enuntiatione colligitur, quod res quae non sit animal, sit homo. Etenim hoc esse hominem, quod non esse non hominem. At si uera sit negatio particularis ex simplicibus terminis iuncta, ut est: Quidam lapis animal non est  non deerit ueritas cum terminorum oppositione conuersae quae proponit quoddam non animal non lapidem non esse. Id enim conuersio ita significat, quod res quaedam quae animal non sit lapis sit, hoc est enim esse lapidem quod non esse non lapidem; quod si particularis simplex negatio per oppositiones propriae conuersioni et in ueritatis et in falsitatis significatione concordat, non est dubium particularem simplicem negationem certo sibi ac stabili modo per oppositionem terminorum posse conuerti.  In negatione uero uniuersali non est perpetua neque fida conuersio. Quod quidem fallere poterit, si quis ad solam respiciat conuenienliam falsitatis. Nam cum sit falsa simplex uniuersalis negatio quae proponit nullum hominem esse animal, falsa est quae ei per oppositionem conuertitur, ut est: Nullum non animal non homo est. Id enim ex haec propositione monstratur, quoniam omne quod animal non est, id homo est, hominem esse significat, quidquid animal non sit, quae proponit, nullum esse non hominem, qui animal non sit. Sed hic in falsitate consensus ad ueritatem usque non peruenit. Age enim sit uera simplex uniuersalis negatio: Nullus homo lapis est  non uera potest esse: Nullus non lapis non homo est.  Id namque designat ista conuersio, quoniam quidquid lapis non fuerit, id homo est; hominem namque esse designat quod lapis non sit, qui pronuntiat nullum esse non hominem quod lapis non est, quod apertissime falsum est; quamuis enim multa proferam quaecum lapides non sint, tamen ab hominum natura seiuncta sunt, ut equus, arbor atque alia plurima. Si igitur negatio uniuersalis per oppositionem propriae conuersioni in falsitate quidem conuenit, nec tamen in ueritate consentit, recte pronuntiatur conuersionem perpetuam atque aequabilem non habere.  Eadem quoque ratio est in affirmatione simplici particulari. Nam in hoc quoque saepe error deprehenditur, ut certae propositionum conuersiones putentur, si quis non ad falsitatis quoque sed ad solam conuenientiam ueritatis aspiciat. Nam cum affirmatio simplex particularis uera sit, ut est: Quidam homo animal est  si huius termini cum oppositione conuertantur, fiatque propositio: Quoddam non animal non homo est  a ueritate non discrepat. Quid enim aliud enuntiatio ista designet quam esse rem aliquam quae cum animal non sit, ne homo quidem sit, ut lapis simul et animalis et hominis natura deficiat. Sed hic in ueritate consensus ad falsitatem usque non tendit. Quid enim si sit falsa simplex affirmatio particularis, ut est: Quidam homo lapis est  non erit eius per oppositionem falsa conuersio: Quidam non lapis non homo est?  Atqui haec firma ueritate consistit, id enim ex hac propositione datur intelligi quod sit quidam quod cum lapis non sit, ne homo quidem sit, ut equus atque arbor, quae neque hominis, neque lapidis definitione clauduntur. Quod si particularis affirmatio, dum per oppositionem conuertitur, in ueritate quidem tenet secum ipsam concordiam, in falsitate autem sibimet ipsa dissentit, rectum est pronuntiare quod termini negatione coniuncta conuersionem firmam stabilemque non teneant. Quare cum in simplicibus, ac praeter oppositionem conuersionibus, uniuersalis quidem negatio particulurisque affirmatio pernetua fidaque terminorum permutatione uertantur, affirmamatio uero uniuersalis particularisque negatio minime, dum per terminorum oppositionem simplex propositio sibi ipsa conuertitur, omnia, ut dictum est, aduersa ratione contingunt, uniuersalia namque affirmatio et particularis negatio firmam negatarum partium retinent conuersionem. Uniuersalis autem negatio in falsitate quidem recte sibi ipsa conuertitur. In ueritate autem sibi ipsa discordat. Particularis autem affirmatio in ueritate quidem sibi conuenit sed in falsitate dissentit. Similis autem contemplatio est in his quae, conuerso ordine terminorum, praedicato tantum uel subiecto sibi copulant negationem: in quibus, ut in superioribus quoque fecimus, propositionum tantum ordinem describemus, et quid eueniat sub breuilate monstrabimus, perquirenda atque examinanda singula lectoris diligentiae derelinquentes. Descriptis ergo simplicibus ex aduersa parte, quae, conuerso ordine praedicatum cum negatione pronuntiant, conferantur. SIMPLICES CONVERSAE DE PRAEDICATO INFINITO: Omnis homo animal est. Omne animal non homo est. Nullus homo animal est. Nullum animal non homo est. Quidam homo animal est. Quoddam animal non homo est. Quidam homo animal non est. Quoddam animal non homo non est. Omnis homo iustus est. Omnis iustus non homo est. Nullus homo iustus est. Nullus iustus non homo est. Quidam homo iustus est.  Quidam iustus non homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam iustus non homo non est.  Omnis homo grammaticus est. Omnis grammaticus non homo est. Nullus homo grammaticus est. Nullus grammaticus non homo est. Quidam homo grammaticus est. Quidam grammaticus non homo est. Quidam homo grammaticus non est.  Quidam grammaticus non homo non est.  Omnis homo lapis est. Omnis lapis non homo est Nullus homo lapis est. Nullus lapis non homo est. Quidam homo lapis est. Quidam lapis non homo est. Quidam homo lapis non est. Quidam lapis non homo non est. Omnis homo risibilis est. Omne risibile non homo est. Nullus homo risibilis est. Nullum risibile non homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam risibile non homo est. Quidam homo risibilis non est.    Quoddam risibile non homo non est. Harum igitur in affirmationibus quidem uniuersalibus si ea de subiecto praedicentur quae et adesse et abesse contingent, siue illud subiecto maius sit ut iustitia homine, siue minus ut grammaticus homine, uel si ea quae omnino adesse non possum ut lapis homini, simul semper falsas esse necesse est. Si quid uero praeter haec fuerit praedicatum, unam ueram, falsam alteram esse proueniet, nunquam uero utrique ueritas consonabit.  In negationibus uero uniuersalibus siquidem ea de subiecto praedicentur quae a subiecto ualeant segregari, siue illa maiora sint ut iustitia homine, siue minora ut eodem homine grammaticus, utrisque aderit falsa sententia.  Quidquid uero reliquorum fuerit praedicatum uni uerum, alteri faciet adesse mendacium. Nunquam uero in his concors ueritas inuenitur.  In particularibus uero affirmationibus siquidem ea praedicentur, quae [792A] cum separari possint, tum uel maiora sunt ut iustus homine, uel minora ut grammaticus homine, communis affirmationes ueritates obtinebit. Alia uero quaelibet praedicatio unam ueram, alteram semper faciet esse mendacem sed nunquam communiter mentientur.  In negationibus uero particularibus hic modus est, ut siue ea quae adesse non rossunt, ut lapis homini, siue quae possum ac poterunt segregari, cum tamen eorum aliud maius sit, ut iustitia homine, aiitld minus, ut grammaticus homine, praedicentur, ueritas utrisque constabit.  Quidquid uero absque hic praedicabitur, ueritatem uni, alteri diuides falsitatem, simul tamen falsas esse non euenit. Item descriptio supponatur quae priore parte simplicibus collocatis, eas quae conuerso ordine subiectum cum negatione proponunt contraria fronte constituat. SIMPLICES  CONVERSAE DE SUBIECTO INFINITO: Omnis homo animal est. Omne non animal homo est. Nullus homo animal est. Nullum non animal homo est. Quidam homo animal est. Quoddam non animal homo est. Quidam homo animal non est. Quoddam non animal homo non est.  Omnis homo risibilis est.  Omne non risibile homo est. Nullus homo risibilis est. Nullum non risibile homo est. Quidam homo risibilis est. Quoddam non risibile homo est. Quidam homo risibilis non est. Quoddam non risibile homo non est.  Omnis homo lapis est. Omnis non lapis homo est. Nullus homo lapis est.  Nullus non lapis homo est. Quidam homo lapis est. Quidam non lapis homo est. Quidam homo lapis non est. Quidam non lapis homo non est.  Omnis homo iustus est. Omnis non iustus homo est. Nullus homo iustus est. Nullus non iustus homo est. Quidam homo iustus est.  Quidam non iustus homo est. Quidam homo iustus non est. Quidam non iustus homo non est.  Omnis homo grammaticus est. Omnis non grammaticus homo est. Nullus homo grammaticus est. Nullus non grammaticus homo est. Quidam homo grammaticus est. Quidam non grammaticus homo est. Quidam homo grammaticus non est. Quidam non grammaticus homo non est. Superius igitur descriptarum enuntiationum affirmationes quidem uniuersales, siue de subiecto praedicentur quae ab eo nunquam ualeant amoueri, siue illud maius sit, ut animal homine, seu aequale ut risibile homini, seu tale quod subiecto nullo modo possit obtingere ut lapis homini, uni ueritatem dispartient, alteri falsitatem. At si quod absque his praedicabitur, utrasque falsitas obtinebit, communi autem propositionum ueritati locus esse non poterit. At in negationibus quidem uniuersalia et maiora praedicentur, seu ea quae relinquere subiectum nequeant ut animal hominem, seu quae possint ut iustitia hominem, utrisque falsitas inhaeredit. Aliae quaelibet praedicamenta unam ueram faciunt, alteram falsam, ita ut communis utraeque ueritatis non possint esse participes.At in particularibus affirmationibus quidem, siquidem maiora de subiecto praedicentur, quae uel nunquam subiecti coniunctione diicedant ut animal homine, uel etiam segregentur ut iustitia ab homine, respondebit utraque ueritatem; caeterae uero praedicationes ueritatem propositionibus falsitatemue distribuunt in commune participantibus falsitatem. Particulares uero negationes, siquidem ea praedicent quae possint a subiecto separari, siue illud maius sit ut iustitia homine, seu minus ut grammaticus homine, ueras utrasque esse recesse est. Si quid uero extra praedicabitur, uni oportet uerum, alteri adesse mendacium, ut simul falsae nequeant inueniri. Atque haec quidem de his propositionibus quae cum determinatione proferuntur dicta sunt. Quae uero indefinitae sunt, quoniam particularium proprietatibus adaequantur, eadem omnia comparatae uniuersalibus obtinebunt quae in superiore descriptione particularium propositionum ordo seruauit.  Restarent subiectorum singularium propositiones, de quibus, quoniam et longum est dicere, et nihil ad operis propositi affert utilitatem, et sibi ipse exemplo earum quas superius proposuimus easdem lector inueniet, praetereundum uidetur. Multa Graeci ueteres posteris suis in consultissimis reliquere tractatibus, in quibus priusquam ad res densa caligantes obscuritate uenirent, quasi quadam intelligentia luctatione praeludunt: hinc per introductionem est facilior discibiliorque doctrina, hinc per ea quae illi *prolegomena* uocant, nos praedicta uel praedicenda possumus dicere, ad intelligentiam promptior uia munitur. Hanc igitur prouidentiam non exosus, statui ego quoque in res obscurissimas aliquem quodammodo pontem ponere, mediocriter quidque delibans ita ut si quid breuius dictum sit, id nos dilatione ad intelligentiam porrigamus; si quid suo more Aristoteles nominum uerborumque mutatione turbauit, nos intelligentiae seruientes ad consuetum uocabulum reducamus; si quid uero ut ad doctos scribens summa tantum tangens designatione monstrauit, nos id introductionis modo aliqua in eas res tractatione disposita perquiramus.  Sed si qui ad hoc opus legendum accenserint, ab his petitum sit ne in his quae nunquam attigerint statim audeant iudicare; neue si quid in puerilibus disciplinis acceperint, id sacrosanctum iudicent, quandoquidem res teneris auribus accommodatas saepe philosophiae seuerior tractatus eliminat. Si quid uero in his non uidebitur, ne statim obstrepant sed, ratione consulta, quid ipsi opinentur, quidue, nos ponimus, ueriore mentis acumine et subtiliore pertractata ratione diiudicent. Et hi quidem sic. Nos enim, ut arbitror, suffecimus eos commentarios, de quibus haec nos protulimus, degustent blando fortasse sapore subtilitatis eliciti, quamuis infrenis et indomiti creatores sint, tamen ueterum uirorum inexpugnabilibus auctoritatibus acquiescent; si quis uero Graecae orationis expers est, in his, uel si qua aliorum sunt similia, desudabit. Itaque haec huius prooemii lex erit, ut forum nostrum nemo non intellecturus, et ob id culpaturus inspiciat. Sed ne prooemiis nihil afferentibus tempus teratur, inchoandum nobis est illo prius depulso periculo, ne a quoquam sterilis culpetur oratio. Non enim eloquentiae compositiones sed planitiem consectamur: qua in re si hoc efficimus, quamlibet incompte loquentes, intentio quoque nostra nobis perfecta est. Sed quoniam syllogismorum structura nobis est hoc opere explicanda, syllogismis autem prior est propositio, de propositionibus hoc libello tractatus habebitur.  Et quoniam propositionis partes sunt nomen et uerbum, pars autem ab eo cuius pars est prior est, de nomine, et uerbo, quae prima sunt, disputatio prima ponatur. Nomen est uox designatiua ad placitum sine tempore, cuius nulla pars extra designatiua est. VOX autem dictum est, quia uox nominum genus est. Omnis autem definitio a genere trahitur, ut si definias hominem, animal dicis, id est genus; post uero rationale, id est differentia. DESIGNATIVA uero dicta est, quia sunt uoces quaedam quae nihil significant, ut sunt syllabis. NOMEN uero, designat id cuius est nomen. AD PLACITUM uero, quia nullum nomen aliquid per se significat sed ad ponentis placitum. Illud enim unaquaeque res dicitur quod ei placuit qui primus rei nomen illud impressit. Sunt enim uoces naturaliter significantes, ut canum latratus iras canum significat, et alia eius quaedam uox blandimenta; sed non sunt nomina non sunt ad placitum significantes sed natura. SINE TEMPORE uero, quod uerba quidem uoces sunt designatiuae et secundum placitum sed distant, quod nomina sine tempore sunt, uerba cum tempore. CUIUS NULLA PARS EXTRA DESIGNATIVA EST: nomen ab oratione disiungit, quod oratio et ipsa uox est, et desiguatiua, et secundum placitum, aliquoties sine tempore est sed orationis partes significant, nominum uero minime. In Ciceronis enim nomine nulla extra pars designatiua est, neque 'ci' neque 'ce' neque 'ro'. Neque si ex duobus integris nomina sint. Quod enim in uno consignificat, id extra non significat.  In nomine enim 'magister', 'magis' et 'ter' consignificauit, quia est magister.  Sublatum uero 'ter' et 'magis' non erit alicuius significatio, nisi tibi hoc alii nomen dare placuerit. Omnia enim nomina non naturaliter sunt, sed ad placitum ponuntur. Sed de hoc in commentario libri *Peri hermeneias* Aristotelis dictum est et maior eius rei tractatus est, quam ut nunc queat expediri.  Reuertamur igitur ad nomen. Sed quoniam sunt quaedam uoces quae et designatiuae sunt, et secundum placitum et sine tempore, quarum dubia sit natura, ut est 'non-homo', hoc enim significat quiddam et secundum placitum, impositum est enim sed dubium est cui subdi possit, nomini enim non potest, omne enim nomen significat aliquid definitum, 'non-homo' autem quod definitum est perimit, oratio uero dici non potest, omnis enim oratio ex nominibus et uerbis constat, 'non-homo' autem, neque ex nominibus constat neque ex uerbis sed multo magis esse non potest uerbum, omne enim uerbum cum tempore est, 'non-homo' uero sine tempore est: quid sit ergo ita uidendum est: et quoniam 'non-homo' uox significat quiddam, quid autem significet in homine ipso non continetur (potest enim 'non-homo' et equus esse et lapis et domus, et quidquid homo non fuerit, quoniam ea qui re significare potest infinita sunt, infinitum nomen uocatur); et quoniam sunt quaedam uoces et designatiuae et ad placitum, et definitae, et quarum partes extra nihil significant, ut sunt casus nominum, ut 'Ciceronis' et 'Cicerone' et caetera, haec nomina non erunt. Omne enim nomen iunctum cum est uerbo, aut uerum aut falsum demonstrat. Ut si dicas: Dies est  hoc uero aut uerum aut falsum est. Si uero casum iungas, neque uerum neque falsum efficis. Si enim dicas: Diei est  nihil quod sit aut non sit demonstrasti. Itaque nihil ex hoc neque uerum neque falsum efficies. Et merito dictum uidetur. Quod enim primo uocabulum nomina rebus imponentes dixerunt, id solum numen uocabitur merito. Qui enim primus circo circum nomen imposuit, ita dixisse uidetur: Dicutur hoc circus!  Atque ideo primus hic casus nominatiuus uocatur, quod nomen sit. Aliis uero nominibus non nominis caeteros casus appellauere.  Ergo a capite reuoluendum est, uocem dictum quod uox nominum genus sit; designatiuam uero, quod sunt quaedam uoces quae nihil designant, ut ad his uocibus separetur quae nihil significant; ad placitum, ut ab his uocibus separetur quae naturaliter significant, ut sunt pecudum. Sine tempore uero dictum est, ad diuisionem uerbi quod cum tempore est; cuius nullapars extra significat, ut diuideretur ab oratione, cuius partes nomina sunt et uerba, quae significant; finita uero, ut ab infinitis separetur; recta, ut a casibus distingueretur.  Et in uerbo eadem omnia fere conueniunt. Est enim uerbum uox significatiua ad placitum cum tempore, cuius nulla pars extra significatiua est.  Et quia est quaedam uox significatiua et ad placitum cum tempore, cuius pars nihil significat, ut 'non albet' (Albet enim, quod cum non iunctum consignificat, solum non significat), et quia nihil definitum monstrat (quod enim non albet, potest et rubere, potest et nigrescere, potest et pallere, et quidquid non albet), ideo "infinitum uerbum" uocatum est. 'Faciebat' autem et 'facturus', ut superius in nomine, non uerba sed casus uerborum sunt.  Repetendum est igitur ab initio uerbum esse uocem dictum, a genere; significatiuam, ut a non significatiuis uocibus diuidatur; ad placitum, ut ab illis quae natura sunt significatiuae uocibus separetur: cum tempore, ut a nomine diuideretur; praesens aliquid significare, ut a uerbi casibus disiungeretur; finita, ut ab infinitis disterminaretur.  Restat ergo nunc quid sit oratio dicere. Haec enim ex nomine et uerbo componi uidetur: sed prius utrum nomen et uerbum solae partes orationis sint consideremus, an etiam aliae sex, ut grammaticorum opinio fert, an aliquae ex his in uerbi et nominis iura uertantur; quod nisi prius constitutum sit, tota propositionum ac deinceps ea ipsa quae ex propositionibus componitur syllogismorum ratio titubabit. Nam si ex quo sint genere termini nesciatur, totum ignorabitur. Nomen et uerbum, duae solae partes sunt putandae, caeterae enim non partes sed orationis supplementa sunt: ut enim quadrigarum frena uel lora non partes sed quaedam quodammodo ligaturae sunt et, ut dictum est, supplementa non etiam partes, sic coniunctiones et praepositiones et alia huiusmodi non partes orationis sunt sed quaedam colligamenta. Participium uero quod uocatur, uerbi loco ponetur, quoniam temporis demonstratiuum est. Aduerbium uero nomen est, cuiusdam enim definitae significationis est sine tempore, quod si per casus non flectitur, nihil impedit. Non enim est proprium nominis flecti per casus. Sunt enim quaedam nomina quae flecti non possunt, quae a grammaticis *monoptata* nominantur -- sed hoc grammaticae magis quam huius considerationis est. Oratio est uox designatiua ad placitum, cuius partes aliquid extra significant, ut dictio, non ut affirmatio.  Et est orationi commune cum nomine et uerbo quod VOX est, et DESIGNATIVA, et AD PLACITUM. Cuius enim partes ad placitum sunt, ea quoque ipsa ad placitum est; orationis autem partes sunt nomen et uerbum; sed haec ad placitum; oratio igitur ad placitum est. Termini uero orationis a dialecticis nominantur nomina et uerba. Termini uero dicti sunt, quod usque ad uerbum et nomen resolutio partium orationis fiat, ne quis orationem usque ad syllabas nominum uel uerborum tentet resoluere, quae iam designatiuae non sunt.  Distat autem a nomine uel uerbo oratio quod illis partes extra significant, uerbi et nominis partes nihil extra designant. Est autem dictio unius simplex uocabuli nuncupatio, uel simplex affirmatio. Atque ideo dictum est orationis partes significare ut dictionem id est ut simplicis uocabuli nuncupationem. In oratione enim: Socrates ambulat  utraque extra significat tantum quantum simplex uocabuli nuncupatio designare queat. Quomodo autem ut affirmatio simplex non significet in commentario Perihermeneias explicui. (Quid autem sit affirmatio et negatio paulo post explicabimus.)  Sunt uero species orationis in angustissima diuisione quinque. Interrogatiua, ut: Putasne anima immortalis est?  Imperatiua, ut: Accipe codicem!  Optatiua uel deprecatiua, ut: Faciat Deus. Vocatiua, ut: Adesto Deus.  Enuntiatiua, ut: Socrates ambulat  sed in illis quatuor nulla neque ueritas est, neque falsistas Enuntiatiua uero sola aut uerum aut falsum continet. Atque hinc propositiones oriuntur.  Enuntiatio autem in duas partes secabitur, in affirmationem et negationem. Affirmatio est enuntiatio alicuius ad aliquid. Negatio est enuntiatio alicuius ab aliquo. Et est affirmatio, ut puta: Plato philosophus est. Negatio: Plato philosophus non est. Affirmatio enim ad Platonem philosophiam enuntiat aliquam, id est Platonem esse philosopbum. Negatio uero ab aliquo Platone aliquam pbilosophiam enuntiando tollit, id est enuntiat Platonem non esse philosophum. Enuntiatiuarum igitur orationum aliae sunt simplices, aliae non simplices. Simplices sunt ut si dicas: Dies est. Lux est.  Non simplices ut: Si dies est lux est.  Affirmationes uero simplices et negationes, aliae sunt uniuersales, aliae sunt particulares, aliae indefinitae. Uniuersales sunt quae aut omne affirmant ut: Omnis homo animal est  aut omne negant, ut: Nullus homo animal est  Particulares uero quae aliquem affirmant uel aliquem negant, ut: Aliquis homo animal est. Aliquis homo animal non est  indefinitae uero quae neque uniuersaliter affirmant aut negant, neque particulariter, ut: Homo animal est. Homo animal non est  Diuiditur autem simplex propositio in duas partes: in subiectum et praedicatum, ut: Homo animal est  'homo' subiectum est, 'animal' uero de homine praedicatur. Hae autem partes termini nominantur. Quos definimus sic: Termini sunt partes simplicis propositionis in quibus diuiditur principaliter propositio. Est enim simplicis propositionis uniuersalis secunda diuisio, ut sit in propositione:  Omnis homo animal est  'omnis homo' unus terminus, alius uero 'animal est'. Sed hoc secundo loco, illud uero principaliter. Nam primi termini sunt subiectum et praedicatum. 'Est' enim et 'non est', non magis termini sunt quam affirmationis uel negationis designatiua sunt, et 'omnis' uel 'nullus' uel 'aliquis' non magis sunt termini quam definitionum, utrum particulariter an uniuersaliter dictum sit, designatiua sunt.  Diuiditur ergo, ut dictum est, propositio in id quod subiectum est, et in id quod praedicatur. Dico autem subiectum, ut in: Omnis homo animal est  propositione hominem, id uero quod pradicatur dico animal, et semper quod praedicatur, aut abundat et superest sub#ecto, aut aequatur. Minus autem praedicatum a subiecto nunquam reperietur. Sed id quod diximus diuersis demonstremus exemplis. Subiecto praedicatum abundat quoties genus aliquod de aliquo praedicatur, ut si dicas: Omnis homo animal est  Non enim potes conuertere, ut dicas: Omne animal homo est  quia animal ab homine plus est et abundat. Aequatur autem praedicatum subiecto quoties proprium quoddam cuipiam praedicatur, ut: Omnis homo risibile est  potes conuertere: Omne risibile homo est  ut autem minus sit id quod praedicatur, fieri nequit. Dicitur etiam praecedere pracdicatum, sequi quod subiectum est. Idonior est enim praedicatio constituere propositionem, quam id quod subiectum est.  Simplicium autem propositionum aliae sunt in nullo sibi participantes ut sunt: Omnis homo animal est  et: Virtus bona est  et aliae huiusmodi propositiones, aliae uero quae participant. Participantium aliae sunt quae in utroque termino participant, aliae quae in altero, et quae altero termino participant tribus modis, utroque uero duobus.  Ostendamus ergo exemplis quomodo altero tribus modis participant. Communis enim terminus est, cum in una subiectus sit, in altera praedicatus, ut est: Omnis homo animal est  et: Omne animal animatum.  In priore enim propositione animal praedicatur ad hominem, in posteriore praedicatur ad animal animatum, et fit animal subiectum. Et est hic primus modus de eis qua altero termino participant.  Secundus uero modus est in quo in utrisque communis terminus praedicatur, ut si quis dicat: Omnis nix est candida  et: Omnis margarita est candida.  Etenim in prima et secunda propositione candida praedicatur, in prima ad niuem, in secunda ad margaritam. Et est hic secundus modus altero termino participantium.  Tertius uero modus est, quoties in utrisque propositionibus cornmunis terminus subiectus est, ut si dices: Virtus bonum est Virtus iustum est  In utrisque enim ad iustum et ad bonum uirtus subiectum est.  Sunt igitur participantes alterum terminum his tribus modis, aut cum in una communis terminus praedicatur, in illa subiectus est; aut cum in utrisque praedicatur; aut cum in utrisque subiectus est.  Earum uero quae ad utrosque participant terminos duo sunt modi. Aliae enim ad eumdem ordinem, aliae ad ordinis commutationem. Ad eumdem sunt quae de eodem idem demonstrant, uel affirmatiue uel negatiue, uel uniuersaliter aliter uel particulariter: Omnis uoluptas bonum est. Nulla uoluptas bonum est  et rursus particulariter: Quaedam uoluptas bonum est. Quaedam uoluptas bonum non est.  Ad ordinis uero commutationem sunt quoties qui in altera subiectus est terminus, in alia praedicatur ut: Omne bonum iustum est  et: Omne iustum bonum.  Nam in priore bonum subiectum est, iustum praedicatum, in secunda iustum subiectum est, bonum praedicatum. Nunc ergo quoniam aliae ad eumdem ordinem, aliae ad ordinis commutationem sunt, prius dicemus de his quae ad eumdem ordinem utroque termino participant. Et quoniam sunt propositiones, aliae affirmatiuae aliae negatiuae; aliae uniuersales aliae particulares aliae indefinitae: -- duae sunt ex his quae qualitate differunt, tres quae quantitate. Et sunt quae qualitate differunt affirmatiua et negatiua; ad quantitatem quae uero differunt, sunt uniuersalis, particularis, et indefinita.  In affirmatiuis enim et negatiuis quale quid sit aut non sit ostenditur. In uniuersali particulari et indefinita de omnium uel nullorum uel nonnullorum quantitate monstratur. Ex his ergo quinque differentiis, id est uniuersali, particulari, indefinita, affirmatiua, negatiua, sex coniunctiones fiunt, ita ut tribus quae ad quantitatem dicuntur duae quae ad qualitatem dicuntur aptentur, et fit uniuersalis affirmatiua, et uniuersalis negatiua, ut: Omnis homo iustus est. Nullus homo iustus est  et particularis affirmatiua, et particularis negatiua, ut: Quidam homo iustus est. Quidam homo iustus non est  et indefinita affirmatiua et negatiua, ut: Homo iustus est. Homo iustus non est  fiunt ergo ex duabus quae sunt ad qualitatem, tribus quae sunt ad quantitatem iunctis, sex coniunctiones, de quibus indefinitas, affirmatiuas et negatiuas separemus, et de solis uniuersalibus et particularibus tractatus habeatur.  Subscribantur etiam earum participantium quae ad eumdem ordinem utroque termino participant, duae uniuersales propositiones, una affirmatiua, et altera negatiua, et sit affirmatiua uniuersalis: Omnis homo iustus est  et contra ipsam uniuersalis negatiua: Nullus homo iustus est.  Item sub his ponantur particularis affirmatio et particularis negatio, ita ut sub uniuersali affirmatiua ponatur particularis affirmatiua, et sub uniuersali negatiua ponatur particularis negatiua, et sit particuiaris affirmatiua: Quidam homo iustus est  et contra ipsam particularis negatiua: Quidam homo iustus non est  quod demonstrat sequens descriptio. In superiori igitur descriptione uniuersalis affirmatiua et uniuersalis negutiua contrariae sunt, subcontrariae uero particularis affirmatiua et particularis negatiua, subalternae uero dicuntur uniuersalis affirmatiua et particularis affirmatiua, et item uniuersalis negatiua et particularis negatiua. Contraiacentes sunt angulares, id est uniuersalis affirmatiua et particularis negatiua. Et item uniuersalis negatiua et particularis affirmatiua, ut: Omnis homo iustus est. Quidam homo iustus non est. Nullus homo iustus est. Quidam homo iustus est  et sunt ut hoc modo definiri possint. Contrariae sunt quae uniuersaliter eidem idem haec affirmat, haec negat. Subcontrariae sunt quae particulariter eidem idem haec affirmat, haec negat. Subalternae sunt quae eidem idem affirmant uel negant, haec particulariter, illa uniuersaliter. Contraiacentes sunt quando eidem eamdem rem haec affirmat, haec negat, uel haec negat, haec affirmat, illa generaliter, haec particulariter, et uocantur contrariae, quis quod affirmatio uniuersaliter ponit negatio uniuersaliter tollit. Subalternae uero, quoniam quod illa uniuersaliter ponit, etiam haec particulariter ponit. Subcontrariae uero dictae sunt, uel quod naturaliter sub ipsis contrariis positae sunt, ut descriptio docet, uel quod a contrariis diuersae sunt, et ipsis contrariis quodammodo contrariae. Nam contraria, ut utraeque simul sint fieri non potest, ut utraeque omnino non sint fieri potest, contrariam uim obtinebunt subcontrariae. Nam ut utraeque omnino non sint fieri non potest, ut utraeque simul sint fieri potest, quod in sequentibus melius explicabitur. Contraiacentes dicuntur, quoniam uniuersalis affirmatio uel negatio, particularem affirmationem uel negationem angulariter respiciunt.  Cum autem singulae propositiones habeant duas differentias, unam ad qualitatem, alteram ad quantitatem, ut quae uniuersalis, affirmatiua est, habeat differentiam ad quantitatem quod uniuersalis est, et aliam ad qualitatem quod affirmatiua est; eodem modo caeterae propositiones binas habeant differentias, unam secundum qualitatem, alteram secundum quantitatem.  Subalternae quae sunt, una tantum differentia distant quantitatis, quod haec particularis, illa uniuersalia est. Nam qualitatis differentiam nullam retinent. Utraeque enim affirmatiuae sunt. Hae uero aliae, id est contrariae et subcontrariae ad qualitatem, quod illa affirmatiua, illa negatiua est, nam ad quantitatem nihil differunt. Utraeque enim contrariae uniuersales, utraeque subcontrariae particulares sunt, illae autem quae contraiacentes dicuntur utrisque differentiis differunt. Nam et illa uniuersalis affirmatio est, haec particularis negatio, et illa uniuersalis negatio, est, haec particularis affirmatio.  Nunc quoniam quae secundum qualitatem uel secundum quantitatem et quomodo differant dictum est, earum proprietates, qus secundum uerum falsumque sunt, explicemus.  Igitur earum quae subalternae sunt, si fuerit uera uniuersalis affirmatio uera erit particularis affirmatio. Si enim: Omnis homo iustus est  uera est, uera erit etiam quae dicit: Aliquis homo iustus est.  Nam si omnis homo iustus est, et quidam. Eodem modo negatiuae subalternae nam si uniuersalis negatiua uera fuerit, erit etiam uera negatiua particularis, ut si: Nullus homo iustus est  uera fuerit, etiam erit uera: Quidam homo iustus non est.  Nam si nullus homo iustus est, nec quidam. Conuerti autem non potest, nam si particularis uera fuerit, non necesse erit ueram esse etiam uniuersalem. Ut si: Quidam homo iustus est  uera fuerit, non necesse erit ueram esse: Omnis homo iustus est.  Possunt enim esse non omnes. Et eodem modo de negatiua. Nam si particularis negatiua uera fuerit, ut est: Quidam homo non est iustus  non necesse erit uniuersalem: Nullus homo iustus est  ueram esse. Potest enim fieri ut quidam iusti sint.  Ergo dicamus in subalternis propositionibes si uniuersales uerae sint, ueras esse necesse est particulares sed non conuertitur. Nam si particulares uerae fuerint non necesse est ueras etiam uniuersales esse.  Particulares uero ad uniuersales contrariam conuersionem habent. Nam ut superius si uniuersales uerae essent, etiam particulares uerae essent; et si particulares uerae essent, non omnino uere essent etiam uniuersales in particularibas; si particulares falsae fuerint, falsae erunt etiam uniuersales. Nam si particularis: Quidam homo iustus est  falsa fuerit, uniuersalis etiam: Omnis homo iustus est  falsa erit. Nam si quidam homo iustus est falsa est, uera est nullus homo iustus est. Si uera est: Nullus homo iustus est  falsa est: Omnis homo iustus est.  Falsa igitur particulari, falsa erit uniuersalis.  Item si negatiua particularis falsa fuerit, quae est: Quidam homo iustus non est  falsa erit etiam: Nullus homo iustus est.  Nam si falsum est quia quidam homo iustus non est, uera est quia omnis homo iustus est. Si uera est haec, falsa est: Nullus homo iustus est  falsa igitur particulari, falsa erit etiam uniuersalis. Sed non conuertitur, ut si uniuersales falsae sint, falsas necesse sit esse particulares: nam si uniuersalis: Omnis homo iustus est  falsa fuerit, non necesse est particularem: Quidam homo iustus est  falsam esse. Potest enim fieri ut si omnis homo iustus non fuerit, sit quidam iustus. Et item si uniuersalis negatiua: Nullus homo iustus est  falsa fuerit, non necesse erit: Quidam homo non est iustus  falsam esse. Nam si falsa est nullus homo iustus est, uerum est esse aliquos iustos, uera est etiam quae dicit: Quidam homo iustus non est  quod sint quidam etiam non iusti.  Repetens igitur a capite dicat quod in subalternis. Si uniuersales uerae fuerint, uerae erunt etiam particulares. Sed non conuertitur. Item si particularea falsae fuerint, falsae erunt etiam uniuersales; sed non conuertitur, contrariae uero simul eese uerae nunquam possunt. Potest autem fieri ut alias utraeque falsae sint, alias una uera, altera falsa. Utraeque falsae sunt, ut si quis dicat: Omnis homo grammaticus est  falsa est, nam non omnis; et: Nullus homo grammaticus est  falsa est, nam non nullus; est autem una uera, altera alsa, ut si quis dicat: Omnis homo bipes est  haec affirmatiua uera est; Nullus homo bipes est  haec negatiua falsa est. Et item: Omnis homo quadrupes est  haec affirmatiua falsa est; Nullus homo quadrupes est  haec negatiua uera est. Sunt ergo contrariae aliquoties utraeque falsae, aliquoties inter se uerum falsumque diuidentes; ut utraeque autem uerae sint fieri nunquam potest, subcontrariae uero contraria patiuntur. Nam falsae nunquam reperiri queunt. Sed alias uerae utraeque sunt, ut est: Quidam homo grammaticus est  uera est, et: Quidam homo grammaticus non est  etiam haec uera est. Potest enim alius esse grammaticus et alius non esse. Alias una uera est, altera falsa. Vera est enim affirmatio: Quidam homo bipes est  falsa est autem negatio: Quidam homo bipes non est.  Item falsa est affirmatio: Quidam homo quadrupes est  uera est negatio: Quidam homo quadrupes non est  ut uero utraeque falsae sint fieri nunquam potest.  Restat igitur ut de contreiacentibus dicamus, quae neque falsae simul aliquando esse possunt neque uerae sed semper una uera est, altera falsa, quod facilius liquet, si quis sibi quaecumque fingat exempla.  Res admonet ut quaedam de indefinitis propositionibus consideremus. Indefinitae etenim propositiones aequam uim retinent particularibus propositionibus. Dictum est enim quod si uniuersales uel affirmatiuae uel negatiuae in subalternis propositionibus essent uerae, essent quoque uerae particulares. Nunc uero dicimus quod si uniuersalis propositiones uerae fuerint, uerae erunt etiam indefinitas. Nam si uera est: Omnis homo bipes est  uera est etiam:  Quidam homo bipes est  uera erit etiam indefinita quae dicit: Homo bipes est.  Item dictum est quod si particulares falsae essent, falsae essent etiam uniuersales, nunc uero dicendum est quod si indefinita falsa fuerit, falsa erit etiam uniuersalis. Nam si falsa est quae dicit: Homo quadrupes est  falsa erit etiam quae dicit: Quidam homo quadrupes est  et: Omnis homo quadrupes est.  Atque idem hoc etiam in negatiuis conuenire uidetur. Unde constat quod omnes indefinitae particularibus propositionibus aequam uim continent.  Rursus dictum est quod subcontrariae, quae particulares affirmatiuae et negatiuae sunt, simul uerae esse possunt, diuidere etiam uerum falsumque ualent, simul uero falsae esse non posse. Hoc idem in indefinitis propositionibus exspectandum est. Nam diuidunt inter se uerum falsumque, ut si quis dicat: Homo bipes est  uera est; Homo bipes non est  falsa est, et item: Homo quadrupes est  falsa est; Homo quadrupes non est  uera est; uerae autem simul inueniri possunt, ut si quis dicat: Homo grammaticus est  si quis hoc dicat de Donato, uerum est. Item: Homo grammaticus non est  si quis hoc dicat de Catone, uerum est, ut simul falsae sint nunquam reperiemus. Hinc quoque ostenditur indefinitas cum particularibus aequali esse potentia.  Amplius quod dictum est, contraiacentes, id est uniuersalem affirmatiuam et particularem negatiuam, et item uniuersalem negatiuam et particularem affirmatiuam neque ueras simul esse neque falsas sed inter se diuidere uerum falsumque, hoc idem euenit in indefinitis.  Nam uniuersalis affirmatiua et indefinita negatiua, uel uniuersalis negatiua et indefinita affirmatiua, neque uerae simul esse possunt, neque simul falsae. Diuiduntur autem inter se uerum falsumque: nam si dixeris: Omnis homo bipes est  uera est; et si dicas: Homo bipes non est  falsa est. Item si dixeris: Homo quadrupes est  falsa est, si dixeris, Nullus homo quadrupes est  uera est: unde hinc quoque colligere licet omnes indefinitas potestate et ui aequales esse particularibus. Sunt etiam quaedam propositiones quae diuidunt quidem et ipsae uerum et falsum, ut: Deus fulminat. Deus non fulminat.  Sed istae tunc diuidunt inter se uerum et falsum, cum idem tempus, idem subiectum, idem praedicatum sit. Quod autem dico tale est, si aequiuocum subiectum fuerit, non diuidunt uerum et falsum. Si quis enim dicat:Cato se Uticae occidit  et respondeatur: Cato se Uticae non occidit  utraeque uerae sunt. Nam et Cato Minor se peremit, et Cato Censorius se Uticae non occidit. Sed hoc idcirco euenit, quod Catonis nomen aequiuoce dicitur, dicitur enim et Maior Cato Censorius, et Minor Uticensis. Item si aequiuoca fuerit in propositione praedicatio, uerum inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Si quis enim sic dicat: In nocte lucet  et respondeatur: In nocte non lucet  fieri potest ut utraeque uerae sint. Nam in nocte lucerna lucere potest, et sol lucere non potest: hoc ideo euenit quia lucere aequiuoce et ad lucernae lumen et ad solis dicitur.  Amplius si aliud est aliud in subiectis et praedicatis tempus fuerit, uerum falsumque inter se affirmatio negatioque non diuidunt. Nam si quis dicat: Socrates ambulat  et respondeatur: Socrates non ambulat  possunt utraeque uerae esse, potest enim fieri ut Socrates alio tempore ambulet, alio tempore non ambulet; sed aut stet aut sedeat, aut quodlibet aliud: in talibus ergo propositionibus quales sunt: Socrate ambulat. Socrates non ambulat  illae inter se uerum falsumque diuidunt quae ad idem subiectum, ad idem praedicatum, ad idem tempus dicuntur.  Sunt etiam aliae quae contradictoriae uocantur, quae sunt huiusmodi, quoties affirmationem uniuersalem tollit negatio particularis: Omnis homo iustus est. Non omnis homo iustus est  et rursus: Nullus homo iustus est  et:  Quidam homo iustus est  in his enim uniuersalis determinatio tollitur. Sed de his alias.  Et quoniam dictum est de his quae eodem ordine participant, dicamus nunc de his quae ordinis commutatione participant. Harum quoque propositionum quae ad comnmutationem ordinis participant duplex modus est. Est enim per contrapositionem conuersio, ut si dicas: Omnis homo animal est Omne non animal non homo est  simplex conuersio est, ut si dicas: Omnis homo <est> risibile  et conuertas: Omne risibile est homo  sed in illis terminorum tantum commutatio conuersionem facit, in quibus neque praedictum subiecto, neque subiectum praedicato abundat. In hac enim propositione quae dicit: Omnis homo est risibile  homo subiectum, risibile praedicatum, aequam uim habet, et ideo conuerti potest ut si risibile subiectum et homo praedicatum, et dicatur omne risibile homo. In quibus uero unus terminus alio abundauerit, conuerti propositio non potest. Nam si dicas: Omnis homo animal est  uera est; non tamen potest ueri ut conuersa haec propositio terminis commutatis uera sit: falsum est enim dicere: Omne animal homo est.  Sed hoc cur euenit? Quia homine animal abundat.  Illa uero conuersio, quae per contrapositionem fit hoc modo fit quoties in affirmatiua subiectum fuerit, idem mutatum et factum praedicatum ad negatiuam particulam ponitur, ut est: Omnis homo animal est.  Hic homo subiectum est et ad hoc animal praedicatur. Si uero quis per contrapositionem conuertat, et faciat animal subiectum hominem praedicatum, et ad hominem particulam negatiuam ponat, hoc modo faciet: Omne non animal non homo est  et erit ista conuersio: Omnis homo animal est. Omne non animal non homo est.  Sed de his posterius tractabimus.  Nunc ad simplices reuertamur. Cum sint igitur quatuor propositiones quarum quae uniuersales sunt, id est affirmatiua et negatiua, duae uero particulares, id est affirmatiua et negatiua, particularis affirmatiua, et uniuersalis negatiua commutatis terminis sibi ipsa conuertitur. Conuertuntur autem illae ut dictum est quoties, commutatis terminis, uel simul uerae sunt, uel simul falsae. Nam si quis dicat: Quidam homo animal est  uera est. Conuersio uero eius: Quoddam animal homo est  uera est. Item: Quidam homo lapis est  falsa est, quemadmodum et eius conuersio: Quidam lapis homo est  nam et ista falsa est. Est igitur particularis affirmatiua quae commutatis terminis sibi ipsa conuertitur. Idem uere patitur uniuersalis negatio. Si quis enim dicat: Nullus homo lapis est  uera est, et potest conuerti: Nullus lapis homo est  nam et ista uera est. Item: Nullus homo rhetor est  falsa est, et eius conuersio: Nullus rhetor homo est  falsa est. In quatuor igitur his propositionibus quae tantum contraiacentes sibi ipsae conuertuntur, id est particularis affirmatio et uniuersalis negatio. Aliae uero duae sibi ipsis non conuertuntur. Nam neque uniuersalis affirmatio, neque particul&ris negatio sibi ipsa conuertitur. Si quis enim dicat: Omnis homo animal est  uera est. Si quis uero conuertat:  Omne animal homo est  falsum est. Non igitur sibi ipsi conuerti potest, quoniam conuersa prioris ueritatem non recipit. Neque uero particularis negatio sibi conuertitur. Nam si quis dicat: Quidam homo grammaticus non est  uera est; si uero conuertat: Quidam grammaticus homo non est  falsa est: omnis enim grammaticus homo est.  Repetendum est igitur a capite quod cum quatuor propositiones sint, affirmatio uniuersalis, negatio uniuersalis, affirmatio particularis, negatio particularis, particularis affirmatio et uniuersalis, negatio quae contraiacentes sunt, sibi ipsis conuerti possunt. Uniuersalis uero affirmatio et particularis negatio, quae ipsae contraiacentes sunt, nunquam possunt sibi ipsis conuerti. Nec hoc nos turbet quod quaedam affirmationes uniuersales et quaedam particulares negationes conuerti possunt. Potest enim dici: Omnis homo risibilis est  Omne risibile homo est  et utraeque uerae sunt. Et item: Omnis homo hinnibilis est  falsa est; et: Omne hinnibile homo est  et haec quoque falsa est. Item in particulari negatione: Quidam homo non est lapis  uera est; et: Quidam lapis non est homo  uera est. Item: Quidam homo non est risibile  falsa est; Quoddam risibile homo non est  et haec quoque falsa est. Ergo uidentur posse uniuersales affirmationes et particulares negationes conuerti, et conuertuntur quidem sed non uniuersaliter.  Generaliter autem dico propositiones posse conuerti, quoties uniuersaliter, id est in omnibus conuertuntur. Istae autem in duabus solis materiebus conuerti possunt. Si quis enim proprium cuiuslibet speciei ad ipsam speciem cuius est proprium uelut ad subiectum praedicet, potest conuertere. Nam quia risibile proprium est homini, si praedices risibile, et subiicias hominem, ut est: Omnis homo risibile est  potes iterum subiicere risibile et hominem praedicare, ut si dicas: Omne risibile est homo.  In illis uero simul falsae sunt generalium affirmationum conuersiones, in quibus id quod praedicatur ad subiectum nullo tempore uere dici potest, ut si quis dicat: Omnis homo lapis est  falsa est. Et iterum: Omnis lapis homo est  falsa est haec, quoniam nullo tempore neque homo lapis est, neque lapis homo uere praedicabitur. In particularibus negatiuis contrarium est; nam aut falsae sunt, cum proprium subiectum est aut praedicatum, ut si quis dicat: Quidam homo risibile non est  falsum est. Item: Quoddam risibile homo non est  et haec quoque falsa est. In illis uerae sunt, quando id quod affirmando nullo tempore uere praedicari potest ad subiectum praedicant, ut si dicas: Quidam homo lapis non est  uera est. Iterum: Quidam lapis homo non est  uera est. Ergo uniuersales affirmationes tum sibi conuertuntur ut uerae sint cum proprium praedicant, tum sibi conuertunturut falsae sint cum id quod nullo tempore adsubiectum uere dici poterit praedicatur. Item in particularibus negatiuis, tum falsae sunt, cum proprium praedicant, tum uerae, cum id quod nullo tempore uere dici poterit praedicant. In his ergo solae conuerti possunt. In aliis uero conuerti non possunt. Atque ideo uniuersaliter non conuertuntur; remanet ergo ut in aliis rebus omnibus, ut superius dictum est, non conuertantur.  Hoc uero perpiciendum est, quod particularis affirmatioque sibi ipsi conuertitur, uniuersali affirmationi, quae sibi non conuertitur, per accidens conuerti potest. Et item contraiacens uniuersali affirmationi particularis negatio, quae sibi ipsi non conuertitur, conuerti potest per accidens negationi uniuersali, quae sibi ipsi conuertitur. Sed quomodo particularis affirmatio et uniuersalis negatio sibi ipsis conuertantur ostendimus.  Nunc uero quomodo particularis affirmatio uniuersali affirmationi per accidens, uel quomodo particularis negatio uniuersali negationi per accidens couertantur, demonstrandum est. Dictum est superius quod si uera est uniuersalis affirmatio, uera est etiam particularis, et sequeretur particularis uniuersalem. Nam si uera est: Omnis homo animal est  uera est etiam: Quidam homo animal est.  Si enim omnis, et quidam; sed particularis affirmatio sibi ipsi conuertitur, conuertitur etiam uniuersali affirmationi. Nam si omnis homo animal est, et quidam homo animal est. Sed ista sibi conuertitur hoc modo, si dicas: Quidam homo animal est  potest igitur conuerti ad: Omnis homo animal est  uniuersalem affirmationem particularis affirmatio, quae est: Quidam homo animal est  et conuertitur, ut si dicas: Quoddam animal homo est  utraeque enim uerae sunt -- et quae dicit: Omnis homo animal est  et quae dicit: Quoddam animal homo est  per accidens autem conuerti dicitur particularis affirmatio uniuersali affirmationi, qui particularis affirmatio sibi ipsi principaliter conuertitur, secundo uero loco uniuersali affirmationi conuertitur.  Restat igitur ut hoc monstremus: quomodo particularis negatio quae sibi non conuertitur uniuersali negationi quae sibi conuertitur per accidens conuertatur, et hic eadem ratio est. Nam quoniam uniuersalis negatio si uera est, uera est etiam particularis, uniuersalis uero negatio sibi ipsa conuertitur potest uniuersali negationi conuersae particularis conuerti negatio. Age enim uniuersalem negationem, id est:. Nullus homo hinnibilis est  conuertamus, ut sit: Nullum hinnibile homo est. Sed istam propositionem, id est uniuersalem negatiuam quae est: Nullus homo hinnibilis est  sequitur particularis negatio quae est: Quidam homo non est hinnibilis.  Conuerte igitur uniuersalem quae est: Nullus homo hinnibilis est  et fac: Nullum hinnibile homo est  conuerte huic particularem negationem quae est: Quidam homo non est hinnibilis  et fac: Quoddam hinnibile non est homo  utraeque uerae sunt. Nam et: Nullum hinnibile homo est  quae est uniuersalis conuersio negationis, uera est, et: Quoddam hinnibile non est homo  quae conuersio particularis negationis est. Cur autem per accidens conuerti dicatur, superius dictum est. Liquet ergo talis per accidens conuersio: quod igitur habet uniuersalis affirmatio, hoc habet etiam contraiacens particularis negatio, utraeque enim sibi conuerti non possunt; quod autem habet uniuersalis negatio, hoo habet et ei contraiacens affirmatio particularis, utraeque enim sibi conuerti possunt. Iunctae ergo quae sibi conuerti possunt, et quae sibi conuerti non possunt, ut quae sibi conuerti potest iungatur ei quae sibi conuerti non potest, et quae sibi conuerti non potest iungatur ei quae sibi conuerti potest, faciunt per accidens conuersiones quae superius demonstratae sunt.  Restat ut de his conuersionibus dicamus quae per contrapositionem fiunt, et primum earum sit dispositio in descriptione subiecta, generalis enim affirmationis quae dicit: Omnis homo animal est  conuersio per contrapositionem est quae dicit:  Omne non animal non homo est.  Item generalis negationis quae dicit: Nullus homo animal est  conuersio per contrapositionem est: Nullum non animal non homo est.  Item particularis affirmationis quae dicit: Quidam homo animal est  conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam non animal non homo est.  Item particularis negationis quae dicit: Quidam homo animal non est  conuersio per contrapositionem est quae dicit: Quoddam non animal non homo est  quod demonstrat subiecta descriptio: Omnis homo animal est Omne non animal non homo est    Nullus homo animal est. Nullum non animal non homo est. Quidam homo animal est Quoddam non animal non homo est Quidam homo animal non est    Quoddam non animal non homo non est. His ergo ita positis, quomodo dictum est superius in simplici terminorum conuersione, quod particularis affirmatio et generalis negatio sibi ipsis conuerterentur, generalis uero affirmatio et particularis negatio sibi ipsis non conuerterentur, hic in per contrapositionem conuersionibus contra est. Nam generalis affirmatio per contrapositionem sibi ipsa conuertitur, et particularis negatio sibi ipsi conuertitur. Generalis uero negatio et particularis affirmatio per contrapositionem sibi non conuertuntur.  Quod ita esse his exemplis probabimus. Si enim uera sit affirmatio generalis quae dicit: Omnis homo animal est  uera erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Omne non animal non homo est.  Quod enim animal non fuerit, id homo non erit. Et si falsa fuerit generalis affirmatio quae dicit: Omne animal homo est  falsa erit etiam eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Omnis non homo non animal est  potest enim fieri ut quod homo non est, animal sit. Illa enim negat esse animal quod homo non fuerit. Quod si cum uera est generalis affirmatiua, uera est eius per contrapositionem conuersio, et si cum falsa est generalis affirmatio, falsa est eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin generalis affirmatio possit sibi ipsa conuerti.  Item nunc ostendendum est quomodo particularis negatio sibi ipsi per contrapositionem conuertitur. Nam si falsa est quae dicit: Quidam homo animal non est  falsa eius erit etiam per contrapositionem conuersio quae dicit: Quoddam non animal non homo est.  Hoc enim uidetur haec propositio dicere, ac si diceret: Quaedam res quae animal non est homo est, qui enim dicit: Non homo non est  hominem esse significat quod animal non sit. Hoc uero aperte falsum est, omnis enim homo animal est, et si uera fuerit particularis negatio quae dicit: Quoddam animal homo non est  uera erit et eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Quidam non homo non animal non est. Aequale est enim ac si diceret: Res quae homo non est non est non animal sed est animal, ut equus et bos homo non est, et non est non animal.  Ergo si cum particularis negatio falsa est, falsa est etiam eius per compositionem conuersio, et si cum particularis negatio uera est, uera est eius per contrapositionem conuersio, non est dubium quin particularis negatio possit per contrapositionem sibi ipsa conuerti.  Nunc quoniam ostensum generalem affirmatiuam et particularem negatiuam, per contrapositionem sibi posse conuerti, ostendamus generalem negatiuam et particularem affirmatiuam per contrapositionem sibi non posse conuerti.  Et prius de generali negatione dicendum est. Nam si generalis negatio uera est, non necesse erit per contrapositionem sibi conuersam ueram esse. Sed si falsa fuerit et per contrapositionem sibi conuersam falsam esse necesse est. Nam si falsa est quae dicit: Nullus homo animal est  falsa erit fortasse eius per contrapositionem conuersio, quae dicit: Nullum non animal non homo est.  Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae non sit animal et sit non homo, quod est omnis res quae animam non habet homo est, quod aperte falsum est. Item si uera fuerit generalis negatio, falsa erit eius per contrapositionem conuersio. Nam si uera est quae dicit: Nullus homo est lapis  falsa erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Nullus non lapis non homo est.  Aequale est enim ac si dicat: Nulla res est quae cum non sit lapis non homo sit, quod est omnis res quaecumque lapis non fuerit homo est, quod falsum est. Innumerabilia enim inuenies quae non sunt lapides, et non homines non sunt; ergo quoniam si generalis negatio falsa fuerit, Falsa est eius per contrapositionem conuersio, uel si eadem uera fuerit, falsa erit eius per contrapositionem conuersio, non est dubium generalem negationem sibi non posse conuerti, quod enim in aliquo fallit, generaliter colligi non potest.  Restat igitur ut id quod reliquum est monstremus, particularem affirmationem per contrapositionem sibi non posse conuerti. Cum enim fuerit particularis affirmatio uera, uera erit eius etiam per contrapositionem conuersio. Nam si uera est quae dicit: Quidam homo animal est  uera est eius per contrapositionem conuersio:  Quoddam non animal non homo est.  Aequale est enim ac si dicat: Quaedam res quae animam non habet homo non est, quod uerum est. Lapis enim animam non habet, et tamen homo non est. Item si particularis affirmatio quae dicit: Quidam lapis homo est  falsa est, uera erit eius per contrapositionem conuersio quae dicit: Quidam non homo non lapis est.  Aequale est enim ac si diceret: Quaedam res quae homo non fuerit lapis non est, quod uerum est. Equus enim homo non est, et tamen lapis non est. Ergo si cum in quibusdam particularis affirmatio uera fuerit, uera erit eius per contrapositionem conuersio, et si cum in quibusdam falsa fuerit particularis affirmatio, uera erit eius per contrapositionem conuersio, non est dubium particulares affirmationes per contrapositionem sibi non posse conuerti. Generalis enim negatio et particularis affirmatio, quae contraiacentes sunt, in per contrapositionem conuersionibus contraria patiuntur. Nam in generalibus negatiuis siue generales negatiuae uerae fuerint siue falsae per contrapositionem conuersiones semper falsae sunt; in particularibus autem affirmatiuis, siue particularis affirmatio uera fuerit siue falsa, siue per contrapositionem conuersio uera est. Repetendum est igitur a superioribus et confirmandum quod in simplicibus terminorum conuersionibus particularis affirmatio et generalis negatio sibi conuerti possunt. Generales uero affirmatio et particularis negatio sibi conuerti uon possunt. In his uero conuersionibus quae per contrapositionem fiunt, contra est; nam generalis affirmatio et particularis negatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti possunt, generalis uero negatio, et particularis affirmatio per contrapositionem sibi ipsis conuerti non possunt, et generalis negatio et particularis affirmatio quae sunt contraiacentes in ueri falsique distantia (ut demonstratum est), sibi ipsis inuicem contraria patiuntur.  Haec de categoricorum syllogismorum categoricis propositionibus dicta sufficiant. Si qua uero in his praetermissa sunt, in Perihermenias Aristotelis commentario diligentius subtiliusque tractata sunt.  Superioris series uoluminis quod ad categoricorum syllogismorum propositiones attinebat explicuit. Nunc autem, quantum introductionis patitur temperamentum, de ipsa categoricorum syllogismorum ratione tractabitur; et quoniam omnium compositorum firmitudo uel uitium, aut in his maxime reperitur ex quibus est compositum, aut penes bonam malamue compositionem eius laus uituperatioque tenetur: namque domus si fortibus lapidibus debilibusue constructa, ipsa quoque est fortis aut debilis; porro autem si artificis compositionem aequabilem solertemque fuerit nacta, ipsa quoque constructio, merito stabilitatis erit laudabile fundamentum; si uero insolertior compositio fiat, tota quoque quamuis ex bonis ordinata lapidibus, nulla sese gerens fabrica stabilitate nutabit; nos quoque hanc eamdem imaginem secuti, prius de his quibus ipse syllogismus constat, id est propositionibus explicuimus.  Nunc uero de ipsa inter se syllogismorum coniunctione compositioneque tractubimus. Illud uero meminisse debebis, introducendis hic me praestitisse docendis, non introductis.  Et prius quid sit esse in omni uel non esse, paucis ostendam. Si qua enim res alterius generis fuerit, omnem intra se speciem continebit, et in toto species genere illa esse dicetur. Sit enim genus animal, homo uero species. Homo ergo quoniam minus est quam animal, in toto animali esse dicetur. Omnis enim homo animal est. Si quis ergo sic dicat aliquam rem de omni alia re praedicari, conuersa uice nihil interest. Nam sicut in toto animali homo est, sic etiam animal de omni homine praedicatur. In toto uero non esse est, quoties alia res ab alia re omni disiuncta est: ut si dicas: Animal in nullo lapide est  nullum enim animal lapis est; et si dicas: Animal de nullo lapide praedicatur  de nulloenim lapide animal dicitur. Definimus ergo in toto esse, uel in toto non esse sic: in toto esse, uel de omni praedicari dicitur, quoties non potest inueniri aliquid subiecti ad quod illud quod praedicatur dici non possit. Namque nihil hominis inuenitur ad quod animal dici non possit. In toto uero non esse, uel de nullo praedicari dicitur, quoties nihil subiecti poterit inueniri ad quod illud quod praedicatur dici possit. Nihil enim lapidis inueniri potest de quo possit animal praedicari.  Illud sane notandum est, quod esse in toto uersa uice dicitur. Nam si aliquid de omni aliquo praedicatur, illud de quo illud praedicatur in toto illo esse dicitur quod praedicatur, ut animal de omni homine dicitur. Homo uero in toto est, id est uelut quaedam pars intra totum animal latet. Et si quid in alio omni fuerit, in eo toto res illa de quo superius dicebatur esse dicitur, ut idem animal cum in omni sit homine, et de eo omni praedicetur, homo in toto est animali.  His igitur ita positis, quotiescumque ita dicimus, ut litteras pro terminis disponamus, pro breuitate hoc et compendio facimus, id quod per litteras demonstrare uolumus uniuersaliter demonstrarnus. Nam fortasse in terminis aliquibus falsum ingerendum necesse sit. In litteris uero nunquam fallimur, quoniam ad hoo utimur litteris quasi terminos poneremus. In litteris uero ipsis, nisi terminorum coniunctio per se firma ualensque fuerit, ulla neque ueritas, neque falsitas reperietur. Quoties igitur aliud de alio omni predicari uolumus ostendere, sic ponimus. Sit primus terminus a, secundus b, et praedicetur a de omni b. Hoc autem ita accipito tanquam si posuerimus a animal, b hominem. Eodem modo et de negatiuis. Nam si dicamus, a de nullo b praedicatur, tale est ac si dicamus, a, quod est animal, de nullo lapido praedicatur, quod est b, et alia quaecumque eis fuerint consimilia. Omnis autem syllogismus simplex tribus terminis demonstratur atque concluditur.  Sed prius ipsorum syllogismorum figurae aspiciumus, post uero do modis ordinibusque eorum tractabimus.  Tribus igitur terminis ita positis, ut prope se et sibi connexi sint, tres non ultra fieri complexiones necesse est hoc modo: sit enim a, sit b, sit c; aut enim a de b praedicabitur, et b de c, aut certe a et de b praedicabitur et de c, uel iisdem ipsis a et b c terminus uidebitur esse subiectus. Sit enim a bonum, sit b iustum, sit c uirtus, aut enim a, id est bonum erit in omni b, id est iusto, et dicetur: Omne iustum bonum est  et item b iustum in omni c, id est uirtute, et dicetur: Omnis uirtus iusta est.  Et erunt huiusmodi propositiones: Omne iustum bonum est  et: Omnis uirtus iusta est  aut a, id est bonum, de b, quod iustum est, et de c, quod uirtus est, predicabitur, ut sit: Omne iustum bonum est. Omnis uirtus bona est  aut certe a bonum, b iusto, et c uiriuti subiacebit, ut dicatur: Omne bonum iustum est  et:Omne bonum uirtus est.  In hac enim complexione b et c de solo a termino praedicantur. Ubi uero a de omni b termino, et b item predicatur de omni c. Hanc figuram uoco primam quae definitur sic:  Prima figura est in qua is qui subiectus est de alio praedicatur.  Namque b, quod a termino subiectum est, ad c item terminum praedicatur. Extremitates uero dico huius figurae quod praedicatur et quod subiectum est, id est a c. Namque a pradicatur de b termino, c uero terminus b termino subiacet. Medium autem illud uoco quod alii subiacet, et de alio praedicatur, id est b. Nam b terminus a termino subiacet, de c uero termino praedicatur. Maior uero extremitas est, quae prima praedicatur, id est a. Namque idem a de b termino praedicatur. Minor uero quae medio termino subiicitur, id est c, namque c terminus medio termino, id est b, subiecius est; de eo enim b medius terminus dicitur. Maior uero terminus a uocatus est, id est qui praedicatur, quoniam omne praedicatum ab e. de quo praedicatur maius est. Et in conclusionie, sicut in prima propositione, semper a terminus praedicatur, a enim bonum praedicatur de b iusto, et dicitur: Omne iustum bonum est  b uero medius terminus predicatur de c, et dicitur: Omnis uirtus iusta est.  Ex his igitur concluditur in syllogismo: Omnis uirtus bonum est  et a bonum nominabitur de c uirtute, atque ideo maior a nobis extremitas appeliatur.  Id uero meminisse debemus, quod ea quae paria sunt retorqueri possunt, et ad se inuicem praedicari, et sicut id quod predicatur in eo quod subiectum est, omni est, ita rursus conuersum quod fuerit subiectum, in eo quod antea praedicabatur omne erit. Nam si f et g duo termini ita sibi sint aequales, ut neuter neutro maior sit, cum praedicaueris f de omni g, erit f terminus in omni g termino. Si uero conuertas et praedices g terminum de f termino, erit iterum g terminus in omni f termino. Sit enim f risibile, g homo. Ergo si praedices f risibile, et g hominem subiicias, f risibile in omni g inuenitur. Omnis enim homo risibile est. Si uero praedicas g hominem ad f risibile, g homo in omni f risibile reperitur. Omne enim risibile homo est.  Quid autem termini sint, uel quid praedicatio, aut subiecto, priori de propositionibus libro satis dictum est. Sed ne forte erremus quod uidetur uniuersalis affirmatio conuersa. Nam de hoc quoque superius dictum est.  Modo uero hoc solum monstrare uolumus, quod quae sunt in toto paria sola conuertantur. Hoc tamen prodest ad ostensionem syllogismorum quae fit in circulo, quam in Analyticis diximus.  Ac de prima syllogismorum categoricorum figura expeditum est. Secunda uero figura est quoties a terminus de utrisque b et c terminis praedicatur hoc modo: Si enim dicas a bonum de omni b iusto, ut sit hoc modo propositio: Omne iustum bonum est  et inde a bonum de omni c uirtute, ut dicas: Omnis uirtus bonum est  solum a de utrisque b et c terminis praedicasti, et erit haec secunda figura. Medius autem terminus in hac figura erit qui de utrisque praedicatur, id est a. Extremitates uero ea quae subiecta sunt, id est b et c. Maior uero extremitas est de qua primo a terminus appellatur, id est b iustum; uel si ad c primo praedicabitur c terminus maior extremitas inuenitur. Idcirco quod ea extremitas de qua medius terminus primo praedicatur, in conclusione ipsa quoque praedicabitur, ut posterius demonstrandum est. Minor uero extremitas erit ad quod medius terminus posterius praedicabitur.  Tertia uero figura est, quoties a et b termini de ullo c praedicantur. Si quis enim praedicet a, id est bonum de c, id est uirtute, ut sit huiusmodi propositio: Omnis uirtus bonum est  item b praedicetur de c, ut sit: Omnis uirtus iustum est  tertiam figuram facit. In hac uero figura medius terminus erit qui utrisque subiectus est, id est c. Namque de c termino a et b termini praedicantur. Maior uero extremitas est quae primo praedicatur, id est a; minor uero quae postea, id est b; uel si quem libuerit b prius, a posterius praedicare secundum priorem posterioremque praedicationem, maior minorue extremitas inuenietur, et hic quoque maior extremitas in conclusionibus, sicut in superioribus aliis figuris, de minore praedicatur.  Expeditis igitur tribus syllogismorum figuris, dicendum est quia perfectus syllogismus est cui ad integram probatamque conclusionem ex superius sumptis et propositis nihil deest. Sed modo atque ordine facta conclusio nihil dehabens, per ea quae antea proposuit terminatur.  Imperfectus uero syllogismus est cui nihil aeque ad perfectionem deest, uerumtamen in his quae in propositionibus sumpta sunt aliqua desunt cur ita esse uidetur. Sed et hae definitiones omnes posterius liquebunt.  Nunc autem unde hae figurae nascantur breuiter expliicandum est. Quoniam unde nascuntur, in eadem iterum resoluuntur. Sed secunda et tertia figura de prima figura nasci et procreari uidentur. Sit enim a terminus in omni b termino, et de omni eo praedicetur, b uero terminus de omni c termino praedicatur. Haec, ut dictum est, prima syllogismorum figura est. Si quis igitur maiorem extremitatem propositionemque conuertat, et quod fuerat antea praedicatum faciat esse subiectum, secundam faciet figuram. Nam quemadmodum a terminus praedicatur de b termino, ita b de c. Si ergo conuertatur, et fiat b terminus de a termino praedicetur, inuenitur b terminus qui antea medius fuerat, et a termino subiectus, de c uero termino praedicatur ad utrosque terminos praedicatiuus.   Age enim quoniam a bonum de b iusto praedicabatur, b uero iustum de c uirtute praedicabatur, erat propositio: Omne iustum bonum est  Omnis uirtus iusta est  manente propositione quae est: Omnis uirtus iusta est  prima propositio (id est "Omne iustum bonum est") contrauertatur et fiat: Omne bonum iustum est.  Inueniuntur igitur propositiones sic: Omne bonum iustum est. Omnis uirtus iusta est  et iustum, id est b de a et c terminis praedicabitur. Conuersa igitur maiore prioris figurae extremitate, secunda syllogismorum figura procreatur.  Tertia uero figura nascitur, minori propositione conuersa. Nam si a bonum predicatur de b iusto, ut dicatur: Omne iustum bonum est  b uero iustum praedicatur de c uirtute, ut dicatur: Omnis uirtus iusta est  si, priore propositione manente, id est: Omne iustum bonum est  secunda quae est: Omnis uirtus iusta est  conuertatur et fiat: Omne iustum uirtus est  inuenietur omnes propositiones sic: Omne iustum bonum est. Omne iustum uirtus est  et de b iusto a et c termini praedicantur, et fit tertiae figurae connexio. Conuersis igitur primis posterisque extremitatibus primae figure, tertia uel secunda figura nascuntur. At uero unaquaeque harum trium figurarum habet sub se plures syllogismorum modos, ut modi sub figuris ita sint ut sunt species sub suis generibus.  Habet enim prima figura sub se, Aristotele auctore, modos quatuor; sed Theophrastus uel Eudemus super hos quatuor quinque alios modos addunt, Aristolele dante principium in secundo Priorum Analylicorum uolumine, quod melius postmodum explicabitur. Secunda uero figura habet sub se quatuor modos; tertia uero, auctore Aristotele, sex; addunt etiam alii unum, sicut ipse Porphyrius, superiores scilicet sequens.  Et quoniam (ut superiore libro dictum est) aliae propositiones affirmatiuae sunt, aliae negatiuae, et earum aliae uniuersales, aliae uero particulares, secundum eas ipsas, propositiones syllogismorum conclusionesque iunguntur. BARBARA Namque primae figurae primus modus est qui fit ex duabus uniuersalibus affirmatiuis, uniuersalem colligens affirmatiuam. Si enim a termimis fuerit in omni b termino, et si b terminus de omni c termino fuerit praedicatus, a terminus de omni c termino praedicabitur. Namque a bonum si praedicetur de omni b iusto, ut sit:  Omne iustum bonum est  b uero iustum, si de c praedicetur uirtute, ut sit: Omnis uirtus iustum est  necessario concluditur extremitatibus ad se inuicem praedicatis, id est a et c, ut sit: Omnis uirtus bonum est  Sunt igitur huiusmodi propositiones atque conclusio? Si a in omni b fuerit, et b in omni c fuerit, a terminus de omni c praedicabitur, id est: Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;  et conclusio:  Omnis igitur uirtus bonum est  et hic primae figurae primus modus est. CELARENT Secundus uero modus primae figurae est, quoties ex prima uniuersali negatiua et secunda uniuersali affirmatiua conclusio uniuersali negatione colligitur. Si enim sit a malum, b bonum, c iustum, a terminus de nullo b termino praedicabitur. Nullum enim bonum malum est, b uero terminus de omni c termino praedicabitur, omne enim iustum bonum est. Quare colligitur, nullum iustum malum est, ut est hoc modo: Si a terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de omni c fuerit praedicatus, a terminus de nullo c praedicabitur, ut est:  Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum est. DARII Tertius uero modus primae figurae est, quoties ex uniuersali affirmatiua, et particulari affirmatiua, particularis affirmatiua colligitur. Nam si a uirtus de omni b, id est bono, praedicetur, et b bonum de quodam c, id est iusto, fuerit praedicatum particulariter, erit quoque conclusio particularis, hoc modo, ut a uirtus de quodam c iusto particulariter praedicetur. Si igitur fuerit a terminus in omni b, et b terminus in aliquo c particulariter, erit a terminus in aliquo c particulariter, ut sit:  Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum uirtus est.  FERIO Quartus modus primae figurae est talis, quoties ex uniuersali negatione et particulari affirmatione paricularis negatiua colligitur. Nam si a terminus de nullo b termino praedicetur, b uero termimis de quodam c termino praedicetur, a terminus de quodam c termino non praedicabitur, quod monstrat subiecta descriptio. Nam sunt huiusmodi propositiones: Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.  Hos ergo quatuor in prima figura modos in Analyticis suis Aristoteles posuit. Caeteros uero quinque modos Theophrastus et Eudemus addiderunt, quibus Porphyrius, grauissimae uir auctoritatis, uisus est consensisse, qui sunt huiusmodi. Nam quoniam particularis affirmatiua sibi ipsi conuertitur, quisquis ostenderit in conclusione a terminum de quodam c termino particulariter praedicari, in eadem ipsa conclusione monstrauit quod c terminus de a termino rursus particulariter praedicetur. Nam si sibi particularis propositio in coliclusione conuertitur, si a terminus in quodam c termino fuerit, c terminus de quodam a termino praedicabitur. Item quisquis uniuersalem negatiuam in conclusione probauerit, necesse est eum ipsius quoque conuersionem in eadem conclusione probasse. Uniuersalis enim negatio semper sibi couuertitur. Nam si quis probauit quod a terminus de nullo c termino praedicatur, non est dubium quin in hac conclusione illud quoque probatum sit, quod c terminus de nullo a termino praedicetur. Semper enim, ut dictum est, uniuersalis negatiua sibi ipsi conuertitur. Uniuersalis quoque affirmatiua duplici conclusione continetur: nam quisquis ostendit a terminum de omni c termino praedicari, illud quoque ostendit quod c terminus de quodam a termino particulariter praedicetur. Si quis enim probauerit animal de omni homine praedicari, ita dicens, omnis homo animal est, illud quoque necessario monstrauit particulariter, quoniam quoddam animal homo est. Ita semper uniuersalis negatio, et uniuersalis affirmatio, uel particularis affirmatiua dupliciter concluduntur. Aliae enim sibi ipsis conuertuntur, quae particularis est particulariter, quae uniuersalis uniuersaliter. Alia uero, cum ipsa uniuersalis affirmatiua sit, particulariter sibi ipsi conuertitur. Particularis autem negatio nunquam sibi ipsi conuertitur, atque ideo simplicem in se retinet conclusionem.  Hoc autem quod nuper diximus, in secundo priorum Analyticorum libro ab Aristotele monstratur, quod scilicet Theophrastus et Eudemus principium capientes ad alios in prima figura syllogismos adiiciendos animum adiecere, qui sunt huiusmodi qui *kata anaklasin* uocantur, id est, per refractionem quamdam conuersionemque propositionis.  BARALIPTON Et est quintus modus ex duabus uniuersalibus affirmationibus, particularem colligens affirmatiuam hoc modo: Si a fuerit in omni b, et b fuerit in omni c, posset equidem concludi quod a terminus esset in omni c termino. Sed quoniam ista uniuersalis propositio, ut dictum est, particulariter conuertitur, praetermisso eo quod a terminus de omni c termino praedicatur, conclusio esse dicitur quod c terminus de quodam a termino praedicatur, quod hoc exemplo monstrandum est. Si enim sint propositiones sic:Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;  posset concludi equidem quoniam: Omnis uirtus bonum est.  Sed quoniam illa propositio sibi conuertitur, ut sit: Quoddam bonum uirtus est  particulariter, particularis syllogismus conclusioque colligitur ex duabus uniuersalibus affirmatiuis. Eius uero forma talis est, a terminus in omni b, b terminus in omni c; igitur c terminus in quodam a, ut est: Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam bonum iustus est.  Per conuersionem refractionemque dicitur, quoniam quod uniuersaliter colligebatur conuersum, particulariter collectum est.  CELANTES Sextus modus est primae figurae qui fit ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua uniuersalem conclusionem per conuersionem colligens. Nam si a terminus in nullo b fuerit, b uero terminus in omni c termino fuerit, posset equidem colligi quoniam a terminus in nullo c termino est: se quoniam uniuersalis negatiua conuertitur, dicimus quoniam c terminus in nullo a termino est, ut sit hoc modo:  Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;  posset colligi: Nullum iustum malum est  sed ex his per conuersionem colligimus:  Nullum malum iustum est.  DABITIS Septimus modus primae figurae est, qui ex uniuersali affirmatiua et particulari affirmatiua per conuersionem particularem colligit affirmatiuam. Si enim fuerit a terminus in omni b, et b terminus de quodam c termino praedicetur, potest a terminus de quodam c termino praedicari. Sed quoniam particularis affirmatio sibi ipsi conuertitur, per conuersionem fit conclusio, et dicitur c terminus de quodam a termino praedicari, ut sit sic: Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;  posset equidem concludi, quoniam:  Quoddam iustum uirtus est  sed quia particularis affirmatio conuertitur, dicimus quoniam:  Quaedam uirtus iusta est. FAPESMO Octauus modus primae figurae est, quoties ex uniuersali affirmatione et uniuersali negatione particulariter colligitur. Si enim a terminus de omni b termino praedicatus fuerit, b uero terminus de nullo c termino praedicetur, non posset colligi quoniam a terminus de nullo c termino praedicatur. Cur autem non possit, in resolutoriis dictum est. Sed quoniam uniuersalis negatiua sibi ipsa conuertitur, potest dici et conuerti, quoniam c terminus de nullo b termino praedicatur, b uero terminus de quodam a termino dicitur, quoniam uniuersalis affirmatiua purtioulariter sibi ipsa conuertitur: quare c terminus de quodam a termino non praedicabitur, ut sit sic: Omne bonum iustum est, Nullum malum bonum est;  non posset colligi, quoniam: Nullum malum iustum est,  sed conuertitur sic:  Nullum bonum malum est,  Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. FRISESOMORUM Nonus modus primae figurae est, qui ex particulari affirmatiua et uniuersali negatiua particularem colligit negatiuam per conuersionem. Si enim a terminus de quodam b termino, b uero terminus de nullo c termino praedicetur, non potest quidem dici quoniam a terminus de quodam c termino non praedicabitur. Cur autem non possit, hoc quoque in resolutoriis diximus; sed quoniam uniuersalis negatio conuerti potest, dicitur quoniam c terminns de nullo termino praedicatur, et b terminus de quodam a praedicatur; c igitur terminus de quodam a non praedicabitur, ut sit sic:  Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. Expeditis igitur nouem primae figurae modis, ad secundae figurae quatuor modos ueniamus. lllud tantum constet, quod quemadmodum in prima figura per nouem supradictos modos et affirmatio uniuersalis, et negatio uniuersalis, et affirmatio particularis, et negatio particularis, in conclusione colligitur, in secunda figura affirmatiuam neque generalem neque particularem posse colligi sed tantum uel particulariter, uel uniuersaliter solas colligi negatiuas.  CESARR Est autem secundae figurae primus modus hic, quoties ex uniuersali negatione, et uniuersali affirmatione, uniuersalis negatiue colligitur. Si enim a terminus de nullo b termino et de omni c termino praedicetur, terminus de nullo c termino praedicabitur. Sit enim a bonum, sit b malam, c iustum. Si quis igitur sic dicat:  Nullum malum bonum est,  Omne iustum bonum est;  concludit: Nullum iustum malum est.  Liquet igitur maiorem extremitatem de minore in conclusione praedicari. Sed omnes secundae fgurae syllogismis quam uis ueri sint, uerum tamen ex seipsis non probatur sed ex primae figurae modis implentur. Namque si a terminos de nullo b termino praedicetur, et in omni c termino sit, nondum probatum est quoniam omnino b terminus de nullo c termino praedicetur. Sed si quis ex isto secundae figurae primo modo primae figurae secundum modum faciat, per conuersionem totus syllogismus conclusioque probata est. Si quis enim in hoc syllogismo qui est a terminus in nullo b, et idem a terminus de omni c praedicetur, et a b propositionem conuertat, ut faciat esse b a, nam omnis uniuersalis negatiua conuertitur; si quis igitur dicat quoniam a terminus de nullo b termino praedicatur, et b igitur de nullo a termino praedicabitur sed a terminus de omni c termino praedicabitur.  Fit igitur primae figurae secundus modus ex uniuersali negatiua et uniuersali affirmatiua uniuersalem colligens negatiuam, ut sit conclusio. De nullo igitur c termino b praedicabitur. His igitur conuersionibus omnis secundae et tertiae figurae syllogismus conclusioque colligitur et probatur. Atque ideo quoniam ex seipsis non sunt probati nisi ex superioribus comprobentur, id est, primae figurae modis, quicumque in secunda uel tertia figura inuentus fuerit, imperfectus uocatur syllogismus. CAMESTRES Secundus uero modus secundae figurae est quoties ex uniuersali affirmatiua et uniuersali negatiua commutatis ordinibus uniuersalibus rursus negatiua concluditur, Si enim a terminus in omni b termino fuerit, et de nullo c termino praedicetur, b term in us de nullo c termino praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c malum. Si quis igitur sic dicat: Omne iustum bonum est, Nullum malum bonum est;  concludit:  Nullum igitur malum iustum est.  Sed haec complexio coniunctioque propositionum duplicem conuersionem habet. Ostenditur enim de secundo primae figurae modo sic. Nam si a terminus in omni b termino est, et de nullo c termino praedicatur, hic uniuersalis negatiua conuertitur. Erit igitur ut c terminus de nullo a termino praedicetur. Quod si ita est, erit huiusmodi syllogismus: c terminus de nullo a termino praedicatur, a terminus in omni b termino est, c igitur terminus de nullo b termino praedicabitur. Ecce una conuersio facta est propositionis negatiuae. Sed quoniam diximus concludi non c in nullo b sed b in nullo c termino, hic uniuersalis conclusio negatiua conuertitur: et sicut conclusum est c terminum de nullo b termino praedicari, ita concluditur de nullo c termino b terminum praedicari. FESTINO Tertius modus secundae figurae est, quoties ex uniuersali negatiua et particulari affirmatiua particularis negatiua colligitur.  Si enim a terminus de nullo b termino praedicetur, et in quodam c termino fuerit, b terminus de quodam c termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b malum, c iustum. Si quis igitur sic dicat: Nullum malum bonum est,  Quoddam iustum bonum est;  concludat necesse est:  Quoddam iustum malum est.  Hic quoque syllogismus per conuersionem hoc modo probatur. Nam si a terminus de nullo b termino praedicatur, et b terminus de nullo a termino praedicabitur. Sed a terminus de quodam c termino praedicatur. Redit igitur primae figurae modus quartus, qui est ex uniuersali negatione est particulari affirmatione, particularem scilicet colligens negatiuam, ut in hoc quoque syllogismo. Nam hic quoque particularem nagatiuam colligit, id est b terminum de quodam c termino non praedicari. BAROCO Quartus modus secundae figurae est, qui ex uniuersali affimatione et particulari negatione particularem colligit negatiuam, Nam si a terminus in omni b termino sit, et de quodam c termino non praedicetur, b terminus de quodam c termino non praedicabitur. Sit enim a bonum, b iustum, c malum. Si quis igitur dicat:  Omne iustum bonum est, Quoddam malum bonum non est;  concludit: Quoddam igitur malum iustum non est.  Haec uero complexio atque ordo propositionum per conuersionem non potest approbari. Generalis enim affirmatiua sibi ipsa conuerti non potest. Monstratur igitur iste syllogismus ex prima figura non per conuersionem sed per impossibilitatem, quoniam si particularis conclusio negatiua in hoc syllogismo non concluditur, aliquod inconueniens impossibileque contingit. Sed haec impossibilitas per primam figuram demonstrabitur. Dico enim quoniam si a terminus de omni b termino praedicetur, et in aliquo c termino non sit, talem colligi conclusionem, ut b terminus de aliquo c termino non praedicetur. Nam si hoc falsum est, huic contraiacens propositio uera erit. Particularibus autem negatiuis uniuersales affirmatiuae contraiacentes sunt, ut in superiore libro docuimus. Si igitur hic particularis negatio non est conclusio, erit generalis affirmatio. Sit enim affirmatio generalis, et b terminus de omni c termino praedicetur; sed a terminus de omni b termino predicatur, b uero terminus de omni c termino praedicari dicitur; a igitur terminus de omni c termino praedicatur, quod fieri non potest. lta enim a c propositionem posuimus prius, ut diceremus a terminum de quodam c termino non praedicari. Hoc igitur ostensum est per primum modum primae figurae.  Quare in secunda figura omnis syllogismus imperfectus est, et eius probatio aut per conuersionem in primam figuram reducitur, aut ex hypothetica dispositione per impossibilitatem, et primam figuram aliter fieri non posse monstratar, et alii quidem omnes per impossibile probantur, quod paulo post dernonstrabitur.  Restat ut tertiae figurae modos atque ordines explicemus. Sed antea quam id faciamus, illud prius uidendum est, quod in tertiae figurae modis quam conclusio colligitur uniuersalis. Sed si uel negatiuae uel affirmatiuae fuerint collectiones, particulares semper erunt, nunquam etiam generales.  DARAPTI Est autem tertiae figurae primus modus hic, qui ex duabus uniuersalibus affirmationibus particularem colligit affirmationem. Nam si a et b termini de omni c termino praedicentur, a terminus de quodam b termino praedicabitur per conuersionem. Nam si b terminus de omni c termino praedicatur, et uniuersalis affirmatio particulariter sibi conuertitur, c terminus de quodam b termino praedicatur. Quod si ita est, fit tertius primae figurae modus, qui est ex uniuersali et particulari affirmatiua, et colligit a terminuni de quodam b termino praedicari. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis enim sic dicat: Omne bonum iustum est, Omne bonum uirtus est;  fit conclusio:  Quaedam uirtus iusta est.  Mutant alii terminos, et uolunt facere secundum modum, ut sit a uirtus, b iustum, c bonum, ut si talis syllogismus: Omne bonum uirtus est, Omne bonum iustum est;  et concludatur: Quoddam iustum uirtus est.  Sed hunc Aristoteles a superiore non diuidit, et hos duos unum modum putat, et idcirco nos septem tertiae figurae esse diximus modos dubitantes; sed magis Aristoteles sequendus est, atque ideo alium modum dicamus esse qui possit integre uideri secundus.  <III-2: FELAPTON> Secundus uero modus tertiae figurae est, quoties ex uniuersali negatione et uniuersali affirmatione negatio colligitur particularis.  Si enim a terminus de nullo c termino, b terminus uero de omni c termino praedicetur, a terminus de quodam b termino non praedicabitur.  Nam si a terminus de nullo c termino praedicatur, b uero de omni c, et c terminus de quodam termino praedicabitur.  Particulariter enim sibi uniuersalis affirmatiua conuertitur.  Concluditur igitur in quarto primae figurae modo, a terminum de quodam b termino non praedicari. Sit enim a malum iustum, c bonum. Si quis sic dicat: Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum est;  concludat necesse est: Quoddam igitur iustum malum non est.  Ex quo considerandum est maiorem extremitatem in conclusione praedicari. DISAMISTertius modus tertiae figurae est, quoties ex particulari et uniuersali affirmatiua particularis affirmatio concluditur. Si enim a terminus de quodam c, et b terminus de omni c termino praedicetur, concluditur a terminum de quodam b termino praedicari per duplicem conuersionem. Quoniam enim b terminus de omni c termino praedicatur, et a terminus de quodam c termino praedicatur, et particularis affirmatiua semper sibi ipsi conuertitur, c terminus de quodam a termino praedicabitur. Sunt igitur propositiones sic: b terminus de omni c termino, c uero terminus de quodam a termino praedicatur: quod si ita est, colligitur in primae figurae modo tertio b terminum de quodam a termino praedicari. Atque ita particularis affirmatiua conuertitur, et a terminus de quodam b termino praedicabitur, eruntque duplices couuersiones, una propositionis, alia conclusionis. Sit enim a iustum, b uirtus, c bonum. Si quis igitur sic dicat:  Quoddam bonum iustum est, Omne bonum uirtus est;  concludat necesse est: Quaedam uirtus iusta est. DATISI Quartus modus tertiae figurae est quoties ex uniuersali affirmatione et particulari affirmatione affirmatio particularis colligitur. Nam si a terminus de omni c termino praedicetur, b uero terminus in quodam c termino sit, concluditur a terminum de quodam b termino praedicari per conuersionem. Si enim b terniinus de quodam c termino praedicetur, et c terminus de quodam b termino praedicatur, quonium particularis affirmatiua sibi ipsi conuertitur, et fit syllogismus in primae figurae tertio modo, qui at ex uniuersali affirmatiue et particulari affirmatiue, particularem colligens affirmatiuam, ut sit syllogismus hoc modo: a terminus in omni c, et c terminus in quodam b. Igitur b terminus in quodam b. Sit n uirtus, h iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est;  concludet quoniam: Quoddam iustum uirtus est. BOCARDO Quintus modus tertiae figurae est quoties ex particulari negatione et uniuersali affirmatione particularis colligitur negatiua. Sed hic modus per conuersionem probari non potest sed per impossibilitatem, sicut quartus secundae figurae probatus est modus. Si enim a terminus de quodam c termino non praedicetur, b uero terminus de omni c termino praedicetur, a terminus de quodam b termino non praedicabitur; nam si non ita est, erit illud uerum, a terminum de omni b termino praedicari; sed b terminus de omni c termino praedicatur, a igitur terminus de omni c termino praedicabitur, quod fieri non potest. Prius enim ita positus est a terminus, ut de quodam c termino non praedicaretur. Quod si generalis affirmatio in conclusione syllogismi non est, ut sit a terminus in omni b termino, erit huic contraiacans particularis negatio, ut a terminos de quodam b termino non praedicetur. Sit enim a malum, b iustum, c bonum. Si quis igitur sic dicat: Quoddam bonum malum non est, Omne bonum iustum est;  concludat necesse est: Quoddam igitur malum non est.  FERISON Sextus modus tertiae figurae est quoties ex uniuersali negatiua et particulari affirmatiua particularis negatio colligitur per conuersionem. Nam si a terminus in nullo c termino sit, b uero terminus de quodam c termino praedicetur, fit conclusio a terminus de quodam b termino non praedicari. Nam si a terminus de nullo c termino praedicatur, b uero termimis de quodam c termino praedicabitur, et c terminus de quodam b termino praedicabitur, quoniam particularis affirmatiua potest conuerti. Fit igitur talis syllogismus, ut a terminus de nullo c termino praedicetur, c terminus de quodam b termino praedicetur, et a terminus de quodam b termino non praedicetur. Sit a malum, b iustum, c bonum. Si quis igitur dicat: Nullum bonum malum est, Quoddam bonum iustum est;  concludit:   Quoddam iustum malum non est.  His igitur expeditis, quid ipse syllogismus sit definiendum est. Definitur autem sic: Syllogismus est oratio in qua positis quibusdam atque concessis, aliud quiddam quam sint ea quae posita et concessa sunt, necessaria contingit per ipsa quae concessa sunt.  Orationem diximus esse syllogismum idcirco quoniam omnis definitio a generali trahitur, genus autem syllogismi EST ORATIO. Quod autem dictum IN QUA POSITIS QUIBUSDAM ET CONCESSIS, ita intelligendum est, quasi sic dictum esset, secundum quam positis et concessis; ut enim syllogismus fiat, ante aliquid a proponente dicitur, quod audiens concedat, quod si ille concesserit, concludit et perficit syllogismum, idoirco, quia dubiae res per quaedam CONCESSA et probata monstrantur, conceditur autem aequaliter et negatio uera. Caetera uero in syllogismi definitione talia sunt quae non integre dispositos syllogismos a syllogismorum definitione uerorum discernant. Nam quod dictum est IN QUA POSITIS QUIBUSDAM, sumptorum scilicet et propositionum multitudo monstratur. Sunt enim qui putantur esse huiusmodi syllogismi, in quibus tantum una propositio est et una conclusio. Qualis est hic: Vides; Viuis igitur. Homo es; Animal igitur es.  et alia huiusmodi, quos scilicet ueteres in syllogismis non acceperunt, syllogismos enim est aliquorum collectio. At uero collectio non nisi plurimorum est, et quicumque unam posuit propositionem, ille non colligit. Nullum igitur faciet syllogismum. Debet enim syllogismus, ut angustissimus sit, duabus propositionibus comprobari. Quod autem dictum est, aliud quiddam necessario euenire quam sint ipsa quae concessa sunt, quoniam freqaenter tales ab aliquibus flunt syllogismi, ut ea quae proposuerunt, ipsa etiam in conclusione concludant, ut est hic: Si homo es, homo es; Homo autem es; Homo igitur es.  Idem enim conclusit quod ante proposuit. Atque ideo, ad istorum discretionem, aliud quiddam contingere debere dictum est QUAM SINT EA QUAE CONCESSA SUNT, ut in superioribus omnibus syllogismis quos in trium figurarum modis et demonstratione posuimus. Tales uero syllogismi quales nunc dicti sunt per ridiculi sunt, quod id quod ante concessum est quasi dubium quiddam in conclusione colligitur. Nam quod positum est, necessario contingere, ad hoc pertinet, quoniam frequenter ad inductionem uerae quaedam propositiones sunt quarum conclusio nullo modo uera est, ut si quis sic dicat: Qui musicam nouit musicus est  et concedatur; et: Qui arithmeticam arithmeticus est  et: Qui medicinam medicus est  et: Qui bonum bonus est.  Cum igitur haec omnia concessa sunt, dicat: Et qui malum, malus est  quod quasi superioribus simile uidetur sed omni modo falsum est: boni enim homines non aliter cauent, nisi mala nouerint. Atque ideo propter eas conclusiones quae sunt per eas propositiones quae per inductionem dicuntur, additum est conclusiones in syllogismis necessarias contingere, id est ex necessitate contingere.  Est etiam alia exposilio sed in Analyticis nostris iam dicta est. Illud uero quod dictum est, PER IPSA QUAE POSITA SUNT, hoc propter eos dictum est qui tales faciunt syllogismis, in quibus aut minus aliquid, aut plus, aut aliud propositum est quam proponi debuerat. Fiunt enim huiusmodi syllogismi. Si quis enim ita dicat:  Socrates homo est, Omnis homo animal est;  et concludat: Socrates igitur animatus est  minus proposuit, quod non dixit omne animal esse animatum. Nunc si sic proposuisset, recte Socrates animatum esse concluderet, ita dicendo: Socrates homo est, Omnis homo animal est, et: Omne animal animatum est; Socrates igitur animatus est.  Plus autem proponere hoc est, ut si quis sic dicat: Omnis homo animal est, Omne animal animatum est, sed et: Sol in Ariete est; Omnis igitur homo animatus est  hic uero superfluum est quod solem in Ariete esse interposuit. Aliud autem quam necesss est quidam proponunt hoc modo, ut si quis sic dicat:  Omne homo animal est, Virtus autem bonum est;  Omnis igitur homo animatum est.  Nulla igitur harum propositionum ad rem pertinet quod concludere cupiebat. Expedita igitur syllogismi definitione, ad priorum modorum naturam resolutionemque ueniamus, et prius omnes in ordinem disponatur. PRIMAE FIGURAE MODI  PRIMUS Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Omnis igitur uirtus bona est. SECUNDUS Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;  Nullum igitur iustum malum est. TERTIUS. Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum uirtus est. QUARTUS Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est. QUINTUS Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est; Quoddam igitur bonum uirtus est. SEXTUS Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur malum iustum est. SEPTIMUS Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est; Quaedam igitur uirtus iusta est. OCTAVUS Omne bonum iustum est, Nullum malum honum est;  Quoddam igitur iustum malum non est. NONUS Quoddam bonum iustum est, Nullum malum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.  SECUNDAE FIGURAE MODI   PRIMUS Nullum malum bonum est, Omne iustum bonum est; Nullum igitur iustum malum est. SECUNDUS Omna iustum bonum est, Nullum malum bonum est; Nullum igitur malum iustum est. TERTIUS Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est; Quoddam igitur iustum malum non est.QUARTUS Omne iustum bonum est, Quoddam malum bonum non est; Quoddam igitur malum iustum non est.  TERTIAE FIGURAE MODI PRIMUS Omne bonum iustum est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta est. SECUNDUS Omne bonum uirtus est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum uirtus est. TERTIUS Nullum bonum malum est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est  QUARTUS Quoddam bonum iustum est, Omne bonum uirtus est; Quaedam igitur uirtus iusta est. QUINTUS Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam igitur iustum uirtus est. SEXTUS Quoddam bonum malum non est, Omne bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est. SEPTIMUM Nullum bonum malum est, Quoddam bonum iustum est; Quoddam igitur iustum malum non est. Hi sunt igitur omnes trium figurarum modi quorum primae figurae quatuor primae indemonstrabiles nominantur et directi, id est sine aliqua conuersione monstrati; indemonstrabiles autem quoniam non per alios demoiistrantur, et perfecti dicuntur, quoniam per seipsos comprobantur. Et primi quoniam positione et natura primi sunt, et in eos omnes caeteri resoluuntur. Illi quoque quinque primae figurae modi imperfecti et per conuersionem sunt. Secundae uero figurae, uel tertiae, omnes imperfecti sunt, quoniam per primos primae figurae modos quatuor comprobantur, namque in ipsos resoluuntur: ut eos per conuersionem resoluamus, et per impossibilitatem, ut duo illi superius demonstrati sunt, consideremus igitur eorum principia, quoniam unde nascuntur in idipsum resoluuntur. Quintus igitur primae figurae modus de prima, primo figurae modo procreatur. Binis enim propositionibus prioribus manentibus, conclusio primi modi particulariter conuersa quintum efficit syllogismum, quod in subiecta declaratur descriptione:  Omne iustum bonum est,- eadem - Omne iustum bonum est, Omnis uirtus iusta est;- eadem -  Omnis uirtus iusta est; Omnis uirtus bona est.- uersa - Quoddam bonum uirtus est. Sextus uero primae figurae modus de secundo primae figurae modo capit principium. Manentibus enim duabus prioribus propositionibus secundi modi, uniuersali conclusione uniuersaliter conuersa, sextus nascitur syllogismus, ut subiecta docet descriptio:  Nullum bonum malum est,- eadem - Nullum bonum malum est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum bonum est; Nullum iustum malum est.- uersa - Nullum malum iustum est. Septimus modus primae figurae de tertio primae figura, nascitur modo.  Manentibus enim binis propositionibus prioribus, particulari affirmatiua in conclusione conuersa, septimi modi collocatio procreatur:  Omne bonum uirtus est,- eadem - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- eadem - Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum uirtus est.- uertitur - Quaedam uirtus iusta est. Octauus uero et nonus primae figurae modus in quartum primae figurae modum resoluuntur, non etiam initium sumunt. Octauus resoluitur in quartum hoc modo: prima enim quarti in secundam octaui uniuersaliter conuersa, et prima propositione octaui modi particulariter in secundam quarti modi conuersa, eadem conclusio colligitur, id est negatio particularis. Nullum bonum malum est, negatio uniuersalis. Quoddam iustum bonum est, particularis affirmatio. Uniuersaliter conuersa, Omne bonum iustum est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est.  Quoddam iustum malum non est, eadem conclusio, Quoddam iustum malum non est. Nonus uero modus in quartum modum resoluitur sic, prima quarti in secundam noni propositionem uniuersaliter conuertatur, et secunda quarti particulariter in primam noni, et eadem conclusio maneat negatio particularis. Nullum bonum malum est, uniuersalis negatiua. Quoddam iustum bonum est, particularis affirmatiua. Particulariter conuersa. Quoddam bonum iustum est. Uniuersaliter conuersa, Nullum malum bonum est. Quoddam iustum malum non est, eadem conclusio: Quoddam iustum malum non est. Resolutis igitur quinque primae figurae modis in quatuor superioribus, secundae figurae quatuor modos in prioris figurae modos quatuor resoluamus, quorum tres per conuersionem probantur. Quartus uero per solam impossibilitatem. At uero primus et secundae figurae secundus modus in secundum prioris figure modum resoluuntur, et resoluitur primus sic. Conuersa enim prima uniuersali oegatione uniuersaliter, et manente secunda uniuersali affirmatione, eadem conclusio utrorumque nascitur:  Nullum bonum malum est,- conuersa -  Nullum malum bonum est, Omne iustum bonum est;- eadem - Omne iustum bonum est; Nullum iustum malum est- eadem - Nullum iustum malum est. Secundae figurae secundus modus in primae figurae secundum modum resoluitur sic: conuersa secunda propositione, et secunda prima manente, uniuersaliter fit conuersa conclusio:  Nulllum bonum malum est, Omne iustum bonum est, Omne iustum bonum est;- conuersa -  Nullum malum bonum est; Nullum iustum malum est.- conuersa -  Nullum malum iustum est. Tertius uero secundae figurae modus, de quarto primae figurae procreatur. Ut enim uniuersaliter negatio in primam propositionem uniuersaliter conuertatur, et secundae propositiones maneant, idem syllogismi terminus propositioque colligitur hoc modo:  Nullum bonum malum est,- conuersa -  Nullum malum bonum est, Quoddam iustum bonum est;- similis -   Quoddam iustum bonum est; Quoddam iustum malum non est.- eadem -  Quoddam iustum malum non est. Quartus modus seoundae figurae quoniam iam primo, cum factus est per conuersionem, in superioris primae figurae modum retorqueri non poterat sed per impossibile demonstratum est, hic quoque per impossibile ad superiores reducitur modos, et quoniam omnes secundae figurae modi per impossibile monstrantur, idcirco nos quoque inchoantes a quarto omnes per impossibile resoluamus. Nam quartus secundae figurae modus in primum primae figurae resoluitur per impossibilitatem, tertius in secundum, secundus in tertium, primus in quartum, quod hoc modo liquebit. Si quis ergo duas istas concesserit propositiones, id est: Omne bonum uirtus est.  et: Quoddam iustum uirtus non est  necesse est quoque conclusionem concedat quae est: Quoddam igitur iustum bonum non est.  Nam si haec falsa est, erit ei contraiacens uera quae est, omne iustum bonum est sed illam concessit quae est prima quarti modi, id est: Omne bonum uirtus est.  Ex his igitur concludat: Omne igitur iustum uirtus est.  Sed prius concessit quarti modi secundum propositionem, quae est: Quoddam iustum uirtus non est.  Nunc uero concedit: Omne iustum uirtus est  duas sibi contraiacentes simul conclusurus est, quod fieri non potest. Hoc autem idcirco euenit, quia conclusio quarti modi in primi modi secundam propositionem conuersa est: quod si secunda propositio primi modi in quarti conclusione non colligitur, quarti oonclusio, id est particularis negatio, permanebit. Sed ne forte nos conturbet quod alios terminos in resoluendo modo posuimus, quam superius in disponendo; non enim modo in terminis laboramus sed in figuris et modis et complexionibus construendis atque resoluendis operam consumimus. Eodem modo et caeteri secundae figurae in primos quatuor resoluuntur:  Omne bonum uirtus est- eadem -   Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum uirtus non est; Omne iustum bonum est; Quoddam igitur iustum bonum non est. Omne igitur iustum uirtus est. Tertus secundae figurae modus secundo primae figurae modo sic resoluitur: si quis duas primas tertii modi concesserit, particuiarem quoque negatione concludet, quae est:  Quoddam igitur iustum bonum non est.  Nam si haec falsa est uera erit contraiacens, quae est: Omne iustum bonum est.  Sed etiam illa concessa est, quae est: Nullum bonum malum est.  Ex his ergo colligitur: Nullum igitur iustum malum est.  Sed prius concessa erat: Quoddam iustum malum est  nunc uero: Nullum iustum malum est  duas sibi contraiacentes, uno tempore concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur uniuersali conclusione, quae est: Omne iustum bonum est  remanebit particularis negatio, quae est: Quoddam iustum bonum non est.  Nullum bonum malum est,- conc. -  Nullum bonum malum est. Quoddam iustum malum est; - contr. -    Omne iustum bonum est. Quoddam igitur iustum bonum non est. - perm. contr. - Nullum ergo iustum malum est. Secundus secundae figurae in tertio primae figura, modo sic resoluitur: si quis duas secundae figura, propositiones concesserit, conclusionem quoque concedit, quae est: Igitur iustum bonum est.  Nam si haec falsa est, erit uera contraiacens ei particularis affirmatio: Quoddam iustum bonum est.  Sed idem concessit illam quae est: Omne bonum uirtus est  concludat necesse est: Quoddam iustum uirtus est  qui iam ante concesserat secundam secundi modi quae est: Nullum iustum uirtus est  duas contraiacentes uno tempore concedit, quod fieri non potest.  Omne bonum uirtus est,- concessae -  Omne bonum uirtus est, Nullum iustum uirtus est;   - contraiac.-  Quoddam iustum bonum est;   Nullum iustum bonum est. - permut. - Quoddam iustum uirtus est. Primae item secundae figurae in quartum primae figurae sic resoluitur: qui concedit duas primi modi propositiones, concedat necesse est et conclusionem. Nam si illa falsa est, erit uera contraiacens ei particularis affirmatiua quae est: Quiddam iustum bonum est.  Sed idem concessit illam quae est: Nullum bonum malum est  concludat necesse est: Quoddam igitur iustum malum non est  qui ante concesserat illam quae est: Omne iustum malum est.  Uno tempore duas contraiacentes concedit, quod fieri non potest. Sublata igitur particulari affirmatione quae est: Quoddam iustum bonum est  remanet illa quae est:  Nullam iustum bonum est.  Nullum bonum malum est,   - similes - Nullum bonum malum est. Omne iustum malum est;  - contraiac. - Quoddam iustum bonum est. Nullum iustum bonum est.  - perm. iacen. -  Quoddam igitur iustum malum non est.  Sequitur ut tertiae figurae modos ad primos quatuor reducamus, quorum quinque per conuersionem et per impossibilitatem ad primos quatuor resoluuntur unus uero solus, id est quintus, per solam impossibilitate in priora resoluitur. Primus tertiae modus figurae in tertium primae figurae hoc modo resoluitur: Si enim prima propositio tertii modi primae figurae maneat, et secunda propositio particularis tertii modi prime figurae uniuersaliter conuertatur, et sit secunda propositio primi modi tertiae figurae, eadem conclusio, colligitur, id est affirmatio particularis.  Omne bonum iustum est,- manet -   Omne bonum iustum est, Quaedam uirtus bona est;- conu. -  Omne bonum uirtus est; Quaedam uirtus iusta est.- manet -  Quaedam uirtus iusta est. Vel certe sic, quia superius talem syllogismum diximus terminis commutatis, quem Aristoteles dissimilem non putat.  Omne bonum uirtus est,- similes -  Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- conu. -  Omne honum iustum est; Quoddam iustum uirtus est.- manet - Quoddam iustum uirtus est. Secundus modus tertiae figurae in quartum modum primae figura, hoc modo resoluitur. Si enim primae propositiones secundi tertiae figurae modi, et quarti modi primae figurae maneant, quarti uero modi primae figurae secunda propositio uniuersaliter conuertatur, et secunda sit proposilio secundi modi tertiae figurae, eadem conclusio procreatur.  Nullum bonum malum est,- manet -  Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est;- uersa - Omne bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- manet - Quidam iustum malum non est. Tertius modus tertiae figurae in tertium modum primae figurae resoluitur. Si enim propositio prima tertii primae figurae modi, et secunda propositio tertii modi tertiae figurae maneat, et secunda propositio tertli modi primae figurae particularis particulariter conuertatur, ut sit prima tertii modi tertiae figurae, conuersa particulariter conclusio nascitur.  Omne bonum uirtus est, Quoddam bonum iustum est, Quoddam iustum bonum est; Omne bonum uirtus est; Quoddam iustum uirtus est.- uersa -   Quaedam uirtus iusta est. Quartus modus tertiae figurae in tertium modum primae figure resoluitur: si enim utrorumque prima, maneant propositiones, et secundae particulares particulariter conuertantur, eaedem conclusiones nascuntur. Omne bonum uirtus est,- manet - Omne bonum uirtus est, Quoddam iustum bonum est;- uertitur - Quoddam bonum iustum est; Quoddam iustum uirtus est - manet - Quoddam iustum uirtus est.  Reliquus sextus syllogismus tertiae figurae de primae figurae quarto modo procreatur; manentibus enim primis eorum propositionibus atque secundis particulariter immutatis particulis in utroque manebit concluso.  Nullum bonum malum est,- eadem - Nullum bonum malum est, Quoddam iustum bonum est;- mutata - Quoddam bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est. - manet - Quoddam bonum iustum est. Quintus autem qui restat, sicut ante per impossibile probatur, ita etiam nunc per impossibilitatem resoluitur. Sed quemadmodum unus fuerit resolutus, eodem ordine omnes resoluendi sunt. Resoluitur autem sextus tertiae figurae modus in tertium prima, flgurae modum. Quintus autem tertiae figurae modus resoluitur in primum primae figurae. Quartus tertiae figurae modus resoluitur in quartum primae figurae modum.  Tertius tertiae figurae modus resoluitur in secundum primae figurae modum. Secundus tertiae figurae modus resoluitur in primum primae figurae modum. Primae tertiae figurae modi resoluuntur in secundos primae figurae modos. Resoluitur autem per impossibilitatem sextus tertiae figurae modus in primae figurae modum tertium hoc modo: si quis igitur duas proportiones sexti modi tertiae figurae concesserit, concedat etiam necesse est conclusionem quae est: Quoddam iustum malum non est.  Nam si haec falsa est, erit uera contraiacens ei primae figurae tertii modi prima propositio quae est: Omne iustum malum est.  Sed etiam concessit propositionem secundam, quae est: Quoddam bonum iustum est.  Ex his igitur concedat necesse est, quoddam bonum malum est qui ante concesserat primam propositionem sexti modi tertiae figurae quae est: Nullum bonum malum est.  Uno tempore duas sibi contraiacentes concedit, quod fieri non posse descriptio declarat.  Nullum bonum malum est,- contraiac. -  Omne iustum malum est Quoddam bonum iustum est;- concessae - Quoddam bonum iustum est Quoddam iustum malum est.- permut. iac. - Quoddam bonum malum est. Hoc modo omnes caeteri modi tertiae figurae in primos modos primae figurae referuntur, quod subiecta descriptio declarat, in qua prior quintus, qui per conuersionem resolui non potuit, per impossibilitatem resolutus est.  Quoddam bonum malum non est,- contraiac. - Omne iustum malum est Omne bonum iustum est- concessae -  Omne bonum iustum est. Quoddam iustum malum non est- permut. -  Omne bonum malum est. Omne bonum uirtus est- contraiac. - Nullum iustum uirtus est. Quoddam bonum iustum est- concessae -  Quoddam bonum iustum est. Quoddam iustum uirtus est- permut. -  Nullum bonum uirtus est. Quoddam bonum iustum est- contraiac. - Nulla uirtus iusta est. Omne bonum uirtus est- concessae -  Omne bonum uirtus est. Quaedam uirtus iust. est- permut. - Nullum bonum iustum est. In resolutione modi secundi tertiae figurae in primum modum primae figurae, haec impossibilitas euenit, quod duas contrarias uno tempore concedit, quod fieri nequit. Numquam enim duae contrariae uno tempore simul uerae inueniuntur.  Nullum bonum malum est,- contraiac. - Omne iustum malum est., Omne bonum iustum est;- concessae - Omne bonum iustum est; Quoddam iustum malum non est.- permut. -  Nullum bonum iustum est. Et in sequenti quoque syllogismo duas concedit, quod impossibile est.  Omne bonum iustum est,- contraiac. - Nulla uirtus iustus est, Omne bonum uirtus est;- concessae -  Omne bonum uirtus est; Quaedam uirtus iusta est.- permut. -  Nullum bonum iustum est. Nec nos illud turbet, quod in quibusdam contraria propositio et conclusio inuenitur, in quibusdam uero contraiacens. Namque aequaliter peccauit tam qui utrasque contrarias concesserit, quam si utrasque contraiacentes. Nam quo modo contraiacentes uno tempore uerae esse non possunt unquam, sic etiam contrariae.  Omne bonum uirtus est,- contraiac. - Nullum iustum uirtus est, Omne bonum iustum est;- concessae -  Omne bonum iustum est; Quoddam iustum uirtus est.- permut. -  Nullum bonum uirtus est. Haec de categoricorum syllogismorum introductione Aristotelem plurimum sequens, et aliqua de Theophrasto et Porphyrio mutuatus quantum parcitas introducendi permisit, expressi. Si qua uero desint in Analyticis nostris calcatius exprimemus. Nunc uero quantum ad solam categoricorum syllogismorum formam spectabat, perfectum hic nobis est, et ad cumulum introductionis elaboratum. Nec hoc nos perturbet, si que hic propositiones et conclusiones falsae sunt, quandoquidem non ueritates rerum sed connexiones syllogismorum figuras et modos suscepimus disserendos. Nam his cognitis, si quos ad perfectum studium logicae disciplinee disputationis subtibilitas traxerit, prius de ambiguis disputationibus discant, post ab his ueritas in rebus mendaciumque meditabitur.  Cum in omnibus philosophiae disciplinis ediscendis atque tractandis summum in uita positum solamen existimem, tum iocundius, et ueluti cum quodam fructu etiam laboris arripio quae tecum communicanda compono. Nam et si ipsa speculatio ueritatis sua quodam specie sectanda est, fit tamen amabilior cum in commune deducitur. Nullum enim bonum est quod non pulchrius elucescat, si plurimorum notitia comprobetur; namque alias taciturnitate compressum et iam iamque silentio periturum, latius efflorescit et ab obliuionis interitu scientium participatione defenditur. Fit quoque iocundior disciplina, cum inter eiusdem sapientiae conscios iubet esse sapientem: quod si accedat, ut tecum mihi nunc res est, ea quae sponte iocunda sunt in amicitiae participationem deduci, necesse est studii suauitatem quodam ueluti dulcissimo caritatis sapore condiri. Nam cum id in se obtineat amicitia proprium munus, ut nolit habere solitarias cogitationes, tunc quod honeste quisque cogitat, nulli promptius, nisi quem diligit, confitetur. Quo factum est ut, etiam si immensus labor coepto operi uiam negabat, animus tamen ad efficiendum quod aggressus fuerat tui contemplatione sufficeret. Quid enim magnum studiosus tui amor efficeret, si intra facilitatis terminos constitisset? Quod igitur apud scriptores quidem Graecos per quam rarissimos strictim atque confuse, apud Latinos uero nullos repperi, id tuae scientiae dedicatum noster etsi diuturnus, coepti tamen efficax labor excoluit. Nam cum categoricorum syllogismorum plenissime notitiam percepisses, de hypotheticis syllogismis saepe quaerebas, in quibus nihil est ab Aristotele conscriptum. Theophrastus uero, uir omnis doctrinae capax, rerum tantum summas exsequitur; Eudemus latiorem docendi graditur uiam sed ita ut ueluti quaedam seminaria sparsisse, nullum tamen frugis uideatur extulisse prouentum. Nos igitur, quantum ingenii uiribus et amicitiae tuae studio sufficimus, quae ab illis uel dicta breuiter uel funditus omissa sunt, elucidanda diligenter et subtiliter persequenda suscepimus; in qua re superatae difficultatis praemium fero, si tibi munus implesse uidear amicitiae, etsi non uidear satisfecisse doctrinae. Vale. Omnis syllogismus certis et conuenienter positis propositionibus continetur. Propositio uero omnis aut categorica est, quae praedicatiua dicitur, aut hypothetica, quae conditionalis uocatur. Praedicatiua est in qua aliquid de alio praedicatur hoc modo: Homo animal est  hic enim animal de homine praedicatum est; hypothetica est quae cum quodam conditione denuntiat esse aliquid si fuerit aliud, ueluti cum ita dicimus: Si dies est, lux est  Hypotheticae autem propositiones ex categoricis constant, ut paulo posterius apparebit, quo fit ut syllogismus quidem, qui ex categoricis propositionibus iunctus est, categoricus appelletur, id est praedicatiuus, qui uero ex hypotheticis propositionibus constat, dicatur hypotheticus, id est conditionalis. Ut igitur horum syllogismorum differentia peruideatur, spectanda prius est eorum in propositionum natura discretio. Videtur enim in aliquibus propositionibus nihil differre praedicatiua propositio a conditionali, nisi tantum quidem orationis modo; uelut si quis ita proponat: Homo animal est  id si ita rursus enuntiet: Si homo est, animal est  hae propositiones orationis quidem modo diuersae sunt, rem uero non uidentur significasse diuersam. Primum igitur dicendum est quod praedicatiua propositio uim suam non in conditione sed in sola praedicatione constituit, in conditionali uero consequentiae ratio ex conditione suscipitur. Rursus praedicatiua simplex est propositio, conditionalis uero esse non poterit, nisi ex praedicatiuis propositionibus coniungatur, ut cum dicimus: Si dies est, lux est; Dies est;  atque: Lux est  duae sunt praedicatiuae, id est simplices propositiones. Ad hoc illud est, quo maxime declaratur utrarumque proprietas, quod praedicatiua quidem propositio habet unum terminum subiectum, alterum praedicatum; et id quod in praedicatiua propositione subicitur, illius suscipere nomen uidetur quod in eadem propositione praedicatur hoc modo, ut cum dicimus: Homo animal est  homo subiectum est, animal praedicatum, et homo animalis suscipit nomen, cum ipse homo animal esse proponitur. At in his propositionibus quae conditionales dicuntur non est idem praedicationis modus; neque enim omnino alterum de altero praedicatur sed id tantum dicitur esse alterum, si alterum fuerit, ueluti cum dicimus: Si peperit, cum uiro concubuit  Non enim tunc dicitur ipsum peperisse id esse quod est cum uiro concumbere sed id tantum proponitur quod partus numquam esse potuisset nisi fuisset cum uiro concubitus. Quod si quando in una eademque propositionum proprietas incurrerit, tunc secundum modum enuntiatae propositionis intelligendi ratio uariabitur hoc modo. Nam cum dicimus: Homo animal est  propositionem facimus praedicatiuam; at si ita proponamus: Si homo est, animal est  in conditionalem uertitur enuntiationem. In praedicatiua igitur id spectabimus quod ipse homo animal sit, id est nomen in se suscipiat animalis, in conditionali uero illud intellegimus, quod si fuerit aliqua res quae homo esse dicatur, necesse sit aliquam rem esse quae animal nuncupetur. Itaque praedicatiua propositio rem quam subicit praedicatae rei suscipere nomen declarat; conditionalis uero propositionis haec sententia est, ut ita demum sit aliquid, si fuerit alterum, etiamsi neutrum alterius nomen excipiat. Ita igitur propositionibus disgregatis ex enuntiationum proprietate syllogismi quoque uocabulum perceperunt, ut alii dicantur praedicatiui alii conditionales. Nam in quibus propositiones praedicatiuae sunt, eos praedicatiuos syllogismos uocamus, in quibus uero hypothetica propositio prima est (potest namque et assumptio et conclusio esse praedicatiua), hi tantum per unius hypotheticae propositionis naturam hypothetici et conditionales dicuntur. At de simplicibus quidem, id est praedicatiuis syllogismis, duobus libellis explicuimus, quos de eorum institutione confecimus. Post simplicium uero syllogismorum disputationem, ordo est ut de non simplicibus disseramus. Non simplices autem syllogismi sunt qui hypothetici dicuntur, quos latino nomine conditionales uocamus. Non simplices uero dicuntur quoniam ex simplicibus constant, atque in eosdem ultimos resoluuntur, cum praesertim primae eorum propositiones uim propriae consequentiae ex categoricis, id est simplicibus, capiant syllogismis. Namque prima propositio hypothetici syllogismi, si dubitetur an uera sit, praedicatiua conclusione demonstrabitur. Assumptio uero in pluribus modis talium syllogismorum praedicatiua esse perspicitur, itemque conclusio, uelut cum dicimus: Si dies est, lucet; Atqui dies est;  Haec assumptio praedicatiua est, et, si quaeratur, praedicatiuo probabitur syllogismo: Lucet.  igitur consecuta rursus est praedicatiua conclusio. Super haec omnis conditionalis propositio ex praedicatiuis (ut dictum est) iungitur; quod si ex his et fidem capiunt, et ordinem partium sortiuntur, necesse est categoricos syllogismos hypotheticis uim conclusionis ministrare. Sed quoniam de hypotheticis loquimur, quid significet hypothesis praedicendum est. Hypothesis namque, unde hypothetici syllogismi accepere uocabulum, duobus (ut Eudemo placet) dicitur modis: aut enim tale adquiescitur aliquid per quamdam inter se consentientium conditionem, quod fieri nullo modo possit, ut ad suum terminum ratio perducatur; aut in conditione posita consequentia ui coniunctionis uel disiunctionis ostenditur. Ac prioris quidem propositionis exemplum est, ueluti cum res omnes corporales materiae formaeque concursu subsistere demonstramus. Tunc enim quod per rerum naturam fieri non potest, ponimus, id est omnem formae naturam a subiecta materia, si non re, saltem cogitatione separamus; et quoniam nihil ex rebus corporeis reliquum fit, demonstratum atque ostensum putamus eisdem conuenientibus corporalium rerum substantiam confici, quibus a se disiunctis ac discedentibus interimatur. In hoc igitur exemplo posita consentiendi conditione, ut id paulisper fieri intelligatur quod fieri non potest, id est ut formae a materia separentur, quid consequatur intendimus, perire scilicet corpora, ut eadem ex iisdem consistere comprobemus. Nam quoniam interitus corporalium rerum consequitur, iure dicimus res omnes corporeas forma materiaque constare. Sed hae quidem huiusmodi propositiones quae ex consentientium conditione proueniunt, nihil his differunt quas simplices categoricae institutionis primi libri tractatus ostendit; quae uero a simplicibus differunt illae sunt, quando aliquid dicitur esse uel non esse, si quid uel fuerit uel non fuerit. Hae semper cum coniunctionibus proponuntur, ut cum dicimus: Si homo est, animal est. Si ternarius est, impar est  uel caetera huiusmodi. Haec enim ita proponuntur, ut si quodlibet illud fuerit, aliud consequatur. Vel cum dicimus: Si homo est, equus non est  rursus haec eodem modo proponitur in negatione, quo superior in affirmatione proponebatur; hic enim dicitur: Si hoc est, illud non est  et ad hunc modum caeterae. Possunt autem aliquando etiam hoc enuntiari modo: Cum hoc sit, illud est  ueluti cum dicimus: Cum homo est, animal est  uel: Cum homo est, equus non est  quae enuntiatio propositionis eiusdem potestatis est cuius ea quae hoc /216/ modo proponitur: Si homo est, animal est. Si homo est, equus non est. Fiunt uero propositiones hypotheticae etiam per disiunctionem ita: Aut hoc aut illud est. Nec eadem uideri debet haec propositio quae superior, quae sic enuntiatur: Si hoc est, illud non est  haec enim non est per disiunctionem sed per negationem. Negatio uero omnis infinita est, atque ideo et in contrariis, et in contrariorum medietatibus, et in disparatis fieri potest (disparata autem uoco, quae tantum a se diuersa sunt, nulla contrarietate pugnantia, ueluti terra, ignis, uestis, et caetera). Nam: Si album est, nigrum non est Si album est, rubrum non est Si disciplina est, homo non est  at in ea quae disiunctione fit, alteram semper poni necesse est hoc modo: Aut dies est aut nox est  quod si cuncta ea quae per negationem dici conuenit ad disiunctionem transferamus, ratio non procedit. Quid enim si quis dicat: Aut album est aut nigrum  Aut album est aut rubrum Aut disciplina est aut homo...?  fieri enim potest ut nihil horum sit. Igitur quoniam per disiunctionem propositio in certis tantum rebus in quibus alterum eorum euenire necesse est ponitur, haec autem per negationem separatio in omnibus etiam his quae suam inuicem naturam non perimunt poni potest, aperta ratione discreta est. Omnis igitur hypothetica propositio uel per connexionem fit (per connexionem uero illum quoque modum qui per negationem fit esse pronuntio), uel per disiunctionem; uterque enim modus ex simplicibus propositionibus comparatur. Simplices autem propositiones sunt quas praedicatiuas primo Institutionis Categoricae libro diximus. Haec uero sunt cum aliquid de aliquo praedicatur, uel affirmando, uel negando, ut: Dies est, lux est.  At si his media conditio interueniat, fiet: Si dies est, lux est  fitque una hypothetica propositio ex duabus categoricis iuncta. Sed quoniam omnis simplex propositio uel affirmatiua est uel negatiua, quatuor modis per connexionem fieri hypotheticae propositiones possunt, aut enim ex duabus affirmatiuis, aut ex duabus negatiuis, aut ex affirmatiua et negatiua, aut ex negatiua et affirmatiua. Harum omnium exempla subdenda sunt, quo id quod dicimus clarius innotescat. Ex duabus affirmatiuis: Si dies est, lux est  ex duabus negatiuis: Si non est animal, non est homo  ex affirmatiua et negatiua: Si dies est, nox non est  ex negatiua et affirmatiua: Si dies non est, nox est. Sed quoniam dictum est idem significare "si" coniunctionem et "cum" quando in hypotheticis propositionibus ponitur, duobus modis conditionales fieri possunt: uno secundum accidens, altero ut habeant aliquam naturae consequentiam. Secundum accidens hoc modo, ut cum dicimus: Cum ignis calidus sit, caelum rotundum est.  Non enim quia ignis calidus est, caelum rotundum est sed id haec propositio designat, quia quo tempore ignis calidus est, eodem tempore caelum quoque rotundum est. Sunt autem aliae quae habent ad se consequentiam naturae; harum quoque duplex modus est, unus cum necesse est consequi, ea tamen ipsa consequentia non per terminorum positionem fit; alius uero cum fit consequentia per terminorum positionem. Ac prioris quidem modi exemplum est, ut ita dicamus: Cum homo sit, animal est  non enim idcirco animal est quia homo est, sed fortasse a genere principium ducitur, magisque essentiae causa ex uniuersalibus trahi potest, ut idcirco sit homo quia animal est. Causa enim speciei genus est. At qui dicit: Cum homo sit, animal est  rectam ac necessariam consequentiam facit, per terminorum uero positionem talis consequentia non procedit. Sunt autem aliae hypotheticae propositiones in quibus et consequentia necessaria reperitur, et ipsius consequentiae causam terminorum positio facit, hoc modo: Si terrae fuerit obiectus, defectio lunae consequitur.  Hic enim consequentia rata est, et idcirco defectio lunae consequitur, quia terrae interuenit obiectus. Istae igitur sunt propositiones certae atque utiles ad demonstrationem. Partimur autem propositiones hypotheticas in suas ac simplices propositiones, et primam quidem, cui coniunctio praeponitur, praecedentem dicimus, secundam uero consequentem, ut in hac: Si dies est, lux est  praecedentem dicimus eam quae dicit: "si dies est"; consequentem uero partem: "lux est". In disiunctiuis uero propositionibus ordo enuntiandi praecedentem uel consequentem facit, ut: Aut dies est aut nox est  nam quae prima proponitur praecedens, quae posterior consequens appellatur. Ac de partibus quidem hypotheticarum propositionum ista suffficiunt. Illud nunc expediendum uidetur, quod etiam ab Aristotele dicitur. Idem cum sit et non sit, non necesse est idem esse, ueluti cum sit a, si idcirco necesse est esse b, idem a si non sit, non necesse est esse b, idcirca quoniam non est a. Ad huiusmodi uero rei demonstrationem impossibilitatis definitio praemittenda est, quae est huiusmodi. Impossibile est quo posito aliquid falsum atque impossibile comitatur, eo nomine quod impossibile primitus propositum fuit. Sit igitur positum, cum sit a, esse b, id est hanc inter a atque b esse consequentiam, ut si concessum fuerit esse a, necesse sit concedere esse b. Itaque proponatur: Si a est, b est  dico quia si a non fuerit, non necesse est esse b.  Ac primum quae sit propositionum consequentia consideremus. Si enim fuerit tale coniunctum, ut si sit a, etiam b esse necesse sit, si b non fuerit, a non esse necesse est; quod tali demonstratione cognoscitur. Si sit a, necesse sit esse b; dico quia si b non sit, a non erit. Ponatur enim non esse b, et sit si fieri potest a. Sed dictum est, si sit a, necessario concedi esse b. Cum igitur sit b, non erit b: nam quia ponimus non esse b, non erit b, quia uero ponimus esse a, erit b; erit igitur b ac non erit, quod fieri non potest. Impossibile est igitur non esse b et esse; et demonstratione quidem firma sic utimur. Exemplo uero id clarius innotescet. Nam si homo est, animal est; si non est animal, non est homo; non uero si homo non fuerit, animal non est, multa enim sunt animalia quae homines non sunt. Itaque in consequentia propositionis coniunctae, si est primum, secundum esse necesse est, si secundum non fuerit, non erit primum; at uero si primum non fuerit, non necesse est ut non sit secundum, nec uero necesse est ut sit. Id enim demonstrandum esse dudum nobis propositum fuit. Sit enim a, idque cum sit, necesse sit esse b: dico quia si non fuerit a, non necesse est esse b; nec id dico quoniam si non fuerit a, necesse est non esse b sed tantum non necesse est esse b. Nam quia paulo ante demonstratum est, si b non fuerit, necessario non esse a, si eundem b terminum non esse contingerit, non erit a. Sed si cum non sit a, necesse est esse b, idem b ex necessitate erit, ac non erit: nam quia b terminum non esse contingit, non erit; quia uero, si a non fuerit, b esse necesse est, erit. Idem igitur b terminus erit ac non erit, quod est impossibile. Ex his igitur demonstratum esse arbitror, in coniuncta hypothetica propositione, si sit primum consequi ut sit secundum; si non sit secundum, consequi ut non sit primum; si uero non sit primum, non consequi ut sit uel non sit secundum. Nam et illud apparet, si sit secundum non consequi ut sit uel non sit primum, ut in ea propositione quae est: Si homo est, animal est  si animal sit non consequitur ut sit homo uel non sit; quod si primum non sit, non consequitur ut necessario sit uel non sit secundum, uelut in eadem propositione, si homo non fuerit, non necesse est ut aut sit animal, aut non sit. Ex omnibus igitur solae duae consequentiae stabiles sunt et immutabiliter constant: si sit primum, ut consequatur ut sit secundum; si secundum non fuerit, necessario consequi ut non sit primum. His ita determinatis, illud adiungam, quoniam, cum omnis hypothetica propositio simplex non sit, atque ex aliis propositionibus coniungatur, sunt tamen quaedam hypotheticae quae, si reliquis conditionalibus comparentur, simplices existimentur. Omnis enim conditionalis propositio aut connexa est aut disiuncta; haec uero quoniam ex praedicatiuis copulantur, in connexis propositionibus quatuor fieri necesse est huius copulationis modos. Namque hypothetica propositio aut ex duabus simplicibus coniuncta est, et uocatur simplex hypothetica, ut haec: Si a est, b est  ueluti cum dicimus: Si est homo, animal est; Homo est enim; et Animal est.  duae sunt simplices propositiones; aut ex duabus hypotheticis copulatur, et dicitur composita, ueluti cum dicimus: Si cum a est, b est; Cum sit c, est d  ueluti cum tali propositione enuntiamus:  Si cum homo est, animal est, cum sit corpus erit substantia.  Etenim: Si cum homo est, animal est  una est hypothetica; alia uero: Cum sit corpus substantia est  ex quibus coniungitur una propositio quae composita nuncupatur. Aut ex una simplici et ex una hypothetica copulatur, uelut haec: Si a est, cum sit b, est c  ueluti cum dicimus: Si homo est, cum sit animal, est substantia  namque: Homo est  simplex est propositio; Cum sit animal esse substantiam  hypothetica ex ipsa consequentia conditionis ostenditur; aut ex priore hypothetica et simplici posteriore committitur, ut cum dicimus: Si cum sit a, est b, erit et c  ueluti hoc modo: Si cum sit homo, animal est, est et corpus.  Hypothetica namque est prior ea quae proponit: Si cum sit homo, animal est  simplex posterior quae hanc hypotheticam propositionem sequitur, id est, corpus esse. Haec quoque quoniam non ex simplicibus copulatae sunt, compositae dicuntur. Sed priores quidem quae ex simplicibus propositionibus constant, et simplices hypotheticae nuncupantur, in duobus terminis constitutae sunt. Terminos autem nunc partes propositionis simplices, quibus iunguntur, appello. Quae uero compositae hypotheticae sunt, illae quidem quae ex duabus hypotheticis constant, quatuor terminis copulatae sunt; illae uero quae ex hypothetica et simplici, uel simplici atque hypothetica coniunctae sunt, ex tribus terminis coniunctae sunt. Harum igitur quae sunt hypotheticae simplices uel compositae differentiae similitudinesque dicendae sunt. Nam quae ex simplicibus copulantur, si ad eas quae ex hypotheticis duabus iunctae sunt comparentur, consequentia quidem eadem est et proportio manet, tantum termini duplicantur. Nam quem locum in his propositionibus hypotheticis quae ex simplicibus constant ipsae simplices propositiones tenent, eundem in his propositionibus quae sunt hypotheticae ex hypotheticis constantes, illae conditiones tenent quibus illae propositiones inter se iunctae et copulatae esse dicuntur. Nam in hac propositione quae dicit:  Si est a, est b  et in ea quae dicit:  Si cum sit a, est b, cum sit c, est d  quem locum in ea propositione quae ex duabus simplicibus continetur tenet ea quae prior est: Si est a eundem locum tenet, in ea propositione quae ex duabus hypotheticis propositionibus copulatur, ea quae prior est:  Si cum est a, est b.  Hic namque duarum inter se propositionum coniunctionis conditione facta est consequentia. Itemque quam uim obtinet ex utrisque propositionibus copulatae hypotheticae portio quae infertur, id est esse b  eandem uim obtinet in propositione ex hypotheticis iuncta ea quae sequitur, id est  Cum sit c, esse d  atque id tantum differt, quia cum in prima propositione ex simplicibus iuncta propositio propositionem sequatur, in secunda propositione ex hypotheticis iuncta conditio consequentiae conditionis consequentiam comitatur.  Nihil est enim aliud dicere: Si est a, est b  quam ei propositioni per quam dicimus esse a, illam esse comitem per quam b esse praedicamus; at in ea propositione quae ex hypotheticis iuncta est cum dicimus:  Si cum sit a, est b, cum sit c esse d  illud dicitur, ei consequentiae quae inter a et b est, eam esse consequentiam comitem quae est inter c et d, ita ut si consequitur posito a esse b, consequatur sine dubio c posito esse d. At in his propositionibus quae ex simplici et hypothetica consistunt, illa ratio est ut uel propositionem conditio consequentiae consequatur, uel conditionem consequentiae propositio comitetur.  Nam cum dicimus: Si a est, cum sit b, esse c  id intellegi uolumus, ei propositioni per quam dicimus: Est a  consequi eam conditionem per quam dicimus: Cum sit b, esse c  id est ut, si est a, necesse sit b termino comitem esse c terminum; cum uero dicimus:  Si cum a est, b est, esse c  nihil aliud intellegi uolumus, nisi duarum inter se consequentium propositionum alterius propositionis consequi ueritatem, ut si habeant inter se consequentiam a atque b, necesse sit hanc conditionem consequentiae propositionis eius per quam dicimus esse c consequi ueritatem, id est, si necesse est a posito esse b, necesse est etiam c esse.  Similes igitur syllogismi fient earum propositionum quae ex simplicibus et earum quae ex non simplicibus utrisque iunguntur: earum uero quae ex una simplici et ex altera hypothtica copulantur, diuersi quidem a superioribus, ipsi tamen inter se similes fiunt. Nec interest utrum prima hypothetica, secunda sit simplex, an e conuerso, ad syllogismorum modos, nisi forsitan ad ipsius tantum ordinis permutationem. Cum igitur demonstrata fuerit earum propositionum quae ex simplicibus constant, syllogismorum ratio demonstrata quoque uidetur earum propositionum esse, quae ex hypotheticis committuntur; et cum quarumlibet earum propositionum quae ex simplici et hypothetica constant syllogismorum natura perspecta sit, etiam conuersi ordinis propositionum natura quales faciat syllogismos ostenditur. Est etiam species alia propositionum in connexio. ne positarum, quae media quodammodo sit earum propositionum quae ex hypotheticis simplicibusque iunguntur, et earum quae duabus hypotheticis copulantur. Nam si ad numerum respicias propositionum quasi ex tribus terminis constant; quod si ad conditionales animum referas, quasi ex duabus conditionalibus uidentur esse compositae: quae medietas idcirco euenit quoniam unus in his terminus communis utrisque conditionalibus inuenitur. Proponuntur uero hae uel per primam figuram, uel per secundam, uel per tertiam. Per primam hoc modo: Si est a, est b; et si est b, est c  igitur b in utrisque numeratur, et sunt tres quidem termini hi: Est a. Est b. Est c. Duae uero conditionales hoc modo: Si est a, est b Si est b, est c  namque b utrisque communis est: atque ideo inter eas propositiones quae ex tribus terminis, et eas quae ex quatuor componuntur, mediae sunt huiusmodi propositiones. Per secundam uero figuram proponitur hoc modo: Si est a, est b; si non est a, est c. Per tertiam uero figuram sic: Si est b, est a; si est c, non est a. Ac de connexis quidem ista sufficiunt. Disiunctiuae uero propositiones semper ex contrariis constant, ut haec: Aut a est aut b est. Altero enim posito alterum tollitur, et interempto altero ponitur alterum: nam si est a, non est b, si non est a, est b, eodem modo etiam, si sit b, non erit a, si non sit b, erit a. His igitur expeditis, ad connexas reuertamur. In illis enim uel propositio propositionem, uel conditio conditionem, uel propositio conditionem, uel conditio sequitur propositionem. Dicendum igitur est quae propositiones quarum propositionum consequentes esse uideantur, et quae contrarietatis modo quam longissime a se differant, quae uero oppositionis contradictione dissentiant. Simplicium namque, id est praedicatiuarum propositionum, aliae praeter modum proponuntur, aliae cum modo: praeter modum sunt quaecumque purum esse significant hoc modo: Dies est Socrates philosophus est  et quae similiter proponuntur; quae uero cum modo sunt, ita proponuntur: Socrates uere philosophus est.  Hoc enim 'uere' modus est propositionis. Sed maximas syllogismorum faciunt differentias haec propositiones cum modo enuntiatae, quibus necessitatis aut possibilitatis nomen adiungitur. Necessitatis hoc modo, cum dicimus: Ignem necesse est calere  possibilitatis, ut cum ita proponimus: Possibile est a Graecis superari Troianos. Quo fit ut omnis propositio aut inesse significet, aut necessario inesse, aut, cum non sit aliquid, tamen enuntiet posse contingere; quarum quidem ea quae inesse significat simplex est, neque in nullas partes alias diduci potest, ea uero quae ex necessitate aliquid inesse designat, tribus dicitur modis. Uno quidem quo ei consimilis est propositioni quae inesse significat, ut cum dicimus, Necesse esse Socratem sedere, dum sedet.  Haec enim eandem uim obtinet ei quae dicit: Socrates sedet.  Alia uero necessitatis significatio est, cum hoc modo proponimus: Hominem necesse est habere cor dum est atque uiuit  hoc enim significare uidetur haec dictio, non quoniam tamdiu eum necesse sit habere quamdiu habet sed tamdiu eum necesse est habere quamdiu fuerit ille qui habeat.  Alia uero necessitatis significatio est uniuersalis et propria, quae absolute praedicat necessitatem, ut cum dicimus: Necesse est Deum esse immortalem  nulla conditione determinationis apposita. Possibile autem idem quoque tribus dicitur modis: aut enim quod inest possibile esse dicitur, ut: Possibile est Socratem sedere, dum sedet  aut quod omni tempore contingere potest, dum ea res permanet cui aliquid contingere posse proponitur, ut: Possibile est Socratem legere  quamdiu enim Socrates est, legere potest; item possibile est quod absolute omni tempore contingere potest, ut auem uolare. Ex his igitur apparuit alias propositiones esse inesse significantes, alias necessarias, alias contingentes atque possibiles, quarum necessariarum et contingentium cum sit trina partitio, singulae ex iisdem partitionibus ad eas quae inesse significant referuntur. Restant igitur duae necessariae et duae contingentes, quae cum ea quae inesse significat numeratae, quinque omnes propositionum faciunt differentias. Omnium uero harum propositionum aliae sunt affirmatiuae, aliae negatiuae. Affirmatiua inesse significans est quae dicit: Est Socrates  negatiua quae proponit: Non est Socrates. Necessariarum uero propositionum affirmatiuarum duae uidentur esse negationes, una contraria, altera uero opposita. Eius namque, quae dicit: Necesse est esse a  quolibet modo ex utrisque qui dicti sunt, aut ea est negatio quae dicit: Necesse est non esse a  aut ea quae dicit: Non necesse est esse a  quarum quidem ea quae dicit: Necesse est non esse a  contraria est ei quae dicit: Necesse est esse a.  Utraeque enim falsae poterunt inueniri, ueluti si dicimus: Necesse est Socratem legere Necesse est Socratem non legere  utraque mentitur. Nam et cum legit, non ex necessitate legit, et cum non legit, nulla ne legat necessitate constringitur sed est utrumque possibile.  At uero ea quae dicit: Non necesse est esse  opposita est ei quae proponit: Necesse est esse  una enim semper uera est, semper falsa altera reperitur. In contingentibus uero atque possibilibus eadem ratio est.  Huic enim quae dicit: Contingit esse a  tum ea uidetur obiecta quae dicit: Contingit non esse a  tum ea quae proponit: Non contingit esse a.  Atque ea quidem quae dicit: Contingit non esse a  contingens negatio nuncupatur, ueraque esse potest cum ea affirmatione quae dicit: Contingit esse a  ueluti cum dicimus: Contingit sedere Socratem  Contingit non sedere Socratem. Et haec quidem non dicuntur esse contrariae, quoniam simul uerae esse possunt; at uero opposita sunt quotiens ipsum contingens negatur, ut si aduersus eam quae dicit: Contingit esse a  ea proponatur quae dicit: Non contingit esse a  id enim ista significat omnino non posse contingere. Quae cum ita sint, cumque inesse significantes propositiones praeter ullum dicuntur modum, his ad esse iuncto aduerbio negatiuo, negatio plena perficitur; quae uero cum modo proponuntur, si necessariae sint et ad esse negatio coniungatur, ut ea quae dicit: Necesse est non esse  fit necessaria negatio. Si uero ipsi necessario negatio praeponatur, fit negatio necessarii uehementer affirmationi opposita, ut ea quae dicit: Non necesse est esse.  Item in contingentibus si ad esse negatio ponatur, fit contingens negatio, ut ea quae dicit: Contingit non esse.  Si uero ipsi contingenti negatio iungatur, fit contingentis negatio contingenti affirmationi uehementer opposita, ut ea quae dicit: Non contingit esse. Sed quoniam omnis propositio aut uniuersalis aut particularis aut indefinita aut singularis proponitur -- uniuersalis hoc modo: Omnis homo legit  particularis sic: Quidam homo legit  indefinita sic: Homo legit  singularis sic: Socrates legit  -- necesse est ut sicut in Categoricorum Syllogismorum Institutione monstratum est, illae sibi maxime uideantur oppositae quaecumque uel uniuersale affirmant, si particulariter denegetur, uel uniuersale denegant, si particulariter affirmetur, et quae singulares sunt, si illa quidem in affirmatione sit posita, illa uero in negatione. Quae cum ita sint, si haec eadem ratio ad contingentes et necessarias referatur, idem in necessariis et contingentibus inuenitur, ut si quis dicat: Omnem a terminum esse necesse est  aliusque neget dicens: Non necesse est omnem a terminum esse  fecit oppositam negationem.  Et si dicat aliquis: Contingit omnem a terminum esse  itaque aliquis neget: Non contingit omnem a terminum esse  fecerit oppositam negationem; in utrisque enim negatio et modum remouet, et significationem uniuersalitatis exstinguit. Atque hoc quidem in simplicibus et categoricis propositionibus euenire necesse est, de quarum natura diligentius persecuti sumus in his uoluminibus, quae secundae editionis expositionum in Aristotelis *Perihermeneias* inscripsimus. Si quis igitur propositionum omnium conditionalium numerum quaerat, ex categoricis poterit inuenire; ac primum in connexis ex duabus simplicibus inquirendus est hoc modo. Nam quoniam propositio simplex hypothetica ex categoricis duabus iungitur, una earum uel inesse significabit, uel contingere esse dupliciter, uel necesse esse dupliciter; quod si sint affirmatiuae, quinquies affirmatiua enuntiatione proponentur; sed quoniam omnis affirmatio habet oppositam negationem, rursus quinquies negatiua enuntiatione poterunt pronuntiari. Erunt igitur in prima propositione, quae una pars est hypotheticae propositionis in negatione et affirmatione constitutae modorum, propositiones decem. Secunda etiam propositio, quae pars est hypotheticae, totidem affirmationibus et negationibus proponi potest; erunt igitur eius quoque enuntiationes decem. Sed cum prima propositio secundae propositioni quodam consequentia copuletur, ut una hypothetica fiat, omnes decem affrmatiuae ac negatiuae propositiones omnibus decem affirmatiuis negatiuisque propositionibus applicabuntur. Itaque complexae centum omnes efficiunt propositiones, haec quae connexae ex simplicibus coniunguntur. Secundum hunc uero modum potest propositionum numerus inueniri etiam in his propositionibus /246/ quae ex categorica et hypothetica copulantur, uel quae ex duabus conditionalibus fiunt. Nam quae ex categorica et conditionali constant, uel e diuerso, haec tribus categoricis iunctae sunt. Quod si duarum inter se praedicatiuarum in afffirmatione uel negatione complexio secundum esse, uel necessario, uel contingenter esse, quinque modos, centum efficit complexiones, quoniam tertia propositio uel affirmatiua erit uel negatiua, et si affirmatiua quinque modis uel inesse significans, uel necessario inesse dupliciter, uel contingenter inesse dupliciter, itemque totidem negabitur modis, simul non amplius quam decies proponetur. Quo fit ut tertia propositio cum duabus superioribus, centum inter se modis copulatis atque complexis, iuncta atque commissa, mille omnes faciat complexiones. Centum namque duarum propositionum modi, cum decem modis tertiae propositionis complicati, mille perficiunt; decies enim centum mille sunt. Rursus quoniam ex duabus hypotheticis iuncta conditionalis quatuor categoricis copulatur, et duae inter se primae categoricae centum complexionibus iungebantur, necesse est ut posteriores quoque duae centum complexionibus connectantur; quod si centum superiorum propositionum categoricarum modi centum posteriorum categoricarum modis complicentur, fient decem milia complexiones. In illis autem propositionibus quae tribus uariantur figuris, siquidem medius terminus similiter et in prima et in secunda hypothetica proponatur, mille erunt complexiones, ad earum similitudinem quae ex tribus categoricis connectuntur; tunc enim unus atque idem terminus in utrisque tres neque amplius faciet enuntiationes. Similiter uero in utrisque proponitur hoc modo: Si est a, est b; si est b, est c  hic enim b terminus, et ad a terminum, et ad c positus est, esse significans.  Idem in necessariis et contingentibus intelligendum est. At si ita proponatur: Si est a, est b, et, si necesse est esse b, est uel non est c  duae propositiones conditionales, id est quatuor praedicatiuae fiunt. Quo fit ut secundum eas quae ex quatuor praedicatiuis connectuntur, decem millia faciunt complexiones. Atque hi numeri tam in prima quam in secunda uel tertia figura sunt inspiciendi. Et nos quidem quantus esse propositionum numerus posset, ascripsimus.  Numquam tamen dissimiliter medius terminus enuntiatur: namque ut fiat extremorum conclusio, medius terminus intercedit, cuius communitas extrema coniungit. Quod si medius diuersis modis in utraque propositione dicatur, nec connectuntur extrema, atque ideo ne syllogismus quidem ullus fieri potest, cum praesertim ne una quidem propositio dici possit, in qua medius terminus dissimiliter enuntiatur. Longe autem multiplex propositionum numerus existeret, si inesse significantes et necessarias et contingentes affirmatiuas negatiuasque propositiones per uniuersales ac particulares, uel oppositas ac subalternas uariaremus; sed id non conuenit, quia conditionalium termini propositionum indefinito maxime enuntiantur modo. Atque ideo superuacuum iudicaui determinatarum secundum quantitatem propositionum quaerere multitudinem, cum determinatae conditionales proponi non soleant; fere autem hypotheticae propositiones ne per necessitatem quidem uel per contingens enuntiantur sed illae maximae in usum collocutionis deducuntur, quae inesse significant. Omnes uero necessariam tenere consequentiam uolunt, et quae inesse significant, et quibus necessitas additur, et quibus praedicatio possibilitatis aptatur; haec enim terminis applicatur. Necessitas uero hypotheticae propositionis, et ratio earum propositionum ex quibus iunguntur inter se connexiones, consequentiam quaerit, ut cum dico: Si Socrates sedet, et uiuit  neque sedere eum, neque uiuere necesse est sed, si sedet, uiuere necesse est. Item cum dicimus: Si sol mouetur, necessario ueniet ad occasum  tantumdem significat quantum, si sol mouetur, ueniet ad occasum. Necessitas enim propositionis in consequentiae immutabilitate consistit. Item cum dicimus: Si possibile est legi librum, possibile est ad uersum tertium  perueniri  rursus necessitas consequentiae conseruata est; nam si possibile est legi librum, necesse est etiam id esse possibile, ut ad uersum tertium perueniatur. Opponuntur autem hypotheticis propositionibus illne solse quae earum substantiam perimunt. Substantia uero propositionum hypotheticarum in eo est, ut earum consequentiae necessitas ualeat permanere. Si quis igitur recte conditionali propositioni repugnabit, id efficiet ut earum destruat consequentiam, ueluti cum ita dicimus: Si a est, b est  non in eo pugnabit si monstret, aut non esse a, aut non esse b sed si posito quidem a, ostendit non statim consequi esse b sed posse esse a, etiamsi b terminus non sit. Uel si negatiua sit conditionalis, eodem destruetur modo: ut cum dicimus: Si a est, b non est  non ostendendum est, aut non esse a, aut b esse; sed cum a sit, posse esse b terminum. Sunt autem hypotheticae propositiones, aliae quidem affirmatiuae, aliae negatiuae; sed de his nunc loquor quae in consequentia positae in connexione esse dicuntur: affirmatiuae quidem, ut cum dicimus: Si est a, est b. Si a non est, b est  negatiuae uero: Si a est, b non est. Si non est a, non est b.  Ad sequentem enim propositionem respiciendum est, ut an affirmatiua uel negatiua sit propositio iudicetur; idem de compositis syllogismis conditionalibus intellegi oportebit. De his autem propositionibus quae in disiunctione sunt positae, cum de earum syllogismis tractauero, commodius atque uberius dicam. Hypotheticos syllogismos, quos latine conditionales uocamus, alii quinque, tribus alii constare partibus arbitrantur, quorum mox controuersiam diiudicabo, si prius quibus nominibus talium syllogismorum partes appellentur ostendero. Quoniam enim omnis syllogismus ex propositionibus texitur, prima uel propositio, uel sumptum uocatur; secunda uero dicitur assumptio, his quae infertur, conclusio nuncupatur. Cum enim ita dicimus: Si homo est, animal est; Homo autem est; Animal igitur est  ea quidem enuntiatio per quam diximus: Si homo est, esse animal  propositio uel sumptum uocatur, ea uero quam huic adiunximus: Est autem homo  assumptio dicitur, tertia conclusio nominatur, per quam ostendimus animal esse qui fuerit homo. Sed quoniam saepe euenit ut propositionis enuntiatae consequentia non sit uerisimilis, propositioni saepe adiungitur approbatio, per quam id quod est propositum uerum esse monstretur. Assumptio saepe ad fidem per se non uidetur idonea: huic quoque iuuamen probationis adiungitur, ut uera esse uideatur; quo fit ut saepe quinque partes, saepe quatuor, interdum tres hypotheticos syllogismos habere contingat. Nam quinque constabit partibus si et propositio et assumptio probationibus indigebunt; quod siue propositio, siue assumptio probatione indigent, quadripartitus est syllogismus, quod si neutra est approbanda, tripartitus esse relinquitur. In hac uero sententia etiam Marcus Tullius esse deprehenditur: in Rhetoricis enim syllogismos quosdam quinquepartitos, quadripartitos alios esse confirmat. Quibus uero non placet talium syllogismorum partes ultra ternarium numerum propagari, hi probationes propositionum atque assumptionum non putant in syllogismi partibus esse ponendas, neque enim propositionem esse, de qua syllogismus possit existere, cui non consentit auditor; quod si per se dubia est ea probatio quae propositioni dubiae iungitur, fidem faciens eidem cui coniungitur propositioni, faciat ut sit idonea syllogismo.  Ac per hoc tunc incipit esse propositio syllogismi, cum talis per probationem redditur, ut ex ea colligi aliquid possit; tunc uero colligi ex se aliquid potest, cum probationis auxilio poterit ab auditore concedi. Quocirca membrum quoddam, et quasi fulcimentum dubiae propositionis uel assumptionis, probatio esse uidetur, non pars etiam syllogismi; sed nostra sententia his potius accedit qui tribus eum partibus constare pronuntiant. Etenim quaelibet probatio quae uel propositioni uel assumptioni copulatur, propositionis esse uel assumptionis probatio dicitur.  Cum igitur non ad syllogismum sed ad propositionem uel assumptionem cuius est probatio referatur, non oportet eam syllogismi proprie partem uideri. Nam illud quod obici potest, nullus ignorat, quin partium partes etiam totius partes esse dicantur; sed plurimum refert utrum ipsae sint primitus partes totius, an in secundarum partium postremitate ponantur. Amplius, si sit per se nota ac probabilis propositio, totus syllogismus probatione non indiget; quod si per se propositionis nulla fides est, necesse est ut ea propositio quodam ueluti testimonio probationis indigeat.  Non igitur syllogismus probatione, in eo quod syllogismus est, indigebit, sed propositio, si fide propria fuerit destituta. Idem etiam de assumptione dici potest. Quare manifestum est eorum esse sententiam praeponendam, qui sullogismum putant tribus partibus constare. Praeterea si qua propositio probationis indigeat, ut eam ueri fides sequatur, aliquo demonstrabitur syllogismo. Quocirca qui fieri potest ut recte syllogismus pars syllogismi simplicis esse dicatur? ipsam enim probationem propositionis syllogismum, uel ex syllogismo esse necesse est. His itaque determinatis, de his protinus syllogismis quorum propositiones in connexione positae duobus terminis constant, explicandum uidetur. Horum autem duplex forma est: quatuor enim fiunt per praecedentis positionem qui sunt primi hypothetici atque perfecti, quatuor uero per sequentis negationem, qui cum demonstratione egeant, non uidentur esse perfecti. Prioris uero negatione, uel sequentis positione, nullus omnino syllogismus efficitur. Omnium igitur talium propositionum primum numerus explicetur, ut qui fiant ex his syllogismi facilis acquiratur agnitio. Sunt autem quatuor: Si est a, est b Si est a, non est b Si non est a, est b Si non est a, non est b  Ac de prioribus quidem syllogismis atque perfectis primo loco dicendum est. Horum enim primus modus est hic ueniens a prima propositione: Si a est, b est; Atqui est a; Est igitur b.  Cum enim prima propositio eam conditionem proponat, ut si sit a necesse sit consequi essentiam b termini, idem assumptio quod praecedit assumit ac ponit, dicitque: At est a  consequitur igitur ut sit b. Si enim ex consequentia primae propositionis id quod secundum est assumendo ponamus, nullus efficitur syllogismus. Age enim sit huiusmodi consequentia, ut si sit a, sit b assumaturque quod sequitur hoc modo: At est b  non consequitur ut sit uel non sit a. Id uero clarius fiet exemplo: sit enim propositio: Si homo est, animal est  assumaturque esse animal, scilicet quod consequitur, non necesse erit esse hominem uel non esse; potest enim, cum sit animal, homo uel esse uel non esse. Secundus uero modus est eorum in quibus prior propositionis pars in assumptione repetitur, uenit autem ex secunda propositione superius digesta, hoc modo: Si est a, non est b; Atqui est a; Non est igitur b. Id enim propositum fuerat, si esset a, non esset b. Sumpto igitur praecedente, consequentis est facta conclusio; quod si consequens sumas, nullus uidetur fieri syllogismus, quia nec consequitur ulla necessitas, hoc modo: Si est a, non est b; Atqui non est b;  non necesse est esse a uel non esse. Age enim ita sit propositio: Si est nigrum, album non est  et id quod sequitur assumatur: Atqui non est album  non necesse erit esse nigrum uel non esse, quia cum non sit album potest aliquid esse medium. Tertius uero modus est talium syllogismorum qui uenit ex tertia propositione, quorum in assumptione id ponitur quod praecedit hoc modo: Si non est a, est b; Atqui non est a; Est igitur b.  Haec igitur conclusio rursus ex conditione propositionis euenit: id enim fuerat propositum, ut si non esset a esset b; quod si conuertas et sumas esse b, id est quod sequitur, non necesse erit uel esse uel non esse id quod praecedit. Sed huius exemplum non potest inueniri, eo quod si ita proponitur, ut: Cum non sit a sit b  nihil esse medium uideatur inter a atque b; sed in his si alterum non fuerit, statim necesse est esse alterum, et si alterum fuerit, statim alterum non esse necesse est. Videtur ergo quodammodo et sequenti posito in his fieri syllogismus; sed quantum ad rerum naturam ita est, quantum uero ad propositionis ipsius pertinet conditionem, minime consequitur. Quod quidem ex his patet quae superius dicta sunt. In utrisque enim superioribus modis sequenti posito nihil ex necessitate collectum est, hic uero tertius modus, quantum ad complexionem propositionum pertinet, in quo ponendo si id quod consequebatur assumitur, nullum efficit syllogismum. Quantum uero ad rerum naturam, in quibus solis hae propositiones enuntiari possunt, uidetur esse necessaria consequentia hoc modo, ut: Si dies non est, nox sit  Si nox sit, dies non sit  ex necessitate consequitur; similesque sunt hi syllogismi his qui in disiunctione sunt constituti, de quibus paulo posterius commemorabo, quorumque ad illos et differentias et similitudines dabo. Quartus uero modus est ex quarta propositione, cum ita proponitur: Si a non est, b non est; Atqui non est a; Non est igitur b  rursus enim id quoque consequi ex propositione monstratur, quae proposuit non fore b, si a prior terminus non fuisset. At si id quod consequitur assumamus, nulla uidetur fieri posse necessitas, ueluti si ita dicamus: Non est autem b  non necesse erit uel esse uel non esse a. Age enim proponatur si animal non est, non esse hominem, assumaturque: At non est homo  non necesse est ut uel sit animal uel non sit. Demonstratum igitur est in huiusmodi syllogismis, si id quidem quod praecedit ponendo assumatur, perfectos atque ex ipsis propositionibus probabiles et necessarios fieri syllogismos. Si uero id quod sequitur ponendo assumatur, nullam fieri necessitatem, praeter in tertio modo, qui cum sit similis his syllogismis qui secundum disiunctionem propositis enuntiationibus fiunt, uidetur in rebus de quibus proponi possit seruare necessitatem, cum in complexione non seruet, quod ex caeteris tribus modis arguitur primo, secundo atque quarto, in quibus assumpta ponendo sequente propositionis parte, nihil ex necessitate conficitur. Ac de his quidem syllogismis, qui duobus terminis coniunguntur, quorum prima pars propositionis ponendo assumitur, quantum ad institutionis pertinet modum, sufficienter expressimus. Nunc uero de his dicendum est, quorum consequens propositionis pars ita assumitur, ut perimatur. Ex his quoque quatuor fiunt modi, cum prior propositionis pars in assumptione non possit interimi, ut ulla syllogismi necessitas consequatur. Est igitur primus modus talium syllogismorum a prima ueniens propositione sic: Si est a, est b; Atqui non est b; Non est igitur a.  Hic igitur b terminus, qui in prima propositione consequens fuerat, in assumptione est interemptus, ut a terminus, qui propositionis prima pars fuerat, interimeretur, eaque necessitas tali ratione probabitur. Positum namque est si a sit, b esse; et assumptio facta est ut consequens pars propositionis interimeretur, id est, non esse b. Dico quia consequitur non esse a: nam si potest esse a, ut non sit b, frustra erit prior propositio quae ait, si a sit, b esse. Atqui ea propositio ualet; cum igitur a sit est b. Quod si cum non sit b, sit a, quod scilicet ex assumptione proponitur, idem b erit /268/ et non erit: non erit quidem, quia b non esse proponit assumptio; erit autem, quia si est a, erit b, quod fieri non potest; non igitur, si b non fuerit, erit a. Hic est igitur primus modus talium syllogismorum, qui ex interempta parte consequenti propositionis fiunt, qui non sunt perfecti neque ex se cogniti sed indigent uel eius quam superius proposui, uel cuiuslibet alterius probationis, ut ueri esse monstrentur. Quod si prima pars interimatur, non erit syllogismus; age enim ita dicamus: Si est a, est b; Atqui non est a  non consequitur ut sit uel non sit b, ut exemplo etiam demonstratur. Sit enim propositio: Si est homo, animal est; Sed homo non est;  non necesse erit uel esse animal, uel non esse. Secundus modus per contradictionem assumptionis, qui a secunda propositione descendit, ille est cum ita proponimus: Si a est, b non est; Atqui est b; Igitur a non est.  Hic enim rursus secunda pars propositionis est interempta: nam cum secunda pars propositionis b non esse diceret, si a fuisset, assumptio b esse pronuntiat. Affirmatio autem perimit negationem, quam assumptionem consequitur, ut a non sit, hoc modo. Sit enim propositio: Si a est, b non est  et sit b. Dico quia a non erit: nam si erit a, cum sit b, idem b erit et non erit: non erit quidem ex prima propositione quae dicit: Si a est, b non est  erit autem per assumptionem, qua dicimus esse b. At si praecedens propositionis pars auferatur, non fiet ulla necessitas.  Age enim in huiusmodi propositione: Si a est, b non est  ita dicamus: Atqui non est a  non consequitur ut b sit aut non sit. Id uero tali arguitur exemplo. Dicamus enim: Si nigrum est, album non est  assumamusque non esse nigrum, non statim consequitur ut uel album sit, uel non sit: potest enim aliquid esse mediorum. Tertius modus ille est ex tertia propositione deductus, cum ita proponimus: Si a non est, b est; b autem non est; a igitur est.  Hic quoque consequens pars propositionis assumpta est, et cum in propositione affirmaretur, in assumptione negata est, et est rata consequentia, et perficiens syllogismum hoc modo. Nam si uerum est, cum non sit a, esse b, dico quia si b non sit, esse a: nam si poterit, cum b non sit, non esse a, frustra est prima propositio, quae dicit cum non sit a esse b eritque b ac non erit; non erit quidem ex ea assumptione quae proponit non esse b; erit autem, quia, si a terminus esse negabitur, posito non esse b termino, cum non sit a, erit b, quod est impossibile. Non igitur potest fieri ut cum non sit b, non sit a; consequitur igitur ut, cum non sit b, sit a. Quod si prior pars propositionis quae praecedens est auferatur, nullus est syllogismus, hoc modo: cum enim dicimus si a non est, esse b, si assumamus: Atqui est a  nihil euenit necessarium, ut uel sit b uel non sit, secundum ipsius complexionis naturam. Nam hic quoque, ut in his in quibus in assumptione secundus terminus ponebatur, dicendum est secundum quidem ipsius complexionis figuram nullum fieri syllogismum; secundum terminos uero in quibus solis dici potest, necesse esse, si a fuerit, b non esse. In contrariis enim tantum, et in his immediatis, id est medium non habentibus, haec sola propositio uere poterit praedicari, ueluti cum dicimus: Si dies non est, nox est  siue non fuerit dies, nox erit, siue nox non fuerit, dies erit, siue dies fuerit, nox non erit, siue nox fuerit, dies non erit.  Quartus modus est horum syllogismorum ex quarta propositione descendens, cuius haec prima est propositio: Si a non est, non est b; Est autem b; Erit igitur a.  Hic quoque secunda pars propositionis assumpta est, et quaniam eadem in negatione fuerat posita, affirmatione est interempta; affirmatio enim uim negationis interimit. Hic quoque eodem modo syllogismi necessitas continetur, nam, si posito cum non sit a, non esse b, sumatur esse b, dico quia consequens est etiam a esse. Nam si potest, cum sit b, non esse a, frustra est prima propositio, quae, cum a non sit, b non esse pronuntiat; fiet igitur rursus ut idem b sit ac non sit. Ex assumptione namque erit b; ita enim dicitur: Atqui est b  si uero hoc posito possit non esse a, rursus b non erit, quia prima propositio ait: Si non sit a, non est b  quod est impossibile. Quod si ea portio propositionis quae praecedens est auferatur, nihil euenit necessarium. Age enim ita dicamus: Si non est a, non est b  assumamusque: Atqui est a  non consequitur ut b uel esse uel non esse necessario concludatur, ut in hoc syllogismo: Si non est animal, non est homo; Atqui est animal;  non necesse est uel esse hominem uel non esse. Hi igitur quatuor syllogismi imperfecti /274/ dicuntur, idcirco quoniam per se non habent apertam atque perspicuam consequentiae necessitatem, eaque illis ex probatione conficitur. Ut igitur breuiter concludendum sit, in hypotheticis simplicibus syllogismis connexas habentibus propositiones, quoquo modo factis, si quidem prima pars propositionis assumitur, si ea ponatur, fient quatuor syllogismi per se cogniti atque perfecti; si uero id quod consequitur assumatur, nulla est syllogismo necessitas, nisi in tertio tantum modo, qui non propter complexionis naturam sed propter terminorum contrarietatem, in quibus solis dici potest, uidetur conclusionis necessitatem tenere. Itaque si quid in assumptione ex his quae in propositione sunt prolata ponatur, quatuor uel quinque fieri necesse est syllogismos perfectos: quatuor, ubi prima pars propositionis, quintum uero, ubi secunda pars propositionis ponendo assumitur, si non ad complexionis naturam sed ad terminos aspiciamus. Si quid uero ex his quae in assumptione prima propositio enuntiat, auferatur, si quidem consequens pars propositionis auferatur, fient imperfecti et probatione indigentes quatuor syllogismi; si uero prior propositionis pars auferatur, nulla erit necessitas syllogismi, nisi in tertio tantum modo, ubi non facit necessitatem complexionis sed terminorum natura. Quocirca hi quoque quatuor uel quinque sunt syllogismi: quatuor quidem, si secunda propositionis pars fuerit interempta; quintus /276/ uero, si eum non complexionis natura sed terminorum proprietate metiamur. Quocirca si ex duobus terminis propositio prima consistat, octo sunt uel decem, nec amplius syllogismi. Ac de his quidem conditionalibus syllogismis, quorum propositiones connexae sunt, et ex duabus praedicatiuis simplicibus constant, sufficienter expeditum est. Nunc de his syllogismis dicendum est, qui uel ex praedicatiua et hypothetica, uel ex hypothetica praedicatiuaque nectuntur. Horum autem facile complexiones omnium syllogismorum apparebunt, si prius earum numerus exponatur.  Sunt igitur priores quidem quae ex praedicatiua atque hypothetica connectuntur hae: Si sit a, cum sit b, est c. Si est a, cum sit b, non est c. Si est a, cum non sit b, est c. Si est a, cum non sit b, non est c. Si non est a, cum sit b, est c. Si non est a, cum sit b, non est c. Si non est a, cum non sit b, est c. Si non est a, cum non sit b, non est c.  Ac primum quae sit earum natura, uidetur esse tractandum. Neque enim quoquo modo conditio ponatur, conditionalis propositio fiet sed si illa consequentia propter positam euenit conditionem. Nam si quis ita dicat: Si homo est, cum sit animal, animatum est  non uidetur facere apposita conditio consequentiae necessitatem; nam etiam si non sit homo, nihilominus tamen, cum sit animal, animatum est. At si ita ponatur: Si homo /278/ est, cum sit animatum, animal est  uidetur consequentiae ratio in conditione consistere. Neque enim necesse est, cum animatum sit, esse animal, nisi homo uel tale aliquid fuerit, quod animatum esse proponitur; tunc enim quod animatum est, animal esse necesse est, homo namque uel quodlibet aliud tale animal est. Per singulas igitur propositiones eundum est, et spectanda est earum singularis natura hoc modo. Prima propositio per quam enuntiatur si est a, cum sit b, esse c, talis esse debet ut b quidem possit esse etiam praeter a, si tamen a fuerit, b non esse non possit; rursus idem b terminus possit esse etiam cum non est c, nec sit necesse ut b posito sit etiam c sed tunc tantum necesse sit esse c, quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit a homo, b animatum, c animal. Animatum enim et praeter hominem et praeter animal esse potest; si uero sit homo, animatum esse necesse est, et cum animatum hominis essentiam consequatur, consequitur ut idipsum animatum sit animal. Item secundam propositionem, quae ait si est a, cum sit b, non esse c, huiusmodi esse oportebit ut b quidem praeter a esse possit sed cum fuerit a, necesse sit esse etiam b; at uero c tale sit ut simul quidem cum a esse non possit, cum b uero esse possit sed tunc tantum cum b esse non possit, quando b terminus a terminum sequitur, ut si sit a homo, b animatum, c insensibile. Namque animatum praeter hominem esse potest; at si homo sit, ut sit animatum necesse est; insensibile uero potest esse animatum sed tunc /280/ insensibile et animatum non conueniunt, cum idcirco est animatum quia homo esse praedictus est. Tertia uero propositio a quidem terminum debet habere, qui numquam simul esse possit cum b termino; c uero terminum talem esse oportebit, ut possit quidem non esse, si non fuerit b sed tunc tantum necesse sit, si b terminus non sit, esse c terminum, si idcirco non est b quaniam terminus a esse praedictus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c sensibile. Nam si est homo, non est inanimatum, sensibile uero potest simul non esse cum inanimato; possunt enim esse quaedam quae nec inanimata sint, nec sensibilia, ut arbores. Idem tamen sensibile necesse est esse, cum non sit inanimatum, si idcirco inanimatum non est quia homo esse praedictus est. Rursus quarta propositio huius debet esse proprietatis, ut b quidem terminus nullo modo esse possit, si fuerit a, at uero c possit esse, si non fuerit b; sed tunc tantum c, cum non fuerit b, non esse necesse sit, si b terminus non sit quia prius a terminus esse positus est, ut si sit a homo, b inanimatum, c insensibile. Inanimatum enim non erit si fuerit homo; insensibile uero potest esse et non esse, si non sit inanimatum; tunc tamen insensibile non esse ne cesse est, cum inanimatum non sit, cum idcirco inanimatum non est quia homo esse praedictus est. Quinta quoque propositio tales habere terminos debet, ut a quidem si non sit, necesse sit esse b, si b terminus sit, c et esse possit et possit non esse: tunc tantum c esse necesse sit, cum fuerit b, cum idcirco est b quia a terminus esse negatus est, ut si sit a quidem animatum, b uero insensibile, c inuitale. Igitur si non sit animatum, statim consequitur ut sit insensibile; inuitale autem potest esse, si sit insensibile, ut lapis, potest uero non esse inuitale, si sit insensibile, ut sunt arbores; sed tunc tantum, posito insensibili, consequitur ut inuitale esse necesse sit, cum idcirco est insensibile quia non est animatum.  Sexta uero propositio tales terminos habere desiderat, ut b quidem esse necesse sit, si non fuerit a, at uero c terminus, si sit b, uel esse uel non esse possit; tunc tamen c non esse necesse sit, cum sit b, quando idcirco est b quia a terminus non esse propositus est, ueluti si sit a animatum, b insensibile, c uitale. Nam necesse est esse insensibile, si non fuerit animatum; cum uero sit insensibile, fieri quidem potest ut non uiuat, ueluti lapis, fieri autem potest ut uiuat, ueluti arbor; tunc tamen necesse est non uiuere, cum sit insensibile, quando idcirco est insensibile quia animatum non esse propositum est. Septimus modus talibus terminis debet esse contextus, ut b quidem sine a esse non possit, c autem si non sit, b et esse et non esse possit; tunc tamen necesse sit c terminum esse, si non sit b, cum idcirco b non esse propositum est quoniam a fuerit ante denegatum. Sit enim a quidem animatum, b uero sensibile, c inuitale; sensibile igitur esse non potest nisi fuerit animatum; si igitur non sit animatum, non erit sensibile, si uero non sit sensibile, potest esse inuitale, uelut in lapidibus, idem potest non esse, uelut in arboribus; tunc tamen sensibili denegato inuitale necesse est esse, cum idcirco non est sensibile quia prius animatum non esse propositum est. Octaua propositio his terminis connectenda est, ut b terminus esse non possit si non fuerit a, cum uero non sit b, terminus c et esse et non esse possit sed tunc necesse sit c terminum non esse, cum non fuerit b, cum idcirco non est b quia a terminus prius esse negatus est, ut si sit a quidem animatum, b uero sensibile, c uitale. Sensibile igitur esse non potest nisi fuerit animatum; idem tamen sensibile si non sit, et non esse uitale potest, ut lapides, et esse uitale, ut arbores; tunc tamen necesse est uitale non esse, si non sit sensibile, cum idcirco sensibile non est quia prius animatum esse negatum est. Ex his igitur constat c terminum, quoquo modo fuerit b, in conditionalibus propositionibus, quae in tota enuntiatione post praedicatiuas locantur, posse tam loco afFirmationis quam negationis assumi, ex quibus assumptionibus fiunt complexiones uariae syllogismorum. His igitur ita expeditis, de omnibus in commune praecipiendum uidetur. Nam cum sint octo propositiones quae ex praedicatiua hypotheticaque nectuntur, quae superius ascriptae sunt, earum quatuor ita faciunt consequentiam, si a terminus sit; quatuor uero ita conditionem proponunt, si a terminus non sit. Fiunt uero ex his syllogismi hoc modo. Ex prima propositione: Si est a, cum sit b, est c; Atqui est a; Cum igitur sit b, est c  uel sic: Atqui cum sit b, non est c; Non est igitur a  (posse autem huiusmodi esse assumptionem ex superius descripta propositionum natura cognoscitur). Ex secunda propositione: Si est a, cum sit b, non est c; Atqui est a; Cum igitur sit b, non est c  uel ita: Atqui cum si b, est c; Non est igitur a.  Ex tertia: Si est a, cum non sit b, est c;  Atqui est a; Cum igitur non sit b, est c  uel ita: Atqui cum non sit b, non est c;  Non est igitur a. Ex quarta: Si est a, cum non sit b, non est c; Atqui est a; Cum igitur non sit b, non est c  uel ita: Atqui cum non sit b, est c; Non est igitur a.  In his igitur quatuor propositionibus, in quibus a terminus esse proponitur, si assumptum fuerit eundem a terminum esse, c terminus uel esse uel non esse monstratur; idem uero si c terminus assumatur, siquidem cum est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus non esse monstrabitur. Ex quinta etiam propositione ita syllogismi fiunt: Si non est a, cum sit b, est c; Atqui non est a; Cum igitur sit b, est c  uel ita: Atqui est a; Cum igitur sit b, non est c  uel ita: Atqui cum sit b, non est c; Est igitur a  uel sic: Atqui cum sit b, est c; Non est igitur a.  Quod idcirco euenit ut huiusmodi propositio quatuor colligat syllogismos, quia in his tantum si non sit aliquid esse aliud proponi potest, in quibus contraria medietatibus carent; in his enim uel interempto altero alterum ponitur, uel posito altero alterum necesse est perimatur. Ex sexta: Si non est a, cum sit b, non est c; Atqui non est a; Cum igitur sit b, non est c  uel ita: Atqui cum sit b, est c; Est igitur a.  Ex septima: Si non est a, cum non sit b, est c; Atqui non est a;  Cum igitur non sit b, est c  uel ita: Atqui est a; Cum igitur non sit b, non est c  uel ita: Atqui cum non sit b, non est c; Est igitur a  uel ita: Atqui cum non sit b, est c; Non est igitur a.  In hac quoque complexione propter eandem causam quatuor collectiones hunt. Ex octaua: Si non est a, cum non sit b, non est c; Atqui non est a; Cum igitur non sit b, non est c  uel ita: Atqui cum non sit b, est c; Est igitur a.  In his quoque quatuor propositionibus, si quidem a non esse assumatur, c uel esse uel non esse concluditur; si uero c cum est non esse, uel cum non est esse assumatur, a terminus semper esse concluditur, nisi in quinto et septimo tantum modis, ubi cum c esse assumatur, a non esse monstratur. Omnium uero communis est ratio, praeter quintum ac septimum modum, ut si a terminus ita assumatur, quomodo in prima enuntiatione propositus est, conditio quae sequitur in conclusione firmetur.  Si uero conditio quae sequitur contrario modo atque in enuntiatione proposita est assumatur, categorica propositio, quae prima est, interimetur. In septimo autem uel quinto modo, quaque ratione sumptum sit alterum, in utrisque partibus faciet conclusionem. Itaque fiunt sedecim uel uiginti potius syllogismi: octo quidem, si a terminus, ut est propositus, assumatur, octo uero, si c terminus conuerso modo atque in propositione est positus assumatur, quatuor uero ex quinto et septimo modis utrobique facientibus conclusionem. Reliquis uero complexionibus nulla est consequentia necessitatis. Ut autem plenior fieret intellectus ipsas propositiones cum suis terminis positas annotaui, ut secundum praedictos assumptionum modos non ratione solum demonstratio fieret, uerum etiam per exempla currentibus doctrina clarior elucesceret. Si est a homo, cum sit b animatum, est c animal. Si est a homo, cum sit b animatum, non est c insensibile. Si est a homo, cum non sit b inanimatum, est c sensibile. Si est a homo, cum non sit b inanimatum, non est c insensibile. Si non est a animatum, cum sit b insensibile, est c inuitale. Si non est a animatum, cum sit b insensibile, non est c uitale. Si non est a animatum, cum non sit b sensibile, est c inuitale. Si non est a animatum, cum non sit b sensibile, non est c uitale. Expeditis igitur his syllogismis qui ex talibus propositionibus fiunt, quae ex prima praedicatiua secunda hypothetica copulantur, nunc ad eos transitum faciamus qui ex prima conditionali secunda uero praedicatiua nectuntur, quamm omnium numerus proponendus est, ut de quibus loquimur lector agnoscat. Si cum sit a, est b, est c.  Si cum sit a, est b, non est c.  Si cum sit a, non est b, est c. Si cum sit a, non est b, non est c. Si cum non sit a, est b, est c. Si cum non sit a, est b, non est c. Si cum non sit a, non est b, est c. Si cum non sit a, non est b, non est c.Prima igitur propositio tales habere terminos debet, ut a quidem possit esse praeter c ac b; sed tunc, si a fuerit, c esse necesse sit, cum a terminum b terminus subsequatur, ut si sit a quidem animatum, b homo, c animal. Animatum namque praeter animal et praeter hominem esse potest; tunc uero id quod animatum est etiam animal esse necesse est, si id quod est animatum, homo est. Secunda propositio talibus terminis contexenda est, ut a quidem praeter b atque c, et cum eisdem esse possit; tunc tamen necesse sit non esse c, si a posito b sequatur, ut si a sit animatum, b homo, c equus.  Animatum quippe et ut homo uel equus sit aut non sit fieri potest; tunc uero necesse est id quod animatum est non esse equum, si id ipsum quod animatum est, homo fuerit. Tertia propositio his terminis copulatur, ut a quidem cum b et c uel esse uel non esse possit, tunc tamen necesse sit simul esse cum c, si, posito a termino, b terminus abnuatur, ut si sit a animatum, b animal, c insensibile. Nam quod animatum est, uel animal uel non animal, uel insensibile uel non insensibile esse potest sed tunc necesse est id quod animatum est esse insensibile si, animato posito, animal abnuatur.  Quartae propositionis hi termini sunt, ut a quidem cum b atque c esse et non esse possit, tunc uero ab eo modis omnibus separetur, si, posito a termino, b terminus abnuatur, ut si sit a quidem animatum, b animal, c homo. Nam quod animatum est uel animal esse uel non esse, itemque homo esse uel non esse potest; tunc tamen necesse est ut, cum sit animatum, non sit homo, cum posito esse animato animal denegatur. Quinta uero propositio his terminis conectatur, ut si non sit a, possit et esse et non esse b atque c; tunc tamen cum non sit a, terminum c esse necesse sit si, posito non esse a, esse b terminum consequatur, ut si sit a quidem inuitale, b homo, c animal. Nam si non sit inuitale, tunc possunt homo atque animal esse uel non esse; at necesse est esse animal, negato inuitali, si, cum inuitale negabitur, esse hominem subsequatur. Sextam uero propositionem talia debent membra coniungere, ut, si non sit a terminus, b atque c uel esse uel non esse possint; tunc uero, denegato a termino, c non esse necesse sit, cum negationem a termini b termini affirmatio comitabitur, ut si sit a inuitale, b homo, c equus. Nam quod non est inuitale, potest esse homo uel equus uel non esse sed necesse est non esse equum, inuitali denegato, si negationem inuitalis hominis positio subsequatur. Septimae propositionis hos esse terminos oportebit, ut, si non sit a terminus, b atque c et esse et non esse possint; /296/ sed tunc necesse sit esse c terminum, si negationem a termini b termini negatio subsequatur, ut si sit a animal, b animatum, c inuitale. Animal quidem si non sit, animatum et inuitale esse uel non esse potest; tunc uero necesse est, si animal non sit, esse inuitale, quando, si animal non sit, non erit animatum.  Octaua propositio est cum, negato a termino, possunt et esse et non esse b atque c termini; sed tunc necesse est, si a terminus abnuatur, non esse c terminum, cum negationem a termini negatio b termini subsequetur, ut si sit a inuitale, b animal, c homo. Si igitur non sit inuitale, potest esse uel non esse animal uel homo, tunc uero si non sit inuitale necesse est hominem non esse, cum animal non fuerit.  His igitur ita expeditis, illud in commune dicendum est, quod superiores quatuor propositiones ita faciunt conditionem, si fuerit a, posteriores uero si non fuerit, ex quibus omnibus syllogismi tali ratione nascuntur. Ex prima propositione: Si cum sit a, est b, est c; Atqui cum sit a, est b; Est igitur c uel ita: Atqui non est c; Cum igitur sit a, non est b.  Posse uero tales fieri conclusiones, ex superius descriptarum propositionum natura cognoscimus: poterat enim a terminus esse uel non esse cum b. Item ex secunda: Si cum sit a, est b, non est c; Atqui cum sit a, est b; Non est igitur c  uel ita: Atqui est c;  Cum igitur sit a, non est b. Ex tertia uero utrobique assumptis terminis collectiones fiunt, ut: Si cum est a, non est b, est c; Atqui cum est a, non est b; Est igitur c  uel ita: Atqui cum sit a, est b; Non est igitur c uel ita: Atqui non est c; Cum igitur sit a, est b  uel sic: Atqui est c; Cum igitur sit a, non est b.  Quae idcirco facta est utrobique collectio, quoniam in his terminis hae propositiones poterant poni, in quibus immediata contraria reperiebantur; in illis enim alterius positio alterum perimebat, et alterius interemptio ponebat alterum.  Ex quarta:  Si cum sit a, non est b, non est c; Atqui cum sit a, non est b; Non est igitur c  uel ita: Atqui est c; Cum igitur sit a, est b.  Ex quinta:Si cum non sit a, est b, est c; Atqui cum non sit a, est b; Est igitur c  uel ita: Atqui non est c; Cum igitur non sit a, non est b.  Ex sexta: Si cum non sit a, est b, non est c; Atqui cum non sit a, est b; Non est igitur c  uel ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, non est b. Ex septima utrobique colligitur hoc modo: Si cum non sit a, non est b, est c; Atqui cum non sit a, non est b; Est igitur c  uel ita: Atqui cum non sit a, est b;  Non est igitur c  uel sic: Atqui non est c; Cum igitur non sit a, est b  uel ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, non est b. Hic quoque propter eandem causam in alterutra assumptione syllogismus fiet; non esse aliquid cum alind non sit in immediatis tantum contrariis dicebatur. Ex octaua: Si cum non sit a, non est b, non est c; Atqui cum non sit a, non est b;  Non est igitur c  uel ita: Atqui est c; Cum igitur non sit a, est b.  In omnibus igitur superius descriptis syllogismis, haec ratio est, ut, si b terminus assumatur, ita ut in propositione est positus, ita c terminum concludat, ut in eadem propositione fuerit collocatus.  At si c terminus contrario modo assumatur quam in propositione fuerit positus, contrario modo b terminus in conclusione monstrabitur, praeter tertium et septimum modum, in quibus etiamsi b terminus contrario modo atque in propositione est positus assumatur, c terminum contrario modo atque positus est colligit, uel si c terminus ita ut in propositione est positus assumatur, simili modo b terminum concludit, ut in eadem propositione fuerat collocatus. Quare sedecim quidem uel uiginti fiunt syllogismi: assumptis namque primis hypotheticis propositionibus, octo; octo uero si secundae praedicatiuae assumantur; quatuor autem his adinuguntur ex tertio et septimo modo utrobique colligentibus, ut omnes etiam in his propositionum complexionibus fiant sedecim uel uiginti syllogismi.  Quoquo autem modo aliter assumptiones uerteris, nihil euenit necessarium. Ut autem omnis propositionum ac syllogismorum ratio colliquescat, exempla subiecimus, quibus facilius id quod superius docuimus declaretur. o  Si cum sit a animatum, est b homo, est c animal. o  Si cum est a animatum, est b homo, non est c equus. o  Si cum sit a animatum, non est b animal, est c insensibile. o  Si cum sit a animatum, non est b animal, non est c homo. o  Si cum non sit tale, est b homo, est c animal. o  Si cum non sit a inuitale, est b homo, non est c equus. o  Si cum non sit a animal, non est b animatum, est c inuitale.  o  Si cum non sit a inuitale, non est b animal, non est c homo. Ac de his quidem syllogismis qui talibus propositionibus conectuntur, quae ex hypothetica praedicatiuaque consistunt, sufficienter est dictum. Nunc de his dicendum est syllogismis, quorum propositiones ita tribus terminis continentur, ut mediae sint earum quae ex hypothetica categoricaque texuntur, et earum quae ex duabus hypotheticis connectuntur, quas idcirco hoc loco proponimus, quia, ut superiores, ita haec quoque tribus terminis continentur, et a similibus ad similia facilior transitus fiet. Harum uero fiunt multiplices syllogismi, quorum nullus poterit esse perfectus, cum nec per se perspicui sint, et ut his fides debeat accomodari adiumento extrinsecus positae probationis indigeant; est autem probatio talium syllogismorum alio constitutus ordine syllogismus. Fiunt uero, ut dictum est, tum per primam, tum per secundam, tum uero per tertiam figuram. Sunt autem primae figurae propositiones hae: Si est a, est b; et si est b, est c. Si est a, est b; et si est b, non est c. Si est a, non est b; et si non est b, est c. Si est a, non est b; et si non est b, non est c. Si non est a, est b; et si est b, est c. Si non est a, est b; et si est b, non est c. Si non est a, non est b; et si non est b, est c. Si non est a, non est b; et si non est b, non est c. Ergo ratio colligentiae talis est, ut si constituat et confirmet assumptio quod enuntiatio prima pronuntiat, sexdecim necesse est fieri complexiones, ex quibus octo tantum seruant consequentiae necessitatem, reliquae uero octo nihil habere idoneum uidentur ad fidem. Rursus id quod propositio prima constituit euertat assumptio: sic quoque sexdecim necesse est fieri complexiones, quarum octo firma necessitas tenet, octo uero reliquas infida saepius uarietas mutat. Fiunt uero hi syllogismi, tum in prima figura, tum in secunda, tum uero in tertia. Omnes igitur trium figurarum modos, a prima ordientes, ut nihil subterfugiat explicemus. Est enim primae figurae primus modus a prima ueniens propositione, cum ita proponimus: Si est a, est b; Si est b, necesse est esse c.  Tunc enim si est a, etiam c esse necesse est, cuius haec demonstratio est: nam si est a, consequitur ut sit b (id est enim quod proponit prima conditio, si sit a, esse b); at si b fuerit est c, id est enim quod propositionis pars secunda pronuntiat, si sit b, consequi necessario ut sit c. Quibus ita concessis, euenit ut, cum sit a, etiam c esse necesse sit; imperfectum uero hunc dicimus syllogismum, quia testimonio probationis indiguit; probatio uero ea fuit per syllogismum demonstratio. Ita namque firmauimus talis consequentiae necessitatem: cum enim ita proponeretur: Si est a, est b; Et si est b, necesse est ut sit c;  poneretque assumptio id quod affirmatio constituerat, esse a, eamque assumptionem talis sequi conclusio diceretur, quod necessario esset c, neque id esset ipsius syllogismi natura et proprietate perspicuum, addita est probatio per syllogismum hoc modo: Si est a, est b; At si est b, est c; Si igitur est a, necesse est ut sit c. Et in reliquis quidem eandem rationem exspectari oportere manifestum est. Et haec quidem complexio ea est, quae id quod primo in propositione positum fuerat assumit atque constituit; quod si id ponendo quis quod sequebatur assumat, nulla est necessitas syllogismi, ueluti cum dicimus: Si est a, est b; Et si est b, necesse est esse c; Atqui est c;  non necesse est esse b uel non esse; sed cum non sit necesse esse b uel non esse, non erit necesse a esse uel non esse. Idem quoque tale firmabit exemplum: Si est homo, animal est; Et si est animal, erit corpus animatum; Atqui est corpus animatum;  non necesse erit esse animal, quocirca ne hominem quidem. Secundus uero modus est hic primae figurae, cum ita proponimus: Si est a, est b; Et si est b, necesse est non esse c; At uero est a; Non est igitur c. Huius demonstratio talis est. Nam Si est a, est b  id enim prima conditio monstrabat, quae est, si sit a esse b; cum uero sit b, necesse est non esse c: id enim consequentia praeferebat in qua pronuntiabatur, si esset b consequi ex necessitate ut non esset etiam c; si igitur sit a, non erit c. Quod si id quod ultimum propositio constituit ponat assumpio, id est non esse c  nullus est syllogismus. Nam si de aliqua re ita proponatur: Si homo sit, est animal; Et si est animal, non est lapis; At non est lapis;  non necesse erit aut esse aut non esse animal, eodem modo nec hominem. Potest enim, si lapis non sit, esse lignum uel caetera quae neque animalia sunt, nec inter homines numerantur. Tertius uero modus est primae figurae, cum id assumptio constituit quod propositio prima ponebat, cuius ex tertia propositione principium est cum ita proponimus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse c;  hic enim rursus, si a terminus assumatur ita ut in prima est enuntiatione propositus, ita dicetur: Atqui est a; Est igitur c.  Probatio uero superioribus similis. Nam quia est a, non est b, et quia non est b, est c; quia igitur est a, est c. Quod si c terminus assumatur, nihil necessarium fiet, ut si ita proponamus: Si homo est, non est insensibile; Si non est insensibile, animal est; Est autem animal;  non est necesse esse hominem. Quartus uero modus est qui ex quarta propositione principium capit, qui tali propositione formatur: Si sit a, non est b;  Si non est b, non est etiam c;  hic enim si est a, necesse est c non esse. Demonstratio uero eadem quae in prioribus modis. Quod si c assumatur, nulla erit necessitas complexionis, hoc modo. Age enim proponatur: Si est homo, lapis non est; Si lapis non est, non est inanimatum; Atqui non est inanimatum;  non necesse est esse hominem. Quintus modus est ex quinta enuntiatione descendens, cuius prima talis est propositio: Si non est a, est b; Si est b, etiam c esse necesse est;  Atqui non est a; c igitur necesse est esse.  Hic quoque prius dicta conditio facit consequentiam necessitatis; at si id quod est c assumatur, nulla necessitas euenit. Sit enim propositio: Si non est irrationabile rationabile est;  Et si rationabile est, animal est;  et assumamus: Sed est animal;  non necesse erit uel esse uel non esse irrationabile.  Sextus modus est ita propositus, quem sexta propositio facit: Si non sit a, est b; Et si est b, non est c; Atqui non est a; Non est igitur c.  Similis uero superioribus demonstratio. At si c assumatur, eodem modo nullus est syllogismus; nam si sit propositio: Si animatum non est, inanimatum est; Et si inanimatum est, sensibile non est;  si assumatur: Atqui non est sensibile;  non necesse erit uel esse uel non esse animatum. Septimus modus est, qui ex septima propositione est: Si a non est, b non est; Et si b non est, necesse est esse c;  Atqui non est a;  Necesse est igitur esse c. Quod si c assumatur, nihil fit necessarium: nam si proponamus: Si animatum non est, animal non esse; Et si animal non sit, insensibile esse;  assumamusque: At est insensibile;  non necesse est uel esse uel non esse animatum. Octauus uero modus est qui ita proponitur: Si non est a, non est b; Et si non est b, necesse est non esse c; Atqui non est a; Non est igitur c. Quod si c assumatur, nec in complexione nec in terminis erit ulla necessitas. Age enim ita proponamus: Si non est animatum, non est animal; Et si non est animal, necesse est non esse sensibile; Atqui non est sensibile;  non necesse erit non esse animatum, ut arbores, herbas, et quidquid uitali tantum anima, non etiam sensibili, uegetatur. In prima igitur figura ex tribus terminis fiunt hypotheticae sexdecim complexiones, ita ut id quod positum est in propositione, idem in assumptione quoque ponatur: octo quidem, si a terminus in propositione ponatur; octo uero, si c. Quod si a terminus ponendo assumatur, erunt octo necessarii syllogismi; si uero c terminus ponendo assumatur, quinque equidem complexiones, id est quae primo secundo tertio quarto atque octauo respondent modo, nullius necessitatis esse deprehenduntur; tres uero complexiones, quae quinto sexto septimoque modo accomodantur, per complexionis quidem naturam nullam necessitatis constantiam seruant; per terminorum uero proprietatem necessarium colligunt syllogismum, ut sint omnes octo uel undecim syllogismi. Eodem quoque modo syllogismorum complexionumque ordo constabit, si id in assumptione quod in propositione positum fuerat, auferatur.  Fient quippe sexdecim complexiones, quarum octo quidem, ubi id quod sequitur aufertur, integra necessitate perdurant, octo uero, in quibus id quod praecedit aufertur, necessitatem non eadem ratione conseruant.  Sed hae quidem complexiones quae primo secundo ac tertio, quarto atque octauo modo accomodantur, nihil colligunt nec per terminorum nec per complexionis proprietatem; tres uero, id est quintus, sextus et septimus, nihil quidem colligunt secundum complexionis naturam, uidentur uero colligere secundum terminorum proprietatem, ut hinc quoque octo uel undecim sint syllogismi. Horum uero omnium subdantur exempla. Primus igitur modus hic est: Si est a, est b; Et si est b, etiam c esse necesse est; At non est c; Igitur a non est.  Quod si assumamus: At non est a;  nihil euenit necessarium. Sit enim propositio haec: Si est homo, animal est; Et si animal est, animatum esse necesse est; Atqui non est homo;  necesse non erit ut non sit animatum. Secundus modus est: Si est a, est b; Et si est b, non esse c necesse est; Atqui est c; Igitur a non erit.  Quod si assumamus ita: Atqui non est a;  non necesse erit esse c uel non esse. Nam si sit propositio talis: Si est homo, animal est; Et si animal est, lapis non est;  si assumamus: Atqui non est homo;  non necesse erit lapidem uel esse uel non esse. Tertius modus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est esse c; Atqui non est c; Necesse est igitur non esse a. Quod si a terminum tollat assumptio, nihil euenit necessarium: age enim sit propositio: Si homo est, non est inanimatus; Et si inanimatus non est, animatum esse necesse est; Atqui non est homo;  non necesse est uel esse uel non esse animatum. Quartus: Si est a, non est b; Et si non est b, necesse est non esse c; At est c; Igitur a non erit.  Quod si assumamus non esse a, nulla complexionis necessitas inuenitur: nam si sit propositio: Si homo est, non est irrationabile; Si irrationabile non est, inanimatum eum non esse necesse est; Atqui non est homo;  non necesse est eum uel esse inanimatum uel non esse. Quintus: Si a non est, b est; Et si b est, c esse necesse est; Atqui non est c; Igitur a esse necesse est.  Quod si a terminus assumatur, non fiet syllogismus: sit enim propositio: Si irrationabile non est, rationabile est; Et si rationabile est, animal est; Atqui irrationabile est;  non necesse erit esse uel non esse animal. Sextus: Si non est a, est b; Et si est b, necesse est non esse c; Atqui est c; Igitur a esse necesse est. Quod si a terminum sumam, nulla necessitas inuenitur: sit enim propositio talis: Si animatum non sit, inanimatum est; Et si inanimatum est, sensibile non est; Atqui animatum est;  non erit necesse uel esse uel non esse sensibile. Septimus: Si a non sit, b non est; Et si b non est, c esse necesse est; Atqui c non est; Igitur a esse necesse est.  Quod si a terminum sumpserimus, complexio nullam faciet necessitatem: sit enim proposititio talis: Si non est animal, non est rationabile; Si rationabile non est, irrationabile est;  et si assumamus: Atqui animal est;  non necesse est uel esse irrationabile uel non esse. Octauus modus est qui hac propositione formatur: Si a non est, nec b est;  Et si b non est, c non esse necesse est; Atqui est c; Igitur a esse necesse est.  Quod si a terminum sumpserimus, non fiet ulla necessitas: sit enim propositio: Si non est animal, non est homo; Et si non est homo, necesse est non esse risibile;  Atqui est animal;  non necesse erit uel esse uel non esse risibile. Ac de prima quidem figura satis dictum est, sequenti uero uolumine de secunda tractabitur. Conditionalium propositionum, quae tribus terminis constant, secunda figura est, quotiens cum aliquid dicitur uel esse uel non esse, consequitur ut duo quaedam uel esse uel non esse dicantur. Variantur autem in ipsis propositionibus uel etiam in conclusionibus secundum assumptionis ordinem multis modis; quod ut facilius innotescat, prius cunctae propositiones ordine digerantur. In quibus illud est praedicendum, quod saepe aequimodae propositiones ponuntur, saepe uero non; aequimodis quidem nullus est syllogismus. Aequimoda enim propositio est si ita dicamus: Si a est, b est; Et si a est, c non est;  inaequimoda uero secundae figurae propositio est in his syllogismis hypotheticis quorum enuntiationes tribus terminis componuntur, ueluti cum ita proponimus: Si est a, est b; Si autem non est a, est c. Huius propositionis tale intellegatur exemplum: Si animal est, animatum est; Si animal non est, insensibile est;  hic igitur animal, quod est a, non est uno modo utrisque propositum sed ad b quidem afiirmatiue, ad c autem negatiue coniungitur, et id uocatur non aequimode praedicari. Quod si in utrisque a esse uel non esse poneretur, aequimoda praedicatio diceretur. Disponantur igitur (ut dictum est) omnes non aequimodae propositiones hoc modo: o Si est a, est b; si non est a, est c. o Si est a, est b; si non est a, non est c. o Si est a, non est b; si non est a, est c. o Si est a, non est b; si non est a, non est c.  Nunc igitur a quidem esse propositum est cum b, non esse uero cum c; rursus a non esse ponamus cum b, esse uero cum c: o Si non est a, est b; si est a, est c. o Si non est a, est b; si est a, non est c. o Si non est a, non est b; si est a, est c. o Si non est a, non est b; si est a, non est c.  Si igitur non sit aequimoda praedicatio, assumpto quidem b fiunt sexdecim complexiones, quarum tantum octo sunt syllogismi; rursus, si assumatur c, sic quoque sexdecim complexiones fiunt sed in octo tantum syllogismorum deprehenditur firma necessitas. Sit igitur secundae figurae primus modus hic, ex prima ueniens propositione: Si est a, est b; Si autem non est a, est c. Dico quoniam: Si non est b, est c  quoniam enim si est a est b, secundum ordinem consequentiae si non est b, non erit a; atqui si non esset a, esset c, si igitur non sit b, erit c. Quod si idem b esse ponatur, nihil euenit necessarium: age enim sit b, non necesse est esse uel non esse a. Nihil igitur necessarium sequitur, ut sit uel non sit c; ut si sit a animal, b animatum, c insensibile: nam si est animal, est animatum; si uero non est animal, insensibile est; atqui si sit animatum, non necesse est esse animal, uel non esse, non igitur necesse est esse insensibile uel non esse. Quod si c terminus assumatur, siquidem non esse ponatur, erit necessario b; si uero esse, nullus est syllogismus. Nam si non est c, est a, at si est a, est b, si igitur non est c, est b; quod si est c, non necesse est esse a, aut fortasse necesse sit non esse. Haec enim propositio, id est:  Si non est a, est c  in talibus tantum euenit, in quibus alterum eorum esse necesse sit; quod si est c, non erit a, si non est a, nihil ad b, ueluti si est insensibile, non erit animal, at si non sit animal, nihil animatum uel esse uel non esse necesse erit. Ex secunda rursus propositione fit syllogismus cum ita proponimus: Si est a, est b; Si non est a, non est c;  dico quia: Si non est b, non est c  propositum quippe est: Si est a, est b.  Ordo uero consequentiae est, si non est b, non esse a, quod si non est a, non est c, si igitur non est b, non est c. Quod si fuerit b, non necesse est esse c; sit enim a animal, b animatum, c rationabile, et proponatur: Si animal est, animatum est; Si animal non est, rationabile non est; Atqui est animatum;  non necesse est esse animal, quo fit ut ne rationabile quidem. Quod si c terminum dicat assumptio, si quidem c terminus affirmatus fuerit, erit b; quod si idem c terminus abnuatur, nullus est syllogismus. Nam quoniam si est a, erit b, si non est a, non erit c, si est c, erit a; at cum est a, est b, si est igitur c, erit b; quod si non sit c, nihil sit necessarium, nam in hac propositione quae dicit: Si animal est, animatum est; Si animal non est, /326/ rationabile non est;  assumamus: Atqui non est rationabile;  non necesse erit esse uel non esse animal, quocirca ne animatum quidem.  Item ex tertia propositione talis est syllogismus: Si est a, non est b; Si non est a, est c;  dico quia: Si est b, est c;  nam quoniam ita propositum est: Si est a, non esse b  necesse est consequi ut, si sit b, non sit a; at si non sit a, erit c; si igitur sit b, erit c; quod si non sit b, nihil est necessarium. Si enim sit a animal, b inanimatum, c insensibile, in hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si non est animal, est insensibile;  si assumamus non esse inanimatum, non necesse erit esse animal uel non esse, quare ne insensibile quidem. Si uero a c termino fiat assumptio, si quidem non sit c, non erit b; si uero sit, nulla erit necessitas conclusionis. Nam quoniam ita propositum est, ut si sit a, non sit b, si uero non sit a, sit c, ea est consequentia, ut si non sit c, sit a (in his enim tantum terminis dici potest, qui medietate priuati sunt); at si sit a, non est b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si sit c, nullus est syllogismus; nam in hac propositione quae dicit: Si est animal, non est inanimatum; Si uero non est animal, insensibile est;  assumat aliquis esse insensibile, sequitur quidem ut non sit animal, sed non consequitur ut uel sit uel non sit inanimatum. Ex quarta propositione est syllogismus ita:  Si est a non est b;  Si non est a, non est c;  dico quoniam: Si est b, non est c;  nam quoniam ita propositum est: Si est a, non est b  ea rerum consequentia est, ut si sit b, non sit a. Atqui cum non sit a, positum fuerat non esse c; si igitur sit b, non est c. Quod si b non esse assumatur, nullus est syllogismus; age enim sit a quidem animal, b inanimatum, c rationabile, et sit haec propositio: Si est animal, non est inanimatum; Si non est animal, non est rationabile;  assumamus igitur non esse inanimatum, non necesse erit esse animal, quocirca nec rationabile. Rursus si c terminus assumatur, si quidem esse ponatur, necesse erit non esse b; at si non est c, nullus est syllogismus. Nam quoniam propositum est: Si a sit, non esse b; Si a non sit, non esse c;  necesse est ut, cum sit c, sit etiam a, at si sit a, non sit b; si igitur sit c, non erit b. Quod si c non esse ponatur, nullus est syllogismus, ueluti in hac propositione: Si est animal non est inanimatum; Si non est animal, non est rationabile.  Si quis igitur assumat non esse rationabile, non necesse erit esse animal, quocirca ne inanimatum quidem uel esse uel non esse. Atque in his quidem quatuor propositionibus ita a terminus positus est, ut ad b quidem esse diceretur, ad c uero non esse; quod si ordo mPombaur, rursus quatuor erunt alii syllogismi, si b terminus assumatur, quatuor etiam alii, si c; ex utraque autem parte quaternae complexiones erunt, quae nullos faciant syllogismos. Sit enim quinta propositio: Si non est a, est b; Si est a, est c;  dico quia: Si non est b, erit c. Assumatur enim: Atqui non est b  erit igitur a (hic enim consequentiae ratus ordo constabat); sed cum est a, est c, si igitur non est b, erit c. Quod si b esse ponatur, nihil sit necessarium; si enim est b, non erit a, quod si a non est, nihil ad c, quocirca nullus est syllogismus. Non esse autem a, si b sit, ea propositio monstrat per quam dicimus: Si a non est, est b  haec enim immediatis tantum contrariis conuenit. Age enim sit a quidem animal, b uero insensibile, c animatum, et proponatur: Si animal non est, insensibile est; Si animal est, animatum est;  et ponatur esse insensibile, non necesse est esse uel non esse animal, quocirca ne animatum quidem esse uel non esse necesse est. Quod si c terminus assumatur, si quidem negatiue, faciet syllogismum, affirmatiue uero, nullo modo. Nam si non est c, non est a; quod si non est a, est b, si igitur c non est b est; quod si sit c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem esse aut non esse necesse sit. Nam si est animatum, non necesse est esse uel non esse animal, cum uero animal non sit, non necesse est esse uel non esse insensibile. Propositio uero eadem quae superius.  Rursus ex sexta propositione fit syllogismus hoc modo: Si non est a, est b; Si est a, non est c;  dico quia: Si non est b, non erit c;  si enim non est b, est a, at si est a, non est c; si igitur non est b, non erit c. Quod si b terminum ponat assumptio, nulla est necessitas conclusionis; si enim est b, non est a. Id enim ex superioribus manifestum est. At si non est a, nihil ad c; tunc enim c non erat, si esset a. Exemplum uero hoc est, ut si sit a animal, b insensibile, c inanimatum. Si igitur sit propositio talis: Si non est animal, est insensibile; Si est animal, non est inanimatum; Atqui est insensibile;  non est igitur animal sed non consequitur ut sit uel non sit inanimatum.  Quod si c terminum sumpseris, si quidem affirmes, facies syllogismum; nam si est c, non erit a, quod si a non sit, erit b, si igitur c fuerit, erit b. At si negaueris, nihil est necessarium. Si enim assumas: Atqui non est c  non necesse erit esse uel non esse a, quocirca ne b quidem; nam si inanimatum negaueris, non necesse est esse uel non esse animal, quocirca ne insensibile quidem esse uel non esse. Ex septima propositione conclusio est cum ita proponimus: Si non est a, non est b; Si est a, est c  dico quia: Si est b, erit c  nam quoniam ita propositum est, si non esset a, non esse b, si sit b erit a. Atqui si sit a, erit c; si igitur sit b, erit c.Quod si b terminum neget assumptio, nulla est in conclusione necessitas. Nam si non sit b, nihil erit necessarium esse uel non esse a, quocirca ne c quidem, uelut in his terminis. Si enim sit a animatum, b animal, c uiuere, si sic enuntiemus: Si non est animatum, non est animal; Si est animatum uiuit;  si igitur assumamus: Atqui non est animal;  non necesse est esse uel non esse animatum, quocirca nec uiuere. Quod si assumamus c terminum, si quidem negemus, erit syllogismi perfecta necessitas; si uero affirmemus, nulla conclusio est. Nam si non est c, non erit a, si non est a, non erit b, si igitur non sit c, non est b. Quod si affirmetur, nihil est necessarium; siue enim necesse est esse, siue non necesse est esse a, nihil ad b, ut in superioribus terminis poterit ostendi: si enim uiuit, et si necesse est esse animatum, non necesse est tantum esse animal; quod si non est necesse esse animatum, non necesse est esse uel non esse animal; ut uero necesse sit non esse animatum, fieri non potest. Ex octaua enuntiatione conclusio est, cum ita proponitur: Si non est a, non est b;  Si est a, non est c;  dico quoniam: Si est b, non est c  nam si est b, est a, quod si est a, non est c, si igitur est b, non erit c.  Quod si b terminum neget assumptio, nihil est necessarium: Si enim non sit b, non necesse erit a uel esse uel non esse, quo fit ut ne c quidem, uelut in his terminis, si sit a animatum, b animal, c inanimatum. Si igitur proponamus: Si non est animatum, non est animal; Si est animatum, non est inanimatum;  et assumamus: Sed non est animal  non necesse est uel esse uel non esse animatum, quocirca ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem cum affirmatione ponatur, erit necessitas syllogismi: nam si est c, non est a, quod si non est a, non est b, si igitur est c, non est b; at si c terminum neget assumptio, nihil est necessarium: nam si non est c, non necesse erit esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non est inanimatum, fortasse quidem necesse sit esse animatum sed non necesse est esse animal. Inuenientur autem termini ut non sit necesse esse a, ueluti si c ponamus nigrum, a album; negato enim nigro non consequitur ut affirmetur album. Et secundae quidem figurae inaequimodas complexiones omnes (ut arbitror) explicuimus; si uero aequimodae sint, nullus omnino fit syllogismus. Aequimodae uero fiunt hoc modo: quotiescumque enim a terminus ad b et ad c simul uel esse uel non esse ponitur, quoquomodo b atque c termini uarientur, harum igitur quae aequimodae complexiones esse dicuntur, nulla est collectibilis. Sunt autem omnes aequimodae complexiones hae: o Si est a est b, si est a est c. o Si est a est b, si est a non est c. o Si est a non est b, si est a est c. o Si est a non est b, si est a non est c. o Si non est a est b, si non est a est c. o Si non est a est b, si non est a non est c. o Si non est a non est b, si non est a est c. Si non est a non est b, si non est a non est c. Quarum imbecillam conclusionem atque omni carentem necessitate ex assumptionibus quoquo modo factis inueniemus, nec non secundum superius descriptos modos etiam terminos facillime reperire poterimus, per quos demonstratur nullam in talibus complexionibus inueniri posse constantiam. Ac de secunda quidem figura, quanti sint quotque modis fiant syllogismi diligenter ostendimus. Fiunt autem, si inaequimodae quidem complexiones fuerint, b termino assumpto, syllogismi octo, totidemque si c terminus assumatur. Sunt igitur secundae figurae sedecim syllogismi, totidem uero, b atque c termino non ita ut oportet assumptis, complexiones fiunt, quibus nihil admodum colligatur.  Nunc igitur de tertia figura dicendum est, in qua quidem totidem complexiones fiunt et totidem syllogismi sed ita ut non aequimodae propositiones ponantur; quod si aequimodae fuerint, nullus omnino (ut in secunda figura dictum est) fiet syllogismus. Exponamus igitur omnes figurae tertiae inaequimodas propositiones: o Si est b est a, si est c non est a. o Si es b est a, si non est c non est a. o Si non est b est a, si est c non est a. o Si non est b est a, si non est c non est a. Et nunc quidem a cum b esse, cum c uero non esse propositum est; rursus uero a quidem cum b non esse, cum c uero esse proponatur: o Si est b non est a, si est c est a. o Si est b non est a, si non est c est a. o Si non est b non est a, si est c est a. o Si non est b non est a, si non est c est a. Tertiae igitur figurae primus modus huiusmodi est: Si est b, est a; Si est c, non est a; qui quidem diuersus est a secundae figurae primo modo. Illic enim si a esset uel non esset, b et c esse dicebantur. Nunc uero si b uel c fuerint, a esse uel non esse proponitur. Aequimodae autem propositiones non sunt, quae in alia parte esse, in alia non esse constituunt, uelut in superius comprehensa: nam si b est, a est, si autem c est, a non est. Quibus ita positis, dico quoniam Si est b, c non esse necesse est;  si enim est b, est a, quod si est a, non est c, si igitur est b, non est c. Quod si b terminus abnuatur, nullus est syllogismus: si enim b non sit, non necesse erit esse uel non esse a, nec c igitur necesse erit esse uel non esse, uelut in hoc exemplo. Si sit b animal, a animatum, c mortuum, et proponatur: Si animal est, animatum est; Si mortuum est, animatum non est; Atqui non est animal;  non necesse est esse uel non esse animatum. Quae enim non sunt animalia, possunt esse animata, ut arbores; possunt esse non animata ut lapides. Quocirca, si animal non fuerit, ne mortuum quidem esse uel non esse necesse est. Plura enim non sunt animalia, quae mortua non sint, ut lapides; ea enim mortua dicuntur quae aliquando uixerunt. Ab assumptione uero c termini affirmatio faciet syllogismum. Nam si c est, b non erit, si enim c est, non est a: at si non sit a, non erit b, si igitur c est, b non erit.  Negatio uero nihil explicat necessitatis; nam si non est c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non sit mortuum, non necesse est esse animatum uel non esse: quaedam enim quae non sunt mortua, animata sunt, ut arbores, quaedam uero, cum mortua non sint, non sunt animata, ut lapides, quo fit ut ne animal quidem esse uel non esse necesse sit, si mortuum destruatur. Ex secunda uero propositione hic modus est colligendus: Si est b, est a; Si non est c, non est a;  dico quia: Si est b, erit c. Nam si est b, est a, quod si est a, est c -- ita enim conuertitur talis propositio --; si igitur est b, est c. Quod si b terminus negetur, nulla est necessitas syllogismi: nam si non est b, non necesse est esse uel non esse a, quocirca ne ad c quidem ulla necessitas perueniet, ut in terminis patet. Nam si sit b animal, a animatum, c corporeum, et proponatur: Si est animal, est animatum; Si non est corporeum, non est animatum; et assumatur: Atqui non est animal;  non necesse est esse uel non esse corporeum -- c uero terminus si negetur, erit necessitas syllogismi: nam si non est c, non est a, quod si non est a, non est b (ita enim conuerti potest), si igitur non est c, non erit b; si affirmetur c, nulla est necessitas, nam si est corporeum, non necesse est animatum esse uel non esse, quocirca nec animal quidem esse uel non esse necesse est.  Tertia propositio talem recipit conclusionem: Si non est b, est a; Si est c, non est a;  dico quia: Si non est b, non erit c.  Si enim non sit b, est a; quod si sit a, non erit c (ita enim poterat conuerti ea pars propositionis, quae, si esset c terminus, a terminum non esse dicebat); fit igitur ut si non sit b, non sit c. Quod si affirmetur esse b terminum, nulla est necessitas conclusionis; nam si sit b, necesse est quidem non esse a, sed non necesse est esse c, ut in his terminis, si sit b animatum, a inanimatum, c animal. Si quis igitur sic proponat: Si non est animatum, inanimatum est; Si est animal, non est inanimatum;  si igitur ponamus esse animatum, sequitur quidem ut non sit inanimatum sed non necesse est ut sit animal. C uero terminus si affirmetur, fiet necessaria conclusio hoc modo. Nam si est c, non est a, si non est a, est b (id enim sequebatur eam propositionem quae, si non esset b terminus, a terminum esse dicebat); si igitur sit c, est b. Quod si idem c terminus abnuatur, nullus est syllogismus: nam si non sit c, non necesse est esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si non est animal, non necesse est esse uel non esse inanimatum, quocirca ne animatum quidem. Ex quarta propositione talis est syllogismus: Si non est b, est a; Si non est c, non est a;  dico quia:  Si non est b, est c.  Nam si non est b, est a, si uero a fuerit, necesse est esse c -- id enim consequitur eam propositionis partem quae ait: Si non est c, non est a  -- si igitur non sit b, est c. At si b terminus affirmetur, nullus est syllogismus. Sequitur namque ut non sit a sed non sequitur ut sit uel non sit c, uelut in his terminis: nam si sit b quidem insensibile, a animal, c animatum, et proponatur:  Si sit insensibile, non est animal;  sed non necesse est esse uel non esse animatum.  C uero terminus si negetur, fiet protinus syllogismus. Nam si non est c, non est a, si non est a, erit b -- id enim consequitur eam propositionis partem quae dicit: Si non est b est a  -- si igitur non sit c, erit b. Quod si sit c, non est necesse esse uel non esse a, quo fit ut ne b quidem. Nam si est animatum, non necesse est esse animal uel non esse, quo fit ut ne insensibile quidem esse uel non esse necesse sit. Et hactenus quidem quatuor modos ita disposuimus, ut ad b terminum, quoquo se modo haberet, a terminus esse poneretur, ad c uero non esse. Nunc ita statuamus ut a terminus ad b terminum non esse dicatur, ad c uero esse, ordine scilicet immutato.  Omnes uero non esse aequimodas propositiones illud ostendit quod a quidem si affirmatiue est ad b, ad c negatiue proponitur, aut si negatiue ad b, affirmatiuam ad c retinet enuntiationem. Quinta igitur propositio talem facit syllogismum, cum talis est propositio: Si est b, non est a; Si est c, est a;  dico quia: Si est b, non est c.  Nam si est b, non est a, si uero non sit a, non est c (id enim talem propositionem consequebatur, quae, si esset c terminus, a quoque esse dicebat); si est igitur b, non est c. At si negetur b, nullus est syllogismus: si enim /348/ non sit b, non necesse est esse a, quo fit ut ne ad c quidem necessitas ulla perueniat. Et in terminis idem patet: nam si sit b quidem mortuum, a animatum, c animal, et sit ita propositio: Si est mortuum, non est animatum; Si animal est, animatum est;  et assumamus non esse mortuum, non necesse est esse uel non esse animatum. Nam et quae adhuc animata sunt, et quae numquam fuerunt, non sunt mortua, quocirca non sequitur ut sit uel non sit animal; quod enim mortuum non est, potest et esse animal, ut canis uiuens, et non esse, ut lapis. At si c terminus affirmetur, erit perfecta conclusio non esse b; nam si sit c, est a, si uero sit a, non erit b (id enim consequitur superius positum propositionis modum); si igitur sit c, non erit b. At si negetur c, neque ad a neque ad b necessitas ulla perducitur, uelut in his terminis: nam si non est animal, neque animatum, neque mortuum uel esse uel non esse necesse est. Sextae propositionis haec conclusio est: Si est b, non est a; Si non est c, est a;  dico quia: Si est b, erit c.  Nam si est b, non est a, si non sit a, erit c (talis enim in hac parte propositionis est consequentia); si igitur sit b, erit c. Quod si b terminus abnuatur, nihil necessarium fiet: nam si non sit b, nec a nec c terminos uel ad esse uel ad non esse sequitur ulla necessitas, ut in terminis patet. Nam si sit b mortuum, a animatum, c inanimatum, si non sit mortuum, non necesse est esse uel non esse animatum, quocirca ne inanimatum quidem. At si c terminus assumatur, si quidem in negatione sit positus, fiet rata conclusio non esse b terminum: nam quoniam non est c, est a, at si sit a, non est b, si igitur non sit c, non erit b. Quod si affirmetur c terminus, nihil est necessarium; neque enim si sit c, quamuis a non esse necesse sit, ad b terminum necessitas ulla perueniet, ut etiam in terminis patet: nam si sit inanimatum, necesse est non esse animatum sed non necesse est esse mortuum. Septimae propositionis talis est syllogismus: enuntietur enim:  Si non est b, non est a; Si est c, est a;  dico quia: Si non est b, non est c  si enim non sit b, non erit a, quod si a non fuerit, non erit c (id enim sequebatur eam propositionem qua dicebatur, si esset c terminus, a quoque consequi ut esset); si igitur non sit b non erit c. Quod si affirmetur b, nihil est necessarium; neque enim si sit b, uel a uel c aut esse aut non esse necesse est, ut in terminis patet: nam si sit b animatum, a animal, c sensibile, et sit propositio: Si animatum non est, non est animal; Si sensibile est, animal est;  si assumatur esse animatum, neque animal necesse est esse, neque sensibile. At si per c terminum fiat assumptio, si quidem affirmabitur, erit firma conclusio; si negetur, nullus est syllogismus: nam si est c, est a, si sit a, erit b (id enim consequebatur eam propositionem quae ait: si non sit b, non esse a); si igitur sit c, erit b. At si idem c terminus abnuatur, nihil est necessarium; nam si non sit c, neque a neque b terminum necessitas ulla constringit, uelut si non sit sensibile, non sit forsitan animal sed non necesse est esse animatum; reperientur uero termini quibus ne a quidem non esse necesse sit. Octauus modus est in quo ita proponitur: Si non est b, non est a; Si non est c, est a;  dico quia: Si non est b, est c.  Si enim non sit b, non erit a, quod si non sit a, erit c -- id enim consequebatur eam partem propositionis quae dicebat: Si non est c, est a  -- si igitur non sit b, erit c. Quod si b terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam si sit b, neque esse neque non esse necesse est a terminum, quo fit ne c quidem. Id uero tali liquet exemplo, si sit b animatum, a animal, c insensibile, et proponatur: Si non sit animatum, non est animal; Si non sit insensibile, est animal.  Si igitur in assumptione affirmemus b terminum, ac dicamus:  Atqui est animatum;  non necesse est esse uel non esse animal uel insensibile, quocirca nullus est syllogismus. At si c terminus abnuatur, fiet protinus syllogismus: nam si non est c, est a, si uero est a, erit b, si igitur non sit c, erit b. Quod si c terminus affirmetur, nihil est necessarium; nam et si a terminum non esse necesse est, quantum ad b terminum nihil necessarium cadit. Id uero tali demonstratur exemplo: Si sit insensibile, non est animal;  quod si animal non est, non necesse est esse uel non esse animatum. In non aequimodis igitur propositionibus, siue b siue c terminus assumatur, octo necesse est ex utraque parte fieri syllogismos; reliquae uero ex utraque parte octonae complexiones necessitate priuatae sunt. At si sint aequimodae, nullus omnino est syllogismus. Aequimodae uero dicuntur quotiens a terminus ad utrosque uel esse uel non esse proponitur; omnes autem aequimodae propositiones sunt huiusmodi: o Si est b, est a, si est c, est a. o Si est b, est a, si non est c, est a. o Si non est b, est a, si est c, est a. o Si non est b, est a, si non est c, est a. o Si est b, non est a, si est c, non est a.o Si est b, non est a, si non est c, non est a. o Si non est b, non est a, si est c, non est a. o Si non est b, non est a, si non est c, non est a. In quibus et per consequentiam propositionum superius designatam, et per exempla currentes, possumus lucide et constanter agnoscere nullam omnino in syllogismis fieri necessitatem. Quocirca, cum tribus terminis texitur propositio, ex prima quidem figura fiunt syllogismi sedecim, ex secunda syllogismi sedecim, ex tertia etiam totidem colliguntur, omnes ex tribus terminis syllogismi quodraginta octo. Restat nunc ut de his syllogismis dicamus qui duabus hypotheticis continentur, quorum quidem similis consequentiae modus est, ut in his propositionibus quae ex duabus categoricis ac simplicibus efficiebantur. In omnibus enim si quidem uelimus astruere, primam totius propositionis assumemus partem, si uero in conclusione aliquid destruendum est, secunda negabitur. Siue autem prima denegetur, siue posterior affirmetur, nulla fit omnino necessitas, nisi in quinta, septima, tertia decima et quinta decima propositione, in quibus non complexionis natura sed terminorum proprietas consequentiam facit, sicut in his syllogismis fieri docuimus qui in his propositionibus constant, quae duabus simplicibus continentur. Horum autem omnium qui ex duabus hypotheticis constant propositiones apposui, quarum differentias cum lector agnouerit, ad earum exempla necesse est reuertatur, quae ex simplicibus et categoricis iunctae sunt. Sunt autem omnes propositionum differentiae, quae ex duabus hypotheticis copulantur, huius modi: o Si cum est a, est b, cum sit c, est d. o Si cum est a, est b, cum sit c, non est d. o Si cum est a, est b, cum non sit c, est d. o Si cum est a, est b, cum non sit c, non est d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, est d. o Si cum sit a, non est b, cum sit c, non est d. o Si cum sit a, non est b, cum non sit c, est d. o Si cum sit a, non est b, cum non sit c, non est d. o Si cum non sit a, est b, cum sit c, est d. o Si cum non sit a, est b, cum sit c, non est d.  o Si cum non sit a, est b, cum non sit c, est d. o Si cum non sit a, est b, cum non sit c, non est d. o Si cum non sit a, non est b, cum sit c, est d. o Si cum non sit a, non est b, cum sit c, non est d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, est d. o Si cum non sit a, non est b, cum non sit c, non est d. In his quoque propositionibus illud inspiciendum est quod, cum sedecim sint, octo quidem ita uariantur, ut tamen in omnibus a terminus esse ponatur, octo uero ita, ut idem a terminus non esse dicatur. Non uero quoquo modo positae fuerint habebunt uim conditionalium propositionum ex duabus hypotheticis constantium; nam si quis sic dicat: Si cum homo est, animal est; Cum sit animatum, corpus est;  non fecerit eam propositionem quae ex duabus conditionalibus constet. Neque enim idcirco quod animatum est corpus est, quia qui homo est animal est, nec conditio sequitur conditionem; sed si eas separes, per seque pronunties, utraque habet in terminorum consequentia necessitatem: nam et qui homo est animal est, et quod animatum est corpus est, et per se istae propositiones uerae sunt nec conditione iunguntur.  Ut igitur singularum natura clarescat, de unaquaque est disserendum. Prima igitur propositio talis esse debet, ut si sit a positum, b terminus non continuo subsequatur, itemque, si c ponatur, non necesse sit d terminum consequi sed, posito quidem a termino, c terminum, posito uero b, terminum d esse necesse sit. Tunc enim eueniet ut si, posito a, fuerit b, necesse sit c posito subsequi d, ut si sint termini a homo, b medicus, c animatum, d artifex. Posito enim homine non necesse est ut medicus sit, et cum sit animatum, non necesse est ut sit artifex; at si homo sit, necesse est ut sit animatum, et si medicus sit, necesse est ut artifex sit. Hoc itaque posito, eueniet ut si, cum homo sit, medicus est, cum sit animatum, sit artifex.  Secunda propositio ita esse debet, ut a atque b, itemque c atque d praeter se esse possint sed a praeter c esse non possit, b autem atque d simul esse non possint. Tunc enim eueniet ut si, posito a termino, b fuerit consecutum, posito c non esse d necesse sit, ut si sit a homo, b niger, c animatum, d albus: homo namque praeter nigrum, et animatum praeter album uel esse uel non esse potest; homo uero praeter animatum, nigrum autem cum albo esse non potest, euenitque ut si cum sit homo, niger sit, cum sit animatus non sit albus. Item tertiae propositionis tales terminos esse oportebit, ut a praeter b esse possit, c uero uel cum a uel cum d simul esse non possit.  Quocirca euenit ut, si a posito fuerit b, negato c termino d esse necesse sit, ut si sit a quidem animatum, b medicus, c inanimatum, d artifex: animatum enim praeter medicum esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum artifice iungi potest; itaque si cum animatum est, medicus est, cum inanimatum non sit artifex est. Quarta propositio his terminis contexenda est, ut a quidem cum b termino, c autem cum d uel esse uel non esse possit, neque uero a cum c, neque b cum d ullo modo esse possibile sit. Tunc enim euenit ut, si a posito, b subsequatur, c negato negetur etiam d, ut si sit a homo, b niger, c inanimatum, d album: homo quidem praeter nigrum, inanimatum uero praeter album esse et non esse potest; neque tamen homo cum inanimato, neque nigrum cum albo esse possibile est. Si tamen, cum homo sit, niger est, sequitur ut, cum non sit inanimatum, non sit album. Quintae propositionis haec membra sunt, ut a praeter b, et c praeter d esse uel non esse possit sed a praeter c esse non possit, b atque d numquam simul esse possint, ita ut si alterum non sit, alterum esse necesse sit. Tunc enim eueniet ut si a posito b negetur, c posito d sequatur, ut si sit a quidem homo, b aeger, c animatum, d sanus. Homo quidem praeter aegritudinem, animatum uero praeter sanitatem et esse et non esse potest; sed si homo sit, animatum esse necesse est; itaque fiet ut si, cum homo sit, non sit aeger, cum sit animatus sanus sit. Sexta propositio hos terminos habere desiderat, ut a praeter b, et c praeter d, et esse et non esse possit; idem uero a praeter c, et d praeter b esse non possit. Tunc enim eueniet ut si a posito non est b, posito c non sit d, ut si sit a homo, b artifex, c animatum, d medicus. Homo quidem praeter artificium, animatum uero praeter medicinam et esse et non esse potest; neque uero homo praeter animatum, neque medicus praeter artificium esse potest. Quo fit ut si cum homo est, artifex non est, cum sit animatum, non sit medicus.  Septimae propositionis hi termini sunt, ut a quidem praeter b esse et non esse possit, c autem neque cum d neque cum a esse possit, b etiam cum c simul esse et non esse non possit; ita namque eueniet ut si, posito a esse, b denegetur, negato c termino d sequatur, ut si a quidem sit animatum, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Animatum quidem praeter sanitatem et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum aegro conuenire potest; quo fit ut, si cum animatum est, sanum est, cum non sit inanimatum aegrum sit.  Item octaua propositio his terminis copulanda est, ut a quidem praeter b terminum et esse et non esse possit, c autem cum d non esse possit, /364/ sed a cum c et d praeter b esse non possit. Hoc enim pacto eueniet ut, si a posito b denegetur, denegato c termino d terminus non sit, ut si sit a animatum, b artifex, c inanimatum, d medicus. Animatum enim praeter artificium et esse et non esse potest, inanimatum uero neque cum animato neque cum medico conuenit, medicus uero praeter artificium esse non potest; unde euenit ut, si cum animatum est, non sit artifex, cum non sit inanimatum non sit medicus.  Nona propositio fiet si a quidem atque b simul esse non possint, c uero possit esse praeter d, cum a uero esse non possit. Tunc enim eueniet ut, si a denegato, b esse consequitur, c posito d sequatur, ut si sit a quidem inanimatum, b medicus, c animatum, d artifex. Inanimatum quippe medicus esse non potest, animatum uero potest non esse artifex; inanimatum uero atque animatum simul esse non possunt, quo fit ut si quod non est inanimatum, medicus sit, cum sit animatum sit artifex. Decimam propositionem tales termini copulabunt, ut a quidem praeter b, at uero c praeter d esse possit sed a cum c, et b cum d esse non possit. Ita enim proueniet ut, si negato a esse, b consequatur, posito c termino d non esse necesse sit, ut si sit a inanimatum, b nigrum,c animatum, d album.Inanimatum quippe praeter nigrum, et animatum praeter album esse et non esse possunt; sed inanimatum cum animato, et nigrum cum albo simul esse non possunt. Sed si negatum fuerit inanimatum et consecutum fuerit nigrum, posito animato album esse negabitur. Item undecima propositio ea sit, ut neque a cum b, neque c cum d simul esse pcssit, a uero sine c et b sine d esse non possit. Ita enim si cum a sit negatum, b sequitur, cum c negabitur, d esse necesse est, ut si sit a inanimatum, b medicus, c inuitale, d artifex. Inanimatum quidem medicus esse non potest, quocirca ne inuitale quidem artifex; sed quod inanimatum est non potest non esse inuitale, itemque qui medicus est non potest non esse artifex.  Si igitur inanimatum negetur et medicum esse consequatur, cum negabitur inuitale artifex esse consequitur. Duodecima propositio est quam talibus terminis constare oportebit, ut a quidem praeter b, at uero c praeter d uel esse uel non esse possit, a uero sine c, et b cum d, esse non possint. Ita enim cadet ut si, a negato, b sequitur, c negato d etiam denegetur, ut si fuerit a inanimatum, b album, c inuitale, d nigrum. Inanimatum quidem praeter album, inuitale autem praeter nigrum uel esse uel non esse potest; si tamen inanimatum non sit, et sit album, cum inuitale non sit non erit nigrum.  Tertia decima propositio his terminis connectenda est, ut a quidem prneter b, at uero c praeter d esse possit, a uero atque c, et b atque d ita simul esse non possint, ut si alterum eorum non fuerit, alterum esse necesse sit. Ita namque fiet si cum a negatum sit, b negetur, cum c affirmatum sit d affirmetur, ut si sit a irrationabile, b aegrum, c rationabile, d sanum. Irrationabile /368/ namque praeter aegrum, et rationabile praeter sanitatem esse potest, irrationabile uero atque rationabile, et aegrum atque sanum simul esse non possunt; si tamen alterum eorum non fuerit, alterum esse necesse est. Itaque fit ut si irrationabili denegato aegrum denegetur, rationabili posito sanum ponatur.  Quarta decima propositio his texenda membris est, ut a quidem praeter b, et c praeter d esse possint sed a atque c simul esse non possint, ita ut cum alterum non fuerit alterum esse necesse sit, d uero praeter b esse non possit. Fit igitur ut, si cum sit a denegatum, b denegetur, cum sit c non sit d, ut si sit a inanimatum, b artifex, c animatum, d medicus. Inanimatum quidem praeter artificem, animatum uero praeter medicum esse potest; inanimatum uero cum animato non conuenit, et medicus ab artifice nullo modo separatur; fit igitur ut si, cum non est inanimatum, non sit artifex, cum sit animatum non sit medicus.  Quinta decima propositio hos terminos habere debet, ut a quidem cum c, at uero b cum d esse non possit, b uero atque d talia sint, ut altero eorum negato, alterum eorum esse necesse sit. Ita namque fiet ut si, cum sit a denegatum, b negetur, cum negabitur c aflirmetur d, ut si sit a quidem irrationabile, b sanum, c inanimatum, d aegrum. Irrationabile quidem si non sit, non est inanimatum; sanum etiam atque aegrum simul esse non possunt, et qui sanum negauerit aegrum necesse est affirmet, itemque e diuerso; est igitur ut, si negato irrationabili negetur sanum, negato inanimato aegrum ponatur.  Sexta decima propositio est quae his terminis constat, ut a quidem praeter c, at uero d praeter b esse non possit, a uero cum b et c cum d esse nullo modo queant. Euenit igitur ut si, a quidem negato, negetur b, denegato c terminus d abnuatur, ut si sit a inanimatum, b artifex, c inuitale, d medicus. Inanimatum igitur praeter inuitale et medicus praeter artificem esse non potest, inanimatum uero cum artifice et inuitale cum medico esse non poterit: si igitur negato inanimato negetur artifex, negato inuitali negatur medicus. Atque haec quidem ratio propositionum, quarum superius exempla descripsimus, idcirco intellegatur assumpta ut earum natura claresceret, non quo aliter inter se termini esse non possint. Nam, ut superius dictum est, non sufficit quolibet modo iungere terminos, ut fiant hypotheticae propositiones ex duabus conditionalibus coniugatae; neque enim si quis dicat: Si cum homo est, animal est, cum dies est, lucet  talem fecerit propositionem quae ex duabus conditionalibus constet, idcirco quia prior conditio non est secundae causa conditionis. Hoc igitur superius positarum propositionum ratio demonstrat, quemadmodum fit ut conditionem conditio consequatur. Quae cum ita sint de earum dicendum est syllogismis. Fit igitur ex prima propositione syllogismus hoc modo:  Si cum est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c, erit d.  Vel ita:  Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur sit a, non est b. Posse uero hanc esse assumptionem superius descripta propositionum natura demonstrat. Item ex secunda propositione: Si cum est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b.  Ex tertia: Si cum sit a, est b, cum non sit c, est d; Atqui cum sit a est b; Cum igitur non sit c, est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a, non est b. Item ex quarta: Si cum sit a, est b, cum non sit c, non est d; Sed cum sit a, est b;Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b.  Ex quinta propositione hunt quatuor collectiones: ita namque termini proponuntur, ut utrobique fiat rata conclusio hoc modo: Si cum est a, non est b, cum sit c, est d; Atqui cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, est d.  Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d  Vel ita:  Atqui cum sit c, non est d;  Cum igitur sit a, est b. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b.  Ex sexta: Si cum est a, non est b, cum sit c non est d. Atqui cum sit a, non est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Ex septima item fiunt quatuor syllogismi hoc modo:  Si cum est a, non est b, cum non sit c, est d; Atqui cum est a, non est b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui cum sit a, est b; Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur sit a, est b. Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a, non est b.  Ex octaua propositione: Si cum est a, non est b, cum non sit  c, non est d. Atqui cum sit a, non est b;  Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur sit a, est b. Hactenus quidem ex his propositionibus quae a esse proponebant, atque ita caeteros terminos affirmando negandoque uariabant, ostendimus qui fierent syllogismi. Nunc ex his propositionibus quinam syllogismi fiant dicendum est, quae ita caeteros terminos uariant, ut a non esse proponant. Ex nona enim propositione ita fit syllogismus:  Si cum non est a, est b, cum sit c, est d; Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur sit c, est d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur non sit a, non est b.  Item ex decima: Si cum non est a, est b, cum sit c, non est d; Atqui cum non est a, est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex undecima: Si cum non est a, est b, cum non sit c, est d. Atqui cum non est a, est b; Cum igitur non sit c, est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur non sit a, non est b.  Ex duodecima: Si cum non est a, est b, cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b.  Item ex tertia decima, quae quatuor colligit syllogismos hoc modo: Si cum non est a, non est b, cum sit c, est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur sit c, est d.  Vel ita: Atqui cum non sit a, est b; Cum igitur sit c, non est d. Vel ita: Atqui cum sit c, non est d; Cum igitur non sit a, est b. Vel ita:  Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Item ex quarta decima: Si cum non est a, non est b, cum sit c, non est d; Atqui cum non est a, non est b; Cum igitur sit c, non est d.  Vel ita:  Atqui cum sit c, est d; Cum igitur non sit a, est b. Quinta decima rursus quatuor colligit syllogismos, hoc modo: Si cum non est a, non est b, cum non sit c, est d; Atqui cum non sit a, non est b; Cum igitur non sit c, est d. Vel ita: Atqui cum non est a, est b; Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, non est d; Cum igitur non sit a, est b.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a, non est b. Ex sexta decima propositione: Si cum non est a, non est b, cum non sit c, non est d; Atqui cum non sit a, non est b;  Cum igitur non sit c, non est d.  Vel ita: Atqui cum non sit c, est d; Cum igitur non sit a, est b. Ex quibus omnibus quodraginta conclusiones fiunt: sedecim quidem assumpta prima conditione, ita ut in prima propositione est posita; sedecim uero assumpta secunda conditione, contrario modo atque in propositione est collocata; octo uero ex quinta, septima, tertia decima et quinta decima propositionibus fiunt, assumptis primis quidem conditionibus contrario modo atque in propositione proferebantur, secundis uero conditionibus eodem modo assumptis, ut in propositione fuerant collocatae. Ut igitur omnium propositionum conclusionumque ratio clarescat, omnes huiusmodi enuntiationes cum propositis apposuimus exemplis. o Si cum est a homo, est b medicus, cum sit c animatum, est d artifex. o Si cum est a homo, est b niger, cum sit c animatum, non est d albus. o Si cum est a animatum, est b medicus, cum non sit c inanimatum, est d artifex. o Si cum est a homo, est b niger, cum non sit c inanimatum, non est d albus. o Si cum est a homo, non est b aeger, cum sit c animatum, est d  sanus. o Si cum est a homo, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d medicus. o Si cum est a animatum, non est b sanum, cum non sit c inanimatum, est d aegrum. o Si cum est a animatum, non est b artifex, cum non sit c inanimatum, non est d medicus. o Si cum non est a inanimatum, est b medicus, cum sit c animatum, est d artifex. o Si cum non est a inanimatum, est b niger, cum sit c animatum, non est d albus. o Si cum non est a inanimatum, est b medicus, cum non sit c inuitale, est d artifex. o Si cum non est a inanimatum, est b albus, cum non sit c inuitale, non est d nigrum. o Si cum non est a irrationale, non est b aegrum, cum sit c   rationale, est d sanum.  o Si cum non est a inanimatum, non est b artifex, cum sit c animatum, non est d medicus. o Si cum non est a irrationale, non est b sanum, cum non sit  inanimatum, est d aegrum. o Si cum non est a inanimatum, non est b artifex, cum non sit c inuitale, non est d medicus. Ac de his quidem qui per connexionem fiunt haec dicta sunt. Hi uero qui in disiunctione sunt positi illis uidentur adiuncti, eorumque modos formasque suscipiunt, quos superius in connexione positos ex his propositionibus fieri diximus quae duabus simplicibus iungerentur. Si igitur in disiunctione propositarum propositionum ad eas similitudinem demonstrauerim quae in connexione positae ex simplicibus copulatae sunt, quot modi qualesque conclusiones sunt in unaquaque illarum quae per connexionem fiunt propositionum, tot etiam in his esse necesse est quae per disionctionem pronuntiatae eamdem uim connexioni habere monstrantur. Quatuor ergo superius differentias per connexionem enuntiatarum propositionum esse diximus, si ex simplicibus propositionibus copularentur, hoc modo: Si est a, est b. Si non est a, non est b. Si est a, non est b. Si non est a, est b. Per disiunctionem quoque propositiones quatuor diderentias tenent hoc modo: Aut a est aut b est Aut a non est aut b non est Aut a est aut b non est. Aut a non est aut b est.  Quarum quidem ea quae prima est et proponit aut a esse aut b, in his tantum dici potest in quibus alterum eorum esse necesse est, uelut in contrariis medietate carentibus, similisque est ei propositioni quae dicit: Si a non est, b est.  Quae enim proponit: Aut a est aut b est  id intellegit, neque simul utraque esse posse, et, si unum non fuerit, consequi ut sit alterum. Itaque si non sit a, erit b; sed haec una est earum propositionum quas in his quae per connexionem fiunt superius numerauimus.  Quicumque igitur syllogismi in ea propositione fiunt, quae est: Si a non est, b est  hi etiam in ea faciendi sunt quae per disiunctionem proponitur, cum dicimus: Aut a est aut b est.  Fiunt autem in superiore quatuor modis: quamlibet enim partem propositionis assumpseris, siue praecedentem, siue etiam consequentem, siue negatiuo modo, siue affirmatiuo, faciet sullogismum. Nam si haec propositio sit: Si non est a, est b  siue non sit a, erit b; siue sit a, non erit b; siue non sit b, erit a; siue sit b, non erit a. In propositione quoque disiunctiua idem est. Nam cum dicitur: Aut a est aut b est  siquidem a fuerit, b non erit; quod si a non fuerit, erit b, et si b non sit, erit a: si b fuerit, non erit a. Id quoque tali declaratur exemplo. Nam si sit propositio: Aut aeger est aut sanus  quidquid horum in assumptione assumptum fuerit, uel negatum, altera pars uel affirmabitur, uel negabitur hoc modo: nam si sanus est, non est aeger; si non est sanus, aeger est; si aeger est, non est sanus; si non est aeger, sanus est. Item ea propositio disiunctiua quae proponit: Aut non est a aut non est b  fit quidem de his quae quolibet modo simul esse non possunt, etiamsi non alterum eorum necesse sit esse, similisque est ei propositioni connexae per quam ita proponatur: Si est a, non est b.  Quae enim sic enuntiat: Aut non est a aut non est b  id nimirum sentit, quod si a sit, b esse non possit. Id ita probabitur. Cum enim proponitur hoc modo: Aut non est a aut non est b  tum si assumatur esse a, non erit b. Quocirca ei propositioni connexae similis est quae ita enuntiat: Si sit a non esse b.  In hac uero propositione duae tantum complexiones syllogismos creabant: nam si esset a, non erat b, et si esset b non erat a. Siue autem non esset a, non necesse erat esse uel non esse b; siue non esset b, non necesse erat esse uel non esse a. Quocirca et in disiunctiua propositione totidem syllogismos esse necesse est, totidem uero incollectibiles complexiones; nam cum ita proponitur: Aut non est a aut non est b  ita dicitur: Si sit a, non erit b  et si sit b, non erit a. Siue autem non sit a, non necesse erit esse uel non esse b; siue non sit b, non necesse erit esse uel non esse a, ueluti in his apparet exemplis. Si enim quis dicat: Aut non est album aut non est nigrum  si igitur assumat: Atqui est album  non erit nigrum; uel rursus: Atqui est nigrum  non erit album. Siue autem album non esse assumpserit, non necesse erit esse uel non esse nigrum; siue nigrum non esse assumpserit, ut sit uel non sit album nullam faciet necessitatem. Item ea propositio per quam ita proponitur: Aut est a aut non est b  dicitur quidem de sibimet adhaerentibus, proponiturque in his propositionibus quae ad minora de maioribus tendunt, similisque est ei propositioni connexae quae enuntiat: Si non est a, non est b. Nam qui dicit: Aut est a aut non est b  si assumat: Atqui non est a  modis omnibus non erit b; si igitur non sit a, non erit b. Id enim haec disiunctio praemittebat. In hac uero siquidem a negaretur, uel confirmaretur b, habet aliquis syllogismus; siue autem a affirmaretur, siue b negaretur, nulla erat in conclusione necessitas. Idem prouenit in disiunctis: nam cum proponitur: Aut est a aut non est b  siquidem non sit a, non erit b; si uero sit b, erit a: quod si sit a, uel non sit b, nihil est necessarium.  Id uero in his terminis approbatur, si quis ita proponat: Aut animal est aut non est homo  si igitur animal non sit, non est homo; si homo sit, animal est; siue autem animal sit, non necesse est esse hominem, siue homo non sit, animal non necesse est interire. Ea uero propositio quae dicit:  Aut non est a aut est b  in his quae sibi adhaerent proponi potest, et a minoribus ad maiora contendit sed est similis ei propositioni connexae quae dicit: si est a, est b.  Nam cum ita quis enuntiat, siquidem assumat esse a, statim consequitur ut sit b; sed in hac propositione, siquidem affirmaretur esse a, sequebatur ut esset b. Quod si negaretur b, sequebatur ut non esset a; siue autem negaretur a, siue affirmaretur b, nihil necessarium uidebatur accidere. Et in ea igitur propositione disiuncta quae dicit: Aut non est a aut est b  siquidem fuerit a, erit b; si non fuerit b, non erit a: siue autem non sit a, siue sit b, nulla est necessitas syllogismi, ut in hoc declaratur exemplo: Aut non est homo aut animal est.  Si igitur assumamus: Atqui est homo  erit animal; si negemus esse animal, non erit homo; si autem hominem negemus, uel animal affirmemus, nihil necessarium cadit. Quocirca ex his quae superius dicta sunt declaratur quot disiunctarum propositionum syllogismi sint, uel quibus ab his quae connexae sunt differentiis segregentur. Quae enim connexae sunt quandam in eo quod est esse uel non esse consequentiam monstrant; quae uero secundum disiunctionem proponuntur ita sunt, ut sibimet consentire non possint.  Inuenias quoque per connexionem propositiones, quae id intellegi uelint, ut a se nequeant separari, ut cum ita proponimus: Si est a, est b.  Id nimirum haec propositio intellegit, quod si esse in disiunctione sunt ita proponitur, ut simul esse uideantur. Cum enim dicimus: Aut a est aut b est  aut easdem propositiones quolibet modo alio uariamus, id et coniunctio quae disiunctiua ponitur sentit simul eas esse non posse. Et cum late earum pateat differentia, idcirco nunc de eisdem pauca subiunximus, quoniam totidem syllogismos fieri dicebamus in his propositionibus quae per disiunctionem fierent, quot etiam fuerant /390/ in connexis; et quoniam de omnibus qui quoquo modo fieri possunt hypotheticis syllogismis sufficienter dictum est, hic operis longitudinem terminemus.  Quam magnos studiosis afferat fructus scientia dividendi quamque apud peripateticam disciplinam semper haec fuerit in honore notitia, docet et Andronici, diligentissimi senis de divisione liber editus[;]et hic idem a Plotino gravissimo philosopho comprobatus et in libri Platonis, qui Sophistes inscribitur commentariis a Porphyrio repetitus, et ab eodem per hanc introductionis laudata in Categorias utilitas. Dicit enim necessarium fore generis, speciei, differentiae, proprii, accidentisque peritiam, tum propter alia multa tum propter utilitatem quae est maxima partiendi. Quare, quoniam maximus usus est facillimaque doctrina, ego id quoque sicut pleraque omnia Romanis auribus tradens, introductionis modo habitaque in eandem rem et competenti subtilique tractatione et moderata brevitate perscripsi, ut nec anxietas decisae orationis et non perfectae sententiae legentium ƿ mentibus ingeratur; nec pPomba supervacuam loquacitatem harum rerum inexperiens, rudis, insolensque novi audientium mentes habere aequum, nec ullus livor id quod et arduum natura est et ignotum nostris, nobis autem magno et labore et legentium utilitate digestum, obliquis morsibus obtrectationis obfuscet, denique potius viam studiis, nunc ignoscendo nunc etiam comprobando, quam frena bonis artibus stringant, dum quicquid novum est imprudenti obstinatione repudiant. Quis enim non videat plurimum ad bonarum artium valere defectum si apud mentes hominum numquam sit desperatio displicendi? Sed haec hactenus. Nunc divisionis ipsius nomen dividendum est et secundum unumquodque divisionis vocabulum uniuscuiusque propositi proprietas partesque tractandae sunt, divisio namque multis modis dicitur. Est enim divisio generis in species, est rursus divisio cum totum in proprias distribuitur partes, est alia cum vox multa significans in significationes proprias recipit sectionem. Praeter has autem tres est alia divisio quae secundum accidens fieri dicitur. Huius triplex modus est: unus cum subiectum in accidentia separamus, alius cum accidens in subiecta dividimus, tertius cum accidens in accidentia secamus (hoc ita fit si utraque eidem subiecto inesse videantur). Sed harum omnium exempla subdenda sunt quatenus totius huius ratio divisionis eluceat. Genus dividimus in species cum dicimus "animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia; rationabilium alia mortalia, alia immortalia" vel cum dicimus "coloris alia quidem sunt alba, alia nigra, alia media". Oportet autem omnem generis in species divisionem aut in duas fieri partes aut in plures, sed neque infinitae species esse possunt generis nec minus duabus. Hoc autem cur eveniat posterius demonstrandum est. Totum in partes divididur quotiens in ea ex quibus est compositum unumquodque resolvimus, ut cum dico domus aliud esse tectum, aliud parietes, aliud fundamenta, et hominem anima coniungi et corpore, cumque hominis dicimus partes esse Catonem, Virgilium, Ciceronem et singulos qui, cum particulares sint, vim tamen totius hominis iungunt atque componunt; neque enim homo genus, nec singuli homines species, sed partes quibus totus homo coniungitur. Vocis autem in significationes proprias divisio fit quotiens una vox multa significans aperitur et eius pluralitas significationis ostenditur, ut cum dico "canis" quod est nomen et hunc quadrupedem latrantemque designat et caelestum qui ad Orionis pedem morbidum micat; est quoque alius, marinus canis, qui in immoderatam corporis magnitudinem crescens caeruleus appellatur. Sed huius divisionis duplex modus est, aut enim unum nomen multa significat aut oratio iam verbis nominibusque composita. Et nomen quidem multa significat ut id quod supra proposui, oratio vero multa designat ut est: Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse. Et nominis quidem per significationes proprias divisio aequivocationis partitio nuncupatur, orationis vero in significationes proprias distributio ambiguitatis discretio est, quam Graeci amphiboliam dicunt, ita ut nomen multa significans aequivocum, oratio vero multa designans amphibola atque ambigua praedicetur. Eorum autem quae secundum accidens dividuntur subiecti in accidentia divisio est ut cum dicimus "omnium hominum alii sunt nigri, alii candidi, alii medii coloris", haec enim accidentia sunt hominibus, non hominum species, et homo his subiectum, non horum genus est. Accidentis vero in subiecta sectio evenit ut est "omnium quae expetuntur alia in anima, alia in corporibus sita sunt", animae namque atque corpori id quod expetitur accidens, non genus, est, et boni quod in anima et corpore situm est non sunt haec species sed subiecta. Accidentis vero in accidentia divisio est ut "omnium candidorum alia sunt dura", ut margarita, "alia liquentia", ut lac, liquor namque et albedo atque durities haec sunt accidentia, sed album in dura et liquida separatum est. Cum ergo sic dicimus, accidens in alia accidentia separamus. Sed huiusmodi divisio vicissim semper in alterutra permutatur, possumus enim dicere "eorum quae dura sunt alia sunt nigra, alia alba" et rursus "eorum quae liquida alia sunt alba, alia nigra"; sed haec rursus conversa dividimus: "eorum quae sunt nigra alia sunt dura, alia liquentia". Differt autem huiusmodi divisio omnibus quae supra sunt dictae, nam neque significationem partiri possumus in voces, cum vox in significationes proprias discernatur, nec partes in totum dividuntur, quamvis totum separetur in partes, nec species secatur in genera, licet genus in species dividatur. Quod vero superius dictum est, hanc divisionem ita fieri si utraque eidem contingerent inesse subiecto, si attentius perspicitur liquet, nam cum dicimus eorum quae dura sunt alia esse alba, alia nigra, ut est lapis atque hebenum, manifestum est hebeno utraque inesse, et duritiem scilicet et nigredinem. In caeteris quoque id diligens lector inveniet. Quibus autem summa operatio veritatis inquiritur, his prius intelligendum est quae sit horum omnium simul proprietas quibusque inter se singillatim differentiis segregentur. Omnis enim vocis et generis totiusque divisio secundum se divisio nuncupatur, reliquae vero tres in accidentis distributione ponuntur. Secundum se autem divisionis huiusmodi differentia est. Differt enim divisio generis a vocis divisione quod vox quidem in proprias semper significationes separatur, ƿ genus non in significationes sed in quadam a se quodammodo creatione disiungitur, et genus semper speciei propriae totum est et universalius in natura, aequivocatio vero universalior quidem significata re dicitur, tantum voce non etiam totum est in natura. Illo quoque a vocis distributione dividitur, quod nihil habent commune praeter solum nomen quae sub ea voce sunt, quae vero sub genere collocantur et nomen generis et definitionem suscipiunt. Amplius quoque non eadem apud omnes vocis est distributio: quod apud nos dicitur canis cum eius multae significationes in lingua Romana sint simpliciter fortasse praedicatur in barbara, cum ea quae apud nos uno nomine nuncupantur illi pluribus fortasse significent. Generis vero apud omnes eadem divisio distributioque permanet, unde fit ut vocis quidem divisio ad positionem consuetudinemque pertineat, generis ad naturam, nam quod apud omnes idem est natura est, consuetudinis vero est quod apud aliquos permutatur. Et hae quidem sunt differentiae generis distributionis et vocis. Generis quoque sectio totius distributione seiungitur quod totius divisio secundum quantitatem fit, partes enim totam substantiam coniungentes actu aut ratione animi et cogitatione separantur, generis vero distributio qualitate perficitur. Nam cum hominem sub animali locavero tunc qualitate divisio facta est, quale namque animal est homo idcirco quoniam quadam qualitate formatur, unde quale sit animal homo interrogatus aut "rationale" respondebit aut certe "mortale". Amplius {quoque} genus omne naturaliter prius est propriis speciebus, totum autem partibus propriis posterius; partes sunt quae totum iungunt, compositi sui perfectionem alias natura tantum, alias ratione quoque temporis antecedunt, unde fit ut genus in posteriora, totum vero in priora solvamus. Hinc quoque illud vere dicitur: si genus interimatur statim species deperire, si species ƿ interempta sit non peremptum genus in natura consistere. Contra evenit in toto, nam si pars totius perit totum non erit, cuius pars una sit interempta; sin totum pereat partes permanent distributae, ut si de integra domo quis abstulerit tectum, totum quod ante fuit intercipit, sed pereunte toto parietes et fundamenta constabunt. Amplius quoque genus speciebus materia est, nam sicut aes accepta forma transit in statuam ita genus accepta differentia transit in speciem; totius vero partium multitudo materia est, forma vero earundem partium compositio. Nam sicut species ex genere constat et differentia, ita totum constat ex partibus, unde fit ut totum ab unaquaque parte sua partium ipsarum compositione differat, species vero a genere differentiae coniunctione. Amplius quoque species idem semper quod genus est, ut homo idem est quod animal et virtus idem est quod habitus, partes vero non semper idem quod totum, neque enim manus idem est quod homo nec idem paries quod domus. Et in his quidem quae dissimiles partes habent hoc clarum est, sed non eodem modo in his quae similes, ut in aeris virgula cuius partes, quia sunt continuae quia eiusdem sunt aeris, videntur idem esse quod totum est, sed falso; fortasse enim idem sint partes huiusmodi substantia, non etiam quantitate. Restat autem vocis et totius distributionis differentias dare. Differunt autem quod totum quidem constat partibus, vox vero non constat ex his quae significat; et fit totius quidem divisio in partes, vocis autem fit non in partes sed in eas res quas vox ipsa significat, unde fit ut sublata parte una totum pereat, sublata una re quam vox significat multa designans vox illa permaneat. Nunc ergo quoniam secundum se divisionis differentiae dictae sunt generis distributio pertractetur. Primum quid genus sit definiendum est: genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod ƿ quid sit praedicatur, species vero est quam sub genere collocamus, differentia qua aliud ab alio distare proponimus. Et est quidem genus quod interroganti quid quaeque res sit convenit responderi, differentia quae ad qualis percontationem rectissime respondetur; nam cum quis interrogatur "Quid est homo?" recte "Animal", "Qualis est homo?" convenienter "Rationabilis", respondetur. Dividitur autem genus alias in species, alias in differentias si species quibus genus oportet dividi nominibus carent, ut cum dico "animalium alia rationabilia sunt, alia irrationabilia" rationabile et irrationabile differentiae sunt. Sed quoniam speciei huius quae est animal rationabile nomen unum non est, idcirco pro specie differentiam ponimus eamque superiori generi copulamus, omnis enim differentia in genus proprium veniens speciem facit, unde fit ut materia quaedam genus sit, forma differentia, cum autem propriis nominibus species appellantur, non in differentias generis fit recta divisio. Unde est ut ex pluribus terminis definitio colligatur. Si enim omnes species suis nominibus appellarentur ex duobus solis terminis omnis fieret definitio; ut cum dico "Quid est homo?" quid mihi necesse esset dicere "Animal rationale mortale" si animal rationale esset nomine proprio nuncupatum, quod cum reliqua differentia, id est mortali, iunctum definitionem hominis verissima ratione et integra conclusione perficeret? Nunc autem ad definitiones integras specierum divisio necessaria est et forte in eodem divisionis definitionisque ratio versetur, nam divisionibus iunctis una componitur definitio. Sed quoniam alia sunt aequivoca, alia univoca, et quae sunt univoca ipsa in generum suscipimus sectiones, quae vero sunt aequivoca in his divisio sola significationis est, videndum prius est quid sit univocum quid aequivocum ne, cum ista fefellerint, aequivocum nomen quasi in species ita in significativas ƿ resolvamus. Unde fit ut rursus ad divisionem necessaria sit definitio, quid enim sit aequivocum quid univocum definitione colligimus. Sunt autem differentiae aliae per se, aliae vero per accidens, et harum aliae sunt consequentes, aliae statim relinquentes. Statim relinquentes sunt huiusmodi, dormire vel sedere vel stare vel vigilare, consequentes vero ut capilli crispi (si non amissi sint) et glauci oculi (si non sint quadam extrinsecus debilitate turbati). Sed haec ad generis divisionem sumenda non sunt, neque enim ad definitionem sunt commoda; omne enim quicquid ad divisionem generis aptum est idem ad definitiones rectissime congregamus, illa vero quae per se sunt sola ad divisionem generis apta sunt, haec autem informant perficiuntque uniuscuiusque substantiam, ut hominis rationabilitas et mortalitas. Sed has quemadmodum probare possimus utrum ex eo sint genere statim relinquentium an consequentium an in substantia permanentium hoc modo mihi videndum est, neque enim sufficit scire quas in divisione sumamus nisi illud quoque sit cognitum, quemadmodum easdem ipsas quae sumendae et quae reiciendae sunt rectissime cognoscamus. Videndum ergo primum est utrum proposita differentia omni possit et semper inesse subiecto; quod si ipsa vel actu vel ratione seiungitur, haec a divisione generis separanda est. Si enim saepe et actu et ratione seiungitur, ex eorum est genere quae statim relinquunt, ut sedere quidem frequentius separatur et actu ipso a subiecto dividitur. Quae vero ratione sola a subiecto dividuntur ea sunt consequentium differentiarum, ut glaucis oculis esse a subiecto ratione seiungimus, ut cum dico "Est animal luminibus glaucis, ut quilibet homo", quod si hic non esset huiusmodi non eum ƿ res aliqua esse hominem prohiberet. Aliud rursus est quod ratione separari non possit, quod si separatum sit species interimatur, ut cum dicimus inesse homini ut solus numerare possit vel geometriam discere. Quod si haec possibilitas ab homine seiungatur, homo ipse non permanet; sed haec non statim earum sunt quae in substantia insunt, nam non idcirco homo est quoniam haec facere potest, sed quoniam rationalis est atque mortalis. Hae igitur differentiae propter quas species consistit ipsae et in definitione speciei et in generis eius divisione quod continet speciem collocantur. Et universaliter dicendum est, quaecumque differentiae huiusmodi sunt ut non modo praeter eas species esse non possit sed propter eas solas sit, hae vel in divisione generis vel in speciei definitione sumendae sunt. Quoniam vero quaedam sunt quae differunt quae contra se in divisionibus poni non debent, ut in animali rationale et bipes (nullus enim dicit "Animalium alia sunt rationabilia, alia duos pedes habentia" idcirco quod rationale et bipes, licet differant, nulla a se oppositione disiunguntur), constat quaecumque a se aliqua oppositione differunt eas solas differentias sub genere positas genus ipsum posse disiungere. Sunt autem oppositiones quatuor: aut ut contraria, ut bonum malo, aut ut habitus et privatio, ut visus et caecitas, quamquam sint et quaedam res in quibus discernere difficultas sit utrum in contrariis an in privatione vel habitu ea oporteat collocari, ut sunt motus quies, sanitas aegritudo, vigilatio somnus, lux tenebrae -- sed haec alias, nunc autem de reliquis oppositionibus dicendum est. Tertia oppositio est quae est secundum affirmationem et negationem, ut: “Socrates vivit”, “Socrates non vivit.” Quarta secundum relationem, ut pater filius, dominus servus. Secundum quas igitur harum quattuor oppositionum ƿ divisio generis sit rectissima ratione monstrandum est, manifestum est enim et oppositiones esse quattuor et species et genera per opposita separari. Nunc ergo dicendum est secundum quam oppositionem harum quattuor vel quemadmodum species a genere disiungi conveniat. Et prima quidem sit contradictionis oppositio, voco autem contradictionis oppositionem quae affirmatione et negatione proponitur. In hac igitur negatio per se nullam speciem facit, nam cum dico "homo" vel "equus", et aliquid huiusmodi, species sunt, quicquid autem quis in negatione protulerit speciem non declarat, non esse enim hominem non est species. Omnis enim species esse constituit, negatio vero quicquid proponit ab eo quod est esse disiungit, ut cum dico "homo" quasi si sit quiddam locutus sum, cum vero "non homo" substantiam hominis negatione destruxi. Sic igitur per se caret divisio generis in species negatione. Necesse est autem saepe speciem negatione componere cum ea quam simplici nomine speciem volumus assignare nullo vocabulo nuncupatur, ut cum dico "Imparium numerorum alii primi", ut tres, quinque, vel septem, "alii non primi", ut novem, et rursus "Figurarum aliae sunt rectilineae, aliae non rectilineae" et "Colorum alii sunt albi, alii nigri, alii nec albi nec nigri". Ergo quando nomen unum speciebus positum non est, eas negatione proferre necesse est. Hoc igitur cogit interdum necessitas, non natura. In eodem quoque quotiens negatione facimus sectionem prius aut affirmatio aut simplex dicendum est nomen, ut est "Numerorum alii sunt primi, alii non primi", nam si prius negatio dicta sit, tardior fit rei quam proponimus intellectus. Nam cum primum dicis esse aliquos numeros primos, cum quales sint primi exemplo vel definitione docueris, quales non sint primi mox auditor intelliget. Sin vero e contrario feceris, aut neutra subito aut tardius utraque cognoscet, divisio vero quae propter apertissimam generis naturam reperta est debet potius ad intelligibiliora deducere. Amplius quoque prior affirmatio est, posterior negatio, quod autem primum ƿ est in divisione quoque oportet primitus ordinari. Necesse est quoque semper finita infinitis esse priora, ut aequale inaequali, virtutem vitiis, certum incerto, stabile fixumque mutabili. Sed omnia quae aut definita parte orationis aut affirmatione proferuntur plus finita sunt quam aut nomen cum particula negativa aut tota negatio, quare finito potius quam infinito est facienda divisio. Sed si cui per haec quaedam paratur anxietas aut obscuriora sunt fortasse quam ipse desiderat, nihil ad me cognitionem facilem pollicentem, neque enim rudibus haec totius artis sed imbutis et ulteriore paene loco progressis legenda et discenda proponimus. Qui vero huius operis ordo sit cum De ordine Peripateticae disciplinae mihi dicendum esset diligenter exposui. Haec quidem dicta sunt de oppositione quam affirmatio negatioque constituit, illa vero quae secundum habitum privationemque fit ipsa quoque superiori videtur esse consimilis. Negat enim quodammodo privatio habitum, sed differt quod semper quidem potest esse negatio, privatio vero non semper, sed tunc quando habitum habere possibile est (hoc vero nos iam Praedicamenta docuerunt). Quare forma quaedam intelligitur esse privatio, non enim tantum privat sed etiam circa se ipsam privatum quemque disponit. Neque enim solum oculum caecitas privat lumine sed ipsa quoque secundum se privatum luce disponit, caecus enim dicitur ad privationem quodammodo quasi dispositus et affectus (hoc quoque Aristoteles testatur, in Physicis). Unde fit ut privationis differentia ad generum divisionem frequenter utamur. Sed hic quoque eodem modo sicut in contradictione faciendum est, prius enim ponendus est habitus, qui est affirmationi consimilis, post privatio, quae negationi. Aliquotiens tamen privationes quaedam habitus vocabulo proferuntur, ut "orbus", "caecus", "uiduus", aliquotiens cum particula privationis, ut cum dicimus "finitum" et "infinitum", "aequum" et "inaequale", sed in his "aequum" et "finitum" in divisione prima ponenda sunt, privationes secundae. Ac de oppositione quidem privationis et habitus haec dicta sufficiant. Contrariorum vero oppositio dubitatur fortasse an secundum ƿ privationem et habitum esse videatur, ut album et nigrum, an album quidem privatio nigri sit, nigrum vero albi -- sed haec alias, nunc autem ita tractandum est tamquam si sit aliud oppositionis genus, sicut est in Praedicamentis ab ipso quoque Aristotele dispositum. In contrariis autem generum multa divisio est, fere enim cunctas differentias in contraria ducimus, sed quoniam contraria sunt alia medio carentia, alia mediata, ita quoque divisio facienda est, ut "Colorum alia sunt alba, alia nigra, alia neutra". Fieret autem omnis definitio omnisque divisio duobus terminis praedicatis nisi, ut supra iam dictum est, indigentia (quae saepe existit) in nomine prohiberet. Quo autem modo utraeque duobus terminis fierent erit manifestum hoc modo. Cum enim dico "Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia" animal rationale ad hominis definitionem contendit, sed quoniam animalis rationalis unum nomen non est ponamus ei nomen a litteram: "rursus a litterae", quod est animal rationale, "alia sunt mortalia, alia immortalia". Volentes igitur definitionem hominis reddere dicemus: “Homo est a littera mortalis” nam si hominis definitio est animal rationale mortale, animal vero rationale per a litteram significatur, idem sentit "a mortale" tanquam si diceretur "animal rationale mortale", a enim, ut dictum est, animal rationale significat. Sic ergo a littera et mortali, duobus terminis, facta definitio est; quod si reperirentur in omnibus quoque nomina, duobus semper terminis tota definitio constitueretur. Divisio vero nominibus positis quoniam semper in duos terminos secatur manifestum est si quis generi et differentiae cum deest nomen imponat, ut cum dicimus: "Figurarum quae sunt trilaterae aliae sunt aequilaterae, aliae duo latera habentes aequa, aliae totae inaequales". Trina igitur ista divisio si sic proferretur fieret duplex: "Figurarum quae trilaterae ƿ sunt aliae sunt aequales, aliae inaequales; inaequalium aliae sunt duo latera tantum aequa habentes, aliae tria inaequalia", id est omnia; et cum dicimus "Rerum omnium alia sunt bona, alia mala, alia indifferentia", quae nec bona scilicet nec mala, si ita diceretur gemina divisio proveniret: "Rerum omnium alia sunt differentia, alia indifferentia; differentium alia sunt bona, alia mala". Ita ergo divisio omnis in gemina secaretur si speciebus et differentiis vocabula non deessent. Quartam vero oppositionem diximus quae est secundum ad aliquid, ut pater filius, dominus servus, duplex medium, sensibile sensus. Haec igitur nullam habent substantialem differentiam qua a se discrepent, immo potius habent huiusmodi cognationem qua ad se inuicem referantur ac sine se esse non possint. Non est ergo generis in relativas partes facienda divisio, sed tota huiusmodi sectio a genere separanda est, neque enim hominis species est servus aut dominus nec numeri medium aut duplum. Cum igitur quattuor sint differentiae, affirmationis et negationis si non necesse est semper tamen relationis reicienda divisio est, privationis et habitus et contrariorum sumendae. Maxime autem contrarietas in differentiis ponenda est nec non etiam privatio, idcirco quoniam contra habitum quiddam contrarium videtur apponere, ut est finitum et intinitum; quanquam enim sit privatio, infinitum tamen contrarii imaginatione formatur, est quaedam namque, ut dictum est, forma. Dignum vero inquisitu est utrum in species an in differentias recte genera dividantur, definitio namque divisionis est generis in species proximas distributio. Oportet igitur secundum naturam divisionis et secundum definitionem in proprias species semper fieri generis disgregationem (sed hoc interdum fieri nequit propter eam quam supra reddidimus causam, multis enim speciebus non sunt nomina) atque ideo, quoniam quaedam sunt prima genera, quaedam ultima, quaedam media: primum quidem ut substantia, ultimum ut animal, medium ƿ ut corpus, corpus namque animalis genus est, substantia corporis, sed neque super substantiam quicquam inveniri potest quod generis loco valeat collocari neque sub animali, homo namque species, non genus, est. Quare antiquior videbitur speciei divisio si non sit indigentia nominum, quod si his omnibus non abundamus, prima genera usque ad ultima convenit in differentias separare. Hoc autem fit hoc modo, ut primum genus in suas differentias disgregemus non in posteriores, et posterius rursus in suas sed non in posteriores. Neque enim eaedem sunt differentiae corporis quae animalis, si quis enim dicat "Substantiae aliud est corporale, aliud incorporale" recte divisionem fecerit, hae namque differentiae propriae substantiae sunt; si quis vero sic, "Substantiarum alia sunt animata, alia inanimata", hic non recte substantiae differentias disgregavit, corporis namque differentiae sunt, non substantiae, id est secundi generis non primi. Quare manifestum est secundum proprias differentias, non secundum posterioris generis, priorum generum divisionem esse faciendam. Quotiens autem genus aut in differentias aut in species solvitur, post divisionem factam mox definitiones aut exempla subdenda sunt, sed si quis definitionibus non abundet satis est exempla subicere, ut cum dicimus "Corporum alia sunt animata" subiciamus "ut homines vel ferae; alia inanimata, ut lapides". Oportet autem divisionem quoque, sicut terminum neque diminutam esse, neque superfluam, nam neque plures species quam sub genere sunt oportet apponi nec pauciores, ut in se ipsa divisio sicut terminus convertatur. Convertitur enim terminus sic: "Virtus est mentis habitus optimus", rursus "Habitus mentis optimus virtus est". Sic etiam divisio: "Omne genus aliquid eorum erit quae sunt species", rursus "quaelibet species proprium genus est". Fit autem generis eiusdem multipliciter divisio, ut omnium corporum et quaecumque alicuius sunt magnitudinis. Sicut enim circulum in semicirculos et in eos quos Graeci *tomeas* vocant (nos divisiones possumus dicere) distribuimus, et tetragonum alias ducto per angulum ƿ diametro in triangula, alias in parallelogrammata, alias in tetragona separamus, ita quoque genus, ut cum dicimus "Numerorum alii sunt pares, alii impares" et rursus "alii primi, alii non primi", et "Triangulorum alia sunt aequilatera, alia duo sola latera aequa habentia, alia totis inaequalia lateribus" et rursus "Triangulorum alia sunt rectiangula, alia acutos habentia tres angulos, alia obtusum". Sic igitur generis unius fit divisio multiplex. Illud autem scire perutile est, quoniam genus una quodammodo multarum specierum similitudo est quae earum omnium substantialem convenientiam monstret, atque ideo collectivum plurimarum specierum genus est, disiunctivae vero unius generis species. Quae quoniam differentiis informantur, ut dictum est, idcirco sub uno genere minus duabus speciebus esse non possunt, omnis enim differentia in discrepantium pluralitate constat. Sed de divisione generis et speciei perplura dicta sunt. Hanc igitur insistentibus viam promptior per divisionem generis ad speciei definitionem facultas aperitur, oportet autem non solum quas ad definitionem sumamus differentias addiscere, sed ipsius quoque definitionis artem diligentissima cognitione complecti. Et illud quidem, an ulla possit definitio demonstrari et quemadmodum per demonstrationem valeat inveniri, et quaecumque de ea subtilius in postremis Analyticis ab Aristotele tractata sunt, praetermittam, solam tantum exsequar regulam definiendi. Rerum enim aliae sunt superiores, aliae inferiores, aliae mediae. Superiores quidem definitio nulla complectitur idcirco quod earum superiora genera inveniri non possunt; porro autem inferiores, quae sunt individua, specificis differentiis carent, quocirca ipsae quoque a definitione seclusae sunt; mediae igitur quae et habent genera et de aliis vel ƿ de generibus vel de speciebus vel individuis praedicantur sub definitionem cadere possunt. Data igitur huiusmodi specie quae et genus habeat et de posteriori praedicetur, primo eius sumo genus et illius generis diffferentias divido; et adiungo differentiam generi, et video num illa differentia iuncta cum genere aequalis possit esse cum ea specie quam circumscribendam definitione suscepi. Quod si minor fuerit species, illam differentiam rursus quam dudum cum genere posueramus quasi genus ponimus eamque in alias suas differentias separamus, et rursus has duas differentias superiori generi coniungimus, et, si aequavit speciem, definitio speciei esse dicetur, sin minus, secundam differentiam rursus in alia separamus. Quas omnes coniungimus cum genere et rursus speculamur si omnes differentiae cum genere illi aequales sunt speciei quae definitur. Et postremo totiens differentias differentiis distribuimus usque dum omnes iunctae generi speciem aequali definitione describant. Huius autem rei clariorem facient exempla notitiam hoc modo. Sit nobis propositum quod definire velimus "nomen". Vocabulum ergo nominis de pluribus nominibus praedicatur et est quodammodo species sub se continens individua. Definio ergo nomen sic. Sumo eius genus quod est vox et divido: "Vocum aliae sunt significativae, aliae vero minime". Vox autem non significativa nihil ad nomen, etenim nomen significat; sumo ergo differentiam quae est significativa et iungo cum genere, id est cum voce, et facio "uox significativa" et tunc respicio utrum genus hoc et differentia nomini sint aequalia. Sed nondum aequalia sunt, potest enim et vox significativa esse et nomen non esse, sunt enim quaedam voces quae dolorem designant, aliae quae animi passiones naturaliter quae nomina non sunt, ut interiectiones. Rursus ipsam vocum significantiam in alias differentias divido: "Vocum significativarum aliae sunt secundum positionem, aliae ƿ sunt naturaliter", et vox quidem significans naturaliter nihil ad nomen, vox vero significans positione hominum nomini congruit. Quocirca duas has differentias significativam et secundum positionem, iungo cum voce, id est cum genere, et dico: "Nomen est vox significativa secundum placitum". Sed rursus mihi non aequatur ad nomen, sunt namque et verba voces significativae et secundum positionem; non igitur solius nominis definitio est. Distribuo iterum differentiam quae est secundum positionem et dico "Secundum positionem vocum significativarum aliae sunt cum tempore, aliae sine tempore", et differentia quidem cum tempore nomini non iungitur idcirco quod verborum est consignificare tempora, nominum vero minime; restat ergo ut congruat illa differentia quae est sine tempore. Iungo igitur has tres differentias generi et dico: "Nomen est vox significativa ad placitum sine tempore". Sed rursus mihi non plena conclusio definitionis occurrit, potest enim vox et significativa et secundum positionem et sine tempore esse et nomen non esse unum sed nomina iuncta, quae est oratio, ut: “Socrates cum Platone et discipulis”, sed quamquam imperfecta quidem haec sit oratio, tamen est oratio. Quocirca ultima differentia quae est sine tempore aliis item differentiis dividenda est, et dicemus: "Vocum significativarum secundum positionem sine tempore aliae sunt quarum pars extra aliquid significat", hoc pertinet ad orationem, "aliae quarum pars extra nihil significat", hoc pertinet ad nomen, nominis enim pars nihil extra designat. Fit ergo definitio sic: "Nomen est vox significativa secundum placitum sine tempore, cuius nulla pars extra significativa est separata". Videsne igitur quam recta definitio constituta sit? Nam quod dixi "uocem" a caeteris sonis nomen disiunxi, quod "significativam" apposui nomen a non significativis vocibus separavi, quod "secundum placitum" et "sine tempore" a naturaliter significantibus vocibus et a verbis proprietas nominis distributa est, quod eius partes extra nihil significare proposui ab oratione distinxi, cuius partes aliquid separatae extra significant. Unde fit ut quodcumque nomen fuerit illa definitione claudatur et ubicumque haec ratio definitionis aptabitur illud nomen esse non dubitem. Illud quoque dicendum est, quod genus in divisione totum est, in definitione pars, et sic est definitio quasi quaedam partes totum coniungant, sic est divisio quasi totum solvatur in partes, et est similis divisio generis totius divisioni, definitio totius compositioni. Namque in divisione generis animal totum est hominis, intra se enim complectitur hominem, in definitione vero pars est, specie namque genus cum aliis differentiis iunctum componit, ut cum dico "Animalium alia sunt rationabilia, alia irrationabilia" et rursus "Rationabilium alia sunt mortalia, alia immortalia", animal rationalis totum est et rursus rationale mortalis, et haec tria hominis. Si vero in definitione dicam: “Homo est animal rationale mortale”tria haec unum hominem iungunt, quocirca pars ipsius et genus et differentia reperitur. Sic igitur in divisione genus totum est, species pars, eodem quoque modo differentiae totum, partes in quas illae dividuntur. In definitione vero et genus et differentiae partes sunt, definita vero species totum. Sed haec hactenus. Nunc de ea divisione dicemus quae est totius in partes, haec enim erat secunda divisio post generis divisionem. Quod enim dicimus totum multipliciter significamus: totum namque est quod continuum est, ut corpus vel linea vel aliquid huiusmodi; dicimus quoque totum quod continuum non est, ut totum gregem vel totum populum vel totum exercitum; dicimus quoque totum quod universale est, ut hominem vel equum, hi enim toti sunt suarum partium, id est hominum vel equorum, unde et particularem unumquemque hominem dicimus; dicitur quoque totum quod ex quibusdam virtutibus constat, ut animae alia potentia est sapiendi, alia sentiendi, alia uegetandi. Tot igitur modis cum totum dicatur, facienda totius divisio est - primo quidem, si continuum fuerit, in eas partes ex quibus ipsum ƿ totum constare perspicitur, aliter enim divisio non fit. Hominis enim corpus in partes suas divideres, in caput, manus, thoracem, pedes, et si quo alio modo secundum proprias partes fit recta divisio. Quorum autem multiplex est compositio multiplex etiam divisio, ut animal separatur quidem in partes eas quae sibi similes habent partes, in carnes, et ossa, rursus in eas quae sibi similes non habent partes, in manus, in pedes, eodem quoque modo et navis et domus. Librum quoque in versus atque hos in sermones, hos autem in syllabas, syllabas in litteras solvimus, ita fit ut litterae et syllabae et nomina et versus partes quaedam totius libri esse videantur, alio tamen modo acceptae non partes totius sed partes partium sint. Oportet autem non omnia speculari quasi actu dividantur sed quasi animo et ratione, ut vinum aquae mixtum dividimus in vina aquae mixta, hoc actu, dividimus etiam in vinum et aquam ex quibus mixtum est, hoc ratione, haec enim iam mixta separari non possunt. Fit autem totius divisio et in materiam atque formam, aliter enim constat statua ex partibus suis, aliter ex materia atque forma, id est ex aere et specie. Similiter etiam illa tota dividenda sunt quae continua non sunt eodem quoque modo et ea quae sunt universalia, ut "Hominum alii sunt in Europa, alii in Asia, alii in Africa". Eius quoque totius quod ex virtutibus constat hoc modo facienda est divisio: "Animae alia pars est in virgultis, alia in animalibus" et rursus "eius quae est in animalibus alia rationalis, alia sensibilis est" et rursus haec aliis sub divisionibus dissipantur. Sed non est anima horum genus sed totum, partes enim hae animae sunt, sed non ut in quantitate, sed ut in aliqua potestate atque virtute, ex his enim potentiis substantia animae iungitur. Unde fit ut quiddam simile habeat huiusmodi divisio et generis et totius divisioni, nam quod quaelibet eius pars fuerit animae praedicatio eam sequitur, ad generis divisionem refertur, cuius ubicumque fuerit species ipsum mox consequitur genus; quod autem non omnis anima omnibus partibus iungitur sed alia aliis, hoc ad totius naturam referri necesse est. Restat igitur ut de vocis in significantias divisione tractemus. Fit autem vocis divisio tribus modis. Dividitur enim in significationes ut aequivoca vel ambigua, plures enim res significat unum nomen, ut "canis", plures rursus una oratio, ut cum dico Graecos vicisse Troianos. Alio autem modo secundum modum, haec enim non plura significant sed multis modis, ut cum dicimus "infinitum" unam rem quidem significat cuius terminus inveniri non possit, sed hoc dicimus aut secundum mensuram aut secundum multitudinem aut secundum speciem: secundum mensuram, ut est infinitum esse mundum, magnitudine enim dicimus infinitum; secundum multitudinem, ut est infinitam esse corporum divisionem, infinitam namque divisionum multitudinem significamus; rursus secundum speciem, ut infinitas dicimus figuras, infinitae enim sunt species figurarum. Dicimus etiam infinitum aliquid secundum tempus, ut infinitum dicimus mundum, cuius terminus secundum tempus inveniri non possit, eodem quoque modo infinitum dicimus Deum, cuius supernae vitae terminus inveniri secundum tempus non possit. Sic igitur haec vox non plura significat secundum se sed multimode de singulis praedicatur, unum tamen ipsa significans. Alius vero modus secundum determinationem. Quotiens enim sine determinatione dicitur vox ulla, facit intellectu dubitationem, ut est "homo", haec enim vox multa significat, nulla enim definitione conclusa audientis intelligentiam multis raptat fluctibus erroribusque traducit. Quid enim quisque auditor intelligat ubi id quod dicens loquitur nulla determinatione concluditur? Nisi enim quis ita definiat dicens: “Omnis homo ambulat” aut certe: “Quidam homo ambulat” et hunc nomine, si ita contingit, designet, intellectus audientis quod rationabiliter intelligat non habet. Sunt etiam aliae determinationes, ut si quis dicat: “Det mihi!” quando vel quid dare debeat nullus intelligit nisi intellectus et certa ƿ ratio determinationis addatur, vel si quis dicat: “Ad me venite!”quo veniant vel quando nisi determinatione non cognoscitur. Est autem omne quidem ambiguum dubitabile, non tamen omne dubitabile ambiguum, haec enim quae dicta sunt dubitabilia quidem sunt, non tamen ambigua. In ambiguis enim uterque auditor rationabiliter se ipsum intellexisse arbitratur, ut cum quis dicit: “Audio Graecos vicisse Troianos” unus potest intelligere quod Graeci Troianos vicerint, alius quod Troiani Graecos, et uterque hoc dicentis ipsius sermonibus rationabiliter intellegunt. Cum autem dico: “Da mihi!” quid dare debeat nullus ex ipsis sermonibus rationabiliter auditor intelligit, quod enim ego non dixi ille potius suspicabitur quam aliqua ratione id quod a me prolatum non est perspicaciter videat. Tot igitur modis cum vocis divisio fiat, aut per significantias aut per modum significationum aut per determinationem, in his quae secundum significantiam dividuntur non solum dividendae sunt significationes sed etiam diversas res esse quae significantur definitione monstrandum est. Aristoteles enim hoc in Topicis diligenter praecepit, ut in his quae dicuntur bona alia sunt bona, ut ea quae boni retinent qualitatem, alia quae ipsa quidem nulla qualitale dicuntur sed quod bonam rem faciunt idcirco bona dicuntur. Oportet autem maxime exercere hanc artem, ut ipse Aristoteles ait, contra sophisticas importunitates, si enim nulla subiecta sit res quam significat vox, designativa esse non dicitur, sin vero una res sit quam significat vox, dicitur simplex, quod si plures, multiplex et multa significans. Dividenda igitur haec sunt ne in aliquo syllogismo capiamur. Sin vero amphibola oratio est, evenit ut aliquotiens utroque modo possibilia sint quae significantur, ut id quod superius dixi; potuit ƿ enim fieri ut Graeci vincerent Troianos et Troiani Gracos superarent. Sunt vero alia quae impossibilia sunt, ut cum dico hominem comedere panem, significat quidem quod homo panem comedat, rursus quod panis hominem, sed hoc impossibile est. Ergo quotiens ad contentionem venitur dividenda et possibilia et impossibilia, quotiens ad veritatem sola possibilia dicenda, impossibilia relinquenda sunt. Quoniam ergo plures sunt species plura significantium vocum, dicendum est quod aliae in particula multiplicitatem significationis habent, aliae in tota oratione, et eorum quae in particula habent pars ipsa aequivoca dicitur, tota vero ipsa oratio secundum aequivocationem multiplex, illa vero quae in oratione tota significationis multiplicitatem retinet (ut supra iam dictum est) ambigua nuncupatur. Dividitur autem significationes aequivocarum secundum aequivocationem unius particulae orationum definitione, ut cum dico: “Homo vivit”intelligitur et verus et pictus; dividitur autem hoc modo: “Animal rationale mortale vivit” (quod verum est), “Animalis rationalis mortalis simulatio vivit” (quod falsum est). Dividitur qualibet adiectione quae terminet, vel generis vel casus vel alicuius articuli; ut cum dico: “Canna Romanorum sanguine sorduit” et calamum demonstrat et fluuium, sed dividimus sic: articulo quidem, ut dicamus: “Hic Canna Romanorum sanguine sorduit” vel genere, ut: “Canna Romanorum sanguine plenus fuit”uel casu vel numero, in illo enim singularis tantum est, in illo pluralis, et de aliis quidem eodem modo. Sunt autem alia secundum accentum, alia secundum orthographiam, et secundum accentum quidem ut "pone" et "pone", secundum orthographiam ut "quaeror" et "queror" ab inquisitione et ƿ querela; et haec rursus vel secundum ipsam orthographiam dividuntur vel secundum actionem et passionem, quod "quaeror" ab inquisitione passivum est, "queror" autem a querela agentis est. Ambiguarum vero orationum facienda est divisio, aut per adiectionem aut per diminutionem aut per divisionem aut per aliquam transmutationem, ut cum dicitur: “Audio Troianos vicisse Graecos”ita dicamus: “Audio quod Graeci vicerint Troianos” haec enim ambiguitas quolibet eorum modo solvitur. Non tamen ita dividenda est omnis vocum significatio tamquam generis: in genere omnes species enumerantur, in ambiguitate vero tantae sufficiunt quantae ad eum sermonem possint esse utiles quem alterutra nectit oratio. Ac de vocis quidem significatione sufficienter dictum est, est autem et de generis totiusque divisione propositum atque expeditum. Quare de omnibus secundum se partitionibus diligentissime pertractatum est. Nunc de his divisionibus dicemus quae per accidens fiunt. Harum autem commune praeceptum est, quicquid ipsorum dividitur in opposita disgregari, ut si subiectum in accidentia dividimus non dicamus "Corporum alia sunt alba, alia dulcia", quae opposita non sunt, sed "Corporum alia sunt alba, alia nigra, alia neutra", eodem quoque modo in aliis secundum accidens divisionibus dividendum est. Atque illud maxime perspiciendum, ne quid ultra dicatur aut minus, sicut fit in generis divisione. Non enim oportet relinqui aliquod accidens ex eadem oppositione quod subiecto illi inest quod non in divisione dicatur, neque vero addi aliquid quod subiecto inesse non possit. Posterior quidem Peripateticae secta prudentiae differentias divisionum diligentissima ratione perspexit et per se divisionem ab ea quae est secundum accidens ipsasque inter se disiunxit atque distribuit, ƿ antiquiores autem indifferenter et accidente pro genere et accidentibus pro speciebus aut differentiis utebantur, unde nobis peropportuna utilitas visa est et communiones harum divisionum prodere et eas propriis differentiis disgregare. Et de divisione quidem omni quantum introductionis brevitas patiebatur diligenter expressimus. Exhortatione tua, Patrici rhetorum peritissime, quae honestati praesentis propositi et futurae aetatis utilitati coniuncta est, nihil antiquius existimaui. Cui muneri libentius acquieui, non quod ad instruendum te, commentarios in M. Tullii Topica laborare me credidi (ridiculus quippe forem si Mineruam, ut aiunt, litterae docere uellem) sed ut ex disciplinarum liberalium sumptum penu, nostrae apud te semper pignus amicitias permaneret. Quod enim munus ex animo diligentibus iocundius inueniri potest, quam quod ipsius animi partes format et instruit? Nam caetera fere caduca, imbecilla, labantia, et si ad fortunae uicem spectes, pene semper aliena sunt. At uero opulentiam litterarum, nec praesens imminuit aetas, earumque auctoritatem ipsa etiam cunctae conficiens, auget potius et confirmat uetustas. Accipe igitur opus, non efficientiae securitate sed amicitiae praesumptione susceptum, apud quam nescio quonam pacto garrire non dedecet, simul quia praelato a nobis munere cum tuorum aliquid operum postulauero, iniurius fueris, si negabis.  Sed cum in M. Tullii Topica Marius Victorinus rhetor plurimae in disserendi arte notitiae commenta conscripserit, non me oportuisset melioribus forsitan attemptata contingere nisi esset aliquid quo se noster quoque labor exercere atque parere potuisset. Quatuor enim uoluminibus Victorinus in Topica conscriptis, eorum primo declarandis tantum libri principiis occupatur.  Addit etiam et si qua in eodem uolumine praedicenda fuissent perpendit, ut ab exordio uoluminis Topicorum quod est:  MAIORES NOS RES SCRIBERE INGRESSOS, C. TREBATI...  usque ad eum locum qui est:  SED IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE.  primi uoluminis Victorini expositio terminetur.  Secundo uolumine de iudicandi, atque inueniendi dialecticae partibus, et de loco atque argumenti definitione pertractat, ut ab eo loco Topicorum qui est:  CUM OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI DUAS HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI...  usque ad eum locum qui est: ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM AUTEM RATIONEM, QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM.  secundi libri explanatio subsistat.  Tertius uero atque quartus discretionem locorum inter se eorumque exempla multiformiter persequuntur. Ita ut tertius quidem Tulliana sibi de iure proponat exempla. Quartus uero eosdem locos per alias rursus similitudines monstret ex Virgilio et Terentio poetis, oratoribus Cicerone et Catone, ut quod praeceptis ostenditur, exemplis multipliciter collucescat, neque ab eo loco qui est in Topicis sed ex his locis in quibus argumenta inclusa sunt, expositio progressa eum transcendit locum qui est: VALEAT AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT.  Quanta uero pars reliqua si Topicorum ipsius uoluminis magnitudo demonstrat, quam Victorinus, neque attigit, neque attingere potuisset, ita est rebus minimis immoratus, nisi opus multa librorum pluralitate distenderet.  Nos uero et hanc ipsam particulam, quam Victorinus attigit diligenter (ut possumus) aggrediamur, et longius expositione progressi, cum Topicorum debemus fine consistere. Quare hinc de tota operis propositione conueniens sumamus exordium. Sed antequam de topicae facultatis ratione pertractem, proemium, quoad Trebatium M. Tullius utitur, paucis absoluam. Ait enim: MAIORES NOS RES SCRIBERE INGRESSOS, C. TREBATI, ET HIS LIBRIS, QUOS BREVI TEMPORE SATIS MULTOS EDIDIMUS, DIGNIORES E CURSU IPSO REVOCAVIT VOLUNTAS TUA. CUM ENIM MECUM IN TUSCULANO ESSES ET IN BIBLIOTHECA SEPARATIM UTERQUE NOSTRUM AD SUUM STUDIUM LIBELLOS QUOS VELLET EVOLVERET, INCIDISTI IN ARISTOTELIS TOPICA QUAEDAM, QUAE SUNT AB ILLO PLURIBUS LIBRIS EXPLICATA.  QUA INSCRIPTIONE COMMOTUS CONTINUO A ME LIBRORUM EORUM SENTENTIAM REQUISISTI. QUAM CUM TIBI EXPOSUISSEM, DISCIPLINAM INUENIENDORUM ARGUMENTORUM, UT SINE ULLO ERRORE AD EA RATIONE ET VIA PERVENIREMUS, AB ARISTOTELE INVENTAM ILLIS LIBRIS CONTINERI, VERECUNDE TU QUIDEM UT OMNIA, SED TAMEN FACILE UT CERNEREM TE ARDERE STUDIO, MECUM UT TIBI ILLA TRADEREM EGISTI. CUM AUTEM EGO TE NON TAM VITANDI LABORIS MEI CAUSA QUAM QUIA TUA ID INTERESSE ARBITRARER, VEL UT EOS PER TE IPSE LEGERES VEL UT TOTAM RATIONEM A DOCTISSIMO QUODAM RHETORE ACCIPERES, HORTATUS ESSEM, UTRUMQUE, UT EX TE AUDIEBAM, ES EXPERTUS.  [1.03] SED A LIBRIS TE OBSCURITAS REIECIT; RHETOR AUTEM ILLE MAGNUS HAEC, UT OPINOR, ARISTOTELIA SE IGNORARE RESPONDIT. QUOD QUIDEM MINIME SUM ADMIRATUS EUM PHILOSOPHUM RHETORI NON ESSE COGNITUM, QUI AB IPSIS PHILOSOPHIS PRAETER ADMODUM PAUCOS IGNORETUR; QUIBUS EO MINUS IGNOSCENDUM EST, QUOD NON MODO REBUS EIS QUAE AB ILLO DICTAE ET INVENTAE SUNT ADLICI DEBUERUNT, SED DICENDI QUOQUE INCREDIBILI QUADAM CUM COPIA TUM ETIAM SUAVITATE. NON POTUI IGITUR TIBI SAEPIUS HOC ROGANTI ET TAMEN VERENTI NE MIHI GRAVIS ESSES -- FACILE ENIM ID CERNEBAM -- DEBERE DIUTIUS, NE IPSI IURIS INTERPRETI FIERI [1042C] VIDERETUR INIURIA. ETENIM CUM TU MIHI MEISQUE MULTA SAEPE SCRIPSISSES, VERITUS SUM NE, SI EGO GRAVARER, AUT INGRATUM ID AUT SUPERBUM VIDERETUR. SED DUM FUIMUS UNA, TU OPTIMUS ES TESTIS QUAM FUERIM OCCUPATUS. UT AUTEM A TE DISCESSI IN GRAECIAM PROFICISCENS, CUM OPERA MEA NEC RES PUBLICA NEC AMICI UTERENTUR NEC HONESTE INTER ARMA VERSARI POSSEM, NE SI TUTO QUIDEM MIHI ID LICERET, UT VENI VELIAM TUAQUE ET TUOS VIDI, ADMONITUS HUIUS AERIS ALIENI NOLUI DEESSE NE TACITAE QUIDEM FLAGITATIONI TUAE. ITAQUE HAEC, CUM MECUM LIBROS NON HABEREM, MEMORIA REPETITA IN IPSA NAVIGATIONE CONSCRIPSI TIBIQUE EX ITINERE MISI, UT MEA DILIGENTIA MANDATORUM TUORUM TE QUOQUE, ETSI ADMONITORE NON EGES, AD MEMORIAM NOSTRARUM RERUM EXCITAREM. SED IAM TEMPUS EST AD ID QUOD INSTITUIMUS ACCEDERE.  Omne proemium, quod ad componendum intendit auditorem, ut in rhetoricis discitur, aut beneuolentiam captat aut attentionem praeparat aut efficit docilitatem: his tribus partibus sibi Cicero Trebatium format. Nam quod se a magnarum rerum inchoatione reuocatum ad amici contulit uoluntatem, fauorem Trebatii uelut iudicis, beneuolentiae partibus meretur. MAIORES autem RES sunt a quarum scriptione ad amici studium uersus est, moralis philosophiae tractatus. Maior est enim morum ratio quam peritia disserendi. Id autem tempus fuisse coniicimus, quo propter turbulenta reipublicae tempora in otium se contulit, atque ad philosophiae disciplinas.  Sed quia nobis audientium mentes ueritatis quoque opinio praesumpta conciliat, in eo etiam praeparandae beneuolentiae partibus utitur. Quod in commemorandis ueraciter iis quae Trebatius nouerat, facit illis fidem quae posterius euenire et Trebatio potuerunt esse ignota. Haec autem sunt, quod in Tusculano ad suum studium uterque libros euoluerit. Quodque Trebatius casu in Aristotelis Topica inciderit, et quod titulum operis admiratus, a M. Tullio inscriptionis sententiam perquisierit. Illud etiam quod ei Cicero se exposuisse commemorat, inueniendorum argumentorum illis libris scientiam contineri, ut sine ullo errore ad argumentorum inuentionem uia quadam et recto filo atque artificio ueniretur, quae res breuiter enuntiata, uelut intentionem operis monstrat, et docilem perficit auditorem. In hoc namque uidetur esse comprehensum quae sit intentio Topicorum, quoniam Cicero ait disciplinam esse inueniendorum argumentorum, non ut inueniantur (id enim natura suppeditat).   Sed ut sine ullo labore; ac sine ulla confusione non casu ad ea mens sed quadam uia et ratione perueniat, post hanc beneuolentiam captationem, Trebatii laudem subiungit, cum eius uerecundiam in his commemorat expetendis, quae si postulanti amico Cicero praestilisset et gloriae praemium ferret et gratiae sed quod petenti Trebatio, ut ei Topica traderet minime concessit. Id non proprii laboris fuga sed Trebatii potius causa factum esse contendit, ut in eo quoque Trebatii ueluti tunc repulsi subiratus forsitan animus, nunc non sit alienus. Intererat uero Trebatio ut uel per se ipse illa legens exercitatior fieret, uel ei perfectius si qua dubitaret rhetor doctior expediret. Utrumque uero a Trebatio se narrat audisse. Nam et expertum cum, ut per se ipse legeret sed obscuritate reiectum, et illum rhetorem a quo Topicorum explanationem petiisset, illa sese Aristotelica ignorare confessum.  Quae res, propter operis difficultatem, nec esse est auditorem reddat attentum. Ea quippe non negligentes inspicimus, quae non facilis esse intelligentiae suspicamur, in quo etiam Cicero minime se miratum esse commemorat, quod is philosophus a rhetore nesciretur, qui multis etiam philosophis uideretur incognitus. Quorum etiam iure culpat ignauiam, quod ad Aristotelicae philosophiae disciplinam non inuentorum utilitas, non orationis nitor illexerit. In quo etiam maioris perspicaciae crescit attentio, quia facile ad studium mentes, aliorum segnities culpata conuerterit, quocumque uero attentio fuerit, non poterit ab esse docilitas. In his etiam laus quaedam Trebatii latenter inducitur. Magnum est enim philosophis in suo quasi munere cessantibus hunc ne proprio quidem studio praepeditum, alienae scientiae secreta rimari.  Iam uero sequentia multo etiam clarius beneuolentiam petunt, uelut hoc quod elegantissime dictum est, ueritum se esse ne, si modeste postulantis uerecundiae pernegasset, ipsi quodammodo iuris interpreti fieri uideretur iniuria, et quod praecedens Trebatii meritum percepti beneficii memor exsequitur, id uero est quod uel ipsi uel iis quos ipse defenderit, plura cauisset. Fuit igitur, ut ait, uerendum, ne, si restituere gratiam noluisset, aut ingratum id aut superbum esse uideretur. Ingratum quidem, si magna Trebatii merita quibus ipse usus fuerat, paruo aestimare uideretur, cum nullam ei gratiam restituendam putaret, superbum uero, si sperneret.  Ad idem caetera reuertuntur, id est ad beneuolentiam. Quod eiusdem testimonio nititur dum fuerit in urbe, se ne debitam redderet gratiam occupationum necessitate constrictum. Quod ut uenerit Veliam, amicorum Trebatii conuentione commonitus, ne tacitae quidem eius flagilationi deesse uoluisset, et quod licet librorum copia nulla suppeteret, de memoriae tamen repetitae promptuariis in ipsa nauigatione conscripserit, eique ex itinere miserit, ut beneficii cumulo parendi etiam celeritas adderetur. Quae cum omnia benignum captare Trebatii uideantur assensum, quaedam tamen breuitas Topicorum memoria repetita, attentionis nec esse est animaduersione fungatur, ipsa namque memoriae repetitio breue monstrat esse quod colligit. Quodque diligentiae sibi fuerint mandata Trebatii, et quod ad excitandam sui memoriam quasi pignus amico aliquod atque monimentum uoluisset exstare. Cui adiicit illud, et si admonitione non eges, ne offendat animum amici sedulitate si quem commonendum credit, obliuionis uideatur arguere.  Haec omnia, ut dixi, beneuolentiae partibus plena sunt. Sed de prooemio satis dictum est. Nunc ad sequentia transeamus, nec si quis haec apud Victorinum latius tractata repererit, nos neglecti integritatis stringat inuidia. Nam nec in singulis (ut ille facit) uerbis haerere uolumus, et ad ampliora huius operis festinamus.  CUM OMNIS RATIO DILIGENS DISSERENDI DUAS HABEAT PARTIS, UNAM INVENIENDI ALTERAM IUDICANDI, UTRIUSQUE PRINCEPS, UT MIHI QUIDEM VIDETUR, ARISTOTELES FUIT. STOICI AUTEM IN ALTERA ELABORAVERUNT; IUDICANDI ENIM VIAS DILIGENTER PERSECUTI SUNT EA SCIENTIA QUAM *DIALEKTIKEN* APPELLANT, INVENIENDI ARTEM QUAE *TOPIKE* DICITUR, QUAE ET AD USUM POTIOR ERAT ET ORDINE NATURAE CERTE PRIOR, TOTAM RELIQUERUNT.  NOS AUTEM, QUONIAM IN UTRAQUE SUMMA UTILITAS EST ET UTRAMQUE, SI ERIT OTIUM, PERSEQUI COGITAMUS, AB EA QUAE PRIOR EST ORDIEMUR. Cum philosophia maximis in rebus operam suam studiumque consumat, cumque et in naturalibus inspectionem, speculationemque adhibeat, et in moralibus actionem, et sic formare gestiat mores ut uera uitae ratio persuaserit, euenire nec esse est, ut secundum id quod ratio tenendum, omittendumue, faciendum quid, aut non faciendum esse decreuerit, uel iudicium constituatur, ascensus uel exercendae uitae dirigatur intentio. Erit igitur necessarium, uel in naturali speculatione, uel in moralium actionum cogitatione, ut certa ratio, uel quod in rebus speculandum est, inueniat, uel quod in actum uiuendi duci oporteat, ante perpendat. Haec autem ratio nisi uia quadam processerit, saepe in multos nec esse est labatur errores. Quod ne passim fieret, atque ut certis egulis tractatus insisteret, uisum est antiquae philosophiae ducibus, ut ipsarum ratiocinationum, quibus aliquid inquirendum esset, naturam penitus ante discuterent, ut his purgatis atque compositis, uel in speculatione ueritatis, uel in exercendis uirtutibus uteremur.  Haec est igitur disciplina, quasi disserendi quaedam magistra, quam *logicen* Peripatetici ueteres appellauerunt, hanc Cicero definiens, disserendi diligentem rationem uocauit. Haec uario modo a plerisque tractata est, uarioque etiam uocabulo nuncupata. Ut enim dictum est, a Peripateticis haec ratio diligens disserendi logice uocatur, continens in se inueniendi iudicandique peritiam. Stoici uero hanc eamdem rationem disserendi paulo angustius tractauere, nihil enim de inuentione laborantes, in sola tantum iudicatione consistunt, deque ea praecepta multipliciter dantes, dialecticam nuncupauerunt. Plato etiam dialecticam uocat facultatem quae id quod unum est possit in plura partiri, ueluti solet genus per proprias differentias usque ad ultimas species separari, atque ea quae multa sunt, in unum generum ratione colligere. Hanc igitur Plato dialecticam dicit; Aristoteles uero logicam uocat, quam (ut dictum est) Cicero definiuit diligentem disserendi rationem.  Et huius uno quidem modo trina partitio est: omnis namque uis logicae disciplinae aut definit aliquid, aut partitur, aut colligit. Colligendi autem facultas triplici diuersitate tractatur: aut enim ueris ac necessariis argumentationibus disputatio decurrit, et disciplina uel demonstratio nuncupatur; aut tantum probabilibus, et dialectica dicitur; aut apertissime falsis, et sophistica, id est, cauillatoria perhibetur. Logica igitur, quae est peritia disserendi, uel de definitione, uel de partitione, uel de collectione, id est, uel de ueris ac necessariis, uel de probabilibus, id est uerisimilibus, uel de sophisticis, id est, cauillatoriis argumentationibus tractat, has enim collectionis partes esse praediximus. Atque haec est una logicae partitio, in qua dialecticam Aristoteles uocat facultatem per probabilia colligendi.  Rursus eiusdem logicae altera diuisio est, per quam diducitur tota diligens ratio disserendi in duas partes, unam inueniendi, et alteram iudicandi. Id autem uidetur etiam ipsa logices definitio monstrare, nam quia logica ratio disserendi est, non potest ab inuentione esse separata. Cum enim nemo praeter inuentionem disserere possiti disserendi ratio inuentionis est ratio. Rursus quoniam logice diligens est ratio disserendi, ab ea iudicium non potest ab esse, ipsa enim diligentia rationis in disserendo posita iudicium est. Neque enim potest quisquam diligenter disserere, nisi quale sit iudicauerit id quod in disputationem sumitur. Quod si ad disserendi ordinem diligentia rationis adhibetur, non est dubium quin hoc iudicium ad inuentionum uarietatem sit accommodatum.  His igitur ita expeditis, uidendum est, hae diuisiones, quanam se cognatione contingant. Inuentio quippe caeteris omnibus, ueluti materiae loco, supponitur, hoc modo. Nisi enim inuentio fuerit, non potest esse uel definitio, uel partitio, quoniam unumquodque generum uel differentiarum inuentione, uel specierum collectione, aut diuidimus, aut etiam definimus. Iam uero si absit inuentio, nequit esse collectio. Non erit igitur necessaria, nec uerisimilis, nec sophistica argumentatio: haec enim tria inuentioni superueniunt, ut uel necessarium, uel probabile, uel cauillatorium sit argumentum. Necessitas enim uero, et probabilitas, et cauillatio formae quaedam sunt, quaedum inuentionibus assistunt, necessaria uel probabilia uel cauillatoria faciunt argumenta. Eadem quoque ratio partitiones definitionesque complectitur. Indiscreta namque inuentionis potestas, cum definitiua, tum diuisibilis appellari potest, cum definiendis partiendisue rebus adhibetur. Quae hoc modo ex inuentionis materia et differentiarum supra positarum forma composita rursus iudicationi materiae fiunt nam prior illa partitio, logice tribus partibus segregata, ita partes explicat, ut habeat inuentionem materiam singularum, ipsa uero iudicationi materiam praestat. Et enim cum definit aliquis, uel rei propositae diuisionem facit, inuenit quidem diuisioni definitionique differentias accommodatas sed an recte uel definiat, uel diuidat, iudicatione perpendit. Ita priores logicae partes secundae diuisionis membra coniungunt, ut materiam quidem sui habeant inuentionem, iudicationi uero fiant ipsae materia.  Quod in reliqua etiam colligendi parte contingit, nam et ea quae de probabilibus tractat, habet et inueniendi suppositam materiam, quae uerisimilia reperit argumenta, et de huiusmodi argumenta iudicatio perpendit. Est enim iudicium hoc ipsum internoscendi, quod non necessaria inuentio est sed uerisimilitudinem tenet. Illa quoque pars quae de necessariis argumentationibus aptatur, habet subiectam materiam necessariae inuentionis, eiusque est iudicium, ut cum necessaria sunt quae inuenit, necessaria quoque esse perpendat. Nec non cauillandi pars utraque in se continet, quandoquidem et inueniri falsa possunt, et falsa esse iudicatione discerni.  Quo fit ut prior logices diuisio secundum etiam continere uideatur: nam definitio, partitio atque collectio inuentionem continent et iudicium, quia neque existere praeter inuentionem, neque agnosci praeter iudicium possunt. Sed cum omnis inuentio iudicationi subiecta sit, cumque prioris diuisionis partes sine utroque esse non possint, euenit ut prima partitio inuentionem iudiciumque coniungat. Secunda uero haec diuisio, qua Cicero etiam partitur logicam, segregat huiusmodi facultates, et inueniendi materiam a iudicationis parte secernit.  Iudicium uero, in colligendi ratione proprias partes habet, nam omnis argumentatio, omnisque syllogismus propositionibus struitur, omnemque compositum duo in se quaedam retinet, quae speculanda esse uideantur. Et quidem continet unum quae illa sint, ex quibus id quod compositum est intelligatur esse connexum, aliud uero quanam sit suarum partium coniunctione compositum: ut in pariete siquidem lapides ipsos quibus paries structus est inspicias, quasi materiam species: si uero ordinem compositionemque iuncturae consideres, tanquam de formae ratione perpendas. Ita in argumentationibus quas propositionibus compaginari atque coniungi supra retulimus, gemina erit speculationis et iudicandi uia. Una quae propositionum ipsarum naturam discernit ac iudicat utrum uerae ac necessariae sint, an uerisimiles, an sophisticis applicentur, et haec quasi materiae speculatio est. Altera uero iudicii pars est quae inter se propositionum iuncturas compositionesque perpendit; haec quasi formam iudicat argumentorum.  Quae cum ita sint, hoc modo fit in continuum ducta partitio, ut ratio diligens disserendi, unam habeat inueniendi partem, alteram uero iudicandi.  Tum de ipsa inuentione, tum de inuentionis collocatione, quae forma est argumentationis. Atque ea quidem pars quae de inuentione docet, quaedam inuentionibus instrumenta suppeditat, et uocatur topice: cur autem hoc nomine nuncupata sit posterius dicam. Illa uero pars quae in indicando posita est, quasdam discernendi regulas subministrat, et uocatur analytice; et si de propositionum iunctura consideret, analytice prior; sin uero de ipsis inuentionibus tractet, ea quidem pars ubi de discernendis necessariis argumentis dicitur, analytice posterior nuncupatur; ea uero quae de falsis atque cauillatoriis, id est de sophisticis, elenchi. De uerisimilium uero argumentationum iudicio nihil uidetur esse tractatum, idcirco quoniam plana est atque expedita ratio iudicandi de medietate, cum quis extrema cognouerit. Si enim quis diiudicare necessaria sciat, idemque falsorum argumentorum possit habere iudicium, uerisimilia, quae in medio collocata sunt, discernere non laborat.  Expeditum igitur est, ut arbitror, quid sit quod ait Cicero, rationem diligentem disserendi duas habere partes, inueniendi unam, alteram iudicandi. Illud etiam diligentius expositum est, quae sit ratio quam Stoici dialecticen uocant. Ea est enim quae iudicandi peritiam tenet, et quam eodem nomine Plato partiendi per differentias, atque ad genus reuocandi facultatem uocat. Quamque eodem nomine Aristoteles, non totam disserendi artem, ut Stoici sed eam tantum nuncupet quae de proposita quaestione uerisimilibus colligat argumentis, atque ideo perfectius Aristoteles de logica tractauit, quoniam de duobus, ultra quae nihil est, tertium disseruit, de inueniendo scilicet et iudicando, cum Stoici, inuentione neglecta, iudicationis tantum instrumenta tradiderint.  Atque ideo iure eos increpat Tullius, quoniam id maxime relinquere quod et natura prios et usu potius erat: natura quidem, quia fieri non potest ut de inuentione iudicetur, nisi ipsa inuentio prius exstiterit. Ad usum uero, quia longe utilius est nuda, et praeter artem prolata naturali inuentione susceptum saepe negotium tueri, quam inueniente alio mutum ipsum inermemque et tacitum uersare iudicium. Dat uero Tullius de utroque sententiam, etait summam pariter utilitatem in utroque consistere, et se de utraque, si otium fuerit, uelle disserere. Ab ea autem quae prior est, id est inuentione, quam *topicen* appellari diximus, ordiendum putat.  UT IGITUR EARUM RERUM QUAE ABSCONDITAE SUNT DEMONSTRATO ET NOTATO LOCO FACILIS INUENTIO EST, SIC, CUM PERUESTIGARE ARGUMENTUM ALIQUOD VOLUMUS, LOCOS NOSSE DEBEMUS; SIC ENIM APPELLATAE AB ARISTOTELE SUNT EAE QUASI SEDES, E QUIBUS ARGUMENTA PROMUNTUR. ITAQUE LICET DEFINIRE LOCUM ESSE ARGUMENTI SEDEM. ARGUMENTUM AUTEM RATIONEM, QUAE REI DUBIAE FACIAT FIDEM. Post diuisionem logicae disciplinae, quam diligentem disserendi rationem esse definiuit, de topice, quae inueniendi ars esse praedicta est, expedire contendit. Ac primum quid sint loci, termino definitionis includit, eiusque artis quae topice dicitur exempli quadam claritate designat intentionem. Est enim topices intentio, argumentorum facilis inuentio. Non igitur inuenire docet topice quod est naturalis ingenii sed facilius inuenire: omnis quippe ars imitatur naturam, atque ab hac materia suscepta, rationes ipsa uiamque conformat, ut cum facilius id quod ars quaeque promittit, tum elegantius fiat, uelut parietem struere naturalis ingenii est sed arte fit melius.  Argumentum autem ratio est quae rei dubiae faciat fidem. Multa enim sunt quae faciant idem sed quia rationes non sunt, ne argumenta quidem esse possunt, ut uisus facit fidem his quae uidentur sed quia ratio non est uisus, ne argumentum quidem esse potest. Differentiam uero unam sumpsit, eam quae faciat fidem, omne enim argumentum facit fidem. Si igitur iunxerimus genus ac differentiam, et id esse argumentum dicamus, quod rationem quae faciat fidem, num tota argumenti natura monstrata sit? Minime. Quid si eius rei, de qua nemo dubitat, aliqua ratione facere quis fidem uelit, num idcirco illa, quod fidem faciat, uocabitur argumentum?  Nullo modo: argumentum namque est quod rem arguit, id est probat, nihil uero probari, nisi dubium, potest. Nisi ergo sit res ambigua, et ad eam ratio fidem faciens afferatur, argumentum esse non poterit. Addita igitur alia differentia quae est rei dubiae, facta est integra definitio argumenti, ex genere et duabus differentiis constans, genere quidem, ratione: una uero differentia, quod faciat fidem; altera uero, quod rei dubiae est, ut sit tota definitio, id esse argumentum quod sit ratio, rei dublae faciens fidem.  Quae cum ita sint, nec esse est ut ubi dubitatur aliquid, ibi sit quaestio. Quod si argumentum praeter rem dubiam esse non poterit, nullo modo esse praeter quaestionem potest. Quaestio uero est dubitabilis propositio. Propositio uero est ratio uerum falsumue designans. Omnis igitur propositio siue constanter atque pronuntiatiue proferatur, ut si quis dicat: Omnis homo animal est; siue ad interrogationem dirigatur, ut si quis interroget: Putasne omnis homo animal est? retinet proprium nomen, et propositio nuncupatur. At si eadem, uelut dubitabilis proferatur, fit quaestio, ut si quisque erat an omnis homo animal sit. Quot autem modis quaestio diuidatur, nunc explicandi locus non uidetur accommodus sed in iis libris dicemus quos de topicis differentiis formare molimur. Ad quaestionem igitur, id est ad dubitabilem propositionem, omnis intentio dirigitur argumenti, non uero ut totam comprobet quaestionem sed ut partem eius ratione confirmet; neque enim tota quaestio defenditur sed una eius quaelibet pars argumentatione firmatur: nemo enim defendit caelum rotundum esse et non esse; si enim ita quis defenderet, totam quaestionem uideretur probare. Sed cum ita consideratur: Utrum rotundum sit caelum an non sit  in una tantum consistit quaestionis parte defensio, siue quae affirmat siue quae negat. Omnis enim quaestio contradictionibus constat. Nam si qua res ab altero affirmetur, negetar ab altero, totum hoc contradictio nuncupatur, ut si quis dicat: Caelum rotundum est  alter neget dicens: Caelum rotundum non est.  Caelum rotundum esse et non esse contradictio prohibetur. Dubitabilis uero propositio, quam quaestionem esse praediximus, et affirmationem in se continet et negationem, hoc enim ipso quo dubitabilis est, contradictionem uidetur includere. Cum enim dubitat quis utrumque caelum rotundum sit, siue adiungat an non sit, siue reticeat, ipsa dubitatio partem secum alteram trahit. Si enim unam partem propositio tueatur, dubitabilis non est, atque idcirco nec quaestio.  Cum igitur omnis quaestio duas habeat partes, affirmationis unam, alteram negationis, nec esse est ut sit semper ex alterutra parte defensio, ut unus quidem affirmationis partem, negationis alter defendat, et hic quidem ad astruendam affirmationem, ille uero ad destruendam, quae potuerit argumenta perquirat. Nihil uero interest utrum quis affirmationem ponat, an destruat negationem, aut negationem defendat, an oppugnet affirmationem. Age enim, sit quaestio, utrum caelum rotundum sit. Si quis eam sibi quaestionis partem assumpserit, quam esse defendit, ad eam constituendam cuncta nec esse est sibi comparet argumenta, atque in hoc affirmationem quidem ponit sed destruit negationem. Si quis uero neget id, ac dicat non esse caelum rotundum, suscipit sibi partem alteram quaestionis quae fuerat reliqua, id est negationem, in eaque consistit, et ad hanc approbandam, perquisitis nititur argumentis; itaque qui negationem ponit, labefactat affirmationem.  Quae cum ita sint, demonstratum arbitror, non totam quaestionem sed eius aliquam partem ad defensionem uenire. Sed quod quisque defendet, ad hoc quoque argumenta perquirit. Ad partem igitur quaestionis astruendam destruendamue argumenta sumuntur, atque haec quidem si quis minus intelligit, ne a nobis obscure dicta esse causetur. Si enim quae in dialectica, uel a nobis dicta Latina oratione, uel a Graecis scripta sunt, ignorabit, mirum est si quam partem eorum quae dicimus aduertere ualeat, ne dum stupeamus quod non omnia comprehendat.  Sed quoniam dubitabilem propositionem quaestionem esse praediximus, euenit ut quas partes habeat propositio, easdem etiam quaestio retinere uideatur. Omnis autem simplex propositio duas habet partes in terminis constitutas. Simplex uero propositio est huiusmodi: Omnis homo animal est  Terminos uero uoco simplices orationis partes quae continent propositionem, ut animal et homo. Hi uero sunt praedicatus atque subiectus. Praedicatus est in propositione maior terminus collocatus; subiectus uero minor. Maior uero terminus de subiecto dicitur, minor autem de maiore nullo modo praedicatur, ut animal quoniam maius est quam homo, de homine praedicatur: dicitur enim: Omnis homo animal est  Homo uero de animali non dicitur, nemo enim uere dicit: Omne animal homo est  Hac igitur ratione internoscere possumus qui terminus in propositione maior, qui uero sit minor. Omnis autem quaestio, ut dictum est, quoniam dubitabiles partes habet, et ad easdem comprobandas argumenta sumuntur, necesse est ut quidquid in quaestionibus comprobatur, id argumentorum ratione firmetur. Argumentum uero nisi sit oratione prolatum, et propositionum contexione dispositum, fidem facere dubitationi non poterit. Ergo illa per propositiones prolatio ac dispositio argumenti, argumentatio nuncupatur, quae dicitur enthymema uel syllogismus, cuius definitionem in Topicis differentiis apertius explanabimus. Omnis uero syllogismus uel enthymema propositionibus constat; omne igitur argumentum syllogismo uel enthymemate profertur. Enthymema uero est imperfectus syllogismus, cuius aliquae partes, uel propter breuitatem, uel propter notitiam, praetermissae sunt. Itaque haec quoque argumentatio a syllogismi genere non recedit.  Quoniam igitur syllogismus omnis propositionibus constat, propositiones uero terminis, terminique inter se differunt, eo quod unus maior est, alter minor, fieri non potest ut ex propositionibus conclusio nascatur, nisi per terminos progressae propositiones extremos terminos alicuius tertii medietate coniunxerint: id facillimo demonstratur exemplo. Sit enim quaestio: Utrum homo substantia sit an minime. Sumo mihi quaestionis partem alteram comprobandam, ea est, hominem esse substantiam; in hac igitur duo sunt termini, substantia atque homo, quorum maior substantia, minor homo, quod ex eo quoque poterit ostendi, quoniam posterius substantia in prolatione profertur, uel ut in hoc ipso quod dicimus homo substantia est, prius hominem, posterius substantiam nominamus. Ut igitur substantiam atque hominem iungam, nec esse est medium terminum reperiri, qui utrosque copulet terminos, hic sit animal, fiatque una propositio: Omnis homo animal est  in hac igitur propositione animal praedicatur, homo subiicitur. Rursus adiungo: Omne autem animal substantia est  in hac rursus animal supponitur, substantia praedicatur. Itaque concludo, omnis igitur homo substantia est; ac per hoc homo quidem semper subiectus est. Animal uero ad hominem quidem praedicatum est, ad substantiam uero subiectum. Substantia uero ipsa semper praedicata persistit, unde fit ut minor quidem sit homo, maior uero homine substantia, medius autem terminus animal. Quoniam igitur extremi termini medii interpositione copulantur, eoque modo quaestionis inter se membra conueniunt, adhibitaque probatione soluitur dubitatio, nihil est aliad argumentum quam medietatis inuentio, haec enim uel coniungere, si affirmatio defendatur, uel disiungere, si negatio uindicetur, poterit extremos.  Quae cum ita sint, duarum propositionum et tertiae conclusionis, maior quidem propositio dicitur ea quae maiorem terminum continet, id est in qua maior quidem praedicatur; medius uero supponitur, ut "Omne animal substantia est"; minor uero propositio est quae medium quidem terminum praedicat, subiicit autem minorem, ut "Omnis homo animal est". Sed quoniam a maioribus nec esse est minora descendere, eius conclusionis, quae ex duabus propositionibus nascitur, illa quasi effectrix et propria propositio uidetur esse, quae prima est; haec [autem est, "Omnis homo substantia est". Quod qui priores posterioresque nostros Analyticos, quos ab Aristotele transtulimus, legit, minime dubitat. Sed etsi quis quae illic scripta sunt nesciens, ad haec legenda proruperit, etiamsi rationem rerum quas non intelligit minime comprehendit, ita tamen ut dictum est esse confidat, seque in Aristotelis Analyticis uberius inuenturum esse, si legerit, arbitretur.  Natura igitur rerum fert ut ubi quid maius ac minus est, ibi maximum quoque aliquid inesse necesse sit. Quo fit ut sint quaedam maximae propositiones, quoniam minores maioresque esse monstrauimus, quarum natura ex simplicium propositionum partitione sumenda est. Omnis enim simplex propositio uel affirmatiua est, uel negatiua. Earumque aliae sunt uniuersales, ut: Omnis homo iustus est. Nullus homo iustus est  aliae particulares, ut:  Quidam homo iustus est  aliae indefinitae, ut: Homo iustus est. Homo iustus non est  aliae singulares aliquid atque indiuiduum continentes, ut:  Cato iustus est Cato iustus non est  Harumque omnium aliae sunt dubitabiles, aliae indubitatae. Supremas igitur ac maximas propositiones uocamus, quae et uniuersales sunt, et ita notae atque manifestae, ut probatione non egeant, eaque potius quae in dubitatione sunt probent. Nam quae indubitata sunt, ambiguorum demonstrationi solent esse principia, qualis est, omnem numerum uel parem esse uel imparem, et aequalia relinqui, si aequalibus aequalia detrahuntur; caeteraeque de quarum nota ueritate non quaeritur.  Maximas igitur, id est uniuersales ac notissimas propositiones, ex quibus syllogismorum conclusio descendit, in Topicis ab Aristotele conscriptis locos appellatos esse perspeximus; quod enim maximae sunt, id est uniuersales propositiones, reliquas in se uelut loci corpora complectuntur, quod uero notissimae atque manifestae sunt, fidem quaestionibus praestant, eoque modo ambiguarum rerum continent probationes.  Has autem aliquoties quidem in ipsis syllogismis atque argumentationibus inhaerere conspicimus, aliae uero in ipsis quidem argumentationibus minime continentur, uim tamen argumentationibus subministrant:ut si uelimus ostendere regnum melius esse quam consulatum, dicemus: Regnum cum sit bonum, diuturnius est quam consulutus; omne uero quod est diuturnius bonum, melius est eo quod parui est temporis: regnum igitur melius est consulatu.  Hic igitur maxima propositio atque uniuersalis et per se cognita, neque indigens probatione, argumentationi inserta est. Ea uero est: Omnia quae diuturniora sunt bona, meliora esse his quae sunt temporis breuitate constricta. At si uelimus ostendere non esse inuidum qui sapiens sit, dicamus: Inuidus est qui moeret aliena felicitate; non autem sapiens est quem felicitas aliena contristat: non est igitur inuidus sapiens.  Hic maxima propositio argumentationi non uidetur inclusa sed extrinsecus posita, syllogismo tamen uires ministrat. Haec uero est: Quorum diuersae sunt definitiones, diuersas esse substantias necesse est. Quisquis igitur uel Aristotelis Graeca uel nostra ab Aristotele translata prospexerit, has illic propositiones locos inueniet nuncupari, quae sunt maximae atque uniuersales et uel per se necessariae, uel per se probabiles ac notae. Sed quoniam has propositiones plures ac pene innumerabiles esse nec esse est, restat adhuc quo amplius ratio speculationis ascendat. Possumus enim, diligenti tractatu considerationis adhibito, omnium maximarum atque uniuersalium propositionum differentias perpendere, atque innumerabilem maximarum propositionum ac per se notarum multitudinem in paucasatque uniuersales colligere differentias, ut et alias dicamus in definitione consistere, alias in genere, atque alias alio modo quod paulo post apertius demonstrabo. Omnes igitur maximae propositiones, quaecumque sub definitionis uerbi gratia rationem cadunt, uno definitionis nomine continebuntur. Et sicut illae reliquarum propositionum loci esse dicebantur, quod eas intra suum ambitum continerent, ita ipsarum maximarum atque uniuersalium propositionum, quas minorum propositionum locos esse praediximus, illa differentiae, et si non uere, tamen quadam ueluti imagine loci esse uidebuntur, in quas fuerint conuenienti ratione reductae.  Sed istae locorum, id est propositionum maximarum, differentiae, quas etiam ipsos locos nominamus, possunt subiectarum propositionum etiam genera nuncupari. Nam differentiae continentes etiam genera communiter possunt uideri, ut irrationale cum a rationali uelut diuisibili differentia dissideat; tamen equi uel canis, differentia specifica est, et ad eos locum generis tenet. Namque animal irrationabile equi genus est. Ita etiam in maximis propositionibus. Nam quod aliae sunt ex toto, aliae ex partibus, hae inter se comparatae differentiae diuisibiles sunt, ad ipsas uero maximas propositiones differentiarum continentiae uelut generis loco sunt. Nam propositionis ex tolo uenientis genus est idipsum quod uocatur ex toto. Item propositiones a partibus ductae, quamuis notae sint atque manifestae genus est, quod a partibus, et caeterae differentiae earum propositionum quae cum sint maximae, tamen eisdem uidentur includi, uelut quaedam genera sint. Quae uero sint hae differentiae paulo posterius disseram.  De his igitur nunc locis tractare Tullius instituit qui maximas propositiones quas superius diximus, id est per se notas atque uniuersales, continent atque includunt. Hae uero sunt maximarum differentiae propositionum. De uniuersalium igitur enuntiationum per seque notarum differentiis disserit, ut fit integer locus argumenti sedes. Nam si argumentum omne per propositiones ad conclusionem usque perducitur, omnes uero reliquae propositiones in prima maximaque propositione continentur, ipsaque prima ac maxima propositio, tum pars est argumentationis, id est syllogismi, tum extraposita argumentationi uires ministrat, ut utroque modo quoniam perficit argumentum, pars argumentationis quaedam esse uideatur, non est dubium quin hae differentiae, quae propositiones maximas continent, eaedem omnes etiam contineant argumentationes, ut maximarum propositionum differentiae iure loci argumentorum et quasi quaedam ultimae sedes esse uideantur.  Nam ex his quatuor significationibus appellationum duarum, argumentationis scilicet atque argumenti, unam quamlibet esse nec esse est. Aut enim elocutio et contextio ipsa propositionem cum maximis propositionibus, uel extra syllogismum positis, uel in eodem inclusis, argumentatio uocatur.  Argumentum uero mens et sententia syllogismi, aut elocutio ratiocinationis cum maximis propositionibus et sententia syllogismi argumentum esse dicetur, ut idem sit argumentum quod argumentatio. Aut argumentatio quidem uocabitur tota contextio syllogismi cum sententia sed argumentum maxime propositio, aut integer ratiocinationis ordo praeter maximas propositiones argumentatio, sententia uero argumentationis argumentum. Reliqua uero maxima propositio, locus.  Sed cum haec ita sint, siue quis ipsarum propositionum contextionem, et usque ad conclusionem continuum ductum cum maxima propositione, uel extra posita, uel propositionibus ratiocinationis inclusa, argumentationem uocare uelit, argumentum uero sententiam mentemque ratiocinationis, nihilominus locos intelligimus maximarum propositionum differentias; siue quis ratiocinationis totius uim atque sententiam totam cum maxima propositione, uel intra, uel extra posita, argumentum uocet, non est dubium quin totius ratiocinationis locus ille sit qui est maximae propositionis differentia, continet enim maximam propositionem, in qua propositiones caeterae continentur: siue argumentationem quidem totam ratiocinationis contextionem uocari placeat, argumentum uero maximam propositionem, recte rursus locus putabitur maxime propositionis differentia, quae argumentum claudit et continet. Quod si argumentum quidem sensus ipse totius ratiocinationis intelligatur, argumentatio uero integra ratiocinationis prolatio, extra uero et ab utrisque diuersum ualens, uelut locus quidam maxima propositio consideretur, sic quoque maximarum differentiae propositionum loci esse uidebuntur. Nam cum differentia ipsa maximam propositionem contineat, eiusque sit locus, maxima uero propositio argumentationi uel argumento uires ministret, non est dubium quin ea toti argumento locus esse uideatur, quod totum intra maximae propositionis ambitum claudit.  Demonstratum igitur est quae sint argumentorum sedes, id est, ubi argumenta clauduntur (hae sunt autem maximarum propositionum differentiae), quae uocantur loci, quid etiam argumentum, quoniam est rei dubiae faciens fidem, quae sit uero res dubia, id est pars altera quaestionis, quid sit quaestio, id est dubitabilis propositio, quid sit simplex propositio, id est enuntiatio, quae praedicato et subiecto termino contineatur, uerum falsumue designans, quae omnia meminisse oportet. Maximarum enim propositionum differentiae quas locos esse praediximus, ab his dicuntur terminis qui prius in propositione sunt, posterius in quaestione considerantur, praedicato scilicet atque subiecto.  Ex his etiam quae superius dicta sunt quid distent Topica Ciceronis atque Aristotelis apparuit. Aristoteles namque de maximis propositionibus disserit, has enim locos argumentorum esse posuit, ut nos quoque supra retulimus. Tullius uero locos non maximas propositiones, sed earum continentes differentias uocat, ac de his dicere contendit. SED EX HIS LOCIS IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALII IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERENT, ALII ASSUMUNTUR EXTRINSECUS. IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX EIS REBUS QUAE QUODAMMODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. EXTRINSECUS AUTEM EA DUCUNTUR QUAE ABSUNT LONGEQUE DISIUNCTA SUNT.  Post definitionem loci atque argumenti facit plenissimam diuisionem locorum. Ac primum quoniam omnis diuisio cuncta debet amplecti, neque superfluum quidquam interponere, nec omittere quid sit necessarium, id M. Tullius proposita diuisione patefacit dicens: EX HIS LOCIS IN QUIBUS ARGUMENTA INCLUSA SUNT, ALIOS IN EO IPSO DE QUO AGITUR HAERERE, ALIOS EXTRINSECUS ASSUMI. Nihil enim huic diuisioni posse uidetur addi uel minui, quandoquidem breuiter cuncta complectitur. Argumentorum enim loci quicumque sumuntur, aut in ipso de quo agitur haerent, aut minime. Id autem minime extrinsecus positos esse designat, quod si inter id quod dicimus in ipso de quo agitur haerere argumentorum locos, et non haerere nihil est medium. Inter affirmationem enim atque negationem nulla est medietas. Cumque in ipso de quo agitur non inhaerere locum argumenti, id sit extrinsecus assumi, dubium non est quin nihil intersit medium inter ea argumenta quorum in hoc ipso haerent loci de quo agitur, et ea quorum extrinsecus assumuntur, EXTRINSECUS AUTEM EA DUCUNTUR QUAE ABSUNT LONGEQUE DISIUNCTA SUNT.  Sed quid ipsum sit de quo agitur facilior explanatio est, si eorum quae prius dicta sunt meminerimus. Nam cum de quaestione loqueremur, eamdem diximus esse quaestionem quae esset dubitabilis propositio. Sed quoniam propositio subiecto praedicatoque constaret, quaestionem quoque diximus subiecta praedicatoque coniungi. Praedicatum igitur uel subiectum est hoc ipsum de quo agitur. Nam cum de alterutra quaestionis parte dubitetur, in hac ambiguitate quaeritur utrum praedicatus terminus inesse subiecto uideatur, an minime.  Nam cum omnis quaestio in affirmationem negationemque diuidatur, si praedicatus subiecto inest, fit ex eo uera affirmatio; si non inest, fit uera negatio. Sed in quaestionibus disceptandis, alter affirmationem, alter negationem tuetur, id est, alter praedicatum inesse subiecto, alter non inesse defendit. Quod uero ex alterutra parte defenditur, hoc est ipsum de quo agitur. Ipsum igitur est praedicatus terminus uel subiectus, de quibus agitur.  Atque ut id exemplo clarius fiat, sit quaestio, an Verres furtum fecerit. Hic Verres subiectum est, furtum facere praedicatum; quod si furtum Verri coniungitur, idque argumentationibus comprobatur, quaestionis affirmatio demonstrata est. Si furtum a Verre seiungitur, quaestionis rursus negatio comprobatur. Ipsum itaque de quo agitur nihil est, nisi uterlibet eorum terminus qui in quaestione proponitur, siue praedicatus, siue etiam subiectus.  Qui quidem termini per se argumenta esse non possunt, neque uero per se argumenta praestare. Si enim ipsi simplices ut sunt argumenta esse possunt, uel argumentorum praestare materiam, nullam in quaestione relinquerent dubitationem; sed quoniam de ipsis adhuc in quaestione dubitatur an eorum possit esse rata coniunctio, ipsi quidem neque per se argumenta esse, neque per se argumenta praestare poterunt, ea uero quae in ipsis insunt, uel extrinsecus posita sunt, argumentorum copiam subministrant.  Nam quod Victorinus quaerit, et explicat latius, ne commemoratione quidem mihi dignum uidetur. Quaerit enim quaestio ipsa de quo agitur an habeat locum, quod minime oportuit, ut dictum est. Locus de quo nunc agimus non cuiuslibet rei locus est sed argumenti, argumentum uero rei dubire faciens fidem, res uero dubia pars quaestionis. Quod si argumentum quaestio uel pars quaestionis esse non potest, locus uero de quo agimus argumenti est locus, non est dubium quin locus quaestionis esse non possit.  Amplius, omnis quaestio dubitabilis est, argumentum uero omne quaestionis purgat ambiguum. Non est igitur idem argumentum quod quaestio sed loci, argumentorum sunt loci, non sunt igitur quaestionis. Hoc igitur praemisso intelligamus ipsum de quo agitur quemlibet terminum in quaestione propositum, siue praedicatum, siue subiectum, qui cum per se res sint, ipsi quidem argumentum esse non possunt, habere autem in se quaedam possunt, in quibus argumenta sint collocata, et quae sedes argumentorum esse intelligantur. Quae quidem cum terminis his de quibus agitur inhaerere uideantur, nondum tamen sunt argumenta sed quasi iam argumenta complectentes loci, et uelut naturali sede condentes. Idem de his locis qui extrinsecus assumuntur dicendum est, ipsi namque positi sunt exterius et quodammodo a propositionum terminis ablegati, et res quaedam sunt sed intra se argumentorum copiam claudunt.  Atque, ut breui sententia colligam, ipsum de quo agitur nihil est aliud nisi quilibet in quaestione terminus collocatus. Hi argumenta esse non possunt, neque ab his trahi aliquod argumentum. Quo fit ut termini ipsi qui in quaestione sunt positi, nec argumenta, nec loci sint sed tantum res. Rursus ea quae in his haerent de quibus agitur, ipsa quidem res esse manifestum est sed claudunt in se argumentorum copiam, ut cum ex his sumi aliquod oporteat argumentum, locorum uice fungantur. Itaque si quis per se ea speculetur, res sunt; si quis ab his aliquod argumentum quaerat educere, loci fiunt. Et haec communiter quidem de principalibus ac maximis locis dicta sint. Hi uero sunt qui in ipsis de quibus agitur haerent, uel qui assumuntur extrinsecus.  Ut igitur faciat plenam locorum diuisionem, quos simpliciter ac maximos posuit locos, eosdem uelut in quasdam species resecat, dicens: IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, TUM EX NOTA, TUM EX HIS REBUS QUAE QUODAMMODO AFFECTA SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. Et locorum quin in ipso sunt de quae agitur constituti quatuor partium facta diuisiones. Hi quippe qui in ipso de quo agitur haerent, uel ex toto eo de quo agitur termino, uel ex partium eius enumeratione, uel ex nota, uel ex affectis intelliguntur existere. Id ita esse breui ratione firmabitur. Nec esse est enim quemlibet eorum terminorum qui in quaestione sunt collocati, et definitiones habere proprias, et partes, et nomina, et ad res alias quadam relatione coniungi ac referri. Ergo locus qui dicitur ex toto, id est, quoties argumentum ex alicuius definitione termini qui est in quaestione tractatur, siue subiecti, siue praedicati. Ex partium enumeratione, quoties ab eius termini partibus, qui in quaestione positus est, ducitur argumentum. A nota, quoties ab eiusdem termini uocabulo nascitur argumentum. Ab affectis uero, quoties ab his quae ad propositum terminum relatione aliqua reducuntur argumentatio proficiscitur Quorum similitudines omnium posterius explicabo, quando ea quae snper his rebus declarandis Cicero posuit exempla tractauero.  Nunc illud est considerandum, ait enim Tullius ex his locis, in quibus argumenta inclusa sunt, alios in eo ipso de quo agitur haerere, alios extrinsecus assumi, quod ita dictum uidetur, tanquam diuersi sint loci qui in his de quibus agitur haerent, et ipsum illud de quo agitur. Nihil enim in se ipso haerere potest, ac per hoc quod in aliquo haeret ab eo in quo haeret diuersum est. Quod si loci sunt aliqui qui in his haereant de quibus agitur, non est dubium quis hi loci ab his de quibus agitur sint diuersi. Rursus cum dicit IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS EIUS, tanquam non de diuersis loquatur, ita ait, in ipso locos esse tum ex toto, tum ex partibus, tum ex nota, quasi uero aliud sit ipsum quam totum, aut aliud ipsum quam omnes undique eius partes. Unaquaeque enim res idem est quod totum. Idem namque est Roma quod tota ciuitas. Rursus idem est unaquaeque res quod eius singulae parles in unum reductae; uelut idem est homo quod caput, thorax, uenter, ac pedes, caeteraeque in unum partes coniunctae atque copulatae. Quomodo igitur tanquam de diuersis primum locutus est, cum locos haerere in his terminis de quibus agitur dixit, post autem uelut de eisdem loquitur, cum in ipso locos, tum ex toto, tum ex partibus esse proponat? Nihil enim differt dicere IN IPSO TUM EX TOTO, TUM EX PARTIBUS quam si ita dixisset "in ipso tum ex ipso". Nam si idem est ipsum quod totum ac partes, idem est dicere in ipso haerere locum, ex toto, aut ex partibus, quod in ipso haerere locum, qui est ex ipso, quod ne intelligi quidem pctegt, quemadmodum in ipso haerere possit, quod ipsum est, cum nihil sibi haereat, ut superius expediui.  Sed, quemadmodum paulo ante exposui, unaquaeque res cum et definitionem habeat et partes, si pernoscamus quae sit definitionis uis et quae partium, cunctus ambiguitatis nodus absoluitur. Est enim definitio coactae in se atque complicatae rei explicatio, uelut cum dicimus hominem esse animal rationale, mortale. Nam id quod breuiter nomen, atque anguste designabat, id explicauit ac prolulit, et per substantiales quodammodo partes definitio patefecit. Alium igitur nec esse est esse intellectum rei, quae complicata est, in eo quod sibimet coacta atque in unum redacta est, alium eiusdem rei explicatae atque dissertae, in eo quod expedita atque diffusa est: nam et si idem rei definitio quod nomen significat, illud tamen ipsum quod nomen anguste confuseque designat, apertius definitio disserit ac patefacit. Recte igitur aliud quiddam est ipsum, aliud eius definitio, etiam si unum idemque est utrisque subiectum. Ut enim dictum est, ipsum singulum est, definitio ipsius singuli per partes distributio atque enumeratio. (Partes autem nunc substantiales dico, non quae magnitudinem iungunt sed quae proprietatem rationemque substantiae.)  Sed quod in definitione dictum est secundum eas partes quae substantiam iungunt, id in partibus intelligendum est quae magnitudinem copulant, uelut domus quae fundamento, parietibus tectoque coniungitur. Nam eum ea nihil sit aliud nisi quod partibus copulatur, ipsa tamen una quaedam est, atque coniuncta, partitio uero eius per quaedam membra distributio est, atque ideo licet unum sit, quod ipsum est totum, et quot sunt partes undique confluentes, non tamen eumdem nec esse est habere intellectum, cum ipsum integrum consideratur, ut cum in partes ipsas quibus iunctum est distribuitur.  Ex nota uero locus apertissime ab eo termino diuersus est, qui in quaestione constitutus est. Quis enim dicat id esse cuiuslibet rei uocabulum quod ipsa res est, quam designat?  Ea uero quae ad id de quo agitur affecta sunt, et si extra posita uidentur, terminum tamen in quaestione propositum uelut e regione respiciunt, quae in multas secari nec esse est partes. Omnis enim res, id quod est, unum est, multa uero sibimet retinet adiuncta, quae hoc ab his quae omnino extrinsecus sunt differre intelliguntur, quod ea quae affecta sunt, in relatione sunt posita, ut post et ipsarum propositio, et exemplorum ratio monstrabit. Ea uero quae sunt extrinsecus, in nulla relatione sunt constituta, atque ideo hac extrinsecus solum. Illa uero affecta sunt nuncupata, habet enim aliquam quodammodo cognationem ad id ad quod reducitur, id quod refertur ad aliquid.  Sed omnes fere bos locos quos nunc simplices atque indiuisos ponit, posteriore tractatu diuidit, ut nunc quoque eos locos qui in ipso sunt, distribuit, cum alios ex toto fieri proponit, alios ex partibus, alios ex nota, alios ex affectis, affectaque ipsa suis partibus secat. Extrinsecus uero locum in testimonio positum esse confirmat, testimonii uero uim in auctoritate constituit, auctoritatem uero deducit in proprias partes sed hoc posteriore tractatu liquebit. Nunc uero eos simplices atque indiuisos locos proponit, et ueluti simplicibus subdit exempla.  Restat autem nunc unum quod uidetur esse quaerendum, an hi loci qui in locos alios diuiduntur, eorum quos intra se continent locorum loci esse possint, ut eorum qui sunt ex toto, ex partibus, ex nota, ex affectis, is unus quidam quasi locus sit, qui est in ipso. Nihil quidem prorsus officeret locorum locos putare, fieri enim potest ut locus amplior intra semet angustiores contineat locos, uelut id prouincia ciuitates, sed nunc haec similitudo non conuenit. Locus enim est ex quo ducitur id in quo argumentum est positum. Quod si loci locus esse posset, et is qui est in ipso de quo agitur, eos qui sunt ex toto, uel ex partibus, uel ex nota, uel ex affectis, uelut quidam locus includeret, non essent, ex toto, ex partibus, ex nota, uel ex affectis loci sed argumenta quoniam in eo haererent loco, qui in eo ipso de quo agitur termino esse praedictus est; non igitur locus esse poterit loci sed uel ut genera in species.  Ita nunc sit diuisio locorum, nec hoc superius dictis uideatur esse contrarium, cum et maximas propositiones, et earum differentias continentes communi nomine appelauimus locos. Nam maxime propositiones, licet eo ipso quo maximae sint includant caeteras et uocentur loci, tamen quia sunt notissimae possunt rebus dubiis argumenta. Iure igitur earum differentiae loci nominantur, quod in locorum speciebus, aliter sese habet, quae prorsus argumenta esse non possunt: nam in ipso locus uelut in species quasdam diuiditur in eos qui sunt ex toto, ex partibus, ex nota, ex affectis. Unusquisque [enim horum locorum primi loci integrum uidetur ferre uocabulum, nam ut hominem animal dicimus, itemque equum atque bouuem animalia nuncupamus, sic is locus qui ex toto est in ipso esse dicitur, itemque qui ex partibus ac nota, atque ex affectis in ipso sunt. Sed ex his locis argumenta quidem duci possibile est, ipsa uero argumenta ut sint, fieri nequit. SED AD ID TOTUM DE QUO DISSERITUR TUM DEFINITIO ADHIBETUR, QUAE QUASI INVOLUTUM EVOLVIT ID DE QUO QUAERITUR; EIUS ARGUMENTI TALIS EST FORMULA: IUS CIVILE EST AEQUITAS CONSTITUTA EIS QUI EIUSDEM CIVITATIS SUNT AD RES SUAS OBTINENDAS; EIUS AUTEM AEQUITATIS UTILIS COGNITIO EST; UTILIS ERGO EST IURIS CIVILIS SCIENTIA.  Post locorum bifariam diuisionem, in ipso scilicet de quo agitur, et extrinsecus positorum, partitus est eum locum qui est in ipso in quatuor membra, id est a toto, a partium enumeratione, a nota, ab affectis. Nunc igitur anteaquam diuidat eum locum quem ab affectis esse proposuit, superiorum trium quos in primo interim tractatu minime diuisurus est sed indiuiduos relicturus, exempla supponit. Hi uero sunt a toto a partibus, a nota.  Ac de eo quidem loco qui est a toto ita disseruit ac disputauit. Tum inquit, dicimus a toto locum argumenti quando totum illud quod in quaestione positum est definitione complectimur, quae definitio rei dubiae de qua agitur facit fidem. Sed definitio omnis, ut superius quoque dictum est, id quod nomine inuolute designatur euoluit et explicat, atque ideo non terminus qui in definitione ponitur sed quae in ipso sunt, possunt argumentis praestare materiam. Sunt autem in unoquoque propriae definitiones. Definitio enim est oratio substantiam uniuscuiusque significans; quod si ab unaquaque re propria substantiam non recedit, ne definitio quidem recedit, est ergo definitio in ipso termino de quo agitur, quae definitio totum terminum nec esse est comprehendat, neque enim partem substantiae sed totius termini substantiam monstrat. Sed quoniam ex ea definitione fides fit rei dubiae, trahitur ex definitione argumentum, quae definitio in ipso termino est de quo agitur, et eius termini totum est. Itaque argumentum quod a definitione ducitur, ab eo ducitur loco qui in ipso termino est, qui in quaestione est collocatus. Sed quoniam multi loci sunt in ipso, hic totus a toto est. Definitio enim totum terminum comprehendit, atque id quod inuolute nomine significabitur, euoluit atque aperit.  Eius argumenti talis est formula. Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt ad res suas obtinendas, eius autem aequitatis utilis est cognitio, utilis est ergo iuris ciuilis scientia. Est enim quaestio, an iuris ciuilis scientia sit utilis, hic igitur ius ciuile supponitur, utilis scientia praedicatur.  Quaeritur ergo an id quod praedicatur, uere possit adhaerere subiecto.  Ipsum igitur ius ciuile non potero ad argumentum uocare, de eo enim quaestio constituta est; respicio igitur quid ei sit insitum, uideo quoniam omnis definitio ab eo non seiungitur, cuius est diifinitio, ne a iure ciuili quidem propriam definitionem posse abiungi. Definitio igitur ius ciuile, ac dico: "Ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt, ad res suas obtinendas"; post hoc considero num haec definitio reliquo termino, utili scientiae, possit esse coniuncta, id est an aequitas constituta his qui eiusdem ciuitatis sunt, ad res suas obtinendas, utilis scientia sit, uideo esse utilem scientiam dictae superius aequitatis. Concludo itaque, iuris igitur ciuilis scientia utilis est.  Hoc igitur argumentum est ex eo loco qui est in ipso, hoc est in iure ciuili, qui terminus in quaestione est constitutus, hic uocatur a definitione, quae definitio quaestionum totum est, argumentum est a toto. Omnis autem locus a toto in ipso est. Nec nos ulla dubitatio perturbet, quod ius ciuile et rursus scientia utilis quaedam sunt orationes quas inter terminos collocamus. Non enim omnis termiuus simplici orationis parte profertur sed aliquoties orationes integrae in terminis constituuntur. In hac igitur argumentatione maxima ac per se nota propositio est ea per quam intelligimus omnia quae definitioni alicuius coniunguntur, ipsa quoque illis quorum definitio est, necessitate copulari. Sequitur enim cum definitio iuris ciuilis utili scientiae possit adiungi, iuri quoque ciuili utilem scientiam posse copulari; est igitur hoc argumentum tractum ab eo loco qui est in ipso. Omnis enim definitio in eo termino est quem definit, eodem autem loco qui in ipso est, et a toto. Omnis enim definitio totum monstrat atque aperit. Maxima propositio haec. Quibus aliquorum definitio iungitur, eisdem necessario ea quae definiuntur aptantur. TUM PARTIUM ENUMERATIO, QUAE TRACTATUR HOC MODO: SI NEQUE CENSU NEC  VINDICTA NEC TESTAMENTO LIBER FACTUS EST, NON EST LIBER; NEQUE ULLA EST  EARUM RERUM; NON EST IGITUR LIBER. Sit quaestio utrum aliquis quem seruum esse constiterit, sit liber. Quoniam faciendi liberi tres sunt partes. Una quidem ut censu liber fiat, censebantur enim antiquitus soli ciues Romani. Si quis ergo consentiente uel iubente domino, nomen detulisset in censum, ciuis Romanus fiebat et seruitutis uinculo soluebatur, atque hoc erat censu fieri liberum, per consensum domini nomen in censum deferre, et effici ciuem Romanum. Erat etiam pars altera adipiscendae libertatis, quae uindicta uocabatur: uindicta uero est uirgula quaedam quam lictor manumittendi serui capiti imponens, eumdem seruam in libertatem uindicabat, dicens quaedam uerba solemnia, utque ideo illa uirgula uindicta uocabatur. Illa etiam pars faciendi liberi est, si quis suprema uoluntate in testamenti serie seruum suum liberum scripserit.  Quae quoniam partes sunt liberi faciendi, siquis aliquem, quem seruum fuisse constiterit, monstrare uelit non esse liberum factum, dicet, si neque censu, neque uindicta, noque testamento, liber factus est, non est liber. At nulla earum parte liber factus est, non est igitur liber. Si enim omnes partes a qualibet illa re abiunxeris, totum necessario separasti. Nam cum totum in suis partibus constet, si quid nulla cuiuslibet parte coniungatur, a toto etiam segregatur.  Partes autem duobus dicimus modis, uel species, uel membra. Species est quae nomen totius integrum capit, uelut homo atque equus animalis, utraque enim per se integro nomine animalia nuncupantur. Est enim homo animal, et rursus equus animal. Item membra sunt quae cum totum efficiant, coniuncta totius capiunt nomen, singula uero nullo modo, ut cum fundamentum, parietes et tecta domus membra sint, simul omnia domus dicuntur, fundamenta uero sola domus uocabulo minime nuncupantur, neque parietes, neque tecta.  In his igitur quae species sunt, quoniam nomen totius integrum capiunt, uisi sigillatim omnes partes ab eo de quo dubitatur abiunxeris, non possis totum ab esse monstrare. Dictum est enim unamquamque partem totius uocabulum integrum capere. Ut quoniam faciendi liberi tres sunt species, census, uindicta, testamentum, si quaslibet duas remoueris, una tamen permanserit, liberum necessario confitebere. Siue enim censu tantum, siue uindicta, siue testamento sit liber factus, liberum esse constat. Ergo in his nisi omnes species remoueris, non potes destruere quod in quaestione propositum est. At si affirmare uelis atque astruere, sufficit tantum unam quamlibet speciem demonstrare, ut si uelis ostendere liberum, sat est, ut monstres, aut uindicta, aut censu, testamentoue liberum factum; quod si destruere uelis, non sufficit ostendere, aut censu, aut uindicta, aut testamento liberum non esse factum sed nullo eorum modo ad libertatem uenisse. Itaque his partibus quae species sunt, si destruere uelis, cunctis utendum est; si astruere, una sufficiet.  At uero hae partes quae sunt membra, contrario modo sunt: si destruere uelis, sat erit unam seiungas; si astruere, cuncta ad esse necessario comprobabis. Nam si uelis ostendere non esse domum, sufficit ut aut fundamenta non esse dicas, aut parietes, aut tecta; nam si quid horum defuerit, domus non potest appellari. At si uelis ostendere domum esse, nisi cuncta in unum coniunxeris, id quod proponis astruere non ualebis.  Omnes hi loci a partium enumeratione ducuntur, quia in his partibus quae species sunt, cunctae partes enumerantur, ut destruas; in his uero quae membra sunt cunctae partes enumerantur, ut astruas.  Quaestio est igitur in proposito Ciceronis exemplo argumentia partium enumeratione deducti: An is quem seruum fuisse constitit, liber sit; is quem seruum fuisse, subiectus est terminus, liber uero praedicatus; neutrum igitur eorum terminum ad argumentum ducere poterimus. De quibus enim dubitatur, ipsi fidem dubitationi facere non possunt. Video igitur qui in altero eorum sit. Quoniam uero partes omnes in eo sunt cuius partes sunt, quoniamque libertas data, habet proprias partes, sumo eas atque dinumero, et requiro an ulla earum partium uideatur inesse subiecto sed nulla inest. Concludam igitur non esse liberum.  Unde manifestius demonstratur, non solum ab eo termino qui subiectus est, argumenta sumi posse, uerum etiam ab eo qui est praedicatus. Nam prius exemplum quo demonstrabat iuris ciuilis scientiam esse utilem, ius ciuile quod subiectum erat definiuit, ductumque inde argumentum rei dubiae fecit fidem. Hic uero libertatis partes enumerantur, qui est terminus praedicatus.  Est igitur, ut dictum est, quaestio an quem seruum esse constiterit, liber sit. Terminus is quidem quem seruum esse constiterit, subiectus est, praedicatus uero liber, in ipso, id est in praedicato, partes sunt, quae enumerantur, a qua enumeratione dum trahitur argumentum, fit argumentum in ipso, ex partium, enumeratione. Maxima propositio, cuius partium nihil rei propositae copulatum est, ei ne totum quidem esse potest coniunctum.  Hic uidetur esse dubitandum num locus a toto atque a partibus idem sit, cum  omnes partes totum faciant, si coniungantur.  Sed respondebitur, cum sit argumentum ab enumeratione partium, totum diuiditur, non coniungitur, diuidendo enim argumentatio procedit. Nam quisquis partem cuiuslibet sumpserit, eo ipso, quo partem sumpserit, rem uidetur esse partitus. Qui uero rem diuidit, dissipat potius quam conficit totum sed restare adhuc ambiguitas potest, nam definitio quoque inuolutam nominis significationem explicat, per quamdam substantialium partium enumerationem. Enumeratio uero partium quaedam ipsarum a se partium dissipatio est.  Sed aliud est eiusdem rei partes enumerare, aliud definitionis. Nam rei partes ea re cuius partes sunt semper minores sunt, ut caput, uel thorax, uel caetera membra toto homine; partes uero definitionis tota re qua definitur, si substantiales sunt, probantur esse maiores, ut animal homine maius est. Itemque rationale, mortale, eumdem hominem, uelut maiora continent, et sunt singulae partes definitionis eiusdem quae est animal, rationale, mortale. Partitio igitur sumit partes rei quam partitur minores semper. Quae uero sumit definitio, uniuersalia sunt per se totaque et continentia definiri, quamuis posita in definitione partes fiant, ut in his quae superius exempla proposui facile intelligi potest. Unde manifestum est locum a toto, qui definitionis est, et locum a partium enumeratione, esse diuersos.  TUM NOTATIO, CUM EX VERBI VI ARGUMENTUM ALIQUOD ELICITUR HOC MODO: CUM LEX ASSIDUO VINDICEM ASSIDUUM ESSE IUBEAT, LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI; IS EST ENIM ASSIDUUS, UT AIT L. AELIUS, APPELLATUS AB AERE DANDO.  Tertius eorum qui in ipso sunt locus a notatione est constitutus. Notatio uero est quaedam nominis interpretatio. Nomen uero semper in ipso est. Ut enim definitio id quod in nomine inuolutum est declarat, expedit atque diffundit, ita etiam nomen id quod a definitione dicitur euolute, inuolute confuseque designat. Quad si definitio in ipso est, nomen quoque in ipso esse de quo agitur, non potest dubitari. Ex notatione autem locus uocatus est, quia nomen omnem rem notat atque significat.  Vindex est igitur qui alterius causam suscipit uindicandam, ueluti quos nunc procuratores uocamus. LEX igitur Aeliasanctia ASSIDUO, VINDICEM ASSIDUUM ESSE iubet. Quaeritur utrum cum LEX Aeliasanctia VINDICEM uelit ESSE ASSIDUO ASSIDUUM, LOCUPLETEM uelit LOCUPLETI. Hic igitur subiectus quidem terminus est, lex Aeliasanctia uindicem uolens assiduo assiduum, praedicatus uero locupletem locupleti, ipsos igitur terminos non potero ad fidem quaestionis adducere. De ipsis enim de quibus ambigitur, nulla effici fides potest. Quaero igitur quid in ipsorum altero sit, ac uideo unum eorum terminum esse, legem Aeliamsanctiam, quae assiduum assiduo uindicem esse decernat, id est subiectum, huius orationis interpretor partem, quae est assiduus. Quid enim est assiduus aliud nisi assem dans? assem uero dare nisi locuples non potest, assiduus igitur locuples est. Cum igitur lex Aeliasanctia assiduo uindicem assiduum esse constituat, locupletem iubet locupleti, assiduus quippe est locuples, a dando aere nominatus.  Argumentum igitur hoc tractum est ex eo loco qui est in ipso, id est a nominis interpretatione, nomen enim in ipso illo est cuius nomen est, cuius interpretatio notatio nuncupatur. Sed ab huius interpretatione factum est argumentum. Igitur hoc argumentum ex eo loco est, qui est in ipso, id est a nomine, et eorum qui in ipso sunt, a notatione, id est a nominis interpretatione. Maxima propositio est, interpretationem nomina idem ualere quod nomen.  Sed paulo confusius a Cicerone dicta argumentatio maximum praestat errorem. Ita enim dici oportuit, assiduus est qui assemdat, qui uero assem dat, locuples est, assiduus igitur locuples est. Lex autem Aeliasanctia assiduum assiduo esse uindicem iubet, locupletem igitur locupleti uindicem esse praescripsit. Quod si ita dictum esset, apertior argumentatio fuisset. Nunc uero ita dixit: CUM LEX Aeliasanctia ASSIDUO VINDICEM ASSIDUUM ESSE IUBEAT, LOCUPLETEM IUBET LOCUPLETI et caetera. Subiunxit, ut ostenderetur locuples esse assiduum; hoc autem tantumdem ualet, quod ait, legem Aeliamsanctiam assiduo assiduum uindicem cum iuberet esse, locupletem locupleti esse praecepisse, tanquam si diceret, qui assiduus est, locuples est. Nisi enim is qui assiduus est locuples sit, non consequitur ut cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo uindicem esse iusserit, locupletem iusserit locupleti, et argumenti conclusionem priorem posuit subiecit uero probationem. Conclusio namque est, cum lex Aeliasanctia assiduum assiduo uindicem uelit esse, locupletem iubet locupleti, atque hanc praemisit; probatio uero est rationis assiduum esse locupletem ab aere dando nominatum, et hanc intulit conclusionem.  Restat is locus eorum qui in ipso sunt, qui ducitur ab affectis. Cuius expositionem, quoniam uaria est multiplex quod diuisio, differamus, ac primi uoluminis terminum, hucusque sistamus. In tam difficillimi operis cursu non sum nescius, mi Patrici, quin labor hic noster quem te adhortante suscepimus, dum iudicio multitudinis imperitae aut eleuatur, aut premitur, facile uariis reprehensionibus mordeatur. Nam et illi quibus hoc totum disserendi displicet genus, uelut superuacaneum studium, familiari prauis mentibus cauillatione despiciunt, et qui maximum huius scientiae fructum putant, sua caeteros segnitie mentientes, tanto nos operam pares esse non existimant, quorum quidem priores si non inuidia laboris alieni aestimationem premunt, sed reprehensioni iudicioque consentiunt, nullo modo ferendos esse puto. Multo quoque in me libentius detorserim prauae opinionis inuidiam, ac nostris eos diffidere uiribus facillime patiar, potius quam tantae disciplinae calcare rationem. Sed proh diuinam atque humanam fidem, quae est haec hominum prauitas, quae tantae est imprudentia caecitatis, ut pene sua sese ipsi confessione condemnent! Nullus est enim qui sese uideri nolit peritissimum disserendi, quin etiam obiectare ipsi aliquid, et resoluere obiecta conantur, etsi facile id factu esset, cuncti ad scientiam logicae disciplinae uelut ad communia quaedam sapientiae lucra concurrerent. Iam uero quid absurdius fingi potest, quam quod probabilibus, ut ipsi existimant, argumentis inutile studium dialecticae nituntur astruere? Quid enim conuenit disserendi artem disserendo peruertere, ut cuius opinionem affectes, eiusdem despicias ueritatem? Sed ut cantor ille discipulum sibi ac Musis canere iubebat, ita et ego quoque mihi ac tibi, non Musae sed tanquam Musarum praesidi cecinerim, atque id quod multo labore studioque collegi, non rhetorica tantum facultate, uerum etiam dialectica subtilitate deponam.  Quae uero sequuntur huiusmodi sunt: DUCUNTUR ETIAM ARGUMENTA EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO QUAERITUR. SED HOC GENUS IN PLURIS PARTIS DISTRIBUTUM EST. NAM ALIA CONIUGATA APPELLAMUS, ALIA EX GENERE, ALIA EX FORMA, ALIA EX SIMILITUDINE, ALIA EX DIFFERENTIA, ALIA EX CONTRARIO, ALIA EX ADIUNCTIS, ALIA EX ANTECEDENTIBUS, ALIA EX CONSEQUENTIBUS, ALIA EX REPUGNANTIBUS, ALIA EX CAUSIS, ALIA EX EFFECTIS, ALIA EX COMPARATIONE MAIORUM AUT PARIUM AUT MINORUM.  Postquam locos eos exquibus argumenta ducuntur gemina partitione distribuit, alios in ipso de quo agitur haerere dicendo, alios extrinsecus assumi, cumque locum qui in ipso de quo agitur haeret in quatuor species secuit, id est a toto, a partibus, a nota, ab affectis, superioribus quidem tribus exempla subiecit, quae nos primo uolumine quantum diligenter fieri potuit explicauimus. Restat is locus quem posuit quartum, id est ab affectis, huius cum multae sunt species, integri atque indiuisi proponere non potuit exemplum. Nam quorum facienda partitio est, melius per singula membra dispositis aperiuntur exemplis. Hunc igitur locum diuidit hoc modo: Locus qui ex affectis est, partim ex coniugatis, partim ex genere, partim ex forma descendit, ex similitudine etiam, uel ex difterentia, uel ex contrario, necnon etiam ex coniunctis, ex antecedentibus, et consequentibus, et repugnantibus, ex causis etiam atque ex effectis causarum, et comparatione maiorum, aut parium, uel minorum, quae omnia Tullius paulo post conuenientibus rerum similitudinibus illustrat.  Nunc illud nobis dicendum est quae sit affectorum natura, et quid habeant proprietatis. Sunt enim affecta quae quodammodo aliquid referri possunt, ad id ad quod referuntur. Omnia uero quae se aliqua relatione respiciunt, aut amica inter se, aut dissidentia conferuntur. Si amica, uel substantialiter, ut genus, forma, antecedentia, consequentia, causa, effectus; uel in qualitate, ut coniugatum, simile, coniunctum; uel in quantitate, ut paria.  Quae uero sibi dissidentia conferuntur, partim a se differentia sunt tantum, partim aduersa; sed aduersa, partim in qualitate, ut contraria uel repugnantia, partim in quantitate, ut maius ac minus. Quae cum ita sint, manifestum est, et amica sibi cognationis relatione coniungi, et dissidentia hoc ipso quo sibi aduersa sint, ad se inuicem comparari. Nam quae amica sunt, amicis amica sunt, et dissidentia a dissidentibus dissident. Ita igitur et genus formae genus est, et forma generis forma, et antecedentia consequentium, et consequentia, antecedentium, et causa effectuum causa, et effectus causarum effectus, et coniugata coniugatis coniugata sunt, et simile simili simile, et coniunctum coniuncto coniunctum, et paria paribus paria, et differentia differentibus differentia, et maiora minoribus maiora, et minora maioribus minora sunt, et contraria contrariis contraria, et repugnantia repugnantibus repugnuntia sunt. Affecta igitur sunt quae cum a se inuicem diuersa sint, ad se inuicem tamen referuntur.  Sed quo ordine Tullius superius descripsit locos, nos definitiones omnibus apponemus.  Eorum igitur quae ad se inuicem affecta dicuntur, in M. Tullii disputatione prima sunt coniugata: coniugata uoco quaecumque ab uno nomine uaria prolatione flectuntur, ut a iustitia iustus, iustum, iuste. Haec inter se cum ipsa iustitia, unde eorum uocabulum fluxit, coniugata dicuntur. Genus uero est quod de multis specie differentibus in eo quod quid est praedicatur, uelut animal dicitur de homine atque equo, quae specie differunt, et in eo quod quid sit praedicatur. Interrogantibus enim nobis quid sit homo uel equus, respondetur animal. Quod genus licet nec esse sit ab eo esse diuersum cuius genus est, cognatum tamen est ei, quia ad id substantiae relatione coniungitur.  Species etiam est, de qua genus superius praedicatur, quam Cicero formam uocauit, uelut homo animalis.  Similitudo est unitas qualitatis. Nam duo quae sibi similia sunt, eamdem nec esse est habere qualitatem, et quoniam ipsum sibi simile esse non potest, aliud nec esse est simile consideretur. Sed aliud esse non poterit, nisi fuerit in aliqua parte diuersum. Ergo similia, a se in alia quidem re diuersa sunt, in alia uero congruunt. In ea uero re quae secundum qualitatem congruunt, in ea esse similia intelliguntur, quae ad se similitudinis illius copulatione referuntur.  Differentia est quae unumquodque differt ab alio, ut homo ab equo rationabililatis differentia discrepat. Haec igitur praedicatione quidem propriae naturae ad ea refertur quorum est differentia, ut rationabilitas ad hominem; dissimilitudinis uero ratione ad ea a quibus discrepat id cuius est differentia, ut rationabilitas ad bouem.  Contraria uero sunt quae in eodem posita genere longissime a se discrepant, ut album atque nigrum, quae licet in uno qualitatis genere ponantur, a se tamen quam longissime recedunt, ea quoque ad se referri nullus ignorat. Aliud est enim quod sunt, aliud quod contraria sunt. Quod enim nigrum est, quale est. Quod uero contrarium est, ab albo plurimum discrepans est.  Coniuncta uero sunt quae unicuique rei finitimam naturam tenent, uelut timori pallor adiunctus est. Haec talia sunt ut saepius quidem adiunctis sibi cohaerescant, neque tamen ex necessitate his quibus uicina sunt, ad esse cogantur. Nam saepe timori pallor assistit, non tamen semper, ueluti cum dissimulatione premitur metus, atque ideo ueri similia ex adiunctis argumenta nascuntur. Nam quaecumque coniuncta sunt ex his quibus adhaerent, indicio esse solent. Sed de his in posteriore disputatione diligentius disseram.  Antecedentia uero sunt quibus positis aliud nec esse est consequatur, ut quia bellum est, esse inimicitias necesse est. Haec ordinis necessitatem tenent. Consequentia enim ab antecedentibus separari nequeunt, consequens uero est quidquid id quod antecedit insequitur, ut inimicitiae bellum consequuntur. Nam si bellum est, inimicitias esse nec esse est, habetque locus hic illud notabile et spectandum, quod saepe quae naturaliter priora sunt, tamen ipsa sunt consequentia. Saepe quae naturaliter antecedunt, et in propositione priora sunt; namque inimicitiae prius existere quam bella solent. Sed non possumus proponere inimicitias, ut bellum sequatur. Non enim possumus uere dicere, si inimicitiae sunt, bellum est sed praeponimus bellum, et inimicitiae quae natura priores sunt, subsequuntur, ita, si bellum est, inimicitiae sunt. Nunc igitur inimicitiae quae naturaliter bellum praecedunt, hae eadem bella in propositione comitantur; at si dicam: Si superbus est, odiosus est  superbia et naturaliter et in propositione odium praecedit; prius enim superbia consueuit existere, post uero atque ex eadem superbia ueniens odium sequi. Nec interest utrum naturaliter quaelibet antecedat res aliquando, an uero consequetur, dum id in propositione adnotemus, eam esse rem antecedentem, quae siue naturaliter prior sit, siue posterior, alteram tamen rem secum necessario trahat.  Repugnantia uero intelliguntur quoties id quod alicui contrariorum naturaliter iunctum est, reliquo contrario comparatur, ut quoniam amicitia ealque inimicitiae contraria sunt. Inimicitias uero consequitur nocendi uoluntas, amicitia et nocendi uolentas, repugnantia sunt, haec quoque ad se contrarietatis similitudine referuntur.  Causa est qua praecedente aliquid efficitur, ut causa diei est solis ortus.  Effectum est quod praecedens causa perficit, ut dies quem solis ortus emittit.  Maiorum uero comparatio est quoties ei quod minus est, id quod maius est comparatur, ut si nemo innocens pelli in exsilium debet, multo magis ne Tullius quidem, qui non innocens solum, uerum etiam patriae fait liberator; plus est enim patriae esse liberatorem quam innocentem. Parium uero quoties inter se paria comparantur, ut si hic ciuis innocens pelli in exsilium non debet, quia innocens est, nec ille quidem qui est innocens carere patria iuste potest. Minorum uero quoties minora maioribus conferuntur, ut si Ciceronem liberatorem patriae praemio nemo dignum putauit, nemo eum pPomba praemio dignum qui cum tantum innocens fuerit, nulla in rempublicam contulit merita.  Haec itaque omnia cognata sibi esse, et ad se referri inuicem, et se uelut e regione conspicere nullus ignorat. Nam ut de coniugatis primum loquamur, et iustitia ad id quod iustum est, uel id quod iuste fieri potest, spectat, et cum qui iustus est perficit. Caetera quoque habent ad se non modo uocabuli cognationem, uerum etiam cuiusdam naturae congruentiam, ita tamen ut a se diuersa sint. Neque idem est iustitia, quod iustus. Omne enim quidquid ab aliquo inflectitur, ab eo a quo inflectitur est diuersum, eidemque cognatum, a quo etiam probatur inflexum. Genus etiam cognatum esse rei cuius genus est, id est speciei, quam Cicero formam uocauit, dubium non est. Genus enim speciei genus est, et species generis species: itaque ad se inuicem referuntur, licet idem genus ac species non sint. Illud sane uidendum est, quoniam quas nos species nuncupamus, eas Cicero formas uocat. Cui quidem, dum quod dicit intelligam, conMilani libenter quibus uoluerit uti nominibus, mihi uero non idem concedi potest. Nam qui explanationis lucem professus est, in his uerbis debet quae sunt in usu posita uersari. Id autem quod supponitur generi ut species, quam forma potius nuncupetur, usus obtinuit. Iam uero simile nisi simili simile esse non potest, et quod differt nisi a dissimili differre non potest. Contraria etiam contrariis intelliguntur esse contraria, coniuncta etiam coniunctis adhaerescunt. Et quae sunt antecedentia, aliquid quod potest consequi antecedunt. Id etiam quod est consequens illud quod antecessit insequitur. Omne etiam repugnans repugnanti sibimet intelligitur inimicum. Causa etiam effectus sui causa est. Quod enim quaeuis causa efficit, eius rei quam efficit causa est; effectus quoque causae alicuius effectus est. Comparatio uero maiorum minora respicit, minorum uero maiora, parium paria.  Atque in omnibus ea natura esse deprehenditur, ut cum per se res quaedam sint diuersae ab his adquae referuntur, affecta tamen esse dum comparantur, appareant; diuersa uero esse ab his quae referantur, illa res approbat, quoniam nihil ad se ipsum referri potest. Quae cum ita sint, iure affecta sunt nuncupata.  Quae omnia eius loci qui ex affectis ducitur, species uel formae sunt, ipso etiam testante Cicerone, qui ait: SED HOC GENUS IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM EST. Cum enim genus dixit, quas scindit a genere species esse signauit. Praeterea omnia haec et nomen generis suscipiunt et definitionem. Affecta enim sunt ad aliquid, quae ad id ad quod affecta sunt, referri queunt; coniugata uero et genus, et forma, et caetera, ad ea semper ad quae sunt affecta, referuntur. Sed, ut in superioribus locis dictum est, qui in ipso de quo agitur haerebant, id est ex toto, ex partibus, ex nota, ut ex toto eo intelligatur termino qui fuisset in quaestione propositus, itemque ex eius partibus atque ex eius nota. Eodem modo etiam in iis qua affecta sunt dicemus ad eum terminum affecta considerari, qui subiecti uel praedicati loco positus continet quaestionem.  Superest nunc illud dicere, cur quae affecta sunt in ipso, de quo agitur esse dicantur. Etenim in ipso de quo agitur termino, quatuor locos esse significauit Cicero, id est ex toto, ex partibus, ex nota, ex affectis. Quorum tria quidem superiora manifestum est in eo haerere de quo agitur termino. Definitio enim cuiuslibet rei quod totum est, in illo ipso est quod definit. Parte, etiam in ipso illo sunt, quod collectione coniungunt. Nota etiam in illo est quod appellatione significat; affecta uero extrinsecus posita uidentur, quippe quae referuntur ad id ad quod affecta sunt, ad id de quo agitur quae non referuntur, nisi extrinsecus posita intelligerentur. Cur igitur ea etiam quae affecta sunt, ad id de quo agitur, inter nos numerauit locos, qui ipsi de quo quaeritur termino cohaerent, dicendum est. Quoniam id quod adhaerere dicitur, non idem est ei cui adhaerere praedicatur.  Quae cum diuersa sint, cognatione tamen quaedam intelliguntur esse coniuncta, ueluti non idem est definitio quod ipsa res qum definitione describitur. Si enim definitio clarius efficit id quod definit, nihil uero ipsum e esse clarius quam est efficere potest, manifestum est id quod definitur a definitione esse diuersum. Sed idcirco haerere definitionem in eo quod definitur dicimus, quia est ei cognata atque coniuncta, quippe quae dum eius proprietatem significet, ab eius substantia non recedit. Partes etiam ac notae diuersa sunt ab eo quod uel copulant, uel designant. Sed quia illae propositum terminum iungunt, illae significant, habentes aliquam cum proposito termino cognationem, in ipso de quo agitur haerere perhibentur. Ita etiam in affectis, licet extrinsecus sint, neque enim idem sunt quod ea sunt ad quae intelliguntur affecta, necessario tamen, quia aliquam cognationem cum his habere considerantur, in ipsis haerere dicuntur ad quae ad effecta sunt.  Qui uero eorum naturalis ordo sit, uel quae differentia, uel sit alia, locorum partitio, licet in Topicis Differentiis opportunius expediendum sit, tamen cum exempla Ciceronis quae in his explicandis attulit exposuero, subiungam. CONIUGATA DICUNTUR QUAE SUNT EX VERBIS GENERIS EIUSDEM. EIUSDEM AUTEM GENERIS VERBA SUNT QUAE ORTA AB UNO VARIE COMMUTANTUR, UT SAPIENS SAPIENTER SAPIENTIA. HAEC VERBORUM CONIUGATIO *SYZUGIA* DICITUR, EX QUA HUIUSMODI EST ARGUMENTUM: SI COMPASCUUS AGER EST, IUS EST COMPASCERE.  Definitio coniugutorum a Cicerone prolata talis est. Coniugata dicuntur quae sunt ex uerbis generis eiusdem, id est quae ab uno uerbo uariis inflectuntur modis. Ex eodem quippe genere uerba sunt, iustitia, iustus, iuste, iustum, et quaecumque alia in diuersas possunt uocabulorum species inflecti. Quaecumque enim ab uno quolibet orta uarie commutantur, haec a Graecis quidem *syzygia* dicuntur, apud Latinos uero coniugata: nam quod Graeci *syzygia* dicunt, nos coniugationem appellamus. Haec autem sunt, ut sapiens, sapienter, sapientia, et quaecumque in uarias partes orationis, uariasque inflexiones, ab uno quodam ducta cernuntur.  Ex coniugatis igitur argumenti nascentis hoc exemplum est: sit enim dubitabile an in aliquo agro mihi atque uicino simul pascere liceat pecus, id est an ius sit compascere: subiectum igitur est ager, compascere uero praedicatum. Faciemus itaque argumentum hoc modo: Hic de quo quaeritur ager compascuus est, in compascuo autem licet compascere, in hoc igitur agro licet compascere. Hic igitur compascendi iuris argumentum ex compascuo sumptum est, ex coniugato uidelicet. Compascere enim et compascuum coniugata sunt. Sumptum uero est argumentum, ius esse compascere, quoniam sit ager compascuus sed coniugatum est compascuum ei quod compascere. A coniugatis igitur sumptum est argumentum, quod coniugatum in ipso est de quo agitur, id est in compascendo; omnia enim ex eodem fluunt, et sui sunt continentia atque se respicientia. Factum est igitur argumentum ex eo quod est in ipso, ab affectis, id est a coniugatis. Maxima uero propositio est: Coniugatorum in eo quod coniugata sunt, unam atque eamdem essu  naturam  uel sic: Cui conuenit aliquid, huic etiam coniugatum eius posse sociari. A GENERE SIC DUCITUR: QUONIAM ARGENTUM OMNE MULIERI LEGATUM EST, NON POTEST EA PECUNIA QUAE NUMERATA DOMI RELICTA EST NON ESSE LEGATA; FORMA ENIM A GENERE, QUOAD SUUM NOMEN RETINET, NUMQUAM SEIUNGITUR, NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR VIDETUR. Genus est quod de qualibet specie in eo quod quid est praedicatur. In eo quod quid est praedicari dicitur, quod de qualibet specie interrogantibus quid sit, rcsponderi conuenit, et eius de qua respondetur speciei substantiam monstrat. Semper uero genus propria specie maius est, eamque intra ambitum suae praedicationis includit. Quo fit ut, quamuis in alia quoque dispartiri genus possit, speciem tamen suam nullo modo derelinquat, uelut animal quidem praedicatur de homine, et hominis substantiam monstrat; interrogantibus enim modis quid est homo, animal respondetur. Idem tamen deduci in alia potest, uelut in equum atque bouem, quae animalia nuncupantur. Sed ita deducitur in diuersa, ut unamquamque earum specierum quas continet, non relinquat. Ubicumque enim fuerit homo, necesse est ut sit animal, homo enim animal est. Idemque de boue ac de caeteris. Ergo liquido demonstratum est nomen generis a specie nullo modo separari. Quod si aliquando generis uocabulum uniuersaliter enuntietur, nec esse est omnes species designari, ut si quis dicat omne animal, et hominem designabit et houem, et caeteras omnes species sub animalis nomine collocatas.  Quae cum ita sint, quidam testamento mulieri argentum omne legauerat. Quaeritur an ei etiam numerata pecunia sit legata: numerata igitur pecunia in hac quaestione subiectum est, legata uero praedicatum. Considero igitur in alterutro eorum quidnam insit, ut ex eo quod in ipso est aliquod argumentum requiram. Video subiectum terminum, qui est numerata pecunia, habere argentum genus, quod affectum est, scilicet ad speciem suam ad quam refertur. Quae enim ad se inuicem referuntur, affecta sunt; ergo quoniam argentum omne legatum est, et genus speciem propriam non relinquit, nec esse est ut numerata quoque pecunia sit legata. Nam cum omne nomen generis legatum sit, nihil de speciebus uidetur exceptum, uelut si quis dicat, omne animal uiuere, non ut arbitror tantum hominem uel bouem, uel equum, uel sigillatim caetera, uel unum, uel plura uiuere dicit, ut tamen aliqua cum sint animalia, uitae munere carere contendat sed omne prorsus quidquid fuerit animal, uiuere proponit. Cum igitur omne genus, id est omne argentum legatum sit, nulla species excipitar. At numerata pecunia argentum est, fit igitur ut numerata quoque pecunia legati uocabulo possit includi.  Est igitur quaestio quidem, ut dictum est, an numerata pecunia legata sit; argumentum ab eo quod in ipso est, id est a genere quod inest propriae speciei, id est ab affectis, quod est ita ut ad id referatur; hoc autem est argentum, ab affectis, id est a genere. Praedicatur enim ut genus argentum de numerata pecunia. Interrogantibus enim nobis quid sit numerata pecunia iure respondemus, argentum. Maxima propositio est:  Cui conuenit omne genus, eidem unamquamque speciem conuenire.  Quam Marcus quoque Tullius diuersis quidem uerbis sed eadem significatione proposuit dicens: FORMA ENIM A GENERE QUOAD SUUM [1070C] NOMEN RETINET, NUNQUAM SEIUNGITUR. NUMERATA AUTEM PECUNIA NOMEN ARGENTI RETINET; LEGATA IGITUR VIDETUR.  A FORMA GENERIS, QUAM INTERDUM, QUO PLANIUS ACCIPIATUR, PARTEM LICET NOMINARE HOC MODO: SI ITA FABIAE PECUNIA LEGATA EST A VIRO, SI EI VIRO MATERFAMILIAS ESSET; SI EA IN MANUM NON CONVENERAT, NIHIL DEBETUR. GENUS ENIM EST UXOR; EIUS DUAE FORMAE: UNA MATRUMFAMILIAS, EAE SUNT, QUAE IN MANUM CONUENERUNT; ALTERA EARUM, QUAE TANTUM MODO UXORES HABENTUR. QUA IN PARTE CUM FUERIT FABIA, LEGATUM EI NON VIDETUR.  Species est, quae propriis differentiis intormata sub praedicatione generis collocatur. Differentiae uero propriae a caeteris eam speciebus separant atque seiungunt, uelut homo cum sit animalis species, differentiis informatur rationabililatis atque mortalitatis, et seiungitur ab his animalibus quae aeterna sunt, uelut sol a Platonicis creditur, et ab iis animalibus quae sunt rationis expertia. Cum igitur omnes species inter se propriis differentiis distent, nec esse est quod de altera specie dicitur, id in alium non posse transferri, uelut quod de homine dicitur specialiter, idem de equo alque boue non possit intelligi. Ducitur autem a specie quoties genus ipsum ueluti in quamdam contrahitur portionem. Velut si quis dicat illud animal sibi adduci debere, quod sit rationale et mortale, non utique de equo, uel boue, aut de caeteris, nisi tantum de homine dictum esse intelligitur. Ut igitur generaliter dictum genus omnes species claudit, cum quis dicit omne animal, sic quodlibet animal designatum speciem facit.  Quae cum ita sint, a forma generis, id est a specie generis tale fit, argumentum, quam formam generis Cicero partem saepe nominat, quo id quod dicitur planius fiat. Notius enim nomen partis est quam formae; quo autem distet forma a partibus, et nos strictim superius diximus, et paulo post a Ciceroue ipso latius explicabitur. Nunc de proposito uideamus exemplo. Uxoris species sunt duae, una matrumfamilias, altera usu; sed communi generis nomine uxores uocantur.  Fit uero id saepe, ut species iisdem nominibus nuncupentur, quibus et genera; mater uero familias esse non poterat, nisi quae conuenisset in manum; haec autem certa erat species nuptiarum. Tribus enim modis uxor habebatur, usu, farreatione, coemptione; sed confarreatio solis pontificibus conueniebat. Quae autem in manum per coemptionem conuenerant, hae matresfamilias uocabantur. Quae uero usu uel farreatione, minime. Coemptio uero certis solemnitatibus peragebatur, et sese in coemendo inuicem interrogabant, uir ita, an mulier sibi materfamilias esse uellet. Illa respondebat uelle. Item mulier interrogabat an uir sibi paterfamilias esse uellet, ille respondebat uelle. Itaque mulier, uiri conueniebat in manum, et uocabantur hae nuptiae per coemptionem, et erat mulier materfamilias uiro, loco filiae. Quam solemnitatem in suis Institutis Ulpianus exponit.  Quidam igitur extremo iudicio omne Fabiae uxori legauit argentum, si quidem Fabia ei non tantum uxor, uerum etiam certa species uxoris, id est materfamilias esset, quaeritur an uxori Fabiae legatum sit argentum. Uxor Fabia, subiectum est; legatum argentum, praedicatum. Quaero igitur quodnam ex his argumentum sumere possim, quae in quaestione sunt posita, ac uideo uxori duas inesse formas, quarum una tantum uxor est, altera materfamilias, quae in manum conuentione perficitur. Quod si Fabia in manum non conuenit, nec materfamilias fuit, id est, non fuit ea species uxoris, cui argentum omne legatum est. Quocirca quoniam id quod de alia specie dicitur, in aliam dici non conuenit, cumque Fabia praeter eam speciem sit, quae in manum conuenerit, id est quae materfamilias sit, et uir matrifamilias legauerit argentum, non uidetur Fabiae esse legatum.  Quaestio igitur, ut dictum est, an uxori Fabiae omne argumentum legatum sit: subiectum, uxor Fabia; praedicatum uero, legatum argentum. Argumentum ab eo quod est in ipso de quo quaeritur, id est ab eo quod est in uxore de qua quaeritur. Est autem in uxore de qua quaeritur species uxoris, ea scilicet quae in manum non conuenit quae ad eam affecta est. Omnis enim species ad suum genus refertur, id est forma; factum est igitur argumentum ab eo quod est in ipso, ab affectis, a forma generis. Maxima propositio est: Quod de una specie dicitur, id in alteram non conuenire. A SIMILITUDINE HOC MODO: SI AEDES EAE CORRUERUNT VITIUMUE FACIUNT QUARUM USUS FRUCTUS LEGATUS EST, HAERES RESTITUERE NON DEBET NEC REFICERE, NON MAGIS QUAM SERVUM RESTITUERE, SI IS CUIUS USUS FRUCTUS LEGATUS ESSET DEPERISSET. Similia dicuntur, quae eiusdem sunt qualitatis ex quibus hoc modo sumitur argumentum: Quidam testamento aedium usumfructum legauit, id est concessit aedes, ut his alius dum uiueret uteretur; hae coeperunt uel uitium facere, id est ruinam minari, uel etiam corruerunt. Petit igitur ab haerede is cui aedium ususfructus legatus est, ut earum sibi aedium quae a testatore legata sunt damna compenset, et aedes quae uitium fecerunt uel corruerunt restituat. Quaeritur an earum aedium quarum ususfructus legatus sit, uitium uel ruinam haeres restituere cogatur. Hic igitur subiecta quidem oratio est, ueluti quidam terminus, aedium quarum ususfructus legatus sit, ruinam uel uitium. Praedicata uero oratio, loco termini constituta, ab haerede restitutio.  Sumo igitur a simili argumentum, hoc modo: Quoniam si quis serui usumfructum legauerit, isque seruus aliquo modo deperierit, non cogitur restituere haeres seruum, ne nunc quidem cogetur haeres restituere aedes, quae in usumfructum legatae, ruinam uitiumue iecerunt. Similes est enim serui ususfructus legatio aedium ususfructus legationi. Simile est etiam seruum in usumfructum legatum si deperierit, ab haerede non restitui, et aedium in usumfructum legatarum uitium ruinamue ab haerede non refici.  Est igitur quaestio quidem an aedium in usum fructum legatarum uitium uel ruinam haeres restituere cogatur. Terminus uero subiectus quidem, aedium in usumfructum legatarum. uitium uel ruinam, praedicatus autem ab haerede restitutio. Argumentum uero ab eo quod in ipso est, id est ab eo quod inest, uel ruinae, uel uitio aedium in usumfructum legatarum. Id autem est affectum, id est similitudo. Omnis enim similitudo ei inesse perpenditur quod est simile, simililudo uero est serui ususfructus legati pereuntis, quem restituere haeres non cogitur. Maxima uero propositio: Similibus rebus eadem conuenire. A DIFFERENTIA: NON, SI UXORI VIR LEGAVIT ARGENTUM OMNE QUOD SUUM ESSET, IDCIRCO QUAE IN NOMINIBUS FUERUNT LEGATA SUNT. MULTUM ENIM DIFFERT IN ARCANE POSITUM SIT ARGENTUM AN IN TABULIS DEBEATUR. In rebus plurimum differentibus quod de altera earum dicitur non uidetur in alteram conuenire.  Id cum ita sit, quidam argentum suum omne legauit uxori. Illa pecuniam quoque quae in nominibus debebatur, suam esse dicebat, quod omnis pecunia nomine uocaretur argenti. Quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debebatur, legatum sit. Hic igitur subiectus est terminus, argentum quod in nominibus debebatur, legatum uero praedicatur. A differentia igitur faciemus argumentationem hoc modo: Idem de plurimum differentibus rebus intelligi non potest.  Plurimum uero differt argentum in arca ne sit positum, an in nominibus debeatur. Nam quae posita in arca pecunia est iuris est nostri, in nominibus uero debita non est nostra; nam quod mutuum datur, ex meo fit accipientis, atque ideo non cogitur eamdem ipsam pecuniam debitor restituere creditori sed aliam tantam. In arca uero posita pecunia, et in nominibus debita, non sunt argenti uel pecuniae species sed differentiae; nam argenti species signatum acnon signatum esse dictae sunt. Qualitas uero pecuniae in possessione positae uel non positae sed non modis omnibus alienae, in his differentlis constat, ut alia sit in arca posita, reliqua in nominibus debeatur; atque hoc idcirco dictum est ne quis non a differentiis sed a specie argumentationem ductam putaret. Qualitas enim substantialis non speciebus sed differentiis annumeratur. Cum igitur suum omne quod fuerit argentum uir uxori legauerit, cumque manifestum sit id ad eam pertinere quod fuerit suum legantis, id est quod in arca fuerit conditum, non potest idem intelligi de eo quod in nominibus debebatur, quoniam, sicut dictum est, id quod in nominibus debetur ab eo quod in arca positum est plurimum differet. Facta est igitur argumentatio ab eo quod inerat, de quo quaerebatur. Quaerebatur uero de argento in nominibus debito. In hoc uero inerat propria differentia, qua ab alio differebat argento, eo scilicet quod in arca positum fuerit. Id uero est affectum, id est differentia. Maxima uero propositio, de rebus plurimum differentibus, idem intelligi non posse. EX CONTRARIO AUTEM SIC: NON DEBET EA MULIER CUI VIR BONORUM SUORUM USUM FRUCTUM LEGAVIT CELLIS VINARIIS ET OLEARIIS PLENIS RELICTIS, PUTARE ID AD SE PERTINERE. USUS ENIM, NON ABUSUS, LEGATUS EST. EA SUNT INTER SE CONTRARIA. Quod de aliqua re dicitur, id in eius contrarium non potest conuenire. Idem enim de duobus contrariis intelligi nullo modo potest. Quidam igitur supremae uoluntatis arbitrio uxori bonorum suorum usumfructum legauit, mulier cellas uinarias oleasque plenas ad usumfructum proprium deuocabat. Quaeritur an penus quoque ususfructus legatus sit; penus igitur ususfructus est subiectum, legatus praedicatum. A contrario igitur sumitur argumentum hoc modo: Utimur his quae nobis utentibus permanent, his uero abutimur quae nobis utentibus pereunt; ergo, cum permanere ac perire contraria sint, usus quoque et abusus contraria nec esse est iudicentur. Quod si caetera quidem utendo permanent, cellae autem uinariae atque oleariae utendo consumuntur, aliarum quidem rerum ususfructus esse potest; penus uero non potest usus esse sed potius abusus. Ergo cum uir uxori usumfructum bonorum suorum legauerit, non potuit legare contrarium, quod est abusus; est uero abusus uini atque olei, uinum igitur atque oleum ad usumfructum mulieris non potest pertinere.  Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est ab ususfructus legatione, atque ab affecto, id est contrario; contraria uero in contrariis non ita sant, tanquam definitio in eo quo definitur sed tanquam relatio. Omnis enim relatio in relatiuis, omniaque contraria non id quod sunt, id est qualitates sed hoc ipsum quod contraria sunt, in contrariis esse dicuntur, quia non secundum qualitatem propriam sed secundum distantiam plurimam sibi inuicem conferuntur. Maxima propositio est, quod alicui conuenit, id eius contrario non conuenire.  [4.18] AB ADIUNCTIS: SI EA MULIER TESTAMENTUM FECIT QUAE SE CAPITE NUMQUAM DEMINUIT, NON VIDETUR EX EDICTO PRAETORIS SECUNDUM EAS TABULAS POSSESSIO DARI. ADIUNGITUR ENIM, UT SECUNDUM SERVORUM, SECUNDUM EXSULUM, SECUNDUM PUERORUM TABULAS POSSESSIO VIDEATUR EX EDICTO DARI.  Adiuncta sunt, quae proximum ac finitimum locum tenent, ut si unum eorum quolibet exstiterit modo, [1074B] alterum quoque uel exstitisse, uel exstare, uel exstaturum esse uideatur: haec enim sibi quasi uicina sunt. Quae uero in existendo sibi sunt proxima, haec uel antecedere rem uolunt, ut amor saepe concubitum, uel simul esse, ut pallor et timor, uel euenire posterius, ut post iracundiam caedes. Eaque est adiunctorum natura, ut separari quidem possint, tamen sese inuicem monstrent. Nam neque qui amauit, necessario potitus est, et saepe qui potitus est, non amauit. Nec qui pallet, necessario timet, et saepe non timens pallet. Nec ex necessitate iratus occidit, et occidit saepe aliquis non iratus. Sed tamen si de singulis inquiratur, eum concubuisse qui amauit, et pallere qui timet, et occidisse qui fuerit iratus, uerisimile est, non quod ita neo esse sit sed quia ex uicinis uicina colligimus.  Nam quod ad exemplum attinet huius argumenti, haec similitudo est.  Capitis diminutio est prioris status permutatio. Id multis fieri modis solet, uel maxima, uel media, uel minima. Maxima est, cum et libertas et ciuitas amittitur, ut deportatio. Media uero, in quo ciuitas amittitur, retinetur libertas, ut in Latinas colonias transmigratio. Minima, cum nec ciuitas nec libertas amittitur sed status prioris qualitatis imminuitur, uel adoptatio, aut quibuslibet aliis modis prior status, relenta ciuitate, potuerit immutari.  Mulieres uero antiquo iure tutela perpetua continebat. Recedebant uero a tutoris potest ate quae in manum uiri conuenissent, itaque febateis prioris, status permutatio, et erat capite diminuta, quae uiri conuenisset in manum. Quaedam igitur quae se nunquam capite diminuisset, id est quae in manum uiri minime conuenisset, sine tutoris auctoritate testamentum fecit. Quaeritur an secundum eius tabulas ex edicto praetoris debeat dari possessio. Hic subiectus quidem terminus, mulieris nunquam capite diminutae tabulae, praedicatus uero possessionis concessio.  Sumitur ergo ab adiunctis argumentum, hoc modo. Nam si secundum mulieris; tabulas nunquam capite diminutae possessio detur, nihil causae est cur non secundum puerulorum quoque et seruorum tabulas ex edicto praetoris possessio permittatur. Quid enim officere potest, ne secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio deferatur? Id scilicet quod ea quae testamentum confecerat, sui non fuit iuris, quod idem et de pueris et de seruis dici potest. Illorum enim aetas, illorum conditio, in alterius sita est potestate.  Adiungitur ergo: Si secundum mulieris, quae in suo iure non esset, tabulas, possessio detur, secundum puerulorum quoque et seruorum tabulas possessionem dari, qui sui iuris minime sint, quoniam quidem illi sub tutoris, illi sunt sub domini potestate. Proxima namque est rei de qua quaeritur, quod eius est consequens, et postea existens, ut secundum seruorum puerorumque tabulas honorum possessio detur, si illud quod est in quaestione conceditur. Quaeritur enim an secundum mulieris tabulas nunquam capite diminutae possessio detur. Quam rem consequitur ut, si id fiat, secundum seruorum quoque puerorumque tabulas deferatur, quod quia fieri non oportet, ne rei quidem praecedentis existere debebit exemplum.  Nec tamen necessaria est consecutio sed uicina. Nam fieri potest ut id recipiatur solum secundum mulieris tabulas possessionem dari, non uero id ut secundum tabulas seruorum uel puerorum possessio concedatur. Sed proximum est ut qui nunc hoc recepit, posterius illud admittat. Est igitur argumentum ab adiunctis, id est ab eo quod in ipso haeret de quo quaeritur. Est autem quaestio de mulieris nunquam diminutae tabulis, ab affectis scilicet ab abiunctis. Maxima propositio: Ex adiunctis adiuncta perpendi. AB ANTECEDENTIBUS AUTEM ET CONSEQUENTIBUS ET REPUGNANTIBUS HOC MODO; AB ANTECEDENTIBUS: SI VIRI CULPA FACTUM EST DIVORTIUM, ETSI MULIER NUNTIUM REMISIT, TAMEN PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.  Antecedentia sunt, quibus positis, aliud necessario consequatur, licet illud quod antecedit, minus sit atque posterius. Minus quidem, ut si homo est, animal est; homo enim minus est animali, et tamen posito homine, consequitur ut animal sit. Posterius uero, ut si peperit, cum uiro concubuit; posterius enim est peperisse quam cum uiro concubuisse. Aliquoties uero et quod aequale, et quod simul, et quod prius est ponitur ul antecedens. Aequale quidem, ut: Si homo est, risibilis est.  Simul uero,  ut:  Si terra obiecta est, luna deficit.  Et haec sibi conuertuntur, ut consequentia fiant antecedentia, ut si risibilis est, homo est, et si iura defecerit, terrae adsit obiectio. Antecedens uero prius est, ut si arrogans est, odiosus est. Prius enim est arrogans, posterius odiosus. Illud tamen in omnibus manet, positis antecedentibus necessario consequentia trahi.  Exempli uero talis est explanatio: Ciuitatis Romanae, iure, liberi retinentur in patrum arbitrio, usque dum tertia emancipatione soluantur; ergo si quando diuortium intercessisset culpa mulieris, parte quadam dotis pro liberorum numero multabatur. De qua re Paulus, Institutionum libri secundi titulo de Dotibus, ita disseruit: Si diuortium est matrimonii, et hoc sine culpa mulieris factum est, dos integra repetetur; quod si culpa mulieris factum est diuortium, in singulos liberos sexta pars dotis a marito retinetur, usque ad mediam partem dumtaxat dotis. Quare quoniam quod ex dote conquiritur liberorum est, qui liberi in patris potestate sunt, id apud uirum nec esse est permanere.  Facto igitur diuortio, contenditur an dotis pars pro liberis apud uirum debeat permanere. Hic subiectum quidem est, factum diuortium a muliere nuntiatum; praedicatum uero, apud uirum sextae partis dotis post diuortium permansio. Quaestio an post diuortium factum, muliere nuntium remittente, sextam dotis partem apud uirum manere oporteat. Quaero igitur, si ab antecedentibus argumentum faciendum est, quid antecedat, quid consequatur. At si uiri culpa factum est diuortium, uideo, mulierem dotis parte non posse multari, etiam si prima repudii nuntium misit. Quod enim antecessit, ut uiri culpa fieret diuortium, id non permittit ut dotis pars mulieri pereat, quamuis prima repudii nuntium mittat. Non enim quia prius libellum repudii nuntiauit dotis parte multanda est sed absoluendi potius damno, quod non sua factum est, sed uiri culpa diuortium. Igitur antecedens est uiri culpa factum diuortium, consequeus uero dotis partem non retineri. Nam si hoc est, illud est.  Argumentationem uero faciam hoc modo: Si uiri culpa factum est diuortium, etiamsi mulier repudii nuntium misit, nullo modo tamen dotis parte multabitur. Sed uiri culpa diuortium factum est. Non igitur iure mulier dotis parte multabitur.  Quod si non multabitur dotis parte, nihil in uiri domo liberorum causa, dotis nomine relinquetur sed non multabitur dotis parte; nihil igitur apud uirum dotis relinquetur pro liberis. Utriusque uero conclusio syllogismi haec est: Si igitur uiri culpa factum est diuortium, pro liberis manere nihil oportet. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur: uersatur quippe intentio de dotis parte, eiusque apud uirum, post diuortium quod prima nuntiauerit, retentione; hoc uero antecessit, uiri culpa, quod quia praecedens est, affectum est, omne enim quid praecedit, ad id quod sequitur uec esse est ut referatur. Maxima propositio est: Ubi est antecedens, ibi erit et consequens  at in hac quaestione est antecedens, id est uiri culpa factum diuortium; ibi igitur consequeus erit, sextas non retineri. Cur autem ita superius argumeutum conclusionibus intexuerim, cum de his M. Tullio latius exsequente, tractauero, euidentius apparebit. A CONSEQUENTIBUS: SI MULIER, CUM FUISSET NUPTA CUM EO QUICUM CONUBIUM NON ESSET, NUNTIUM REMISIT; QUONIAM QUI NATI SUNT PATREM NON SEQUUNTUR, PRO LIBERIS MANERE NIHIL OPORTET.  Consequentia sunt quae cum fuerint antecedentia posita, consequuntur,  ueluti si dicamus: Si homo est, animal est  animal est consequens. Sed in proposito exemplo non satis apparet a consequentibus argumentum sed ab antecedentibus potius, quod paulo post liquebit.  Filii non iure suscepti in patrum non erant potestate sed matres potius sequebantur. Non autem omnibus erat connubium cum Romanis, nec erant nuptiae iure contractas, quas aut non inter ciuem romanum ciuem que romanam inibantur, aut cui princeps populusue ciuitatem uel connubium non permisisset, eo scilicet modo ut in potest atem parentum liberi redigereutur. Illud quoque uidendum, quod ex impari matrimonio suscepti, non patrem sed matrem sequuntur.  Ergo quasdam Romana uel cum Latino, uel cum peregrino, uel cum seruo, cum quo connubii ius non erat, nuptias fecit, dotem contulit, factoque inter eos diuortio, contenditur an nuptae mulieris cum eo cum quo connubii ius non erat, apud uirum dotis pars post diuortium debeat permanere. Hic subiectum quidem est, nupta mulier cum quo connubium non erat, praedicatum uero dotis partis apud uirum post diuortium retentionis iure permansio. Sumitur ergo a consequentibus argumentum hoc modo. Nam quia nuptias fecit cum eo cum quo connubii ius nullum est, id consequitur ut liberi patrem non sequantur. Si autem liberi patrem non sequuntur, ne in patris quidem sunt potestate, at si in patris potestate non sunt, matrique applicantur, apud uirum dotis pars non poterit permanere. Hic igitur antecedens est, cum quo connubii ius non erat, nuptiae; consequens uero, nihil pro liberis dotis nomine manere oportere. Concludatur argumentatio: Quoniam, non permisso connubio, liberi qui procreantur patrem non sequuntur, ne dotis quidem pars apud patrem pro liberis manere debet, quandoquidem non patrem filii sed matrem sequuntur.  Probatum est igitur pro liberis manere nihil oportere, ex hoc quod cum eo mulier nuptias fecit cum quo connubii ius non erat; hoc uero erat antecedens. Non ergo a consequenti sed ab antecedenti potius factum deprehenditur argumentum. Quod si per quod nihil dotis nomine manere oporteret, probaretur eam nuptias cum eo fecisse qui cum connubii ius non esset, recte a consequentibus argumentum factum esse diceretur. Fieret uero a consequentibus argumentum, si ita poneretur: si quid ex dote pro liberis manere oporteret, probatur, quia patrem liberis equuntur, cum eo nupta esse mulier, cum quo connuhii ius erat. Assumo quod est consequens: Sed mulier cum eo nupta non est cum quo connubii ius erat. Concludo antecedens: Nihil igitur dotis pro liberis manere oportebit quia patrem liberi non sequuntur. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo quaeritur. Quaeritur enim de his nuptiis, quarum nullum fuerit iure connubium. Ex affectis: omne enim consequens ad id quod praecedit refertur. Maxima propositio est: Ubi consequens non est, ibi ne antecedens quidem esse potest.  Ac de his erit alius uberius disserendi locus. A REPUGNANTIBUS: SI PATERFAMILIAS UXORI ANCILLARUM USUM FRUCTUM LEGAVIT A FILIO NEQUE A SECUNDO HAEREDE LEGAVIT, MORTUO FILIO MULIER USUM FRUCTUM NON AMITTET. QUOD ENIM SEMEL TESTAMENTO ALICUI DATUM EST, ID AB EO INUITO CUI DATUM EST AUFERRI NON POTEST. REPUGNAT ENIM RECTE ACCIPERE ET INVITUM REDDERE.  Secundus haeres dicitur qui haeredi instituto substituitar, ueluti si quis filium instituat haeredem, scribatque, si is filius intra pubertatem decesserit, nepotem uel quemlibet alium haeredem esse oportere; nepos igitur uel quilibet alius, secundus haeres dicitur.  Repugnantia sunt quae (ut dictum est) contraria sequuntur, si ipsis contrariis comparentur.  Quidam igitur haeredem testamento scripsit filium, ei quo secundum substituit haeredem, uxorique suae ancillarum usum fructum legauit a filio, dixitque ut uxori filius eius usumfructum ancillarum permitteret, neque illud adiecit, ut etiam secundus haeres eumdem usumfructum mulieri concederet. Successit filius, ac mulieri ancillarum contulit usumfructum. Illo mortuo intra pubertatem, agit secundus haeres, et usumfructum ancillarum mulieri extorquere conatur, dicens usumfructum ei a filio legatum, a seuero minime. Quaeritur utrum ea mulier legatum quod testamento acceperat inuita possit amittere. Hic igitur subiectum est legatum quod testamenti iure recte accepit. Praedicatum uero, inuitam posse amittere. Sumo igitur argumentum a repugnantibus. Repugnans uero est, si id quod contrario cousequens est alteri contrario comparetur, uelut in hoc ipso quod tractamus exemplo, recte accipere, et non recte accipere, contraria sunt sed non recte accipere comitatur inuitum reddere. Iure enim inuitus reddit, quod non recte accepit. Repugnat igitur inuitum reddere ei quod est reate accipere. Faciemus igitur argumentum sic: Qui testamento accepit, recte accepit; quod autem recte accipitur, inuito eo qui semel recte accepit, auferri non potest; at mulier testamento usumfructum ancillarum accepit; id igitur ei inuitae non poterit auferri. Argumentum, ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est de eo quod rectae acceptum est. In ipso uero est uelut affectum contrarietatis modo, ut superius dictum est. Est autem argumentum a repugnanti. Maxima propositio: Repugnantia conuenire non posse. AB EFFICIENTIBUS REBUS HOC MODO: OMNIBUS EST IUS PARIETEM DIRECTUM AD PARIETEM COMMUNEM ADIUNGERE VEL SOLIDUM VEL FORNICATUM. SED QUI IN PARIETE COMMUNI DEMOLIENDO DAMNI INFECTI PROMISERIT, NON DEBEBIT PRAESTARE, QUOD FORNIX VITI FECERIT. NON ENIM EIUS VITIO QUI DEMOLITUS EST DAMNUM FACTUM EST, SED EIUS OPERIS VITIO QUOD ITA AEDIFICATUM EST, UT SUSPENDI NON POSSET. Causarum quidem multa sunt genera qua Cicero paulo posterius diuidit. Sed nunc de efficientium causarum disserit argumento. Efficiens uero causa est qua praecedente aliquod effectum est, non tempore sed proprietate naturae, uelut in hoc quod nunc declaramus exemplo.  Damni infecti promissio est quoties quis promittit, si quod damnum eius opera contigerit, sua restitutione esse pensandum.  Ius autem est parieti communi parietem alium uel fornicatum, id est arcum habentem, uel directum continuumque coniungere. Quidam igitur ad parietem communem alium extrinsecus parietem iunxit, deditque satis damni infecti. Communis autem paries fornicatus fuit, id est, arcum habens uel signinam fabricam sustinens; adiungente igitur eo qui satis dederat, et ut adiungeret de moliente partem parietis, quo iunctura cohaeresceret, uitium communis paries fecit; quaeritur an damni infecti promissio cogat eum qui promiserit damnum restituere. Subiectus terminus damni infecti, promissio; praedicatus uero uitii, restitutio.  Sumimus igitur argumentum a causis hoc modo. Si enim is qui damni promisitinfecti restitutionem eius uitii causa fuit, restituere debet uitium quod eius accidit culpa; quod si ea natura parietis fuit ut suspendi sustinerique non posset (fornicati enim parietis non ea natura est ut suspendi queat), parietis potius forma quam demolientis culpa uitium fecisse uidebitur, atque ita non cogitur restaurare uitium qui se damni infecti promissione obstrinxerit. Fiet igitur argumentatio hoc modo: Si penes parietis formam constituit ut eo adungente [1079B] parietem qui damni infecti promiserat, uitium fieret, id uitium, qui promisit, praestare non cogitur. Fuit autem causa paries ut uitium fieret, qui ea fuit natura ut suspendi sustinerique non posset. Non igitur quod fornix uitium fecerit, praestare debet quidamni promisit infecti. Argumentum ab eo quod in ipso est de quo agitur, id est in uitii restitutione, ex effecto, id est ex causa. Causa enim uitii form. a est parietis, non culpa coniungentis parietem. Itaque factum est ut fornix uitium faceret, quae causa uitii, cum absit ab eo qui parietem iunxit, abest etiam eiusdem uitii restitutio. Maxima propositio: Unamquamque rem ex causis spectari oportere. AB EFFECTIS REBUS HOC MODO: CUM MULIER VIRO IN MANUM CONVENIT,  OMNIA QUAE MULIERIS FUERUNT VIRI FIUNT DOTIS NOMINE. Effecta sunt quae aliquibus efficiuntur causis, non tempore praecedentibus sed natura, uelut si quaerat, uxore defuncta quae in manum uiri conuenit, an eius bona ad uirum pertineant. In qua quaestione, bona uxoris defunctae quae in manum uiri conuenerit, subiectum est, ad uirum autem pertinere, praedicatum. Quaero igitur argumentum ab effecto, dispicioque quid perfecerit ipsa in manum conuentio, atque ex eo argumentum trabo; id autem est, omnis uiri dotis nomine fieri, quaecumque mulieris fuere. Ipsa igitur in manus uiri conuentio, omnia quae mulieris fuere, uiri fecit dotis nomine, non praecedens tempore sed statim propria ui naturae. Nam ut in manum quaecumque conuenerit, mox eius bona dotis nominee uirum sequuntur.  Facio igitur argumentum sic: Si mulier quae defuncta est in manum conuenit, in manum uero conuenientis mulieris bona uiri fiunt dotis nomine, haec quoque bona de quibus agitur, uiri sunt.  Argumentum ex eo quod in ipso est, de quo agitur, continetur. Agitur enim de bonis eius quae in manum conuenerit, scilicet ab effectis, id est a causae effectis. Effectum namque est, in manum conuentione omniaquae mulieris sunt uiri fieri sed a causa quanquam hic quoque non ab effectis dotis nomine, tactum argumentum esse monstretur.  Ostensum est enim fieri uiri dotis nomine, quidquid mulieris fuerit, ex eo quod mulier in manum conuenerit. Sed haec causa est ut quae mulieris erant, uiri fiant dotis nomine. Sed dicat quis, ex eo quod ea quae mulieris fuerant, uiri fiunt dotis nomine, id est approbare quod defunctae bona ad uirum debeant pertinere. Sed quae mulieris sunt, ea uiri fieri dotis nomine, et bona ad uirum pertinere, uel idem est, uel neutrum alteri causa est; uel si quis dicat eam esse causam, ut bona mulieris uiro debeant cedere, quod per in manus conuentionem uiri facta sunt, dotis nomine, a causa rursus, ac non ab effectis factum esse argumentum putabit, id est a dote; ab effectis uero non oportet aliud nisi causam probari.  Esset uero ex effectis argumentum, ut ex eo causa probaretur hoc modo: Si quaestio esset an mulier in manum uiri conuenisset, et indubitatum haberetur, omnia quae fuissent mulieris, uiri facta dotis nomine, diceretur [1080B] ita: Si omnia quae fuere mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier in manum uiri conuenit; sed omnia quae fuere mulieris, uiri facta sunt dotis nomine, mulier igitur in manum uiri conuenit. Maxima propositio: Causas ab effectis suis non separari.  EX COMPARATIONE AUTEM OMNIA VALENT QUAE SUNT HUIUSMODI: QUOD IN  RE MAIORE VALET VALEAT IN RE MINORE, UT SI IN URBE FINES NON REGUNTUR,  NEC AQUA IN URBE ARCEATUR. ITEM CONTRA: QUOD IN MINORE VALET, VALEAT IN  MAIORE. LICET IDEM EXEMPLUM CONUERTERE. ITEM: QUOD IN RE PARI VALET, VALEAT  IN HAC QUAE PAR EST; UT: QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI BIENNIUM EST, SIT  ETIAM AEDIUM. AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR ET SUNT CAETERARUM RERUM  OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. VALEAT AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN CAUSIS  PARIA IURA DESIDERAT. A comparatione locus qui dicitur, tripartito scinditur; aut enim a comparatione maiorum, aut a comparatione minorum, aut a comparatione parium nascitur. A comparatione igitur maiorum est, quoties maiore minoribus comparantur, hoc modo, ut quod in re maiore ualet, ualeat in minore.  Sit enim quaestio an in urbe aquam liceat arceri. In hac igitur subiectus est terminus, in urbe aqua, praedicatus uero, ius arcendi. Regi fines dicuntur quoties unusquisque ager propriis finibus terminatur. Arcet uero aquam qui eam per sua spatia meare non patitur. Faciamus igitur argumentum sic. Quoniam plus est regi fines, minus uero arceri aquam, si in ciuitate fines non reguntur, quod maius est, ne id quidem quod minus est, fiet, ut aqua in ciuitate arceatur. Hic igitur sumptum est argumentum ab eo quod in ipso haeret de quo quaeritur. Quaeritur uero de arcendae aquae iure, ab atlecto scilicet, id est a maiori, quod refertur ad id quod minus est. Notandum uero quod Tullius maximam propositionem argumentationi inclusit hoc modo: Quod in re maiori ualet, ualeat in minori  et deinceps ea nixus, argumentationem expediuit, ut mani testius appareat id quod in primo uolumine commemoratum est, has maximas propositiones; aliquoties quidem argumentationibus includi, ut in praesenti monstratur exemplo, alias uero uires argumentationibus dare, ut in superioribus exemplis locorum.  Quod si idem conuertamus exemplum, dicemus: Quod in re minori ualet, ualeat etiam in maiori. At in  urbe aqua arcetur, regantur igitur fines.  Hic tamen quaestio permutatur hoc modo: Quaeritur enim an in urbe fines oporteat regi. Sed a minore sumitur argumentum, id est ab arcenda aqua, ut sit hic quoque argumentum ab eo quod in ipso est, id est ab eo quod est in regendis finibus, ab affecto scilicet, id est a minori. Id enim quod minus est affectum est, illud namque respicit ad id quod comparatur. Hic quoque maxima propositio a Tullio posita est, eaque est: Quod enim in re minori ualet, ualet etiam in maiori.  A paribus uero fit similiter comparatio. Nec esse est enim ut ualeat aequitas, quae paribus in rebus paria iura desiderat.  Plurimarum igitur rerum usucapio annua est, ut si quis eis anno continuo fuerit usus, eas firma iuris auctoritate possideat, uelut rem mobilem. Fundi uero usucapio, biennii temporis spatio continetur, de aedibus in lege nihil ascriptum est. Quaeritur ergo, usus aedium unone anno, an biennio capiatur. Faciemus a paribus argumentationem, et quoniam immobilium aequa possessio est, aedes uero immobiles sunt, ut biennio fundus usucapiatur, ita etiam oportet aedes usucapere biennio possidentem. Aequitas enim paribus in rebus paria iura desiderat.  Quae etiam maxima propositio a Tullio clarissime posita est sed exemplum restrictius positum est, nec promptissime ad intelligendum. Ita namque ait: UT QUONIAM USUS AUCTORITAS FUNDI PER BIENNIUM EST, SIT ETIAM AEDIUM. Hic igitur aedium usus auctoritatem biennio fieri sentit sed adiungit: AT IN LEGE AEDES NON APPELLANTUR, ET SUNT CAETERARUM OMNIUM QUARUM ANNUUS EST USUS. Hic rursus aedes in his uidetur ponere quae annuo usucapiuntur, et concludit nihil definiens, nisi VALEAT AEQUITAS, QUAE PARIBUS IN CAUSIS PARIA IURA DESIDERAT.  Sed uidetur ita dictum, quoniam immobiles sunt aedes ut fundus, biennio uero fundus usucapitur, aedes quoque biennio usucapiantur, et sibi ipse rursus opponit sed in lege duodecim tabularum, de aedibus nihil ascriptum est, et inter eas relictae sunt res, taciturnitate legis, quarum est usus annuus. Nam cum de fundo praescriberet lex biennii usucapionem, tacuit aedes, et iis potius hac taciturnitate eas iunxit quarum annuus est usus. Sed soluit obiectionem ita: sed AEQUITAS PARIBUS IN rebus PARIA IURA DESIDERAT. Itaque quoniam aeque fundus atque aedes immobiles sunt, aeque biennio usucapientur.  Factum est igitur hic quoque argumentum ab eo quod in ipso est de quo quaeritur, id est ab affecto, id est pari. Nam cum agatur de aedium possessione, argumentum sumptum est ab usucapione fundorum.  Expeditis igitur his locis qui in ipso de quo agitur inhaerebant, nunc iam loci eius quem dixit esse extrinsecus, ponit exemplum. Hic uero est qui sumitur ab auctoritate iudicii locus ualde probabilis, etiamsi non maximae necessitatis. Quae enim necessaria sunt, haec ex propria considerautur natura. Quae uero probabilia sunt, plurimorum iudicium exspectant. Ea namque sunt probabilia, quae uidentur uel omnibus, uel pluribus, uel maxime famosis atque praecipuis, uel secundum unamquamque artem scientiamque eruditis, ut quod medico in medicina, geometrae in geometria, caeterisque in propria studiorum facultate ueritatis. De quo extrinsecus loco sic loquitur:  QUAE AUTEM ASSUMUNTUR EXTRINSECUS, EA MAXIME EX AUCTORITATE DUCUNTUR. ITAQUE GRAECI TALIS ARGUMENTATIONES *ATECHNOUS* UOCANT, ID EST ARTIS EXPERTIS. Alia quippe argumenta sunt, quae ipse elicit orator, atque ipse quodam modo ex designatis locis sibi comparat, et propria facultate conquirit. Alia qua extrinsecus posita non ipse inuenit sed praesentibus utitur et paratis, ueluti testimonia, tabulae, fama, caeteraque de quibus M. Tullius latius tractaturus est. Non enim sibi ipse testimonia parat orator sed paratis utitur, nec ipse, iudicium facit sed iam posito ac spontaneo rumore ueniente utitur ad causam.  Atque idcirco hos locos Graeci *atechnous* uocant, id est inartificiales, atque, ut Tullius dixit, artis expertes. Quae enim non proprio oratoris artificio comparantur sed se extrinsecus uenientia subministrant, haec iure artis expertia sunt appellata. Huius exemplum est: UT SI ITA RESPONDEAS: QUONIAM P. SCAEVOLA ID SOLUM ESSE AMBITUS AEDIUM DIXERIT, QUOD PARIETIS COMMUNIS TEGENDI CAUSA TECTUM PROICERETUR, EX QUO TECTO IN EIUS AEDIS QUI PROTEXISSET AQUA DEFLUERET, ID TIBI IUS VIDERI.  Solum ambitus aedium est, quantum soli AEDIUM AMBITUS claudii. SCAEVOLA igitur dixit id esse AMBITUS AEDIUM SOLUM, quod tecti diffusione tegeretur. Manifestum est enim tecta latius fundi, nec parietibus adaequari, ut stillicidium longus cadat.  Quae cum ita sint, quidam parietem communem tegere nitebatur, quaeritur an sit aliquod ius tegendi. Respondeas tu, inquit, Trebati, id ius esse angendi parietis communis, ut in eius qui tegit non aliud quodlibet tectum stillicidii aqua fundatur, alias non esse iuris ut tegat quis parietem, stillicidio in uicini tecta defluente. Haec enim stillicidii seruitus noua, nisi consentiente uicino, nihil iuris habet.  Sed si huic responso opponatur, ne sic quidem ut tegat esse iuris, quandoquidem aedium solum tantum est, quantum cuiusque parietes claudunt, qui uero legit, tectum longius mittit, tu inquit, responsum tuum Scaeuolae auctoritate firmabis, dicens Scaeuolam respondisse hoc ESSE SOLUM AMBITUS AEDIUM, quantum tectum proiiceretur, non quantum parietes ambirent. Ius est igitur proiicere tectum, qui intra ambitum adhuc suarum aedium tegit sed ita ut in suum tectum aqua defluat, nec uicino noua noceat seruitute.  In qua quaestione neque a subiectoneque a praedicato termino ductum est argumentum, quod in his locis considerari moris est, qui in ipsis haerent de quibus agitur terminis, ut in omnibus exemplis est diligentissime declaratum. Sed quia sumitur argumentum extrinsecus, dubitationi iudicium cuiuslibet opponitur, ut nunc Scaeuolae, cuius auctoritate responsum est, atque ideo ex loco qui uocatur extrinsecus sumptum dicitur argumentum.  HIS IGITUR LOCIS QUI SUNT EXPOSITI AD OMNE ARGUMENTUM REPERIENDUM TAMQUAM ELEMENTIS QUIBUSDAM SIGNIFICATIO ET DEMONSTRATIO [AD REPERIENDUM] DATUR. UTRUM IGITUR HACTENUS SATIS EST? TIBI QUIDEM TAM ACUTO ET TAM OCCUPATO PUTO.  SED QUONIAM AVIDUM HOMINEM AD HAS DISCENDI EPULAS RECEPI, SIC ACCIPIAM, UT RELIQUIARUM SIT POTIUS ALIQUID QUAM TE HINC PATIAR NON SATIATUM DISCEDERE.  Omne elementum principium est eius rei cuius elementum esse perpenditur.  Nam eius quod ex elementis fit, ipsa elementa nec esse est loco esse principii; ergo quoniam hi loci superius designati argumentorum quasi quaedam principia sunt (ipsi enim sunt qui continent argumenta; omne autem quod continet, eius quod continetur principium est), idcirco ait Cicero ueluti quaedam elementa argumentorum uideri locos hos quos superius posuit Cautissimeque adiecit, quasi quaedam elementa; non enim integre elementa sed quasi in similitudine elementorum sunt hi loci qui in argumentis eificiendis sumuntur. Idcirco quoniam argumentorum quaedam uidentur esse principia, alioqui elementum omne, minima pars eius est cuius elementum est, et id quod ex elementis efficitur, partes inuicem coniungit, ut litterae orationem. At uero locus, non pars argumenti sed totum est. Est enim significatio quaedam, et demonstratio ad reperiendum argumentum data, ut si locum respexeris, noueris ubi conditur, unde duci debeat argumentum.  Sed reliqua ad Trebatium expeditissime dicta sunt, blanditurque ei etiam breuia posse sufficere acuminis praerogatiua, praesertim cum sit iuris occupatione districtus, et tempus legendi plura non habeat. Sed quoniam, ut inquit, auidissimum studii AD HAS doctrinarum EPULAS recepit, non uult degustatum sed satiatum relinquere, ut non desit aliquid sed de pleno etiam relinquatur, factaque esta conuiuando translatio iucundissima.  Declaratis igitur locis omnibus, eorumque exemplis diligenter expositis, pauca quaedam de locorum ui atque ordine disputabo, quibus plenissima disputatione expeditis, ad ea quae restant explananda transgrediar. Sed id tertio iam uolumine faciendum est, quoniam secundus liber habet proprium modum. Antequam latiorem M. Tullii diuisionem de enumeratis superius locis aggrediar, pauca, ut sum pollicitus, de ui atque ordine locorum mihi uidentur esse tractanda, ut eorum natura diligentius cognita, facilior se argumentorum copia subministret. Primum igitur quoniam loci omnes diuisi sunt in eos qui in ipso haerent de quo quaeritur, et in eos qui extrinsecus assumerentur, uidendum est qui nam sint hi loci qui in ipso haerent de quo quaeritur, et quid ab ipsis rebus differunt in quibus haerere dicuntur, atque illud quidem planissime expeditum est, ipsos dici terminos illos qui in quaestione uersantur, horum esse alterum praedicatum, alterum uero subiectum, superior expeditio patefecit.  Ab eo igitur termino de quo agitur, quid differt locus a toto? Quandoquidem idem est ipsum esse quod totum, neque enim est aliud esse quemlibet terminum in quaestione propositum, quam totum esse terminum eumdem qui in quaestione est constitutus; de paribus quoque idem dicimus. Nam si omnes partes efficiunt id cuius partes sunt, terminumque in quaestione propositum suae partes efficiunt, non est dubium quin partes quoque omnes conuenientes idem esse quod ipsum est, in quaestione propositum rectissime intelligantur. Notatio uero, eodem modo illud ipsum est quod in quaestione proponitur. Rem enim unamquamque omne uocabulum designat in quaestione ac denotat. Fit igitur ut totum, partes ac nota, idem quod est ipsum de quo quaeritur esse uideantur. In tanta igitur similitudine rerum danda est differentia. Neque enim, ut dictum est, si locus haeret in eo ipso de quo quaeritur, atque ab ipso de quo quaeritur capi non potest, argumentum fieri potest, tu locus idem esse possit quod ipsum est de quo quaeritur.  Sed haec differentia ipsum est quod confuse ac singulariter intelligitur, ut homo, in eo inest totum suum, quod est definitio ipsius; igitur totum, ab eo quod ipsum est, intelligentia separatur, quod illud quidem singulariter intelligitur, hoc uero sub generis ac differentiarum enumeratione monstratur. Diuidit enim definitio atque dispertit, totumque patefacit quod in re ipsa singulariter intelligebatur; de partibus quoque eadem ratio est. Si enim ad membrorum multitudinem, uel specierum omnium enumerationem, singularis termini referas intellectum, statim ipsius ac partium differentias comprehendas. Nota etiam ab eo cuius nota est facile distat, quia illud uox et significatio est, illud res significationi supposita, eorum uero quae affecta sunt non sunt dubiae differentiae ab his quorum affecta esse monstrantur. Quis enim idem dicat esse coniugatum, quod est id cui coniugatum est? Quis idem dicat esse iuste, quod iustitia? Quis genus idem quod forma? quis contraria? quis similia? Quandoquidem neque contrarium, sibi ipsi contrarium esse potest, nec simile, sibi ipsi simile; nec genus, sibimetipsi genus; et de cateris eadem ratio est.  Nunc illud dicendum est, propter quod ista praemisimus; quandocumque enim ab illis tribus locis qui primi propositi sunt, argumenta sumuntur, id est a toto, a paribus, a nota, fit ut ipse quidem terminus ad cuius fidem quaeritur argumentum, intra quamlibet earum rerum contineatur, quae cum ad argumentum ductae fuerint, loci esse monstrantur. Velut cum fit argumentum a toto, ipse quidem terminus cui fides affertur, intra totum comprehenditur; totum uero ipsum quod est definitio, res est siquidem orationem, rem uocari placet. At si ex ea sumitur argumentum, fit locus itaque ipsum quidem de quo agitur, intra totum clauditur, a quo toto cum fit argumentum, fit ipsum totum, locus; quod totum, quoniam claudit terminum qui in quaestione uersatur eidem termino uidetur inhaerere. Quo fit, ut locus quoque qui a toto est, eidem inhaereat termino, de quo in quaestione dubitatur. Partium quoque enumeratio eumdem terminum claudit, quem partium collectione coniungit. Ipsaque partium enumeratio res quaedam est, ei oratio rebus annumeranda est. Sed si ab ea ducitur argumentum, fit locus. Sed quoniam partium multitudo in eodem termino est, quem conuentus partium iungit, nec esse est eum quoque locum qui est a coniunctione partium ipsi illi termino de quo quaeritur inhaerere. Nota etiam rem designat, et significatione aliquo modo comprehendit, a qua si ducitur argumentum, fit locus, et quoniam nomen omne si uidetur ad esse, cuius intelligentiam signat, locus quoque qui est a notatione, in ipso haeret de quo uersatur intentio.  At in affectis quae in tredecim partes diuisa sunt, non idem est. Nam quoniam respicientia quodammodo terminum sunt, et quasi extrinsecus constituta, non uidentur eodem modo coniuncta esse cum termino quo coniuncti sunt hi loci, qui a toto, a partium enumeratione, a nota esse praedicti sunt; sed tamen id quod affectum est, ad aliquid dicitur. Id uero aliquid iunctum est illi semper quod ad eius ducitur relationem, ac sine eo esse nunquam potest, quia cum ipso nascitur, et quodammodo altero dicto intelligitur alterum. Nam si id de quo quaeritur, eiusque affecta perpendas, ea quae perhibentur affecta, extra id de quo ambigitur, posita esse consideres, nihil enim eorum quae sunt ad aliquid, ex se ipso esse potest sed est semper ex altero: ut enim in praedicamentis ostenditur, omnia quae ad aliquid dicuntur, opposita sunt, non tamen ita disiuncta sunt ut omnino sint distributa sed quoniam relatiua praedicatione iunguntur, nec esse est aliquo modo in ipso sint ad quod uidentur affecta. Omne quippe affectum, ex eo ad quod affectum est suscipit formam, et sine eo esse non potest, et dicto altero, alterius se statim subiicit intellectus, ut cum dixero dimidium, duplum intelligitur, et cum patrem nominauero, filius ad intelligentiam uenit. Et omnia quaecumque ad aliquid sunt, ex sese pendent, nec a se inuicem deseruntur. Igitur omne affectum, et ad ipsum respicit ad quod refertur, et in ipso est. Ad ipsum quidem respicit, quoniam ad affectum suum uelut ad aliquid relatiue more praedicationis refertur; in ipso uero est, quod ea est affectorum natura ut alterum existat ab altero, seque ipsa possideant, quandoquidem et id quod uffectum uocatur, eius est termini ad quem consideratur affectum, et terminus in quaestione propositus affe. cto suo intelligitur esse connexus.  Quae cum ita sint, cum argumentum sumitur a coniugatis, quoniam id quod coniugatum est, affectum est ad id quod ei ex altera parte est coniugatum, id quidem de qua quaeritur in altrinsecus posito coniugato haeret. Is uero locus unde argumentum trahitur, ab altero ducitur coniugato, ueluti si compascuus ager est, ius est compascere. Igitur compascere atque compascuum coniugata sunt; sed quaerebatur an ius esset compascere, tractum uero est argumentum a compascuo; itaque terminus quidem de quo fuit quaestio, in altero coniugato positus deprehenditur, id est in compascendo; locus uero unde argumentum tractum est, in altero est, id est in compascuo.  Item quoties a genere ducitur argumentum, id de quo quaeritur in forma, haerere nec esse est, ut cum ostenditur legata esse numerata pecunia, quoniam fuerit argentum omne legatum. Quaeritur enim de numerata pecunia, quae est species argenti, et argumentum tractum est ab argento, id est a genere. Itaque ipsum de quo quaerebatur, in forma fuit, id est in specie. Argumentum uero tractum est ab affecto, id est a genere. Quod si a forma generis argumentum fiat, conuerso modo est, id quidem quod quaeritur in genere esse monstratur, ipsum uero unde sumptum est argumentum, in forma esse perpenditur. Nam cum quaeratur an legatum sit uxori argentum, ostenditur non esse legatum, quia non fuerit uxori tantum: legatum sed matrifamilias uxori. Uxor uero genus est matrifamilias uxoris. Quaeritur igitur de uxore, id est de genere. Argumentum factum est a matrefamilias, in est a forma.  Quoties uero a similitudine trahitur argumentum, quoniam id quod simile est, non sibi sed alteri simile esse perpenditur, res siquidem de quo quaeritur, in uno eorum quae sunt similia, posita est; at uero locus, in altero est, uelut cum quaeritur an haeres restituere uitium ruinamue cogatur aedium in usumfructam relictarum. In hoc igitur quaestio est, locus uero a simililudine, quia non oportet haeredem aedes restituere, sicut nec mancipium, si id aliqua ratione depereat. Cum igitur similis sit aedium ususfructus atque mancipii, quod quaeritur, in aedium usufructu positum est, locus uero, in usufructu mancipii.  In differentia quoque idem est: eorum namque quae differunt in altero positum est id quod quaeritur, in altero uero illud a quo id quod est ambiguum comprobatur, ut cum quaeritur an id quoque argentum quod in nominibus debeatur legatum sit. Hic igitur illud est quod dubitatur. In eo uero quod ab hoc differt, locus est a quo ostenditur minime legatum esse argentum quod in nominibus debeatur, quia multum differt in arca ne sit positum, an in nominibus scriptam.  A contrario quoque idem est, ut in eo quod quaeritur an ususfructus penus legatus sit. In usufructu igitur quaestio est sed probatur minime esse legatus, quia non potest esse usus earum rerum quae utendo pereunt sed potius abusus; in abusu igitur locus est, scilicet in altero contrariorum, cum fuerit in usu quaestio.  Ab adiunctis etiam locus in eodem modo ab eo quod quaeritur segregatus est, ut in uno adiuncto quaestio, in altero uero sit locus. Nam cum quaeratur an secundum mulieris tabulas nunquam capite diminutae possessio detur, in hoc quaestio est an detur, at in eius adiuncto, locus. Ostenditur enim minime dari debere possessionem, quia sit proximum ut secundum puerorum quoque atque seruorum tabulas bonorum possessio concedatur.  Ab antecedentibus uero ita est locus, ut quaestio sit in consequentibus. Nam cum quaeritur an aliquid dotis nomine pro liberis manere oporteat sumitur argumentum nullomodo manere oportere ex antecedentibus, quod uiri culpa factum est diuortium; locus itaque in antecedenti, quaestio uero in consequenti. Consecutum est uiri culpa factum esse diuortium, nihil apud patrem pro liberis permanere, cum uiri culpa praecesserit.  A consequentibus uero si sit argumentum, res quae dubia est in antecedentibus esse deprehenditur, uelut cum quaeritur an diuortio tacto, cum eo nupta esset mulier qui cum connubii ius non esset, dotis nomine aliquid pro liberis manere oporteat. Fit argumentum sic: Si quid ex dote pro liberis manere oporteret, quia patrem liberi sequerentur, cum eo nupta esset mulier, qui cum connubii ius esset, hic antecedens est, si quid de dote pro liberis manere oporteret, et in eo quaestio an aliquid manere oporteat. Consequens uero, cum eo mulier nupta, qui cum connubii ius esset, a quo sumitur argumentum, id est a consequenti. Nam cum manifestum sit, non cum eo nupta esse cum quo connubii ius erat, ostenditur quod miuime patrem liberi sequantur, atque idcirco nihil pro liberis manere oportere. Hic igitur res quidem quae dubitatur in antecedenti est, in eo scilicet an ex dote pro liberis manere aliquid oporteat, argumentum uero in eo loco qui est in consequentibus, id est in muliere quae nupta est cum eo cum quo nulla erant iura connubii.  A repugnantibus etiam quoties argumenta sumuntur, res quidem dubia in altero repugnanti, in aduerso uero locus est argumenti, ut cum quaeritur an possit inuita mulier reddere legatum, quod recte testamento semel accepit. Locus a repugnanti, minime posse inuitam reddere quod recte accepit. Quaestio igitur est in eo quod intelligitur inuitam reddere, argumentum uero in altero repugnanti, id est in eo quod intelligitur recte accipere. Pugnat enim inuitam reddere et recte accipere, sed quaestio in uno eorum est, locus in altero.  Quoties uero a causis efficientibus ducitur argumentum, quaestionem in effectis esse nec esse est, ut exemplo quo quaeritur an qui satis dederit damni infecti, uitium parietis praestare cogatur. In hoc igitur, id est uitio parietis, quaestio est sed de causa trahitur argumentum. Dicitur enim non oportere praestare, quoniam natura parietis causa fuerit uitii, non is qui de praestando uitio satis dedisset. Effectum ergo causae, uitium parietis fuit. Itaque quaestio quidem in effecto, locus uero esse consideratur ex causa. At si ab effectis aliquid approbetur, locus in effecto, quaestio in causa est constituta, ueluti cum quaeritur an mulier quaedam cuius bona uiri facta sint, dotis nomine in uiri manum conuenerit. Quoniam ergo in manum ex conuentione perficitur, ut bona mulieris post eius mortem uir adipiscatur, argumentum ducitur ab effectis. Efficitur enim per in manum conuentionem, ut quaecumque sunt mulieris, uiri fiant dotis nomine; ergo cum ea quae mulieris fuere, uir nomine dotis adipiscatur, mulierem in manum uiri nec esse est conuenire. Quaestio itaque est de muliere, an in manum uiri conuenerit. Argumentum uero ab effectu causae, id est in manum conuentionis. Hoc uero est quod ea quae fuere mulieris, uir nomine dotis acquirit, quo fit ut quod quaeritur, in causa, locus uero sit in effectis.  A comparatione uero maiorum si fuerit argumentum, quaestio erit in minoribus, ut si quaeratur an in urbe aqua debeat arceri, defendaturque minime debere, neque enim fines reguntur; ita in aqua arcenda, quod minus est, quaestio est, locus uero in finibus regendis, quod maius est. Contrariae uero, si a minore argumentum ducatur, erit id quod dubilatur in re maiori, ut si dubitetur an fines in ciuitate regantur, respondeamus minime, quoniam ne aqua quidem arcetur. Ita id quod dubitatur, in re maiore consistit, illud uero unde argumentum sumitur, in minori. Et in comparatione parium similis ratio est: in uno enim eorum quae sunt paria, quaestio consistit, in altero locus intelligitur argumenti, ueluti cum quaeritur an aedium usus biennio capiatur, id approbamus, quoniam fundorunm quoque. Cum ergo paria sint fundus atque aedes, quaestio quidem de aedibus est, argumentum uero ducitura fundo.  Ac de ui quidem locorum, quoque a se non quaestiones et loci argumentorum separentur, haec dicta sint. Nunc eorum ordinem breuissime commemorabo. Ex hoc itaque oritur omne iudicium, qui locus prior, qui sit posterior, existimandus, si eos terminos consideremus qui proposita quaestione uersantur. Quaecumque enim his terminis propinquiora sunt, haec rectissime priora numerantur. Posteriora uero quantum a propositis longissime quaeque rec esserint. Id autem tali ratione clarescet.  Primum namque, locorum est diuisa pluralitas in eos qui in ipso sunt de quo agitur, et in eos qui assumuntur extrinsecus, in quo praepositos esse intelligimus eos locos qui in ipso sunt, his locis qui trahuntur extrinsecus. Hic uero locus qui in ipso est, in primas quatuor distribuitur partes, quarum prima est definitio, qui locus a toto est nuncupatus. Idcirco autem primus a toto locus ponitur, quoniam nihil est alicui tam proximum, quam propria definitio. Consequitur enumeratio partium, quia post definitionem proximum locum partes tenere debent, quae totum id cuius partes dicuntur esse, coniungunt. His apponitur nota, quae quasi conuerso modo definitio est. Nam sicut definition explicat quod implicite nota designat, ita nota inuoluit et confuse indicat quod patefacit atque expedit definitio. Nota uero tertia ideo est, quia definitio substantiam tenet; partium enumeratio ea dinumerat quae totum compositum iungunt, nota uero nihil efficit sed tantum designat.  Post haec quae in ipsis terminis principaliter haerent, illa quae sunt affecta numerantur, quae iam non ipsis insunt terminis sed eosdem uelut exterius posita consequuntur, atque idcirco solum in ipsis esse dicuntur, quoniam sine his esse non possunt.  Quorum prima sunt coniugata. Nihil enim inter affecta sic proximum est, quam id quod et re et nomine participat, nisi quod parua nominis inflexione seiungitur. Nam id quod iustum est, et iustitia participat, et inflexo iustitiae nomine nuncupatur, et in caeteris quidem coniugatis idem est.  Post haec annumeratum est genus. Genus uero est quod cuiuslibet uniuersaliter substantiam monstrat, et quod multorum specie diuersorum, substantialis est similitudo. Quod a propositis terminis longius quam coniugata seiungitur, quia tametsi substantiam monstrat, tamen ne inflexo quidem uocabulo cum termini nomine copulatur sed longe lateque diuerso. Huic adiuncta est species (quam formam Tullius appellauit), quia nihil est tam proximum generi quam species. Species uero est substantialis indiuiduorum similitudo, et quod sub genere ponitur.  Post hanc, similitudo est constituta. Etenim post illud idem quod in substantiis intelligitur illud idem recte ponitur quod in qualitate esse perpenditur. Paulatim uero res incipit a similitudine recedere, nec statim ad contrarium uenit sed prius a differentia locum statuit. Nam remota similitudine nihil aliud occurrit prius, nisi differentia.  Post hanc, a contrario locum ducit, id est a maxima differentia.  Rursus ad amica sibi affecta conuertitur. Sed non eo modo amica quo sunt similia, adiuncta enim proponit, quae non sunt integrae similitudinis sed inter se iudicii, et ueluti cuius iam rerum sibi cohaerentium propinquitatis. Post adiuncta uero antecedentia Tullius posuit. Post id enim quod aliquo modo iunctum est, aliquid nec esse est aut antecedens aut consequens intelligatur. Prius itaque antecedens, post consequens collocatum est.  Post haec repugantia dixit, ut quodammodo duplex ordo contrarietatum ac similitudinum nasceretur. Prius enim proposuit a simili, a differentia, a contrario, atque hic uniuersus ordo est similium et contrariorum. Rursus ab adiunctis, ab antecedentibus, a consequentibus, a repugnantibus. Hic rursus secundus ordo similium et contrariorum esse deprehenditur. Sed primus ualde euidentior quam secundus; plus est enim simile esse quam adiunctum, plus est differre quam antecedere uel consequi, plus etiam est contrarium quam repugnans. Et in suo quaeque ordine plenam retinent formam, uelut quia similitudo propinquitatem quamdam tenere debet: propinquius est enim id quod est simile ei cui simile esse consideratur, quam id quod ad.  iunctum est ei cui naturali uicinitate coniungitur. Rursus quoniam differentia similitudinis auctor est, dissimilius est id quod ab aliquo differt, quam id quod consequitur uel antecedit. Rursus quoniam contrarium longissime ab eo qui contrarium est oportet abscedere, longius abscedit contrarium quam repugnans.  Post haec quid aliud restare poterat quam effectorum causas quaerere? aut post effectorum causas quid aliud quam ipsarum causarum perquirere effectus? Praeterea a comparatione loci, postremum ordinem tenent, quia siue similitudinem, siue dissimilitudinem in sola obtinent quantitate. Ac de locorum ordine satis dictum est.  Illud praeterea considerandum puto, num hi quoque argumentorum loci qui in ipso haerent de quo quaeritur, inter affecta iure numerentur. Quandoquidem quae affecta sunt, idcirco esse dicuntur affecta, quia sunt ad aliquid, et propositi termini relatione nectuntur. Nam et definitio alicuius est definitio, et totum partium totum est, et nota significati nota est. Sed inspicienda natura est singulorum, et uidendum num similiter haec ad aliquid referantur ut caetera. Nam definitio rem quam definit quodammodo explicat atque conformat. Item partes rem cuius partes sunt propria coniunctione perticiunt. Nota uero, eius intellectum conmmuniter tenet, et cum haec caetera quae uocantur affecta non faciant, iure haec non inter affecta ponuntur sed in eo ipso quod ueluti conficiunt atque conformant, inesse dicuntur. Sed quoniam de ui atque ordine locorum sufficienter dictum est, nunc ad sequentia transeamus.  Praeter omnia enim quae superius dicta sunt, [1090B] illud animaduertendum maxime est, quia non si quid in argumentis fuerit sumptum, illud eurum argumentorum locus dicendus est, nisi non solum insit argumentis, uerum etiam ab eo argumenta nascantur. Id quod dico, planiore liquebit exemplo. Si quod enim fuerit argumentum in quo sumatur genus uel species, non statim illud argumentum ex genere uel specie tractum esse dicitur, nisi ei argumento uires generis uel speciei qualitas subministret. Age enim, sit quaestio an idem sit animali esse quod uiuere, et fiat argumentatio sic: non idem est animali esse quod uiuere, quia ne inanimato quidem idem est esse quod mori, piurima quippe sunt inanimata, neque moriuntur. Nam quae nunquam uixere, ne mori quidem posse manifestum est. Hoc igitur inanimatum genus est lapidum, ac fusilium metallorum, et sumptum est in argumentum sed non ex genere factum est argumentum, licet in eodem genus uideatur inclusum sed potius a contrario. Nam contrarium est uitae quidem mors, animalium inanimatum; sed mori non sequitur inanimatum, igitur ne animal quidem uiuere. Non ergo ex genere locus iste ducendus est sed potius ex contrario, quamuis genus huiusmodi contineat argumcntum; tunc enim locus esset a genere, si ab animalis uel a uiuendi genere argumenti ratio traheretur, uelut si ita fieret argumentum: animali esse, substantiae est esse; ipsum uero uiuere substantia non est sed in substantiam uenit. Non est igitur idem uiuere quod animali esse. A substantia igitur tractum est argumentum, a genere uidelicet animalis. Hoc igitur argumentum, et genus continet, et ex genere ductum est; in priore uero, etsi genus continet, a contrario tamen ductum esse perpenditur. Illud enim semper speculandum est, non quid in argumento sit sed ex quo ducitur argumentum.  Et in caeteris quidem eadem ratio tenenda est, neque est enim in singulis immorandum. Siquis enim diligentiam decursae superius expositionis exercuit, facile in reliquis colliget, quod uno declaratur exemplo: QUANDO ERGO UNUSQUISQUE EORUM LOCORUM QUOS EXPOSUI SUA QUAEDAM HABET MEMBRA, EA QUAM SUBTILISSIME PERSEQUAMUR, ET PRIMUM DE IPSA DEFINITIONE DICATUR. DEFINITIO EST ORATIO, QUAE ID QUOD DEFINITUR EXPLICAT QUID SIT. Propositis igitur breuiter argumentorum locis eosdem subtilius atque enodatius statuit per suas partes et conuenientia membra partiri.  Ita enim locorum omnium diligentius natura considerabitur, si non confuse solum, uerum etiam distributim, et in suarum partium proprietate noscantur. Dat uero hoc multam inueniendorum copiam argumentorum: ut enim de definitione dicamus, si cunctas aliquis definitionum partes agnouerit, ex omnibus sibi poterit argumenta conquirere, eritque in inueniendis copiosior argumentis eo qui quot sint definitionis species ignorat. Ex tot enim definitionum partibus argumenta producet, quantas quis definitionum partes esse cognouerit. Is uero habebit plurimam talium locorum facultatem, quem definitionum diuersitas non latebit. Ob hoc igitur M. Tullius, quos confuse atque indigeste posuit locos, nunc eosdem diligentiore ratione partitur.  Ac primum illud propensiore consideratione tractandum est, quod, ut dictum est, etiam loci ipsi res quaedam sunt sed tunc esse intelliguntur loci, cum ab his trahitur argumentum. Ergo nunc Cicero non principaliter locos sed res ipsas diuidit, quae ad argumentum ductae, speciem sumunt locorum. Definitio namque, et pars, et nota, res quaedam sunt sed cum ab his argumentum ducitur, loci fiunt. Cum igitur M. Tullius res ipsas ita ut sunt naturaliter partiatur, simul cum rebus diuidit locos. Si enim res una est a qua duci poterit argumentum, unus est etiam locus; at si illa diuiditur, quot partes eius rei fuerint, tot erunt etiam loci generis eiusdem de quo argumenta nascuntur.  Quae cum ita sint, cumque prius omnium locus a toto sit, id est a definitione; prius quid sit definitio definitione declarat, ut patefacta rei natura, species eius uel membra conuenienti ordine partiatur. Detinitio, inquit, est oratio quae id quod definitur explicat quid sit, sicut definitio est hominis, animal rationale mortale. Dictum uero cautissime explicat. Nam quod nomen confuse denuntiat, id definitio per quaedam substantialia membra diffundit. Quod enim confuse nomine hominis declaratur, id aperit atque explicat definitio, dicens hominem esse animal rationale et mortale. Nam nisi ita dixisset, potuerat esse oommunis definitio generi quoque, uelut hoc modo: definitio est quae designat quid est id quod definit. Sed genus quoque designat quid est id de quo praedicatur sed non explicat quid sit. Sola enim definitio explicat quid sit quod oratione perficitur; genus uero et caetera quae singulis plerumque nominibus proferuntur, minime.  Explicat autem definitio id quod definitur, non quoquo modo, id est non in eo quod quale uel quantum est, non in quolibet aliorum praedicamenlorum sed quid sit, id est eius quod definit, substantiam monstrat. Ea uero definitio substantiam digerit, qua ex genere differentiisque consistit; haec namque uniuscuiuslibet substantiam significant, sicut in his dictum est, ubi de genere, specie, differentia, proprio, accidentique tractatum est. Ergo omnis definitio explicat quid sit id quod definitur. Aristoteles uero eodem pene modo definitionem determinat, dicens: Definitio est oratio quidem esse significans.  Hanc M. Tullius partitur hoc modo: DEFINITIONUM AUTEM DUO GENERA PRIMA: UNUM EARUM RERUM QUAE SUNT, ALTERUM EARUM QUAE INTELLEGUNTUR. ESSE EA DICO QUAE CERNI TANGIQUE POSSUNT, UT FUNDUM AEDES, PARIETEM STILLICIDIUM, MANCIPIUM PECUDEM, SUPELLECTILEM PENUS ET CAETERA; QUO EX GENERE QUAEDAM INTERDUM VOBIS DEFINIENDA SUNT. NON ESSE RURSUS EA DICO QUAE TANGI DEMONSTRATIVE NON POSSUNT, CERNI TAMEN ANIMO ATQUE INTELLEGI POSSUNT, UT SI USUS CAPIONEM, SI TUTELAM, SI GENTEM, SI AGNATIONEM DEFINIAS, QUARUM RERUM NULLUM SUBEST [QUASI] CORPUS, EST TAMEN QUAEDAM CONFORMATIO INSIGNITA ET IMPRESSA INTELLEGENTIA, QUAM NOTIONEM VOCO.  EA SAEPE IN ARGUMENTANDO DEFINITIONE EXPLICANDA EST. Omnem definitionem manifestum est ad aliquid dici, ulicuius est enim semper definitio. Quae uero ad aliquid dicuntur, quamdam proprietatem ex his sumant nec esse est, ad quae referuntur. Quo fit ut ex his rebus quas determinat definitio, in ipsas definitiones quaedam proprietas transferatur; sed quia quod ad aliquid refertur, id non potest esse idem ei ad quod dicitur, propriam quoque ipsum quod refertur ad aliud formam nec esse est possidere. Eoque fit, ut in definitionibus, et sua insit forma, et ea quam ab his accipiunt, quae definiunt consideretur. Quod M. Tullius uidens, primum diuidit definitiones secundum ea quae definiuntur.  Quarum genera duo esse proponit, unum earum rerum quae sunt, alterum earum quae intelliguntur. Has igitur definitionum differentias ex his uidetur sumpsisse quae in definitione monstrantur. Omnia enim qua definiuntur aut corporalia sunt, aut incorporalia. Res enim omnes in haec primitus diuiduntur. Ea uero quae corporalia sunt, esse dicit; ea quae sunt incorporalia, non esse, non quod omnino ea quae incorporalia sunt non sint, alioqui nec definitionem susciperent. Nam si definitio est qua explicatur id quod definitur quid sit, eius rei, qua omnino non est, nec quid sit, explicatio ulla esse potest. Sed quia humanum genus sensibus degit, id maxime esse arbitratur, quod sensuum conprehensioni subiicitur. Quis enim sibi non magis lapidem scire uideatur, aut hominem quam iustitiam, uel haereditatem, uel quidquid aliud non sensibus [sed intelligentia comprehendit? Unde fit ut propter euidentiam cognitionis ea magis esse uideantur quae subiecta sunt sensibus, ea minime quae intelligentiae ratione capiuntur.  Sed id sciendum est, M. Tullium ad hominum protulisse opinionem, non ad ueritatem. Nam ut inter optime philosophantes constitit, illa maxime sunt quae longe a sensibus segregata sunt, illa minus, quae opiniones sensibus subministrant. Unde etiam idem Cicero in Timeo Platonis ait: Quid est quod semper sit, nec ullum habeat ortum, et quod gignatur, nec unquam sit? Quorum alterum, intelligentiae ratione comprehenditur, alterum affert opinionem sensui rationis expers. Hic igitur id quod semper sit, rationi adiecit, id uero quod nunquam sit, sensibus coniunxit.  Sed, ut dictum est, corporea esse, et incorporea non esse, non ad ueritatem sed a communem quorumlibet hominum opinionem locutio est. Ponit igitur exempla earum quidem rerum quae sunt, formas quasdam corporalium rerum, ut fundum, aedes, parietes, stillicidium, atque id genus, quae corporalia esse hac ratione ostendit, quoniam cerni tangique possunt; earum uero rerum qua non sunt, exempla posuit, usucapionem, tutelam, gentem, caeteraque quae sunt incorporea; quae ex hoc incorporea esse monstrauit, quod ait, EA TANGI DEMONSTRATIVE non posse sed intelligentia atque ANIMO comprehendi. Cur uero ea non esse dixerit, supposuit rationem dicens, nullum quasi corpus earum rerum esse, nec molem aliquam quae feriat sensum. Quod enim corpus esse potest usucapionis? Nam ipsa quae usucapiuntur, corporea sunt, ipsa uero usucapio corporea non est.  Ipsa enim per utendi consuetudinem possidendi firmitudo, quodnam corpus habere potest? Item, quod quis tutela regit, corporale est, homo namque est. Ipsa uero cura tutela, atque ipsum ius alium tuendi, nihil omnino corporis habere potest. Homines quoque qui in eadem gentilitate sunt, corporei sunt. Ipsa uero gentilitas, id est communis nominis liberorum societas, ut Scipionum, Valeriorum et Brutorum, certe incorporea est; sed quaedam eorum rerum incorporalis animi conceptio est, atque intelligentia, quam notionem uocauit. Ipsa enim imaginatio usucapionis uel tutelae atque intellectus incorporalis rei notio dicitur, quam Graeci *ennoia* uocant.  Diuisit igitur definitionem in has duas partes, scilicet secundum subiecti diilerentias, ut alias quidem esse diceret definitiones earum rerum quae sunt, id est corporalium, alias ueroearum quae non sunt, id est incorporalium.  Hinc quaeri potest, quod etiam superius breuiter commemoraui, quonam modo definito non inter affecta numeretur, cuni ornnis definitio ad aliquid esse uideatur? Idcirco enim affecta esse dicta sunt similitudo, contrarium, et caetera, quoniam semper ad aliquid referuntur. Quod si etiam definitio refertur ad aliquid, nec est absolutae ac propriae considerationis, ea quoque inter affecta ponenda est.  Sed occurritur, quoniam ea quae affecta sunt tanquam umbrae quaedam corpus, ita extra posita non possunt id relinquere ad quod probantur affecta, et aut omnino substantiam eorum ad quae affecta sunt, non significant ut contrarium, simile et caetera. Aut si quando designant, una quaedam pars intelligitur esse substantiae, uelut genus, species, differentia. Non enim genus tota substantia est speciei, quando, quidem non solum genus speciem format sed differentiae quoque; nec differentiae totam substantiae continent formam, quandoquidem non sola differentia speciem perficit sed etiam genus. Ipsa uero species quaedam generis pars est, at uero definitio, etsi ad aliquid est, tamen totam substantiam monstrat, atque exsequatur ei rei quam definit, et substantiam perficit, ut neque extraposita sit, sicut similitudo et contraria, neque pars eius substantiae sit quam definitione determinat sed potius ipsa substantia. Ac de hac quidem re satis dictum est.  Idem uero de partibus dici potest. Nam coniunctae partes totum id efficiunt cuius partes sunt. Nota quoque tutum significat id quod designat, utque omnia coaequantur, et definitum definitioni, et partes toti, et nota rei quam significatione declarat si non sit aequiuoca, uel si res quae designatur non sit multiuoca.  Sane illud dubitari recte potest, cur cum dixisset duo genera esse definitionum, non ipsas definitiones partitus est sed quae definiuntur, id est corporale atque incorporale. Quod idcirco dictum uidetur, quia definitio cum sit ad aliquid, ut dictum est, quamdam capit ex his, quorum; substantiam determinat, qualitatem. ATQUE ETIAM DEFINITIONES ALIAE SUNT PARTITIONUM ALIAE DIUISIONUM; PARTITIONUM, CUM RES EA QUAE PROPOSITA EST QUASI IN MEMBRA DISCERPITUR, UT SI QUIS IUS CIVILE DICAT ID ESSE QUOD IN LEGIBUS, SENATUS CONSULTIS, REBUS IUDICATIS, IURIS PERITORUM AUCTORITATE, EDICTIS MAGISTRATUUM, MORE, AEQUITATE CONSISTAT. DIVISIONUM AUTEM DEFINITIO FORMAS OMNIS COMPLECTITUR QUAE SUB EO GENERE SUNT QUOD DEFINITUR HOC MODO: AB ALIENATIO EST EIUS REI QUAE MANCIPI EST AUT TRADITIO ALTERI NEXU AUT IN IURE CESSIO INTER QUOS EA IURE CIVILI FIERI POSSUNT.  Quoniam definitio ita exsubiecta re quam definit, proprietatem capit, ut tamen formam propriam non relinquat, idcirco post eas differentias definitionum, quae ab his rebus tractae sunt quae definiebantur, nunc a propria forma definitionum differentias tradit. Propria uero forma uniuscuiusque compositi in suis partibus constat itaque ex partibus definitionum tales differentias docet, quod aliae definitiones per diuisionem, aliae per partitionem fiunt. Definitur enim res quamlibet dum aut eius species omnes enumerantur aut partes. Partes uero a specie quo differant, paulo posterius dicam.  Hinc exponenda arbitror Ciceronis exempla; dat enim partitionis exemplum hoc: Sit enim propositum definire quid sit ius ciuile, dicemus ita: ius ciuile est quod in legibus, senatus consultis, rebus iudicatis, iuris peritorum auctoritate, edictis magistratuum, more, aequitate consistit. Lex igitur est quam populus centuriatis comitiis ciuerit. Senatus consulta sunt quae fuerint senatus auctoritate decreta. Res iudicatae sunt quae inter eos qui super aliqua re ambigunt, sententia iudicum fuerint constitutae, quarum exemplo caeterae quoque iudicantur. Iurisperitorum auctoritas est eorum qui ex duodecim tabulis, uel ex edictis magistratuum, ius ciuile interpretati sunt, probatae ciuium iudiciis, creditaeque sententiae. Edicta nmagistratuum sunt quae praetores urbani uel peregrini, uel aediles curules iura dixere. Mos est quod in ciuitatem solium est fieri. Aequitas est quod naturalis ratio persuasit. Haec igitur omnia unam formam iuris efficiunt, tanquam partes, uelut hominem, caput, brachia, thorax, uenter, crura atque pedes. Partitio est enim ut ipse ait, quae unamquamque rem propositam, quasi in membra discerpit.  Alteram uero partem definitionis, quae per diuisionem sit specierum, tali monstrat exemplo. Definit enim quid sit abalienatio eius rei quae mancipi est, dicens: ABALIENATIO EST EIUS REI QUAE MANCIPI EST, AUT TRADITIO ALTERA NEXU, AUT CESSIO IN IURE, INTER QUOS EA IURE CIVILI FIERI POSSUNT. Nam iure ciuili fieri aliquid non inter alios, nisi inter ciues Romanos fieri potest, quorum est etiam ius ciuile, quod duodecim tabulis continetur. Omnes uero res quae abalienari possunt, id est quae a nostro ad alterius transire dominium possunt, aut mancipi sunt, aut non mancipi. Mancipi res ueteres appellabant, quae ita abalienabantur, ut ea ab alienatio per quamdam nexus fieret solemnitatem. Nexus uero est quadam iuris solemnitas, quae fiebat eo modo quo in Institutionibus Caius exponit. Eiusdem autem Caii libro primo institutionem de nexu faciendo, haec uerba sunt: Est autem mancipatio, ut supra quoque indicauimus, imaginaria quaedam uenditio, quod ipsum ius proprium Romanorum est ciuium, eaque res ita agitur, adhibitis non minus quam quinque testibus Romanis ciuibus puberibus, et praeterea alio eiusdem conditionis qui libram aeneam teneat, qui appellatur  libripens. Is qui mancipium accipit, aes tenens, ita dicit: Hunc ergo hominem ex iure Quiritium meum esse aio, isque mihi emptus est hoc aere aeneaque libra. Deinde aere percutit libram, indeque aes dat ei a quo mancipium accipit, quasi pretii loco.  Quaecumque igitur res, lege duodecim tabularum, aliter nisi per hanc solemnitatem abalienari non poterat. Sui iuris autem caeterae res nec mancipi uocabantur, eaedem uero etiam in iure cedebantur. Cessio uero tali fiebat modo ut secundo commentario idem Caius exposuit. In iure autem cessio fit hoc modo: apud magistratum populi Romani, uel apud praetorem, uel apud praesidem prouinciae, is cui  res in iure ceditur rem tenens ita uindicat: Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio. Deinde postquam hic uindicauerit, praetor interrogat eum qui cedit an contrauindicet; quo negante, aut tacente, tunc ei qui uindicauerit, eam rem addicit, idque legis actio uocabatur.  Res igitur quae mancipi sunt, aut nexu, ut dictum est, abalienabantur, aut in iure cessione.  Has autem solemnitates quasdam esse iuris, ex superioribus Caii uerbis ostenditur. At si res ea quae mancipi est nulla solemnitate interposita tradatur, abalienari non poterit, nisi ab eo cui traditur, usucapiatur. Quae cum ita sint, recte definita est secundum diuisionem abalienatio rei mancipi, scilicet quae aut nexus traditione, aut in iure cessione perficitur. Nam pura traditione, abalienatio rei mancipi non explicatur. Species uero has esse, non partes, hinc intelligitur, quia si quis nexu abalienet rem mancipi, id quod suum fuit, in alterius potestatem pleno iure transtulit. Quid si etiam in iure cedat, plenum abalienationis ius erat. Ubi autem plenum nomen eius, quod diuidunt, partes suscipiunt, illud genus, et has species esse paululum quoquo dialectica cognitione imbutus intelligit.  Quae cum ita sint, diuisit Cicero definitionem in duas partes, unam quae partium enumeratione fieret, alteram quae per partium diuisionem, utraque uero definitio partes enumerat. Sed hoc interest, quia haec quidem species, illa uero membra partitur. Hic suboritur quaestio ualde difficilis. Nam si definitio est etiam partitio, mirum uideri potest quemadmodum alter sit a definitione locus, alter a partium enumeratione. Quae res maximam confusionem praestat. Nam cum superius in locorum enumeratione alter a definitione locus, alter sit a partium enumeratione propositus, cumque nunc enumerationem partium, uel diuisionem, definitionis species esse confirmet, non est dubium quin cum idem sit partium enumeratio quod definitio (idem namque est species quod genus), idem sit locus a  definitione, qui est a partium enumeratione.  Cuius quaestionis ualde difficilis, facilior absolutio est, si definitionum ipsarum formas ac distantias colligamus. Multis namque modis fieri definitio potest. Inter quos unus est uerus atque integer definitionis modus qui etiam substantialis dicitur; reliqui per abusionem definitiones uocantur. De quibus omnibus paulo posterius integram faciam diuisionem. Nunc in commune sic disseram: nam quia omnis definitio explicat quid sit id quod definitur. Explicatio autem fit duobus modis: uno quidem cum pro re minime cognita planius aliquid affertur; alio uero cum fit quaedam partium enumeratio. Ac de priore quidem modo, posterius. Nunc uero de enumeratione partium ita dicendum est, quod omnis definitio, quae per partium enumerationem fit, quasi quaedam partitio recte intelligitur. Dictum est, id quod in nomine confuse significaretur, in definitione quae fit enumeratione paritum, aperiri atque explicari. Quod fieri non potest nisi per quarumdam partium nuncupationem; nihil enim dum explicatur oratione, totum simul dici potest. Quae cum ita sint, cumque omnis huiusmodi definitio quaedam sit partium distributio, quatuor his modis fieri potest. Aut enim substantiales partes explicantur, aut proprietatis partes dicuntur, aut quasi totius membra enumerantur, aut tanquam species diuiduntur.  Substantiales partes explicantur, cum ex genere ac differentiis definitio constituitur. Genus enim quod singulariter praedicatur, speciei totum est. Id genus sumptum in definitione, pars quaedam fit. Non enim solum speciem complet, nisi adiiciantur etiam differentiae, in quibus eadem ratio quae in genere est. Nam cum ipsae singulariter dictae totam speciem claudant, in definitione sumptae, partes speciei sunt, quia non solum speciem quidem esse designant sed etiam genus. Huius exemplum est: Homo est animal rationale mortale.  Cum ergo tota definitio homini coaequetur, totiusque definitionis partes sint, tum anima, tum rationale, tum mortale, ipsius hominis partes esse uidentur singula, quae eiusdem definitionis partes sunt. Haec igitur proprio nomine definitio nuncupatur.  Item est illa definitio, quando in unum accidentia colliguntur, atque unum aliquid ex his efficitur, et est ueluti quaedam partium enumeratio, non in substantia sed in quadam accidentium collectione posita; huius exemplum: Animal est quod moueri propria uoluntate possit.  Animali namque et motus est accidens, et uoluntas, et possibilitas sed haec iuncta perficiunt animal, non substantialiter constituentia sed per quaedam accidentia designantia quod animalis quasi quaedam partes sunt, et haec descriptio nuncupatur.  At si non accidentia rei sed quasi membra quaedam dicamus, ex quibus componitur atque coniungitur, atque inde definitionem facere tentemus, hoc modo dicimus:  Domus est quae fundamento parietibus tectoque consistit  hic membra quaedam sumpta sunt ad definitionem, quibus res tota coniungitur, et haec uocatur per enumerationem partium definitio.  At si quis ita definiat ut non in definitione ponat membra sed species, a diuisione specierum definitio nuncupatur: uelut si quis hoc modo pronuntiet: Animal est substantia quae uel sensu tantum uel sensu et ratione nitatur.  Haec igitur quatuor a se differre manifestum est. In ea namque definitione quae per substantiales partes efficitur, singulae partes maiores esse uidentur, et substantialiter uniuersaliores ab ea requam definiunt, ut animal maius est ab homine. Mortale etiam atque rationale, singula hominis transgrediuntur naturam, quae in unum conuenientia, eidem quo sigillalatim maiora sunt coaequantur. Accidentia uero quae in definitione ponuntur, omnino a substantia ratione disiuncta sunt. In ea uero definitione quae ex partium enumeratione perficitur, talia sunt quae enumerantur, ut singula totius deflniti nomen capere non possint, atque idcirco eodem minora sunt, ut fundamenta non possint domus uocabulo nuncupari: fundamenta enim domo minora sunt, itemque caeterae partes. At uero in ea definitione quae per diuisionem fit, singulae quidem partes tota ea re quae definitur minores sunt, totum tamen definitae rei nomen suscipiunt. Ut rationale nomen capit animalis, eodem modo irrationale.  Quibus ita discretis, quotiescumque ab ea definitione quae per substantiales partes efficitur, uel ab ea quae per accidentium enumerationem colligitur, argumentatio fit, a definitione, id est a toto tractum dicitur argumentum. Quoties uero ab ea definitione quae uel per membrorum enumerationem, uel per specierum diuisionem perficitur, argumentatio fit, ab enumeratione partium argumentum ductum esse perhibetur. Sed Tullius quia iam partitionem definitionis ingressus est, etiam hanc interposuit, quae non ad definitionem sed ad enumerationis partium locum pertinebat. Huius uero rei argumentum est, quia cum post, de eisdem locis latius tractans, de enumeratione partium loqueretur, nullam aliam enumerationem partium posuit, nisi eam quam nunc definitionis speciem dixit.  Nec tamen est arbitrandum omnem partitionem definitionis locum posse obtinere, ut si quis sic dicat, fundamenta, parietes et tectum domus est, id non est nec esse. Potest namque esse porticus publicis usibus destinata, potest item aliud quodlibet, ut theatrum quod propter ampliores sonitus exhibendos tegi solet. Sed id nunc intelligere nos oportet, posse per partitionem aliquid saepe definiri, cum partium illa collectio unam rem tantum possit efficere, ut si nihil esset aliud quod fundamenta, parietes atque tectum posset habere, nisi domus, iure definitio facta esse uideretur, domum esse quam fun damenta, parietes tectumque perficiunt. SUNT ETIAM ALIA GENERA DEFINITIONUM, SED AD HUIUS LIBRI INSTITUTUM ILLA NIHIL PERTINENT; TANTUM EST DICENDUM QUI SIT DEFINITIONIS MODUS.  Hunc locum Victorinus unius uoluminis serie aggressus exponere et omnes definitionum differentias enumerare, multas interserit, quae definitiones esse pene ab omnibus reclamantur. Inter definitiones enim penitet nomina, quod specialiter Aristoteli in omni doctrinarum genere peritissimo non uidetur; pernegatque in Topicis nomine fieri definitionem, ueluti si quis dicat: Quid est conticescere?  et respondeatur: Tacere!  hae nullo modo definitiones habendae sunt. Quod etiam ex ipsius M. Tullii definitione approbari potest, per quam definitio quid esset ostendit; dixit enim esse definitionem orationem quae id quod definitur explicat quid sit. Sed cum nomen non sit oratio, manifestum est nomine definitionem non posse constitui, cum praesertim ne omnia quidem qua oratione promuntur atque aliquid ostendunt, proprio definitionis nomine designentur, ueluti descriptiones, omnisque alia oratio quae non ex substantialibus partibus sed ex quolibet alio modo coniunctis efficitur.  Quod ne ipse quidem Victorinus ignorat. Sed uidetur id definitionis loco ipse sibi Victorinus ad disserendi sumpsisse propositum, quod quoquo modo rem subiectam posset ostendere. Idcirco enim nomen quoque in definitionum numerum recepit, quoniam saepe notiore uocabulo fit clarius quod ignotiore antea prolatum latebat. Idcirco etiam nos superius diximus explicationem fieri duobus modis: uno quidem cum pro re minime cognita planius aliquid afferatur; alio uero cum fit per quamdam partium enumerationem: ut ea quidem explicatio in qua notius aliquid affertur, nominis sit; ea uero quae fit per partium enumerationem orationis, quanquam etiam in ipsis orationibus semper planius aliquid atleratur quo notius fiat illud de quo disseritur.  Ut igitur nihil expositio nostra praetermittat, et definitionis proprietas appareat, itaque omnia in notitiam deducantur, ut nec uera definitio nesciatur, et quae non sit proprie uere quo definitio sub scientiam cadat, talis definitionum differentia facienda est. Definitionum enim aliae proprie definitiones sunt, aliae abusiuo nuncupantur modo. Ac propriae quidem definitiones sunt quae ex genere differentiisque consistunt, uelut haec: Homo est animal rationale mortale  hic enim animal genus est; rationale uero et mortale differentiae. Earum uero definitionum quae non proprie sed abutendo definitiones uocantur, aliae sunt quae singulis nominibus denotantur, aliae uero quas explicat ac depromit oratio.  Atque illarum quidem definitionum quae tantum nomine designantur, aliae sunt quae *kata lexin*, id est ad uerbum fiunt, cum pro nomine redditur nomen, uelut si dicat aliquis: Quid est conticere?  et respondeatur: Tacere!  uel: Quid est haurit? Percutit!  Aliae uero, quae exempli gratia ponuntur, ut cum uolumus designare quid est substantia, exempli gratia dicimus: Ut homo  haec uocatur Graece *typos* quae idcirco, ut dictum est, inter definitiones ponitur, quoniam id quolibet modo aliquid designat eius quod designatur, et si non proprie, tamen aliquo modo uidetur esse definitio.  Earum uero definitionum quae in oratione consistunt, neque tamen sunt propriae, multae sunt diuersitates. Quarum est omnium nomen communis descriptio. Harum aliae fiunt partitione, aliae diuisione, de quibus superius, ut dictum est. Aliae uero substantiales quidem differentias sumunt sed genus non adiiciunt, atque haec quidem a Victorino *ennoematike* dicitur, quasi quamdam communem continens notionem, ueluti si quis dicat:  Homo est quod rationali conceptione uiget mortalitatique subiectum est.  Hic igitur genus positum non est sed differentiae substantiales.  Aliae uero sunt quae pluribus quidem qualitatibus designantur accidentibus tamen ita ut singulae qualitates, etiamsi non coniungantur, possint tamen quod demonstratur efficere, ut: Homo est ubi pietas est, ubi aequitas, et rursus ubi malitia et  uersutia esse possunt  nam et si caetera nullus adiungat,  sufficit ad ostendendum hominem dicere: ubi pietas inesse potest, uel ubi iustitia, uel caetera  haec uocatur *poiotes*. Aliae uero sunt quae pluribus in unum accidentibus coniunctis efficiuntur, ut siquis luxuriosum definire uelit, dicens: Luxuriosus est qui pluribus et non necessariis sumptibus in delicias affluit, et in libidinem fertur effusior  omnia enim coniuncta luxuriosum uidentur efficere, singula uero minime: haec uocatur *hypographike*. Aliae quoque fiunt eo modo, ut ad signandam, differentiam proponantur in his rebus quae in discreto fine coniunctae sunt, ut si dubitet quis, Nero imperatorne an tyrannus fuerit, dicit eum tyrannum fuisse, quoniam crudelis fueritatque intemperans. Haec enim adiuncta differentia tyrannum ab imperatore seiungit. Aut etiam si de eodem tyranno atque rege dubitetur quid uterque sit, iuncta differentia utrosque designat, ut si temperantia quidem regi uel pietas, tyranno uero et intemperantia et crudelitas conuenire dicatur: haec uocatur *kata diaphoran*.  Alia quae per translationem dicitur, ut: Adolescentia est flos aetatis.  Illa quoque definitio esse diciturquae fit ex priuatione contrarii, ut:  Bonum est quod malum non est.  Illa quoque Victorinus definitionem ponit, quae tantum propriis nominibus aptari potest, quae etiam *hypotyposis* appellatur, ut: Aenas est Veneris et Anchisae filius.  Praeter has etiam illa est quae fit per indigentiam pleni, ut quadrans est cui dodrans deest ut sit as.  Ponit etiam Victorinus inter differentias definitionum illam quoque quae per quamdam laudem fieri potest, ut: Lex est mens, et animus, et consilium, et sententia ciuitatis.  Quod maxime ratione caret.  Non enim laudis modus illi faciet differentiam. Illa enim consideranda sunt quae in definitione ponuntur, non quo animo constituta sunt. Quod si recipienda fuit laudandi uoluntas inter differentias definitionum, cur non uituperandi quoque uoluntas aliam differentiam definitionis efficiat? Sed hoc apertissime inconueniens et ueritati uidetur esse contrarium.  Fiunt etiam definitiones per proportionum, ut si quis dicat:  Homo est minor mundus.  Sicut etiam mundus ratione regitur, ita quoque quoniam homo multis partibus iunctus, habet tamen in omnibus rationem ducem, minor mundus dici potest. Fiunt etiam definitiones a relationibus, cum dicitur: Quid est pater?  respondetur: Cui est filius.  Causa quoque solet efficere definitionem, ut cum dicimus: Quid est dies?  respondetur:  Sol super terram  causam enim, id est solem, pro re ipsa cuius causa est interposuimus, atqueita diem definitionem monstrauimus.  Hae sunt definitionum differentiae quas in eo libro quem de definitionibus Victorinus edidit, annumerauit, quas M. Tullius praetermittit eo nomine, quod eas minime necessarias existimauerit. Nos uero ne quid perfectio deesset operi, etiam quae sunt a Cicerone praetermissa subiecimus. SIC IGITUR VETERES PRAECIPIUNT: CUM SUMPSERIS EA QUAE SINT EI REI QUAM DEFINIRE VELIS CUM ALIIS COMMUNIA, USQUE EO PERSEQUI, DUM PROPRIUM EFFICIATUR, QUOD NULLAM IN ALIAM REM TRANSFERRI POSSIT. UT HAEC: HEREDITAS EST PECUNIA. COMMUNE ADHUC; MULTA ENIM GENERA PECUNIAE. ADDE QUOD SEQUITUR: QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. NONDUM EST DEFINITIO; MULTIS ENIM MODIS SINE HEREDITATE TENERI PECUNIAE MORTUORUM POSSUNT. UNUM ADDE VERBUM: IURE; IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDEBITUR, UT SIT EXPLICATA DEFINITIO SIC: HEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERUENIT IURE. NONDUM EST SATIS; ADDE: NEC EA AUT LEGATA TESTAMENTO AUT POSSESSIONE RETENTA; CONFECTUM EST. ITEMQUE [UT ILLUD]: GENTILES SUNT INTER SE QUI EODEM NOMINE SUNT. NON EST SATIS: QUI AB INGENUIS ORIUNDI SUNT, NE ID QUIDEM SATIS EST, QUORUM MAIORUM NEMO SERVITUTEM SERVIVIT. ABEST ETIAM NUNC: QUI CAPITE NON SUNT DEMINUTI. HOC FORTASSE SATIS EST. NIHIL [1100D] ENIM VIDEO SCAEVOLAM PONTIFICEM AD HANC DEFINITIONEM ADDIDISSE. ATQUE HAEC RATIO VALET IN UTROQUE GENERE DEFINITIONUM, SIVE ID QUOD EST, SIVE ID QUOD INTELLEGITUR DEFINIENDUM EST.  Definitionis ratione proposita diuisaque per singulas partes tum materiae, tum etiam formae; materiae quidem, cum definitionum esse dixit, uel earum rerum quae corporeae essent, uel earum quae incorporeae; formae uero cum aut partitionibus aut diuisionibus definitiones fieri docuit; praetermissisque caeteris quaecumque ad propositum opus minime pertinerent, nunc quod utilissimum est, maximeque totam definitionem intelligentiam significare potest, exsequitur.  Id autem est: Qui sit in omnibus, quaecumque quomodolibet fiunt, definitionis modus. Est autem una atque omnibus communis definiendi ratio, ut ex communitatibus inter semet iunctis atque compositis in unam proprietatem rei definitio colligatur. Omnia enim quae communia atque uniuersalia sunt, si quid eis fuerit adiectum, determinatione minuuntur, et ad particularitatem redeunt, atque eo ambitu quo concludebant cuncta, cohibentur, ueluti cum generi adiicitur differentia, et fit species. Nam cum genus per se proprio ambitu multas species contineat, ei si propriam adiicias differentiam, minuitur, et in quamdam quodammodo particularitatem redit, ueluti cum dicimus animal, hoc nomen multa concludit. At si ei rationale adiiciae, faciasque animal rationale, minus erit a simplici. Minus namque est animal rationale a simpliciter animali.Ita additio differentiae quod maius fuit in particularitatem quamdam redegit atque cohibuit.  Quoties igitur aliqua res definienda est, sumitur id quod ei cum pluribus aliis commune est, huic adiiciuntur differentiae, statimque nec esse est minuatur id quod pluribus fuerat antecommune, et si hac differentiae additione in tantum modum decreuerit, ut rei quae definitur fiat aequalis, aiias differentiaa colligere atque aptare non nec esse erit sed id ipsum quod ita decreuit, ut aequale sit ei quod definitur, definitionem esse nec esse est. At si adhuc amplius sit ab ea re quae definitur, quaeramus nec esse est aliam differentiam, qua adiuncta numerus quidem crescat, uis autem communitatum differentiarum additione decrescat, atque id hactenus faciendum, quatenus, ut dictum est, ea quae ad definitionem sumuntur ei quod definiendum est adaequentur.  Ut igitur id non ratione solum, uerum conuenienti quoque clarius fiat exemplo, sumatur res notissima ad definitionem, id sit homo.  Huius igitur ita quaerimus definitionem: sumimus quod ei cum pluribus aliis commune est, id est animal. Dicimus igitur hominem esse animal, nondum est definitio, primum quia, ut dictum est, solo nomine definitio reddi non potest; dehinc quia animal maius est homine. Ut igitur minuatur animal et homini coaequetur, addimus differentiam, qua adiuncta, rerum quidem numerus crescit, uis autem rei atque amplitudo minuitur. Addo igitur rationale, efficioque animal rationale. Minus est igitur animal rationale quam proprie animal. Dico autem hominem esse animal rationale. Sed id nondum coaequatur ad hominem, possunt enim esse animalia rationabilia, sicut Platoni quoque de astris placet, quae homines non sunt. Addo igitur rursus alium differentiam, si quoquo modo iterum definitio contrahatur, ut fiat homini quod definitur aequale; adiungo igitur mortale, ac dico hominem esse animal rationale mortale, id aequatur ad hominem. Nam et qui homo est, animal rationale mortale est. Dico igitur hominis hanc esse definitionem quae ex pluribus communibus iunctis unum tamen quiddam homini proprium atque aequale conficit. Atque in caeteris definitionibus eadem ratio est.  Ut definitiones fiant collectis communitatibus, in unumque copulatis, cum necesse sit illa copulatione quae communia sunt contrahi atque in minorem cohiberi modum, eique quod definitur ex communitatibus iunctis aliquid proprium atque aequale componitur. Hoc est igitur quod ait Cicero, hunc esse definitionis modum, cum sumpseris ea quae sint ei rei quam definire uelis cum aliis communia, usque eo persequi, ut proprium efficiatur, quod in nullam aliam rem transferri possit, ut his uerbis et hac sententia breuiter significare uideatur hanc esse definitionem quae, ex substantialibus communitatibus iuncta atque in minorem modum redacta, fit ei rei quae definitur aequalis.  Exempla uero quae ponit huiusmodi suut, unum definiendae haereditatis, alterum gentilitatis. Haereditatis quidem hoc modo: HAEREDITAS EST PECUNIA. Commune hoc et multis aliis conueniens quae haereditates non sunt, ut donationibus, ut furtis, uel quibuslibet aliis pecuniariis rebus quae minime sunt haereditates. Huic igitur pecuniae addendum aliquid fuit, id est: QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT. Haereditas enim pecunia est ad quempiam alicuius morte perueniens. Sed ne id quidem plenum haereditatis explicat intellectum. Commune namque est. Et pecuniae mortuorum pluribus teneri modis possunt, uelut si bello quis uictus est ac spoliatus. Addendum igitur est aliquid: IURE, ut sit, HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM IURE PERVENIT. Haereditates enim iure capiuntur. Videatur forsitan hoc loco definitionem posse consistere sed minime; quid enim? si legata pecunia est, haereditas quidem dici non potest, capta tamen morte alicuius iure pecunia est. Nam si testamenta iure fiunt, pecunia etiam iure legatur, adiiciendum est aliquid, id scilicet quo ab haereditatibus legata separentur, ut dicamus, haereditatem esse pecuniam morte alicuius ad quempiam peruenientem iure, quae legata non sit. Num satis est definitioni? Minime. Quid enim si meum quidem dominium sit fundi, uel alicuius pecuniariae rei, alterius uero ususfructus. Nam morte eius cui ususfructus competit, ad me res illa reuertitur, quae in meo dominio proprietatis possessione iure tenebatur? neque tamen haereditas esse potest, adiiciendum igitur est, minime possessione esse relentam, id est, ut proprietatis possessione id quod ex morte alicuius iure non legatam peruenit non retineatur. Hoc autem modo possessione retineri potest, si sit nostra proprietas, et eius qui decesserit ususfructus.  Coniuncta igitur omnia in unum facient haereditatis definitionem hoc modo: Haereditas est pecunia quae morte alicuius ad quempiam peruenit iure, non legata, neque possessione retenta.  Haec definitio est aequalis haereditati. Nam ut haereditas pecunia est morte alicuius ad quempiam perueniens iure, neque legata, neque possessione retenta, ita quaecumque pecunia alicuius morte ad aliquem iure peruenerit, neque legata sit, neque retenta, hanc haereditatem esse nec esse est.  Sed cum M. Tullius ad eum usque locum definiendo uenisset, ut diceret haereditatem esse pecuniam quae morte alicuius ad quempiam peruenisset, iure ait: iam a communitate res disiuncta uidebitur, ut sit explicata definitio sic: Haereditas est pecunia quae morte alicuius ad quempiam iure peruenit. Idque ita dictum est, quasi iam plena facta sit definitio. Quid enim est aliud explicatam esse definitionem, et a communitate disiunctam, nisi perfectam, et cui desit nihil? Sed rursus quasi non sit explicata definitio, nec a communitate disiunctam, adiicit: NONDUM EST SATIS: ADDE: NEC EA AUT LEGATA TESTAMENTO AUT POSSESSIONE RETENTA. Cuius adiectionis haec ratio est, fecit enim definitionem aliis adiunctis, aliis separatis. Itaque id quod definiebat, uel his quae adiunxit, uel his quae separauit, a caeterorum omnium communitate segregauit. Haereditatem enim dixit esse pecuniam, huic addidit, morte alicuius ad aliquem peruenientem. Separauitque eam ab iis pecuniis, quae non morte alicuius ad aliquem sed contractu uiuentium peruenirent, addidit IURE, ut ab his pecuniis separaret quae per uim morte alterius ad quempiam peruenirent. His igitur duobus, MORTE atque IURE, ea pecunia effecta est, quae a caeteris ita separetur, ut tamen per legitimum acquireadi modum, non inter utrosque uiuos sed inter unum uiuum atque alterum mortuum fieret. Haec igitur una separatio ac caeteris facta est, atque ideo ait explicatam esse definitionem et a communitate disiunctam.  Sed quoniam in ea ipsa pecunia quae morte et iure ad aliquem peruenit inerant quaedam quae haeredites non essent, harum separatione plena effecta est haereditatis definitio. Nam cum diceret haereditatem pecuniam esse, itemque quae morte alicuius ad aliquem peruenisset, itemque et quae iure, haec omnia efficientia substantiam haereditatis apposita sunt. Sed quoniam erant in hac collectione quaedam ad quae huius collectionis intellectus transferri posset, nec tamen essent haereditates, ueluti legatum aut possessionis retentio, his substractis reliqua fuit haereditas, de qua intelligi possit pecunia alicuius morte ad quempiam iure perueniens.  Non igitur legatum, aut possessionis retentio substantiam haereditatis efficiunt, quippe quae impedirent ad eius substantiam demonstrandam, nisi remouerentur. At uero nec negatio quidem cuiusquam substantiam perficit sed tantum quid non sit ostendit. Quod si legatum et possessionis retentio haereditatis substantiam non modo non complent, uerum etiam impediunt atque corrumpunt, nisi fuerint disiuncta atque seposita; cumque harum negatio nihil ex haereditatis substantia monstret sed tantum quid non sit ostendat; relinquitur pars superior, id est pecunia morte alicuius ad quempiam iure perueniens, quae substantiam haereditaiis ostendat, ea quae sit explicata definitio a caeterisque disiuncta. Sed quoniam rursus, ut dictum est, quaedam sunt ad quae deriuari huius definitionis intelligentia possit, idcirco ad discretionem integram designandam reliqua pars additur. Itaque quoniam ista demonstrant haereditatem, efficiuntque substantiam iure dictum est, IAM A COMMUNITATE RES DISIUNCTA VIDETUR, UT SIT EXPLICATA DEFINITIO: HAEREDITAS EST PECUNIA QUAE MORTE ALICUIUS AD QUEMPIAM PERVENIT IURE. Sed quoniam rursus hic intellectus ad plura intra se posita poterat conuenire, non immerito additum est: NON EST SATIS et caetera, quae legatum et possessionis retentionem ab haereditatis definitione seiungunt: ac de priore quidem haereditatis exemplo haec dicta sint.  Ad huius uero similitudinem etiam secundum tractat exemplum, quod de definitione gentilitatis est positum. Gentiles enim sunt qui eodem nomine inter se sunt, ut Scipiones, Bruti et caeteri. Quid si serui sunt? num ulla gentilitas serorum esse potest? Minime. Adiiciendum igitur: Qui ab ingenuis oriundi sunt. Quid si libertinorum nepotes ciuium, Romanorum eodem nomine nuncupentur? num gentilitas ulla est? Ne id quidem, quoniam ab antiquitate ingenuorum gentilitas ducitur; addatur igitur: Quorum maiorum nemo seruitutem seruiuit. Quid si per adoptionem in alterius familiam transeat? tunc etiamsi eius gentis ad quam migrauit nomine nuncupetur, licet ab ingenuis et ab iis ortus parentibus sit qui nunquam seruitutem seruierint, tamen quoniam in familia gentis suae non manet, ne in gentilitate quidem manere potest; addendum igitur est: Neque capite sunt diminuti. Hoc fortasse, inquit, satis est secundum Scaeuola, pontificis definitionem, nihil enim ulterius adiecit, ut sit definitio gentilium haec: Gentiles sunt, qui inter se eadem sunt nomine, ab ingenuis oriundi, quorum maiorum nemo seruitutem seruiuit, et ubi gentilitatem nulla capitis diminutio destruxit. Haec quoque definitio facta est ex pluribus communitatibus in unum confluentibus atque unam proprietatem eius rei quae definiebatur, id est gentilitatis, facientibus.  Hic igitur definitionis modus in utroque genere rerum ualet, siue quae sunt, siue quae non sunt, id est siue corporalium, siue incorporalium; nam, ut superius ostensum est, id esse Cicero dicit quod corporale sit, id non esse quod est incorporale. Ac postremo omnium definitionum modus hic est, ut ex pluribus communitatibus aliqua proprietas fiat. Sed distant a se definitiones, quod hae que proprie definitiones uocantur ex his communitalibus coniunguntur quae substantiales sunt. Hae uero quae non uerae sed abutendo definitions dicuntur, ex accidentibus communitatibus congregantur.  PARTITIONUM [AUTEM] ET DIVISIONUM GENUS QUALE ESSET OSTENDIMUS, SED QUID INTER SE DIFFERANT PLANIUS DICENDUM EST. IN PARTITIONE QUASI MEMBRA SUNT, UT CORPORIS CAPUT UMERI MANUS LATERA CRURA PEDES ET CAETERA. IN DIVISIONE FORMAE, QUAS GRAECI *EIDE* VOCANT, NOSTRI, SI QUI HAEC FORTE TRACTANT, SPECIES APPELLANT, NON PESSIME ID QUIDEM SED INUTILITER AD MUTANDOS CASUS IN DICENDO. NOLIM ENIM, NE SI LATINE QUIDEM DICI POSSIT, SPECIERUM ET SPECIEBUS DICERE; ET SAEPE HIS CASIBUS UTENDUM EST; AT FORMIS ET FORMARUM VELIM. CUM AUTEM UTROQUE VERBO IDEM SIGNIFICETUR, COMMODITATEM IN DICENDO NON ARBITROR NEGLEGENDAM.  GENUS ET FORMAM DEFINIUNT HOC MODO: GENUS EST NOTIO AD PLURIS DIFFERENTIAS PERTINENS; FORMA EST NOTIO CUIUS DIFFERENTIA AD CAPUT GENERIS ET QUASI FONTEM REFERRI POTEST. NOTIONEM APPELLO QUOD GRAECI TUM *ENNOION* TUM *PROLEPSIN*. EA EST INSITA ET ANIMO PRAECEPTA CUIUSQUE COGNITIO ENODATIONIS INDIGENS. FORMAE SUNT IGITU] EAE IN QUAS GENUS SINE ULLIUS PRAETERMISSIONE DIUIDITUR; UT SI QUIS IUS IN LEGEM MOREM AEQUITATEM DIVIDAT. FORMAS QUI PUTAT IDEM ESSE QUOD PARTIS, CONFUNDIT ARTEM ET SIMILITUDINE QUADAM CONTURBATUS NON SATIS ACUTE QUAE SUNT SECERNENDA DISTINGUIT.  SAEPE ETIAM DEFINIUNT ET ORATORES ET POETAE PER TRANSLATIONEM VERBI EX SIMILITUDINE CUM ALIQUA SUAUITATE. SED EGO A VESTRIS EXEMPLIS NISI NECESSARIO NON REMILANI. SOLEBAT IGITUR AQUILIUS COLLEGA ET FAMILIARIS MEUS, CUM DE LITORIBUS AGERETUR, QUAE OMNIA PUBLICA ESSE VULTIS, QUAERENTIBUS EIS QUOS AD ID PERTINEBAT, QUID ESSET LITUS, ITA DEFINIRE, QUA FLUCTUS ELUDERET; HOC EST, QUASI QUI ADULESCENTIAM FLOREM AETATIS, SENECTUTEM OCCASUM VITAE VELDT DEFINIRE; TRANSLATIONE ENIM UTENS DISCEDEBAT A UERBIS PROPRIIS RERUM AC SUIS. QUOD AD DEFINITIONES ATTINET, HACTENUS; RELIQUA VIDEAMUS. Quoniam definitionum formas in partitiouem diuisionemque, distribuit nequaquam rerum auditor similitudine turbaretur, diuisionis ao partitionis differentias prodit, ac primum aliud partes, aliud species esse demonstrat. Species enim saepe partes, partes uero nunquam species appellantur. Differant uero haec a se, quoniam partes totius membra coniungunt, species uero genus diuidit atque dispertit. Nam, ut superius quoque dictum est, partes eius quod copulant non suscipiunt nomen totius. Neque enim fundamenta uel tectum domus esse dici possunt, nam nisi omnia quae quid efficiunt iuncta sint, totius uocabulum singula non habebunt; at uero species etiam singulae generis suscipiunt nomen, ut homo animalis. Quo fit, ut in his illa quoque differentia possit agnosci, quod partes quidem, totius partes, species uero non totius, scilicet uniuersalis rei, id est generis, species esse dicuntur. Differt uero totum a genere, quod genus quidem uniuersale est totum uero minime, quod probatur hoc modo. Si enim id quod totum dicitur, ut domus, uniuersale esset, partes quoque eius totius susciperent nomen; at non suscipiunt, ut saepe monstratum est; quod igitur totum est, uniuersale non est. Genus uero uniuersale esse manifestum est, quoniam eius nomen deductae ab eo formae suscipiunt.  Item alia differentia. Genus semper speciebus suis prius est, totum uero suis partibus posterius inuenitur. Nisi enim partes fuerint, totum non potest coniungi. Quo fit ut si genus pereat, species quoque perimantur; si species intereat, maneat genus quod in partibus totoque contrarium est. Nam si pars quaelibet una pereat, totum nec esse est interire; si uero totum, quod partes iunxerant, dissipetur, partes maneant distributae: ueluti si domus tecta et parietes, et fundamenta a semetipsis extrinsecus posita intelligantur, domus quidem non erit quia coniunctio destructa est, partes tamen manebunt.  Propriis igitur nominibus M. Tullius partes quidem ueluti totius membra appellat, species uero formas. Idcirco, quoniam non satis ei apta uidetur inflexio casum ab eo nomine quod est species. Et licet plures, inquit, usurpauerint hoc nomen, tamen quoniam dura est huius nominis per casus inflexio, cum dicitur speciei, specierum, speciebus, idcirco commoditatem in dicendo, ut ipse ait, non arbitratus est negligendum, ut formas uocaret in cuius nominis casibus nulla sentitur asperitas.  Et quoniam forma praeter genus esse non potest (nihil enim praeter suum potest esse principium), utrorumque apposuit definitiones, dicens genus esse notioncm ad plures differentias pertinentem. Notio uero intellectus est quidam et simplex mentis conceptio, quae ad res plures pertineat a se inuicem differentes. Id uero genus esse manifestum est, quod apertissimo liquet exemplo. Animalis quippe intellectus ad plures differentias pertinet, ad rationale scilicet atque irrationale, ad mortale etiam atque immortale, ad ambulabile, reptibile, uolatile, natabile, et est eorum omnium quae sub his differentiis sita sunt, genus. Idem uero significat haec definitio quod etiam uetus, haec est huiusmodi: Genus est quod de pluribus specie differentibus in eo quod quid est praedicatur, uelut animal, genus ad plures res specie differentes, id est ad hominem atque equum, in eo quod quid est praedicatur. Nam interrogantibus quid est homo uel equus, animal dicitur.  Item formae definitionem talem dedit. Forma est notio cuius differentia ad caput generis, quasi fontem, referri potest, et recte. Nam si formae a genere deducuntur, species necesse est referantur ad genus. Si igitur principium quoddam et fons formae genus est, nec esse est ut intellectus formae ad primordium suum, id est notionem generis, reuertatur. Intellectus enim hominis refertur ad animal, itemque equi et caeterorum.  Notionem uero appellat quod Graeci *ennoian* dicunt, huius haec est definitio: Notio est insita et ante percepta cuiusque formae cognitio enodationis indigens. Haec uero definitio hinc tracta est quod Plato ideas quasdam esse ponebat, id est species incorporeas substantiasque constantes, et per se ab aliis naturae ratione separatas, ut hoc ipsum homo quibus participantes caeterae res homines uel animalia fierent. At uero Aristoteles nullas putat extra esse substantias sed intellectam similitudinen. plurimorum inter se differentium substantialem genus putat esse, uel speciem. Nam cum homo atque equus differant rationabilitate atque irrationabilitate, horum intellecta similitudo efficit genus. Nam similitudo equi et hominis substantialis in ea est, quod uterque substant; a est, uterque animatus, uterque sensibilis, quae iuncta efficiunt animal, est animal namque substantia animata sensibilis. Igitur hominis atque equi similitudo est animal, quod est genus. Rursus cum Plato atque Cicero numero accidentibusque distarent, horum similitudo, quae est humanitas intellecta atque animo formata, species est. Ergo communitas quaedam et plurimorum inter se differentium similitudo notio est, cuius notionis aliud genus est, aliud forma.  Sed quoniam similium intelligentia est omnis notio, in rebus uero similibus necessaria est differentiarum discretio, idcirco indiget adhuc notio quadam enodatione ac diuisione, uelut ipse intellectus animalis sibi ipse non sufficit. Nam mox animus ad aliquod animal, id est uel hominem uel equum, deducitur inquirendum, et hominis notio uel ad Tullium, uel ad Platonem, uel ad quemlibet singularium personarum refertur. Quae cum ita sint, quoties genus diuiditur in formas, nullam praetermitti oportebit. Est enim uitium uel maximum, si qua diuidentem forma praeterrat, ueluti si quis ius diuidere uelit, in legem, morem atque aequitatem nec esse est partiatur. Nam et lex, et mos, et aequitas, et singula, et in commune, iuris uocabulo subiecta sunt. Culpat uero illorum inscitiam qui idem species uel formas putant esse quod partes, conturbarique eos inscitia dicit, quod res a se plurimum differentes imperite atque improuide distinguere ac segregare non curant.  Sed quoniam de definitione loquebatur, addit aliam speciem definitionis, quam nos superius enumerauimus, quae per translationem non proprietatis ueritatisque sed splendoris atque ornatus ratione perficitur, quod poetarum atque oratorum esse autumat, quibus luculenta oratio curae est. Huius definitionis exemplum a iure ciuili Tullius petit, atque se non aliter ab exemplis notioribus Trebatio recessurum quam si necessitae cogat. Per translationem uero definitio est, ueluti cum Aquilius, littus definire uolens, dicebat littus esse quo fluctus eluderet. Hoc eludere ab iis translatum est qui agitatione aliqua, causa lusus, mouentur. Itemque adolescentia est flos aetatis, id ab arboribus ductum est, quarum fructus flores praecedunt. Et senectus, uitae occasus, id a die ductum est, qui desinit esse cum sol occiderit: quae translationes a proprietate discedunt, et quadum similitudine subiecta signant. Est enim translatio quoties habentis rei nomen, propter alterius rei similitudinem, a re simili nomen imponitur, ut motus habet proprium nomen, item lusus suo uocabulo nuncupatur. Sed qui dicit, qua fluctus eluderet, a similitudine agitationis ad fluctuum motum uocabulum transfert.  Ac de definitionibus quidem disputationem terminans, ad partitiones transitum facit. Sed nunc tertio uolumini satis est reliqua in posterum differamus.  Explicare non possum, mi Patrici, quantas saepe in difficillimi operis cursu uires afferat amicitiae contemplatio, cum et iis studiosius componamus, quos reposito penitus amore diligimus, et placare cupientibus multa sese rerum copia subministret. Huc accedit quod ut quaeque in mentem uenerint iniudicata atque etiam incastigata promuntur, quandoquidem apud cari pectoris secretum nihil est periculi proferre quod sentias. Est igitur mihi, cum tuam beneuolentiam specto, pronum omne atque, ut ita dicam, uoluptarium, quod in tuae praescriptum iucunditatis impenditur. Sed cum memet ipse perpendo, uereor ne imparato muneri par esse non possim, et deficientis culpa in adhortantis cedat iniuriam. Quo fit ut tibi etiam atque etiam prouidendum sit, ne, tuis ipse moribus emendatus, nostri alicuius erroris sarcinam feras. Nosti oblatrantis morsus inuidiae, nosti quam facillime in difficillimis causis liuor iudicium ferat. Quaeso igitur extremam nostro operi manum communis negotii studiosus imponas, abundantia reseces, hiantia suppleas, errata reprehendas, sis postremo nostri laboris tuaeque adhortationis assertor, cum praesertim me securum peractum reddat officium, te amici pudor dignus possit conuenire, si displicet. Sed haec alias, nunc operis suscepti tramitem persequamur.  Quoniam locorum in ipsis de quibus quaeritur terminis inhaerentium, alii sunt a toto, alii a partibus, alii a nota, alii ex affectis, de eo quidem loco qui a toto est, et in definitione est constitutus, sufficienter disseruit superiore tractatu. Nunc uero de partium enumeratione dicere instituit, rectam ordinis uiam scilicet insistens, ut non solum exemplo qualis esset partium enumeratio perdoceret, uerum ratione quoque ostenderet quomodo partium enumeratione in argumentationibus esset utendum. PARTITIONE TUM SIC UTENDUM EST, NULLAM UT PARTEM RELINQUAS; UT, SI PARTIRI VELIS TUTELAS, INSCIENTER FACIAS, SI ULLAM PRAETERMITTAS. AT SI STIPULATIONUM AUT IUDICIORUM FORMULAS PARTIARE, NON EST VITIOSUM IN RE INFINITA PRAETERMITTERE ALIQUID. QUOD IDEM IN DIUISIONE VITIOSUM EST. FORMARUM ENIM CERTUS EST NUMERUS QUAE CUIQUE GENERI SUBICIANTUR; PARTIUM DISTRIBUTIO SAEPE EST INFINITIOR, TAMQUAM RIUORUM A FONTE DIDUCTIO.  [8.34] ITAQUE IN ORATORIIS ARTIBUS QUAESTIONIS GENERE PROPOSITO, [1108D] QUOT EIUS FORMAE SINT, SUBIUNGITUR ABSOLUTE. AT CUM DE ORNAMENTIS UERBORUM SENTENTIARUMUE PRAECIPITUR, QUAE VOCANT *SCHEMATA*, NON FIT IDEM. RES EST ENIM INFINITIOR; UT EX HOC QUOQUE INTELLEGATUR QUID VELIMUS INTER PARTITIONEM ET DIUISIONEM INTERESSE. QUAMQUAM ENIM UOCABULA PROPE IDEM VALERE VIDEBANTUR, TAMEN QUIA RES DIFFEREBANT, NOMINA RERUM DISTARE VOLUERUNT.  Sensus huiusmodi est. Rerum quae partibus coniunguntur, aliae quidem paucas sed facile intelligibiles comprehensibilesque partes habent, aliae uero plures intellectuque difficiles. In his igitur partibus quae sunt paucae ac facile sub intelligentiam cadunt, uel maximum uitium est, si partiendo aliquid relinquatur. In his uero quarum, ut ipse ait, infinitior numerus est et confusior perspectio, minus uitio sum est, si qua diuidentem pars in enumeratione praetereat.  Fit autem hoc non solum per eas res quae aliquibus partibus constant, uerum etiam saepe per partes ipsas quas in distributione partimur, ut si hominis corpus uelimus intellectu ac ratione per propria membra disiungere, faciemus ita, caput, humeros, manus, thoracem, uentrem, suras atque pedes. Et quoniam maiores partes sumpsimus ad diuidendum, idcirco nihil pretermissum esse uidetur; at si minutissimas particulas persequamur, tum oculi quoque, et labia, et nares, atque aures, earumque partes persequendae sunt, idque in toto corpore faciendum est, eodemque modo difficilior erit partitio, cum sit partium numerus infinitior. Saepe etiam, ut dictum est, res ipsae his partibus iunctae sunt, quarum non sit facilis inspectio, ut si quis stipulationem et iudiciorum formulas partiatur, uel etiam si figuras loquendi, quae *schemata* Graeci uocant, diuidi nec esse sit. Hic igitur si quid praetermissum sit, non erit uitium partientis, quia partium natura multiplex sa pius obtendit errorem.  At si quis genus diuidat, perniciosum est aliquam praeterire formam, quoniam formarum finita quantitas est. Nam quia semper in contrarium diuiduntur, aut duae sunt semper species generis, aut tres, et tunc tres, cum ea tertia, quae sumitur, ex contrariorum permistione perficitur, utsi colorem diuidamus, dicendum est ita. Coloris aliud est album, aliud nigrum, aliud medium. Idque medium ex albi coloris ac nigri commistione coniunctum est, quamuis in quamlibet aliam coloris speciem transferatur, seu purpurei, seu rubri, seu uiridis. Itaque si tale est quod diuidis, talesque sunt partes quas ad diuisionem sumis, quas non difficulter intelligentia comprehendas, uitium erit, si quid omiseris, uelut si tutelas partiaris. Tutela quippe quatuor fere modis est, aut enim per consanguinitatis gradum est, aut patronatus iure defertur, aut testamento patris tutor eligitur, aut urbani praetoris iurisdictione formatur, et sunt forsitan plures sed nunc istae sufficiunt. Hic igitur et paucae partes, et facile comprehensibiles. At si stipulationum formulas et iudiciorum comprehendere uelis, quoniam multae in his partes sunt, non erit uitiosum si quid omiseris.  In promptu uero est exemplum partium, quod de tutelis est dictum, magis enim ut genus in formas, quam ut totum in partes, tutela diuisa est. Nam siue per consanguinitatem sittutor, siue patronatus iure, siue caeteris modis, integrum tutelae ius habet, quod in singulis partibus non solet euenire, ut totius integrum capiant nomen. Sed ut conueniens uideatur exemplum, requirendae sunt tales tutelarum partes quae iunctae tutelas efficere possint, non quae singulae tutelae nomine designentur, quod nescio an quisquam iurisperitiae professor tales tutelae partes ediderit. Merobaudes uero rhetor ita intelligendum putauit, ut id quod ait, PARTITIONE SIC UTENDUM EST, ut nullam partem praetermittas, de diuisione dixerit, id est de una parte propositae partitionis. Nam et diuisio et per membra distributio, partitio nuncupatur; in diuisione enim uitiosum est aliquid praetermittere, in partitione membrorum minime. Ita exemplum de tutelis, ei partitioni accommodatum dedit, quae est diuisionis.  At si diuisionem facias, id est formarum a genere partitionem, summum est uitium aliquid praetermittere, quoniam cum sit finitus formarum numerus, si quid omissum sit, inscitia praeteritur: ut si oratorias quaestiones in formas diuidere uelimus, dicemus omnem rhetoricam quaestionem, aut de facto esse, aut de qualitate facti, aut de nomine. At si locutionum figuras sententiarumque distribuam, non erit, ut dictum est, uitium, transire aliquid, quandoquidem sententiarum inter se atque locutionum figuree et multiplices, et uaria ratione diuersa. Hic quoque figurarum partes non ita uidentur accipi posse, quemadmodum totius sed ut species generis; unaquaeque enim figurarum quae infinitae sunt, uelut figura, generalis species est, quod possumus intelligere ex his uerbis rhetorum, ubi de elocutione tractatur. Nullae namque sunt figurarum partes quae figuras iungant, ita ut singulae figurae nomen uniuersalis figurae non possint admittere.  Sed obiici nobis potest: Et quomodo infinite sunt figurae, si species sunt?  Sed respondebo leuiter: Elocutione mutata, figuram quoque mutari, atque idcirco in potestate esse dicentis figuras facere, quas is qui tractat difficile, antequam fiant, potest agnoscere; hae uero non substantialibus quibusdam differentiis constituuntur sed potius accidentibus explicantur. Unde fit ut tum communis nominis in significationes partitio fieri uideatur, cum figura diuiditur, potius quam generis in species; omnia uero significata cuiusque nominis diuisione includere, difficile est, quia noua plerumque finguntur sed ne id quidem rerum ratio permittit. Nam unaquaeque figura generalis figurae nomine et definitione comprehenditur. Quocumque enim modo figura definitur, eadem erit definitio etiam uniuscuiusque figurae. Quae res unamquamque figuram uniuersalis figure speciem esse declarat. Uniuoca enim sunt species et genus.  Sed est illud uerius, partitionem figurarum ad elocutionem ipsam Tullium retulisse, cuius pars quaedam est figura, non species. Variis enim multiplicibusque figuris elocutio luculenta contexitur. Si quis igitur elocutionem partiri uelit in figuras, non genus in species sed totum secabit in partes. Quae cum ita sint, ex hoc quoque apparet quid intersit inter diuisionem partitionemque, cum partitio interdum talis sit, ut si quid in ea praetermissum sit, nihil afferat uitii. Diuisio uero formarum talis est, ut in ea non queat aliquid sine culpa praeteriri. Quod factum est, ut quia res differebant, diuersa etiam uocabula rebus inter se distantibus uiderentur.  MULTA ETIAM EX NOTATIONE SUMUNTUR. EA EST AUTEM CUM EX VI NOMINIS ARGUMENTUM ELICITUR; QUAM GRAECI *ETYMOLOGIAN* APPELLANT, ID EST VERBUM EX VERBO VERILOQUIUM; NOS AUTEM NOVITATEM VERBI NON SATIS APTI FUGIENTES GENUS HOC NOTATIONEM APPELLAMUS, QUIA SUNT VERBA RERUM NOTAE. ITAQUE HOC QUIDEM ARISTOTELES *OUMBOLON* APPELLAT, QUOD LATINE EST NOTA. SED CUM INTELLEGITUR QUID SIGNIFICETUR, MINUS LABORANDUM EST DE NOMINE.  [8.36] MULTA IGITUR IN DISPUTANDO: NOTATIONE ELICIUNTUR EX VERBO, UT CUM QUAERITUR POSTLIMINIUM QUID SIT -- NON DICO QUAE SINT POSTLIMINI; NAM ID CADERET IN DIVISIONEM, QUAE TALIS EST: POSTLIMINIO REDEUNT HAEC: HOMO NAVIS MULUS CLITELLARIUS EQUUS EQUA QUAE FRENOS RECIPERE SOLET -- SED CUM IPSIUS POSTLIMINI QUAERITUR ET VERBUM IPSUM NOTATUR; IN QUO SERVIUS NOSTER, UT OPINOR, NIHIL PUTAT ESSE NOTANDUM NISI POST, ET LIMINIUM ILLUD PRODUCTIONEM ESSE VERBI VULT, UT IN FINITIMO LEGITIMO AEDITIMO NON PLUS INESSE TIMUM QUAM IN MEDITULLIO TULLIUM.  SCAEVOLA AUTEM P. F. IUNCTUM PUTAT ESSE [1111B] VERBUM, UT SIT IN EO ET POST ET LIMEN; UT, QUAE A NOBIS ALIENATE, CUM AD HOSTEM PERVENERINT, EX SUO TAMQUAM LIMINE EXIERINT, HINC EA CUM REDIERINT POST AD IDEM LIMEN, POSTLIMINIO REDISSE VIDEANTUR. QUO GENERE ETIAM MANCINI CAUSA DEFENDI POTEST, POSTLIMINIO REDISSE; DEDITUM NON ESSE, QUONIAM NON SIT RECEPTUS; NAM NEQUE DEDITIONEM NEQUE DONATIONEM SINE ACCEPTIONE INTELLEGI POSSE.  Post enumerationem partium recto ordinede notatione perpendit. Notatio igitur est quoties ex nota aliqua rei, quae dubia est, capitur argumentum. Nota uero est quae rem quamque designat. Quo fit ut omne nomen nota sit, idcirco quod notam facit rem de qua praedicatur, id Aristoteles *symbolon* nominauit. Ex notatione autem sumitur argumentum quoties aliquid ex notatione, id est nominis interpretatione, colligitur. Interpretatio uero nominis *etymologia* Graece. Latine ueriloquium nuncupatur; *etymon* enim uerum significat, *logos* orationem. Sed quia id ueriloquium minus in uso Latini sermonis habebatur, interpretatione nominis notationem Tullius appellat.  Ea est huiusmodi, ut si quaeras quid est postliminium. In qua quaestione non illud uidetur inquiri quae res postliminio reuertantur, hoc enim in diuisionem caderet, id est earum omnium rerum enumerationem quae postliminio redeunt postularet. Velut si ita dicamus: Post liminio redeunt homo, nauis, mulus clitellarius, equus, equa quae frenos recipere solet, id est domita, nunc enumeratae sunt res quae postliminio reuertantur.  At cum quod sit ipsum postliminii ius quaeritur, potest ex ipsius nominis interpretatione cognosci. Postliminio enim redit quisquis captus ab hostibus ad patriam remeauerit; namque dum captiuitatem hostium putitur, ius ciuis amittit; ornnia uero iura recipit, si postliminio reuertatur. Ergo ex notatione nominis ita ius postliminii clarescere potest, ut quia semper post id significatur quod retro relinquitur, postliminii uocabulo quaedam reuersio significatur, ut Seruius probat, qui ex aduerbio post uim nominis interpretatur, reliquem uocabuli partem protractionem esse confirmans; nam in eo quod est postliminium, ex eo quod post dictum est interpretationem nominis sumit, liminium uero superuacuo putat esse productum. Ad horum nominum formam, meditullium; prima enim pars medium significat, Tullium uero nihil. Et legitimum et aeditimum similiter. In utrisque enim, lex ibi, aedes ibi, aliquid, timum uero nihil omnino designat. Id uero nomen quod est postliminium, Scaeuola P. filius ex aduerbio post et limine putat esse compositum, nam quia ad idem limen quod prius reliquit reuertitur is qui postliminio redit, idcirco ex utrisque significationibus arbitratur nomen esse compositum. Quaecumque enim a nobis abalienata ad hostem perueniunt, cum a nostro limine exierint, si post ad id em limen reuertantur, postliminio redeunt.  Quomodo etiam Mancini causa defendi potest, quem cum populus Romanus ob foedus male dictum dedisset, hostes eum suscipere noluere?  qui cum reuersus esset, postliminio rediisse uidebatur. Idcirco quia si cum hostes recepissent deditum a ciuibus, etiamsi quo modo ab hostibus effugisset, non uideretur postliminio regressus qui iudicio ciuium omni libertatis iure fuisset exutus; sed quoniam neo deditio, neo datio, neo donatio, praeter acceptionem uidetur posse consistere, idcirco qui non sit susceptus, ne deditus quidem intelligi possit. Recte ergo Mancinus qui non deditus in hostium, si ea uti uellent, peruenerat potestatem, is cum in patriam remeauit, iure postliminio rediisse defensus est.  SEQUITUR IS LOCUS, QUI CONSTAT EX EIS REBUS QUAE QUODAM MODO AFFECTAE SUNT AD ID DE QUO AMBIGITUR; QUEM MODO DIXI IN PLURES PARTES DISTRIBUTUM. CUIUS EST PRIMUS [1112C] LOCUS EX CONIUGATIONE, QUAM [GRAECI] *SYZYGIAN* UOCANT, FINITIMUS NOTATIONI, DE QUA MODO DICTUM EST; UT, SI AQUAM PLUVIAM EAM MODO INTELLEGEREMUS QUAM IMBRI COLLECTAM VIDEREMUS, VENIRET MUCIUS, QUI, QUIA CONIUGATA VERBA ESSENT PLUVIA ET PLUENDO, DICERET OMNEM AQUAM OPORTERE ARCERI QUAE PLUENDO CREVISSET.  Cum locum qui ipsis de quibus quaeritur inhaereret in quatuor differentius supra distribuit, a toto, ab enumeratione partium, a nota, ab affectis, quoniam diligenter de superioribus tribus paulo ante tractauit, nunc quartum locum, id est affecta, persequitur. Et quoniam locus ab affectis in plurimas differentias soluebatur, quarum prima a coniugatis proposita est, primum loquitur de coniugatis.  Quae multum a notatione non differunt. Nam qui notatio ex ui nominis trahitur, itemque coniugatio similitudine uocabuli continetur, aliquod inter se ueluti confinium tenent. Sed hoc interest, quia notatio expositione nominis, coniugatio similitudine uocabuli ac deriuatione perficitur.  Et quoniam facilis et intellectu et tractatu locus est, tantum ponere sufficit exemplum, quod est huiusmodi: Aqua pluuia est quae pluendo colligitur et crescit. Pluendo uero atque pluuia coniugata sunt. In uno enim eodemque uocabulo diuersus nominum terminus differentiam facit. Item: ius est aquam pluuiam arceri, id est, ut si in alicuius agro pluuia aqua colligatur, et in alterius agrum defluat, eaque uicini frugibus nocitura concrescat, arceat eam suis finibus ille qulid sua putat inter esse ne defluat. Si fluuius igitur pluuia creuerit, quaeritur an debeat arceri, respondet, inquit, Mutius, quoniam aqua pluuia a pluendodicta sit, fluuium quoque, qui pluendo creuerit, aquam esse pluuiam, atque arceri deberi.  CUM AUTEM A GENERE DUCETUR ARGUMENTUM, NON ERIT NECESSE ID USQUE A CAPITE ARCESSERE. SAEPE ETIAM CITRA LICET, DUM MODO SUPRA SIT QUOD SUMITUR, QUAM ID AD QUOD SUMITUR; UT AQUA PLUVIA ULTIMO GENERE EA EST QUAE DE CAELO VENIENS CRESCIT IMBRI, SED PROPIORE, IN QUO QUASI IUS ARCENDI CONTINETUR, GENUS EST AQUA PLUVIA NOCENS: EIUS GENERIS FORMAE LOCI VITIO ET MANU NOCENS, QUARUM ALTERA IUBETUR AB ARBITRO COERCERI ALTERA NON IUBETUR.  Talis generum specierumque intelligitur esse natura, ut cum colliguntur uel etiam diuiduntur, ab indiuiduis per species et genera usque ad maxima generapossitascendi, itemque a maximis generibus per infra posita genera usque ad indiuidua ualeat esse descensus. Id uero uno clarum fiet exemplo. Cicero quippe indiuiduum est, huius species homo, huius genus animal, huius superius genus est corpus animatum, et si longius ascendas, corpus alterius genus inuenies, si prolixius egrediare, substantia ultimi loco generis occurrit.  Cum igitur multa sint genera, si cuiuslibet speciei genus assignandum sit, non nec esse erit, inquit, maxima et principalia genera semper exquirere, uerum eorum quoque aliquid quae in medio locata sunt oportebit adhibere, illa tamen ratione seruata, ut semper genus superius sit eo ad quod praedicatur ut genus. Extrema quippe inscitia est, si dum genus semper natura speciebus propriis superponatur, loco generis id quod est inferius collocetur. Quocirca uitiosum est, si quis corporis genus dicat esse corpus animatum. Quo fit ut si ad speciem aptandum est genus, eorum quae superiora sunt aliquid aptemus, et non erit nec esse ultimum semper genus adhibere, ut si homini genus proprium praeponere uolimus, non necesse est ut substantiam praeponamus sed uel corpus, uel corpus animatum, uel quod maxime fieri oportet animal. Illa enim semper genera sumenda sunt, quaecumque proxima formis adhaerent, eaque in definitione maxime requiruntur.  Sed in argumentationibus nihil differt utrum proximum eligas, an superius genus. Nam quoniam ex continenti fit argumentatio, plus continet id quod est superius genus. Quocirca si de homine aliquid ambigitur, et a genere argumentanrii sumitur locus, quidquid de animali dicetur, id etiam de homine praedicabitur. Quo fit ut si quid etiam de animato corpore praedicetur, idem etiam de homine dici possit. Ut igitur argumentationes ex proximis generibus fiunt, ita etiam ex alterius constitutis.  Sed in his omnibus illud est quod maxime considerandum uidetur, ne id quod est inferius superiori praeponatur ut genus. Et sententia quidem talis est. Quod uero ad exemplum attinet, declarabitur hoc modo: Sit aqua pluuia ea quae deiecta de caelo imbri colligitur, huius species duplex est; alia enim aqua plouia nocens est, alia non nocens. Nocentis quoque duplex species est, alia manu, alia uitio. Sed aqua pluuia manu nocens est, quae ita loco aliquo excipitur, inde profluens uicino noceat, si locus is non sit naturaliter talis sed manu hominis excipiendae aquae fuerit apparatus; uitio uero, quoties naturaliter ita sese locus habet, ut excipere aquam possit et nocere uicino. Si igitur eius aquae quam quis arceri uelit, ne sibi noceat, a uicino genus uelit exquirere, non nec esse est ab ultimo usque genere deducere, ut nicat aquae eius quam quis uelit arceri genus esse aquam pluuiam sed potest id quod inquirit genus paulo inferius inuenire, ut huius aquae quam arceri desiderat id genus esse dicat, quod est aqua pluuia nocens. Quod si genus proximum quaerat, illud poterit adhibere quod est aqua pluuia manu nocens, hoc enim arceri quis cogitur quod manu fit noxium. Quod uero loci forma uel uitio incommoditatis aliquid apportat, arcere non cogitur.  Quod autem diximus, eius aquae quam arceri oporteat genus esse quam pluuiam manu nocentem, ita intelligendum est, si aqua quae arceri debet plurima sub se habet indiuidua et similia, tunc enim demum eius aquae quae arceri debet, aqua pluuia manu nocens genus esse poterit. Quod si aqua quae arceri dehet in nulla indiuidua diducatur, ipsa est indiuidua, nec est eius genus aqua pluuia nocens manu sed species. Quod si cui paululum uidetur obscurius hic si eos commentarios quos de genere, specie, differentia, proprio, atque accidenti, composuimus, libris quinque digestos inspexerit, nihil horum poterit incurrere quo caliget. COMMODE ETIAM TRACTATUR HAEC ARGUMENTATIO QUAE EX GENERE SUMITUR, CUM EX TOTO PARTIS PERSEQUARE HOC MODO: SI DOLUS MALUS EST, CUM ALIUD AGITUR ALIUD SIMULATUR, ENUMERARE LICET QUIBUS ID MODIS FIAT, DEINDE IN EORUM ALIQUEM ID QUOD ARGUAS DOLO MALO FACTUM INCLUDERE; QUOD GENUS ARGUMENTI IN PRIMIS FIRMUM VIDERI SOLET.  Dictum est quemadmodum genus ad speciem debeat aptari, atque in eo praescriptum est ut nisi id quod est superius adhiberi non debeat. Nunc illud adiungitur, quemadmodum eius loci, qui a genere ducitur, in argumentatione commodior usus esse possit. Quotiescumque enim de re aliqua dubitatur, si, facta generis alicuius diuisione, sub aliqua eius generis parte id de quo ambigitur potuerimus includere, tunc a genere tractum esse argumentum uidetur hoc modo: Sit dolus malus, quando aliud agitur, aliud simulatur. Huius ergo si species diuidantur, et id quod factum esse arguimus alicui earum specierum quae a dolo malo deductae sunt potuerimus adiungere, quidquid de dolo malo existimabitur, idem etiam de ea re quani arguimus nec esse est iudicari, et factum est argumentum a genere. Nam de quo quaeritur species est, et id a quo sumitur argumentum genus est, scilicet ut si ita contingit dolus malus.  Locus uero hic ab eo qui est a partium enumeratione diuersus est. Nec si enumeramus partes, id est formas aut species, idcirco non a genere sed ab enumeratione partium ducitur argumentum. Quoties enim ipsa partium enumeratione utimur ad argumentationem, tunc ab eadem partitione argumentum tractum esse dicimus, ut hoc modo: Si fundamenta, et parietes, et tectum habet, et habitationi est destinatus locus, domus est. Ipsa igitur partitione utentes, domum esse probauimus. Quoties uero sub genere aliquid collocandum est, diuisisque partibus alicui eorum quae a genere deducuntur id de quo quaeritur aggregamus, ut hoc modo: Si Ciceronem animal esse monstremus, dicemus ita: Omne animal aut rationale est, aut irrationale; sed Cicero rationalis est, animal igitur est: non partitione utimur principaliter ad argumentum constituendum sed idcirco genus diuisimus, ut in unaqualibet diuisione id quod nitebamur ostendere posset includi, id est ut id de quo dubitatur in assumpti continentia generis redigeretur, itaque de eo per generis naturam fides fieret. Sic ergo a genere facta argumentatio iure dicetur.  Amplius ita partium enumeratio totius efficere substantiam solet, siue illud uniuersale sit ut genus, siue partium coniunctione completur ut totum. At uero haec diuisio generis in cuius partes quaelibet illa res de qua contenditur includenda est, non id efficit, ut totius substantia constituatur sed ut illud quod approbare quaerimus intra genus collocetur. Quem argumentationis modum imprimis M.  Tullius ualidum esse confirmat. Illa enim regula satis uera est atque necessaria: Quae de genere praedicantur, eadem de specie  modis omnibus praedicari.  Illud uero quaeri perutile est, cum aliquid de particularibus rebus probetur ex superposita proxima specie, ut si Socratem rationalem esse approbemus, quoniam sit homo, cum sit homo rationalis, utrum ex genere an ex forma argumentum ductum esse arbitremur. Nam si dicamus ex genere, ultima species genus esee non potest; si ex specie, superpositum genus semper species probare desiderat. Socrates uero cui fidem praestat homo, quoniam rationalis est, genus hominis non est sed dicendum est quoniam uelut a genere tractum uidebitur argumentum. Nam exgenere quasi ex continenti atque ampliori, et de substantia fides praedicati ducitur: quam sortem ad sua indiuidua speciem nemo dubitat obtinere, nam et continet ea, et de eorum substantia praedicatur. SIMILITUDO SEQUITUR, QUAE LATE PATET, SED ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS MAGIS QUAM VOBIS. ETSI ENIM OMNES LOCI SUNT OMNIUM DISPUTATIONUM AD ARGUMENTA SUPPEDITANDA, TAMEN ALIIS DISPUTATIONIBUS ABUNDANTIUS OCCURRUNT ALIIS ANGUSTIUS. ITAQUE GENERA TIBI NOTA SINT; UBI AUTEM EIS UTARE, QUAESTIONES IPSAE TE ADMONEBUNT. SUNT ENIM SIMILITUDINES QUAE EX PLURIBUS COLLATIONIBUS PERVENIUNT QUO VOLUNT HOC MODO: SI TUTOR FIDEM PRAESTARE DEBET, SI SOCIUS, SI CUI MANDARIS, SI QUI FIDUCIAM ACCEPERIT, DEBET ETIAM PROCURATOR. HAEC EX PLURIBUS PERUENIENS QUO UULT APPELLATUR INDUCTIO, QUAE GRAECE *EPAGOGE* NOMINATUR, QUA PLURIMUM EST USUS IN SERMONIBUS SOCRATES.  [10.43] ALTERUM SIMILITUDINIS GENUS COLLATIONE SUMITUR, CUM UNA RES UNI, PAR PARI COMPARATUR HOC MODO: QUEM AD MODUM, SI IN URBE DE FINIBUS CONTROVERSIA EST, QUIA FINES MAGIS AGRORUM VIDENTUR ESSE QUAM URBIS, FINIBUS REGENDIS ADIGERE ARBITRUM NON POSSIS, SIC, SI AQUA PLUVIA IN URBE NOCET, QUONIAM RES TOTA MAGIS AGRORUM EST, AQUAE PLUVIAE ARCENDAE ADIGERE ARBITRUM NON POSSIS.  EX EODEM SIMILITUDINIS LOCO ETIAM EXEMPLA SUMUNTUR, UT CRASSUS IN CAUSA CURIANA EXEMPLIS PLURIMIS USUS EST, QUI TESTAMENTO SIC HEREDES INSTITUISSET, UT SI FILIUS NATUS ESSET IN DECEM MENSIBUS ISQUE MORTUUS PRIUS QUAM IN SUAM TUTELAM VENISSET, HEREDITATEM OBTINUISSENT. QUAE COMMEMORATIO EXEMPLORUM VALUIT, EAQUE VOS IN RESPONDENDO UTI MULTUM SOLETIS.  FICTA ENIM EXEMPLA SIMILITUDINIS HABENT VIM; SED EA ORATORIA MAGIS SUNT QUAM VESTRA; QUAMQUAM UTI ETIAM UOS SOLETIS, SED HOC MODO: FINGE MANCIPIO ALIQUEM DEDISSE ID QUOD MANCIPIO DARI NON POTEST. NUM IDCIRCO ID EIUS FACTUM EST QUI ACCEPIT? AUT NUM IS QUI MANCIPIO DEDIT OB EAM REM SE ULLA RE OBLIGAVIT? IN HOC GENERE ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS CONCESSUM EST, UT MUTA ETIAM LOQUANTUR, UT MORTUI AB INFERIS EXCITENTUR, UT ALIQUID QUOD FIERI NULLO MODO POSSIT AUGENDAE REI GRATIA DICATUR AUT MINUENDAE, QUAE *HYPERBOLE* DICITUR, MULTA ALIA MIRABILIA. SED LATIOR EST CAMPUS ILLORUM.  EISDEM TAMEN EX LOCIS, UT ANTE DIXI, ET [IN] MAXIMIS ET MINIMIS QUAESTIONIBUS ARGUMENTA DUCUNTUR.  De similitudinis loco plene aeque expedite disseruit, omnemque aperuit intellectum, similitudinum diuidens formas, praescripsitque apertissime quibus magis ex similitudine argumenta contingerent, id est philosophis atque oratoribus; et enim similitudo persuasionibus uidetur aptissima. Nam quod in unam uel plures extra eam de qua quaeritur causam cadere solet, facile credi potest in eam quoque de qua ambigitur conuenire. Idcirco ex similitudine tractae argumentationes magnum oratoribus usum praestant, philosophis quoque, quoniam non in omnibus quaestionibus demonstratione utuntur sed aliquoties uerisimilia colligunt, quo id facilius persuadeant quod nituntur ostendere, similitudo rerum saepe est inquirenda atque idcirco locus a similitudine oratoribus maxime philosophisque conducit, non tamen solis. Omnes enim loci communes sunt cuiusque materiae sed in aliis uberius incidunt, in aliis angustius inueniuntur. Quocirca cognitis atque ante perceptis locis quaestiones ipsae quae tractabuntur quibus locis uti debeat solertem animum poterunt admonere.  Omnis uero similitudo duplex est: aut enim ex pluribus similitudo colligitur, et inductio nuncupatur, quod Graeci *epagoge* nominant, aut singulae res per similitudinem comparantur.  Ac prior quidem huiusmodi est: Si tutor fidem praestare debet, si socius, si cui mandaueris, si qui fiduciam acceperit, debet etiam procarator. Nam cum in pluribus rebus fides praestari debeat, unaque similitudo sit in fide praestanda tam in tutore quam socio, atque eo cui mandatum sit, eoque qui fiduciam acceperit, debet eadem similitudo procuratori etiam conuenire. Fiduciam uero accepit cuicumque res aliqua mancipatur, ut eam mancipanti remancipet, uelut si quis tempus dubium timens amico potentiori fundum mancipet, ut ei cum tempus quod suspectum est praeterierit reddat; haec mancipatio fiduciaria nominatur, idcirco quod restituendi fides interponitur. Hac similitudinis collectione plurimum Socrates esse usus dicitur, ut in Platonis aliorumque eius sectatorum uoluminibus inuenitur.  Quoties uero una res uni rei per similitudinem comparatur, hoc modo colligitur argumentum. Regendorum finium arbitri esse dicuntur, qui finalia litigia discernunt, ut si fuerit de finibus orta contentio, eorum dirimatur arbitrio. Sed fines in agrorum tantum limitibus esse dicuntur, arbitri autem finiam regendorum in ciuitate esse non poseunt. Item arceri aquam in agris tantum dici solet, ubi si ex aliquo loco aqua pluuia colligatur, et defluens in campos uicini pascua frugesue corrumpat, arbitri arcendae aquae a magistratibus statuebantur. Quaeritur ergo an in urbe arcendae quae arbitrium possimus adigere. Et argumentum capitur ex similitudine. Si regendorum finium, quia solius agri sunt, in urbe arbitrum adigere non possis, ne aquae quidem arcendae, quia solorum esse uidetur agrorum, in urbe arbitrum possis adigere. Hic igitur una res uni rei similitudine coniuncta est.  Ex eodem etiam similitudinis loco illa sumi Cicero proponit quae uocantur exempla, ueluti Crassus in causa Curiana, quae fuit huiusmodi: Quidam praegunutem uxorem relinquens scripsit haeredem posthumum, eique alium substituit secundum, qui Curius uocabatur, ea conditione, ut si posthumus, qui intra menses decem proximos nasceretur, ante moreretur quam in suam tutelam peruenisset, idem ante obiret diem, quam testamentum iure facere posset, secundus haeres succederet; quod si ad id tempus peruenisset quo, iam firmo iudicio in suam tutelam receptus, iure ciuili instituto posset haerede defungi, secundus haeres, id est Curius, non succederet quae uocatur substituto pupillaris: quaesitum est an ualeret ita instituta ratio. Crassus, igitur multa protulit exempla, quibus ita institutis haeres obtinuisse haereditatem, quae exemplorum commemoratio iudices mouit.  Dicit etiam ipsos quoque iurisconsultos uti saepius exemplis, ueluti cum fingitur, id est imaginatur, propositio, ut casus de quo agitur per similitudinem intelligatur, hoc modo: Si quis enim iurisperitus adiiciat id quod non iure contractum est nullius esse momenti, adhibeatque exemplum tale, uelut si quis rem non mancipi mancipauerit, num idcirco aut rem alienauit, aut se reo facto potuit obligasse? minime, quod enim non iure contractum est nil retinet firmitatis. Et alia huiusmodi apud iurisperitos inueniuntur, in quibus oratores maxime ualent, quibus etiam in tantum fingere licet, ut eorum ratione etiam mortui saepe ab inferis excitentur, quod Tullius in ea facit oratione qua Caelium defendit. Sed latior, inquit, est illorum campus, id est oratorum, quibuss patiari ac deuagari licet: nec idcirco minus caeteris quoque facultatibus similitudines prosunt, quoniam eadem argumenta maximis minimisque causis conueniunt; quo fit ut loci quoque argumentorum diuersarum artium quaestionibus accomodentur. SEQUITUR SIMILITUDINEM DIFFERENTIA REI MAXIME CONTRARIA SUPERIORI;  SED EST EIUSDEM DISSIMILE ET SIMILE INVENIRE. EIUS GENERIS HAEC SUNT: NON,  QUEMADMODUM QUOD MULIERI DEBEAS, RECTE IPSI MULIERI SINE TUTORE AUCTORE  SOLVAS, ITEM, QUOD PUPILLO AUT PUPILLAE DEBEAS, RECTE POSSIS EODEM MODO  SOLVERE.  Eiusdem facultatis est similitudines differentiasque cognoscere; qui enim scit quid sit idem, nosse poterit quid sit diuersum. Omnis uero similitudoidem aliquid esse constituit, quod enim idem est secundum qualitatem, id simile esse necesse est. Omnis quippe res aut substantia eaedem sunt, aut qualitate, aut caeteris praedicamentis. Quod si ita est, et animus intelligere hoc idem in pluribus praedicamentis potest. Sed eam hoc ipsum idem in praedicamentis notat, eodem modo in eisdem praedicamentis quod diuersum est intuetur; sed simile idem est, differentia uero diuersum. Idem igitur animus eademque intelligentia similitudinem differentiamque cognoscit.  Differentiarum uero multae sunt species, aliae quippe sunt substantiales, ut homini rationale, aliae non substantiales sed inseparabiles, ut nigrum Aethiopi atque coruo; aliae uero mobiles neque constantes, ut sedere, stare, et huiuscemodi caeterae quibus et ab aliis hominibus et a nobis ipsis saepe distamus. Item differentiae aliae aliquo modo sunt generum diuisibiles, aliae aliquo modo specierum constitutiuae; sed si a constitutiuis argumentum ducatur, uelut a genere ducitur. Nam sicut genus continet speciem, ita differentiae continent species. Sane si differentiae constitutiuae ut genera intelligentur, fides ab his ad ea aptabitur quae constituunt. Haec enim talium differentiarum ueluti formae quaedam sunt. Sin uero sint diuisibilis, siquidem ad ea probanda, id est genera, quae diuidunt, earum ducitur fides, a forma argumentum fieri uidetur, nam tales differentiae eorum quae diuiduntur formae quaedam sunt.  Quod ei ad ea probanda referuntur quae in contrariam partem genus diuidunt, tunc proprie a differentia fieri argumentum uidetur, quia contrariae ueluti differentiae comparantur.  Quod uero ad exemplum attinet Tullii huiusmodi est: Mulieres antiquitus perpetua tutela tenebantur, pupilli item sub tutoribus agunt; sed mulieribus si quid debitum fuisset, sine tutoris auctoritate poterat solui, pupillis uero minime. Ergo si quaeratur an id quod debeatur pupillo cuilibet, renuente tutore, possit exsolui, a differentia sumitur argumentum, sic: Non sicut mulieri sine tutoris auctoritate debitum possis exsoluere, eodem modo, nisi auctoritas tutoris accesserit, pupillo soluere quod debeas possis; illas enim perpetua tutela, etiam prouecta iam aetate, continentur, illorum tutelae certus annorum numerus terminum facit; atque idcirco solui pupillo sine auctoritate non poterit. Differt enim persona mulierum a persona pupillorum, uel in eo quod pupilli non perpetua reguntur tutela, mulieres uero perpetua; uel quod pupillus nullum suae rei administrandae utilitatis iudicium habere potest cum sit aliquis mulieribus etsi non firmus, in explicanda familiaris rei utilitate delectus.  DEINCEPS LOCUS EST QUI E CONTRARIO DICITUR. CONTRARIORUM AUTEM GENERA PLURA; UNUM EORUM QUAE IN EODEM GENERE PLURIMUM DIFFERUNT, UT SAPIENTIA STULTITIA. EODEM AUTEM GENERE DICUNTUR QUIBUS PROPOSITIS OCCURRUNT TAMQUAM E REGIONE QUAEDAM CONTRARIA, UT CELERITATI TARDITAS, NON DEBILITAS. EX QUIBUS CONTRARIIS ARGUMENTA TALIA EXISTUNT: SI STULTITIAM FUGIMUS, SAPIENTIAM SEQUAMUR ET BONITATEM SI MALITIAM. HAEC QUAE EX EODEM GENERE CONTRARIA SUNT APPELLANTUR ADVERSA. SUNT ENIM ALIA CONTRARIA, QUAE PRIVANTIA LICET APPELLEMUS LATINE, GRAECI APPELLANT *STERETIKA*. PRAEPOSITO ENIM 'IN' PRIVATUR VERBUM EA VI, QUAM HABERET SI 'IN' PRAEPOSITUM NON FUISSET, DIGNITAS INDIGNITAS, HUMANITAS INHUMANITAS, ET CAETERA GENERIS EIUSDEM, QUORUM TRACTACTIO EST EADEM QUAE SUPERIORUM QUAE ADVERSA DIXI.  NAM ALIA QUOQUE SUNT CONTRARIORUM GENERA, VELUT EA QUAE CUM ALIQUO CONFERUNTUR, UT DUPLUM SIMPLUM, MULTA PAUCA, LONGUM BREVE, MAIUS MINUS.  SUNT ETIAM ILLA VALDE CONTRARIA QUAE APPELLANTUR NEGANTIA; EA *APOPHATIKA*; GRAECE, CONTRARIA AIENTIBUS: SI HOC EST, ILLUD NON EST. QUID ENIM OPUS EXEMPLO EST? TANTUM INTELLEGATUR, IN ARGUMENTO QUAERENDO CONTRARIIS OMNIBUS CONTRARIA NON CONVENIRE.  Diuisio, differentiae loco, nunc de contrariis tractat. Quare uti rerum ordo clarius colliquescat, pauca mihi ex Aristotele sumenda sunt quae ille uir omnium longe doctissimus de hac diuisione tractauit, quanquam M.  Tullius re quidem Aristoteli fere consentit sed ab eo nominum interpretatione diuersus est. Nam quae Aristoteles opposita, id est *antikeimena* uocat, ea Tullius contraria nominat; sed haec paulo posterius.  Nunc Aristotelis diuisio consideretur. Oppositorum igitur secundum Aristotelem alia sunt contraria, alia priuatio et habitus, alia relatiua, alia contradictoria. Contraria quidem, ut album atque nigrum; habitus uero et priuatio, ut uisus et caecitas, dignitas et indignitas; relatiua uero, ut pater, filius, dominus, seruus; contradictioria, ut est dies, non est dies: horum omnium tales inter se differentiae considerantur.  Nam quae contraria sunt, partim mediata sunt, partim uero medio carent. Mediata sunt, ut album, nigrum, est enim horum medius quilibet alius color, ut rubeas uel pallidus, et horum contrariorum non nec esse est alterum semper inesse corporibus. Neque enim omne corpus aut album aut nigrum est; sed aliquoties in horum medietate est constitutum, ut sit rubrum uel pallidum. Immediata uero contraria sunt quorum nihil medium poterit inueniri, ut grauitas et leuitas: horum enim nihil est medium. Nam quae leuia sunt, sursum feruntur, quae grauia, deorsum. Quod autem sit corpus quod neque sursum neque deorsum feratur, nihil poterit inueniri. Sed immediata contraria talia sunt, ut allerum eorum accidere semper inhaereat, ut in propositio superius exemplo.  Necesse est enim omne corpus uel leue esse uel graue, quia leuitas et grauitas medium non habent, quod praeterea inesse corporibus possit.  At ea quae in priuatione et habitu sunt, ut caecitas et uisus, distant quidem ab his contrariis quae claudunt aliquam medietatem, quod ipsa medietatem non habent; ab his uero contrariis differunt quae sunt immediata, quoniam horum contrariorum alterum semper subiecto inesse est, ut corpori grauitatem uel leuitatem; priuationem uero et habitum non semper, ut cum sit habitus quidem uisus, priuatio autem caecitas, non omne quod uideri potest, aut uidet, aut caecum est: infans quippe nondum editus neque uidet, quia nondum processit in luce, neque caecus est, quia nondum habuit uisum, quem potuisset amittere. Idem de catulis dici potest, qui statim nati nequeunt intueri, nam tunc eos nec caecos dicere possumus, nec uidentes. Et postremo contraria semper in suis qualitatibus considerantur; priuationes autem, non quod ipsae sint aliquid sed ex habitus absentia colliguntur neque enim caecitas est aliquid sed a uisus intelligitur abscessu.  Tam uero priuatio quam contrarietas differt a relationis oppositione, eo quod neque contraria, neque priuatoria simul esse possunt; idem enim in uno eodemque tempore, uno eodemque in loco album et nigrum, uidens et caecum esse non poterit; sed relatiua a se nequeunt separari, neque enim potest esse filius sine patre, nec seruus, si dominus non sit. Amplius, contraria ad se et priuatoria non referuntur. Nemo enim dicit album nigri, uel nigrum albi, uel caecitatem uisus, uel uisum caecitatis. Quae uero in relatione sunt posita in ipsa relationis praedicatione consistunt, ut duplum dimidii, dominus serui, et caetera ad hunc modum.  Tam uero contraria quam etiam relationes differunt a contradictionibus, quoniam contradictiones quidem semper in oratione consistunt, et in altera earum parte ueritas, in altera falsitas inuenitur, contraria uero priuatoria et relationes in simplicibus partibus orationis inuenitur et in his neque ueritas neque falsitas inest.  Nam cum dico album, nigrum, caecitas, uisus, dominus, seruus, simplices orationis partes sunt, neque uerum, neque mendacium continentes; in simplicibus enim partibus orationis ueritas uel falsitas nulla est: cum autem dico dies est, dies non est, utraeque propositiones, una in affirmatione, altera in negatione posita, orationes sunt.  Sed M. Tullius non tam propriis nominibus quam notioribus utitur; ait enim contrariorum alia esse quae aduersa uocantur, alia quae priuantia, alia quae in comparatione sunt, alia quae aientia et negantia nuncupantur. Sed quae contraria nominat, opposita uerius dicerentur; quae aduersa dicit, contrariorum melius susciperent nomen; quae in collatione nominat, ea relatiua uel ad aliquid certius uocarentur: sed utatur nominibus ut uolet, dum res ipeae certa proprietatis suae ratione signentur; nos uero in caeteris quos edidimus libris eo nuncupauimus modo, quo superius in Aristotelis dictum est diuisione. Secundum M. Tullium igitur contrariorum alia sunt aduersa, ut sapientia, stultitia; alia priuantia, ut dignitas et indignitas; alia quae cum aliquo conferuntur, ut duplum, simplum; alia quae appellantur negantia, e contrario aientibus constituta, ut si hoc est, illud non est.  Aduersa igitur sunt quae, sub uno genere posita, plurimum differunt, ut album, nigrum, quae a se plurimum distant sub uno genere posito, id est sub colore. Item celeritati tarditas aduersa est, positis utrisque sub motu, neque enim celeritati debilitus opponenda est, quia debilitati firma ualetudo contraria est, quod in diuisione omisit Cicero sed docuit exemplo; illa quoque dicuntur aduersa, quae, in diuersis generibus sita, plurimum a se discrepare intelliguntur, ut sapientiae stultitia. Illa enim sub genere boni est, haec uero sub mali, quamquam huiusmodi exemplum priuationem potius spectare uideatur; nam stultitia priuatio est sapientiae, nec quidquam est aliud stultitia nisi sapientiae et rationis absentia; sed quae sint quae priuantia Cicero appellat, posterius demonstrabo. Ex his aduersis hoc modo sumitur argumentum. Si stultitiam fugimus, sapientiam sequamur; si bonitatem appetimus, malitiam fugiamus, quanquam malitia quoque, secundum eumdem modum qui superius dictus est, priuationibus possit adiungi.  Priuantia uero secundum Ciceronem sunt, quae Graece *steretika* appellantur, quae habent eam partem orationis praepositam, quae cum fuerit adiecta, semper fere aliquid demit ut ea in praepositio; haec enim syllaba cui fuerit apposita, demit fere aliquid ex ea ui quam esset res quaelibet habitura, si in syllabam praepositam non haberet, ut humanitati inhumanitas: in namque praeposita id de quo dicitur humanitate priuauit, ut dignitas, indignitas; et Tullius quidem ea tantum priuantia esse confirmat, in quibuscumque syllaba ista praeponitur: priuantium quippe natura secundum Tullium huius syllabae commemoratione finitur; a Peripateticis uero accepimus priuationes cum simplicibus nominibus, tum priuatoriis syllabis efferri, cum simplicibus norninibus, ut caecitas, cum priuantibus uero syllabis, ut indignitas, inhumanitas. Quocirca, secundum M. Tullium, caecitas non erit priuatio uisus sed ei aduersum, atque idcirco forsitan stultitiam inter aduersa numerauit, quoniam non habet in syllabam ex qua priuationes arbitrantur existere.  Ex quibus eodem modo, ut in superius positis aduersis, argumenta ducuntur: Inhumanitalem auersemur, si humanitas consectanda est.  Illa uero contraria, ut ait Tullius, quae cum aliquo conferuntur, talia sunt, ut duplum simpli. Id tantumdem est tanquam si diceret duplum dimidii simplum enim dupli dimidium est, et pater filii; eaque sunt semper reciprocantia, aliquoties quidem septimo casu, aliquoties uero genitiuo, nam filius patris est filius et pater filii, haec secundum genitiuum conuersio est, et duplum simplo duplum est, haec secundum septimum casum; sunt etiam quae accusatiuo, ut pauca ad multa, et magnum ad paruum.  Item negantia sunt quae in affirmationibus et negationibus posita sunt, ut si hoc est, illud non est, ueluti si dies est, nox non est, atque hanc oppositionem Cicero ualde dicit esse contrariam.  Ex quibus omnibus secundum superius dictum modum argumentorum facultas est, nam ex relatiuis contrariis ita sumimus argumentum si pater est, fieri non potest quin ei filius sit. Ex negantibus autem quae *apophatika* (ut ait) Graeci uocant, ita: Si sol supra terram fuit, nox esse non potuit  haec enim affirmatio illam perimit negationem; cur uero haec negantia esse constituerit mirandum est. Nam quae negantia sunt aientibus opponuntur, et simul esse non possunt, ut diem esse ac diem non esse, hoc uero consequens est cum ita dicatur, si hoc est, illud non est, ut si dies est, nox non est. Atque affirmationem negationemque Tullius ualde dicit esse contrariam sed in hac consequentia nequeunt csse contraria: nam quod est consequens, contrarium non est.  AB ADIUNCTIS AUTEM POSUI EQUIDEM EXEMPLUM PAULO ANTE, MULTA ADIUNGI, QUAE SUSCIPIENDA ESSENT SI STATUISSEMUS EX EDICTO SECUNDUM EAS TABULAS POSSESSIONEM DARI, QUAS IS INSTITUISSET CUI TESTAMENTI FACTIO NULLA ESSET. SED LOCUS HIC MAGIS AD CONIECTURALES CAUSAS, QUAE VERSANTUR IN IUDICIIS, VALET, CUM QUAERITUR QUID AUT SIT AUT EUENERIT AUT FUTURUM SIT AUT QUID OMNINO FIERI POSSIT.  AC LOCI QUIDEM IPSIUS FORMA TALIS EST. ADMONET AUTEM HIC LOCUS, UT QUAERATUR QUID ANTE REM, QUID CUM RE, QUID POST REM EVENERIT. "NIHIL HOC AD IUS; AD CICERONEM" INQUIEBAT GALLUS NOSTER, SI QUIS AD EUM QUID TALE [1122C] RETTULERAT, UT DE FACTO QUAERERETUR. TU TAMEN PATIERE NULLUM A ME ARTIS INSTITUTAE LOCUM PRAETERIRI; NE, SI NIHIL NISI QUOD AD TE PERTINEAT SCRIBENDUM PUTABIS, NIMIUM TE AMARE VIDEARE. EST IGITUR MAGNA EX PARTE LOCUS HIC ORATORIUS NON MODO NON IURIS CONSULTORUM, SED NE PHILOSOPHORUM QUIDEM.  [12.52] ANTE REM ENIM QUAERUNTUR QUAE TALIA SUNT: APPARATUS COLLOQUIA LOCUS CONSTITUTUM CONVIVIUM; CUM RE AUTEM: PEDUM CREPITUS, STREPITUS HOMINUM, CORPORUM UMBRAE ET SI QUID EIUS MODI; AT POST REM: PALLOR RUBOR TITUBATIO, SI QUA ALIA SIGNA CONTURBATIONIS ET CONSCIENTIAE, PRAETEREA RESTINCTUS IGNIS, GLADIUS CRUENTUS CAETERAQUE QUAE SUSPICIONEM FACTI POSSUNT MOVERE.   Qui sit ab adiunctis locus breui superius monstrauit exemplo, eo scilicet quo dixit: Si secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas possessio bonorum daretur, consequens esss ut secundum quoque puerorum et seruorum tabulas possessio permitteretur. Sed nunc formam ipsam et quasi subiectum loci monstrare proponit, quae est huiusmodi: Ab adiunctis enim locus est, cum ex eo quod proponitur aliquid aliud uel esse, uel fuisse, uel futurum esse argumentatione colligitur, ut in eo ipse quod dudum posuit exemplo. Approbatur enim non debere secundum mulieris nunquam capite diminutae tabulas bonorum possessionem dari, quia si id fuerit positum, id futurum est, ut secundum puerorum quoque ac seruorum tabulas honorum possessio permittatur. Talia uero sunt quae dicuntur adiuncta, ut circa rem fere quae quaeritur inueniantur, neque tamen nec esse sit ei semper adhaerere; et forma quidem huius loci talis est, ut hanc quoque definitionem possit admittere. Ab ad iunctis locus est cum ex aliquibus, quae sunt proxima eis de quibus quaeritur rebus, id quod quaeritur uel inesse, uel esse, uel futurum esse monstratur.  Qui locus est coniecturalibus causae, maxima necessarius. Cum enim de facto quaeritur, tum si id factum est quod dubitatur, qui uel fuerit, uel sit, uel futurum sit, considerari solet: multa enim sunt quae unicuique adiuncta rei uariorum euentu temporum colliguntur. Idcirco enim quid ante rem, quid cum re, quid post rem euenerit, in coniecturalibus causis inquiritur, quae ab oratoribus tractantur solis, neque iurisconsultis in huiusmodi negotiis cum rhetorica facultate ulla communio est, iuris enim peritus de facti qualitate, non etiam de ipsius facti ueritate respondet. Idcirco quoties ad Gallum peritum iuris facti quaestio deferebatur, NIHIL AD NOS inquiebat, et ad Ciceronem potius consulentes, id est ad rhetorem remittebat. In quo Tullius facere ad Trebatium locum miscuit dicens: Quanquam locus hic ab adiunctis coniecturalibus causis maxime utilis, nihil consultorum iuris prudentiam iuuet, patiere me tamen, inquit, nullam suscepti operis partem praeterire, ne si in hoc libro nihil praeter tuae artis exempla conscripsero, tuae tantum gratiae uideatur addictus.  Ab adiunctis uero locus qui non modo iurisconsultis sed ne philosophis quidem praeter oratores non patet, trium saepe temporum ratione tractandus est. Nam de facto si quaeritur, quid uel ante id, uel cum eo, uel post id fuerit nec esse est uestigari. Ante rem quidem hoc modo, apparatus; uerisimile est enim effecisse aliquem quod ante efficiendum parauit, colloquia fieri enim potuit ut amauerit, qui saepe fuerit collocutus.  LOCUS, uelut cum ad aliquid faciendum opportunus locus eligitur.  CONSTITUTUM CONVIVIUM, uelut si quis constituto ante conuiuio in eo fecisse aliquid arguatur capiaturque coniectura facti, ex eo ipse quod sit conuiuium constitutum, atque horum omnium ante rem de qua quaeritur exempla sunt. Cum re uero hoc modo: Pedum crapitus, uelut si isse in quempiam locum aliquis accusetur, pedum crepitu deprehensus esse probabitur; uel si fuisse adulter in cubiculo ex umbra corporis designetur, haec cum ipsis de quibus quaeritur inspecta, eisdem tamen intelliguntur adiuncta. Post rem uero, si quas conscientiae maculas pallor, rubor, titubatioque prodiderit: restinctus ignis, uelut si clam factum aliquid exstincto igni uelimus ostendere, ut tutius notitiam submouentibus tenebris committeretur. Item gladius cruentus peractum facinus monstrat. Haec omnia post rem facto intelliguntur adiuncta.  Et semper ante rem cum re, et post rem, secundum rationem temporum intelligendum est, neque ita ut in antecedentibus et consequentibus. Illic enim naturae ratio consideratur. Omnia quippe simul sunt: nam quod antecedit, si positum sit, statim est id quod consequitur, ut si ponas hominem statim animal esse nec esse est, nec ante secundum tempus homo dici potest, post uero subsequi animal, ut ante aliquis apparatus est secundum tempus, posterior effectus. Itaque illic antecedentia et consequentia nominantur, hic ante rem, cum re, et post rem. Idcirco quod illud quidem, non secundum tempus, sed secundum principalitatem naturae secum simul aliquid trahentis antecedens dicitur, consequens id quod antecedens comitatur. Ea uero quae secundum temporis priorem posterioremue rationem considerantur, adiuncta, idcirco ante rem, cum re et post rem coepere uocabulum.  DEINCEPS EST LOCUS DIALECTICORUM PROPRIUS EX CONSEQUENTIBUS ET ANTECEDENTIBUS ET REPUGNANTIBUS. NAM CONIUNCTA, DE QUIBUS PAULO ANTE DICTUM EST, NON SEMPER EVENIUNT; CONSEQUENTIA AUTEM SEMPER. EA ENIM DICO CONSEQUENTIA QUAE REM NECESSARIO CONSEQUUNTUR; ITEMQUE ET ANTECEDENTIA ET REPUGNANTIA. QUIDQUID ENIM SEQUITUR QUAMQUE REM, ID COHAERET CUM RE NECESSARIO; ET QUIDQUID REPUGNAT, ID EIUS MODI EST UT COHAERERE NUMQUAM POSSIT.  Expedito adiunctorum loco, nunc de antecedentibus et consequentibus et repugnantibus disserit. Qui locus sit unus in tria uelut membra diuisus est. M. quidem Tullius loci huius uocabulum tacuit, mihi autem totus conditionalis appellandus uidetur. Cuius cum promptissime natura claruerit, nomen quoque ei, quod nos posuimus, recte inditum manifestius apparebit.  Primum igitur singularum partium definitio prodenda est. Itaque antecedens est, quo posito aliud nec esse est consequatur: itemque consequens alicuius est, quod esse nec esse est, si illud cuius est consequens praecessisse constiterit. Repugnans est quod simul cum eo cui repugnare dicitur esse non possit.  Antecedentium igitur, atque consequentium, et repugnantium, unum esse locum praediximus, qui quomodo sit unus, paucis ostendam. Primum igitur dum quaereretur quonam modo unus esset locus a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, dicebatur quoniam eiusdem mentis esset atque intelligentiae tam consentanea sibimet quam dissidentia praeuidere, idcirco hunc quoque locum unum uideri. Consentaneorum namque duae sunt partes, antecedens una, altera consequens. Nam cum altero praecedente comitatur alterum, illa sibi in ipsa naturae consequentia consentire necesse est. Repugnantium uero tametsi duae partes sint, unum tamen est utriusque uocabulum, utraque enim repugnantia nominantur. Duae uero esse, quae sibimet repugnent, atque a se dissentiant nullus ignorat; sed eo distant, quod antecedentium et consequentium duo sunt nomina, licet unus sit utriusque consensus; repugnantibus uero unum nomen est, cum sit unus in utrisque dissensus, ergo eadem mens, eademque intelligentiae ratio id quod praecedit et id quod comitatur, intelligit.  Neque enim fieri potest ut antecedens aliquid intelligatur, nisi in eodem quid sit consequens consideretur: eodem quoque modo nec consequens, nisi appareat quid praecedat; item repugnans aliquod intelligere nemo potest, nisi intelligat cui repugnet: sed quoniam eadem ratio potest similia dissimiliaque perspicere, antecedentium uero et consequentium consensus quidam et per naturae similitudinem concordia est, dissensus uero in repugnantibus dissimilitudo, nec esse est ut una atque eadem ratio antecedentium consequentiumque naturam et repugnantium spectet; quo fit ut unus quoque locus sit eorum quae una intelligentia comprehendit.  Sed huic opponebatur: Cur igitur alium ex similitudine, alium ex contrario locum Marcus Tullius superius enumerauit? Nam secundum propositam rationem, quoniam similitudinem et contrarietatem intelligentia una perpendit, unus locus similium contrariorumque esse debuisset. Sed respondebatur quoniam non eodem modo sibi antecedentia et consequentia consentire dicuntur, sicut ea qum similia nuncupantur. In his namque una tantum qualitas inuenitur, et secundum eamdem qualitatem similia esse dicuntur; at in antecedentibus et consequentibus non qualitatis similitudo sed quidam naturae consensus est. Et quae similia sunt sine se esse possunt, antecedentia uero et consequentia sine se esse non possunt, atque idcirco non uidetur esse consequentium et antecedentium cum similitudine ulla communio naturae. Quae ratio non ualde uidentur idonea, nec explicat quod demonstrare conabatur.  Illud certe firmissimum esse constat, quod huius loci tractatus conditionalibus semper propositionibus accomonodaretur. Conditionalis uero propositio est quae cum conditione pronuntiat esse aliquid, si aliud fuerit, ueluti cum dicimus: Si dies est, lucet.  Haec igitur rerum consequentia facile in repugnantiam uertitur. Nam si rebus consequentibus negatio interponatur, ex consequentibus repugnantia redduntur, hoc modo: Si dies est, lux est.  Repugantia sunt ita: Si dies est, lux non est  repugnant enim diem esse et lucem non esse. Quae repugnantia in conditione consistit. Dicimus enim: Si dies est, lux non est  nam diei contrarium est nox. Consequens uero noctis, lucem non esse, quare esse diem et non esse lucem repugnat.  Argumentum uero est, hanc repugnantiam in conditione consistere, quia si conditio deficiat, nulla est repugnantia, hoc modo: Dies est Lux non est  utraeque enim disiunctae propositiones suas sententias gerunt, nec quidquam intelliguntur habere commune, atque ideo diuersis acceptae temporibus uerae sunt, nec repugnant. Nam sicut in his propositionibus, dies est, lux est, nulla est consequentia, quoniam conditio deest, quae propositionem facit connexam sed utraeque a se disiunctae suam sententiam claudunt, ita in his quibus proponitur, dies est, lux non est nulla est repugnantia, quoniam seruat suam utraque separata sententiam. At si his conditio interueniat superiorum quidem, ita sententia copulatur, ut consequentes fiant, posteriorum uero ita ut repugnantes, hoc modo: Si dies est, lux est.  Haec consequens propositio ex duabus per conditionem mediam effecta est una. At si sit ita, si dies est, lux non est, repugnat. Negatum enim quod sequitur repugnare necesse est.  Amplius, argumentum quod ex antecedentibus et consequentibus fit ex unius propositionis connexae partibus nascitur, nam conditionalis propositionis connexae una pars est antecedens, alia consequens. Quod si a repugnantibus argumentum fiat, rursus ab unius propositionis membris tale argumentum nasci oportebit. Igitur ex his propositionibus, dies est, lux est, una esse non potest nisi a conditione copulentur, ut unum sit antecedens, aliud consequens, et ideo in his ex antecedenti et consequenti argumentum esse non potest, quoniam duae sunt ex illis quoque propositionibus quae sunt, dies est, lux non est: una esse non poterit, nisi conditionis adiunctione in unius quodammodo propositionis sententiam reducantur cuius propositionis partes sunt repugnantes. Nam, ut in connexa propositione una pars antecedens, alia est consequens, ita in repugnanti utraque pars propositionis a semet inuicem repugnat ac dissidet.  Amplius: repugnans propositio connexae partem contrariarm tenet, nam ut in illa quod antecedit secum id quod sequitur trahit, ita in hac propositione partes simul esse non possunt. Contrariae uero differentiae sub eodem genere poni solent. Si igitur connexa propositio in conditione est constituta, repugnans quoque in conditione subsistit; quod si et consequentiam propositionum et repugnantiam conditio facit, non est dubium quin locus hic iure conditionalis uocetur, ac sit unus positus in conditione diuisis partibus, id est in antecedentem consequentemque et repugnantem. Connexaeque namque propositionis una pars antecedens est, alia consequens. Repugnantis uero propositionis utraque repugnatae dissidet. Itaque connexae propositionis partes antecedens et consequens sunt, repugnantis uero repugnantes. Nec illud intelligentiam turbet quod dies est et lux est quadam sibi ratione consentiunt. Item dies est et lux non est, quasi a se dissentiunt atque discordant, nam connexa est propositio si cum aliud antecesserit, aliud consequatur. Item repugnans, si uno posito aliud inferatur, quod esse non potest nisi id ius conditionis efficiat. Quocirca aperte demonstratum esse arbitror conditionalem hunc locum uocari et recte unum esse a M. Tullio constitutum. Quomodo uero fiat ab antecedentibus et consequentibus et repugnantibus argumentum, posterius dicam.  Sed quoniam nullius facultatis alterius est, quid uel quamque rem consequitur, uel quid cuique repugnet inspicere, nisi dialecticae tantam, quae huius quam maxime rei perititiam profitetur, idcirco ait hunc esse locum totum dialecticorum.  Qui etiam ab adiunctis longe lateque diuersus est. Primum quod adiuncta prodere sese atque ostendere inuicem poesunt, non uero perficere atque adimplere naturam, ueluti ambulationem pedum strepitus significare quidem ac denuntiare potest, efficere uero non potest. Neque etiam ambulationem efficit pedum strepitus, nec uero ex neccssitate ambulatio ut sit pedum strepitus auctor est sed saepe ita ambulatur, ut nullus pedum strepitus exaudiatur; saepe non mulato loco moueri pedes ac strepere praeter ambulationem queunt; idcirco non semper inueniunt ad iuncta: propositoque termino quem probare contendimus, saepe ex adiunctis argumenta deficiant, quia ipsa quoque aliquoties deficere uidentur adiuncta. Praecedentia uero et consequentia et repugnantia numquam desunt omne enim quidquid in rebus est, habet quod se aut sequatur naturaliter, aut praecedat. Est etiam a quo per naturae diuersitatem dissideat, uelut animal sequitur quidem hominem, praecedit uero substantiam; dicimus enim: Si homo est, animal est  substantiam uero praecedit, cum proponimus, si animal est, substantia est.  Repugnat uero mortuo cum enuntiamus, si animal est, mortuum non est.  Praeterea quae sunt adiuncta temporibus distributae sunt, ut ante rem, cum re, post rem. Quae uero sunt antecedentia, consequentia, et repugnantia, quomodolibet modo in temporibus sint, nihil refert. Nam priora saepe temporibus comitantur, et temporibus posteriora praecedunt, et quae simul temporibus sunt, alias praecedunt, alias uero consequuntur, ut superius quoque saepe diximus.  Amplius, quae antecedentia sunt et consequentia relinquere sese non possunt, nec sibi repugnantia cobaerere, et sunt repugnantia necessario sibimet inconnexa; quae uero sunt adiuncta nihil obtinent necessitatis, quia et iungi sibimet, et a se separari queunt.  Quae cum ita sint, quaestio difficilis uehementer oboritur, uidetur enim minus intuentibus nihil hic locus differre his locis qui dicti sunt uel a genere, uel a specie, uel a contrariis. Nam genus semper speciem sequitur, speciem genus praecedit, contraria simul esse non possunt.  Quae soluenda est hoc modo: Primum quia non omne consequens genus est, nec omnis species antecedens. Repugnantia uero ipsa contraria sed contrariorum sunt consequentia, ut in locorum qui a M. Tullio propositi sunt expositione monstrauimus. De hinc quia cum a genere fit argumentum, ipsum genus assumitur, eodem quoque modo et species, cum ab ea aliquid uolumus approbare, cum uero ab antecedentibus aliquid monstrare contendimus, eo quod in conditionali propositione praecessit utimur in assumptione, etiamsi non fuerit genus. Item si a consequenti argumentum fiat, etiamsi species non sil, a consequenti parte conditionalis propositionis ducitur argumentum, ueluti cum ita dicimus: Si ignis est, leuis est, ignis anteoedit, leuitas sequitur; sed neutrum neutri est genus aut species, assumitur itaque, atqui ignis est. Nunc igitur id quod antecedebat assumpsi, ex quo monstratur conclusio, leuis igitur est. At si ita assumamus sed non est leuis, id quod consequebatur assumpsi. Concluditur ergo atque monstratur, non est igitur ignis.  Vides igitur ut de his praecedentibus etconsequentibus nunc biquamur quae in conditionali propositione posita, uel praecedere uel consequi intelliguntur. Cum uero fit ex genere argumentum, species quidem est de qua aliquid probare contendimus; genus uero assumimus non quasi praecedens sed quasi continens, ut quidquid esse consideratur in genere, id formae quoquo debeat aptari. Genus enim quoad permanet, a sua specie non recedit: cum uero de specie sumimus argumentum, genus quidem est de quo aliud quaeritur; sed id laboramus, ut quod de genere conamur ostendere, id ex specie possit facilius agnosci. Ut cum uxori Fabiae relictum fuisset legatum, si materfanilias esset, quoniam non conuenit in manum, scilicet, ab in manus conuentione, quae est species uxoris, uxorem quod est matris familiae genus a legati iure seiungimus, et legatum ad speciem, id est matremfamilias deriuamus.  Sed illud interius dispiciendum uidetur, num locus ab antecedentibus et consequentibus totus superuacaneus esse uideatur, cum quolibet modo fuerint ex eo argumenta composita, a caeteris locis quos superius deseripsimus non recedant. Nam quodcumque ab antecedentibus et consequentibus ducitur argumentum, id uel a toto, uel a partibus, uel a coniugatis, uel ab aliquo reliquorum tractum esse perpenditur hoc modo: Si utilis est acquitas constituta ad res suas obtinendas, utile est ius ciuile, ad id quod praecedit, quod sequitur igitur, hoc est a definitione argumentum, scilicet ab assumptione praecedentis. At si ita dicam: Sed non est utile ius ciuile, non est igitur utilis aequitas constituta ad res suas obtinendas, hic per consequentis assumptionem a definitionis loco sumptum est argumentum. Item a partium enumeratione, si neque censu, neque caeteris non est liber, at censu uel caeteris, est igitur liber: at non est liber; neque censu igitur, neque caeteris manumissus est.  Sed notandum est quae sit uis uniuscuiusque argumenti, et quonam modo proferatur. Sunt enim argumenta quae predicatiuis apta sint syllogismis ut a definitione fiat sic: ius ciuile est aequitas constituta his qui eiusdem sunt ciuitatis ad res suas obtinendas. Id uero utile est, utile est igitur ius ciuile. Item a partibus: Qui neque censu neque uindicta, neque testamento est manumissus, hic ex seruitute liber factus non est; Stichus uero neque testamento, neque censu, neque uindicta manumissus est; Stichus igitur liber non est: et in caeteris, eodem modo.  Omnia uero quaecumque per categoricum syllogismum proferri possunt, eadem per conditionalem syllogismum dici queunt. Omnis namque praedicatiua propositio in conditionalem uerti potest, hoc modo: omnis homo animal est, praedicatiua est; haec facile uertitur in conditionalem ita, si homo est, animal est. Non uero omnis conditionalis in praedicatiuam uerti potest, uelut haec: si peperit, cum uiro concubuit. Nemo enim dicere potest ipsum peperisse, id esse quod cum uiro concumbere, quo modo dicimus hominem, id esse quod animal sit.  Alia enim ratio est in his propositionibus quae ita dicuntur, quae peperit, cum uiro concubuit. Haec enim similis est ei quae dicit, si peperit, cum uiro concubuit sed praedicatiua propositio id esse subiectum dicit, quod fuerit praedicatum. Conditionalis uero id ponit, ut si id quod antecedens fuerit necessario comitetur quod subsequitur. Cum uero praedicatiua est propositio, si ea uertetur in conditionalem, alia nimirum redditur propositio. Nam cum dicitur, omnis homo animal est, ipse homo animal esse proponitur; cum uero, si homo est, aninial est, non id sentitur, ut ille qui homo est, animal sit sed proposito esse hominem, consequi ut sil animal.  Ergo conditionalis syllogismus in antecessione et consecutione positus, licet per definitionem, et per partium enumerationem, et per coniugationem, et quolibet alio fiat modo, tamen in propria forma se continet, et est conditionalis, id est utens propria potestate, ut quodammodo caetera argumenta suae ueluti naturae uideatur habere subiecta. Ut cum sit a definitione argumentum, si quidem per praedicatiuam formam factus fuerit syllogismus, a definitione ductum esse dicatur. Sin uero per hypothesin facta fuerit argumentatio, conditionalis fit syllogismus, quem discernat assumptio, utrum ab antecedentis, an a consequentis parte promatur. Quo fit ut etiamsi per caeteros locos conditionale argumentum proferatur, tamen suam quamdam habeat formam, quandoquidem in antecessione et consecutione est constitutus. Tunc enim definitio, partes, coniugatio, et caetera ueluti res ipsa, fiunt ac non locus, cum uenerint in conditionem; at si conditio cesset, ex ipsis profectum uidebitur argumentum. Quod si propositionem conditio copulauerit, ipsa quidem ea sunt quae in propositionibus continentur ueluti quaedam argumenti partes, locus uero in conditione est constitutus.  Atque haec ita dicta sunt, quasi aliter conditionalis hic locus tractari non ualeat, nisi eorum aliquem quos praediximus includat: nam potest praeter eos etiam saepe reperiri, ut cum dicimus: si homo est, risibilis est; si coruus est, niger est. Hic enim nec definitionem, nec partes, nec ullum alium locum superius enumeratum continet argumentum. Amplius, facile est in singulis eorum differentias praeuidere: locus quippe a toto a substantia trahitur, a partibus uero a rei compositione. Nam in simplicibus terminis tale argumentum non potest inueniri, a nota, ab interpretatione; a coniugatis; ab eo quod ex eodem utrumque deducitur; a genere; a continenti; a forma, ab eo quod continetur; a differentia, ab eo quod discrepat; a similibus, ab eadem qualitate; a contrariis, ab eo quod a se longe diuersa sunt; a causis, ab his qui efficiendi uim habent; ab effectis, ab his quae uim alterius efficientiae susceperunt; ab adiunctis, a uicinitate naturae; a comparatione maiorum, parium uel minorum; a relatione, ad aequalem uel inaequalem quantitatem. Ab antecedentibus uero longe alius modus est: constat enim in eo quod si propositum quid fuerit, aliud quiddam modis omnibus existet, quod consequens appellatur; huius uero intelligentia consistit in eo quod praecedente quolibet, aliud subsecutum; repugnantium uero intelligentia consistit, non modo quod neque sequi, neque antecedere possunt, uerum etiam quod simul esse non possunt, quae in conditione consistere dubium non est.  His igitur ita expeditis, quoniam M. Tullius proprietatem loci succincte, ut in transcursu potuit, euidenter expressit, nunc quibus modis eodem loco uti conueniat, adiungit. Quae Topicorum pars, quoniam diligentius explananda est, finem quarto uolumini faciam, quinto caetera redditurus. De omnibus quidem hypotheticis syllogismis, Patrici rhetorum peritissime, plene abundanterque digessimus his libris, quos de eorum principaliter institutione conscripsimus, a quibus integram perfectamque doctrinam, cui resoluendi illa uacuum tempus esi, lector accipiet. Sed quia nunc Ciceronis Topica sumpsimus exponenda, atque in his aliquorum M. Tullius modorum meminit, dicendum mihi breuiter existimo de his septem conditionalibus syllogismis, que eorum natura sit, propositionumque contextio, ut cum haec ad scientiam rite praelibata peruenerint, Tulliana facilius noscantur exempla.  Omne igitur quod in quaestione dubitatur, aut uerisimilibus aut necessariis probabitur argumentis. Argumentum uero omne aut in syllogismi ordinem cadit, aut ex syllogismo uires accipit. Syllogismus uero omnis propositionibus constat.  Propositiones autem uel simplices sunt, uel compositae. Simplices sunt quae simplicibus orationis partibus coniunguntur. Copulant autem incompositam propositionem simplices orationis partes, nomen et uerbum, ueluti cum dicimus, dies est, uel dies uernus est, uel dies serenus est; hic enim omnem uim propositionis nomen connectit et uerbum.  Omnis autem simplex propositio ex subiecto praedicatoque consistit. Subiectum est de quo dicitur id quod praedicatur. Praedicatum est quod de eo dicitur quod subiectum est. Verbum autem aliquoties praedicato nomini adiungitur, aliquoties ipsum praedicatur. Praedicato nomini adiungitur, ut in hac propositione quae dicit, dies serenus est: dies enim subiectus est, serenus praedicatus; est uero uerbum sereno adiunctum est, quod diximus esse praedicatum. At si talis sit propositio, quae solo nomine constet et uerbo, ueluti cum dicimus, dies est, tunc dies subiicitur, est uerbum sine dubio praedicatur; sine uerbo autem nulla est propositio: omnis enim propositio uel uera uel falsa est; nisi autem uerbum sit quodlibet adiunctum, quo esse aliquid aut non esse dicatur, nulla ueritas aut falsitas in propositionibus deprehenditur.  Saepe autem propositiones etiam ex totis orationibus constant; ut si dicamus: Transire in Africam utile est Romanis; hic enim subiectum quidem est transire in Africam, utile autem Romanis praedicatum, est uero praedicato coniungitur.  Huiusmodi igitur omnes propositiones praedicatiuae dicuntur. Praedicatiuae uero appellantur, quia aliud de alio praedicant. Omnesque qui ex his propositionibus fiunt syllogismi, secundum enuntiationum suarum formas praedicatiui appellantur.  Ex his autem praedicatiuis propositionibus existunt compositae propositiones, quarum alia quidem copulatiua coniunctione nectuntur, ut et dies est, et lux est; alia uero per conditionem fiunt, quae etiam conditionales enuntiationes uocantur. Hae uero sunt quae coniunctione quadam partibus interposita ad consequentiam conditionemque ducuntur. Age enim sint duae propositiones praedicatiuae: una quidem, quae dicit, animal est; alia uero quae proponit, homo est. His si coniunctis interueniat, faciet, si homo est, animal est. Vides igitur ut duas praedicatiuas propositiones in unam conditionem coniunctio copulauerit. Quae cum ita sint, omnes hae propositiones hypotheticae, id est conditionales, uocantur, atque ex his syllogismi tales existunt, quibus hypotheticis uel conditionalibus nomen est.  Omnis autem hypothetica propositio, uel per connexionem fit, uel per disiunctionem. Per connexionem hoc modo, si dies est, lux est. Per disiunctionem ita, aut dies est, aut nox est. Earum uero quae per connexionem fiunt, aliae ex duabus affirmatiuis copulatae sunt, ut si dies est, lux est, namque dies est, et lux est, utraeque aliquid affirmant; aliae ex duabus negatiuis, ut si lux non est, dies non est, nam lucem non esse, et diem non esse, utraque negatio est; aliae uero ex affirmatiua negatiuaque coniunctae sunt, ut si dies est, nox non est; aliae uero ex negatiua affirmatiuaque copulantur, ut si dies non est, nox est: omnes tamen in connexione positae sunt. Aut enim affirmatio affirmationem sequitur, aut negatio negationem, eique connexa est, aut affirmationem negatio, aut negationem affirmatio.  Sed ex connexis repugnantes manifestum esi nasci, namque ubi affirmatio sequitur affirmationem, his si media negatio interposita sit, repugnantiam facit hoc modo:si dies est, lax est. Hic affirmatio sequitur affirmationem; at cum dico, si dies est, lux non est, repugnant inter se partes propostionis connexae, interposita negatione. Item quoties negatio sequitur negationem, si posteriori propositionis parti negatiuum dematur aduerbium, repugnantes fiunt hoc modo, si animal non est, homo non est; haec connexio est ex duabus proposita negatiuis. At si posteriori parti, id est homo non est, negatiuum detrahatur aduerbium, fiet, si animal non est, homo est, quod repugnat; at si affirmatio negationem sequatur, siue posteriori parti negatio iungatur, siue priori auferatur, repugnantes fiunt, hoc modo, si dies non est, nox est. Hic igitur affirmatio sequitur negationem. Siue igitur posteriori parti, id est, nox est, negatio copuletur, ut sit ita, si dies non est, nox non est, siue priori auferatur, ut sit ita, si dies est, nox non est, repugnantem fieri propositionem nec esse est. Quod si negatio affirmationem sequatur, et posteriori parti negatiuum aduerbium subtrahatur, propositionis connexae partes in repugnuntiam cadunt, hoc modo, si uigilat, non stertit. Hic affirmationem sequitur negatio sed si posteriori parti, id est, non stertit, negatio dematur, fiet, si uigilat stertit, et erit repugnans.  Sed in connexis atque disiunctis propositionibus illud intelligendum est, quod in earum partibus et uis quaestionis includitur et argumenti. Age enim dubitetur an lux sit, idque approbandum sit ex eo quod dies est. Si igitur ita fiat propositio, si dies est, lux est, ea quidem pars totius propositionis quae sequitur, id est, lux est, quaestionis est. De ea namque quaeritur an lux sit. Ea uero quae prior est, id est, dies est, uim continet argumenti. Ex eo enim quod dies est, lux esse probabitur, et in caeteris quidem uel connexis, uel disiunctis eadem ratio est.  In omnibus uero his quoniam syllogismus atque argumentatio ad demonstrandam partem alteram quaestionis accommodatur, quaestio uero omnis dubitabilis est, oportet syllogismos qui acommodantur ambiguae quaestioni indubitabiles esse atque perspicuos, qui ut tales sint, ex claris atque apertis et in ueritate patentibus propositionibus necesse est constent; propositiones uero partim per se notae sunt, partim aliquibus probationibus indigebunt. Omnis uero syllogismus enuntiatione proposita habet alicuius partis assumptionem ut quod est in quaestione concludat, hoc modo: Si dies est, lux est. Ut igitur lucem esse demonstrem, assumam unam partem propositionis superius constitutae, dicamque sed dies est, ac tunc demum id quod est in quaestione concludam, lux est igitur, Ergo cum ad syllogismi conclusionem, et tota enuntiatione in proponendo, et in assumendo parte enuntiationis utamur, nec esse est ut ea quibus utimur nil habeant dubitabile, siquidem ex his ea quae sunt ambigua capient fidem.  Quod si propositio aliquoties quidem per se nota est atque perspicua, uliquoties uero probationis indigens inuenitur, assumptio quoque aliquoties per se uera esse notabitur aliquoties approbationis indiget adiumentis. Quo fit ut si et propositio et assumptio demonstrandae sint, quinquepartitus (ut Cicero etiam in Rhetoricis auctor est) syllogismus fiat, constans ex propositione eiusque probatione, assumptione, eiusdemque probatione, et conclusione. Quod si neutra sit approbanda. tripartitus sit, ex propositione scilicet, assumptione et conclusione. Quod si altera earum demonstranda sit, fit quadripartitus, ex propositione scilicet, et assumptione, atque unius earum approbatione et conclusione. Conclusionis uero ipsius probatio praecedente propositione atque assumptione perfcitur.  Quae cum ita sint, cumque omnis propositio hypotheticam connexionem disiunctionemque diuidatur, in connexis propositionibus aliud dicimus praecedens, aliud consequens. Idem autem consequens et connexum uocamus, uelut in hac propositione, si dies est, lux est. Dies est praecedit, annectitur lux est. In disiunctis autem non est eadem ratio, quia cum ea quae proponuntur simul esse non possint, nullo modo dicuntur esse connexa. Praecedens autem et subsequens inde iudicatur, quia quod primum ponitur, iure antecedens uocatur, quod posterius, iure subsequens dicitur.  Ex his igitur propositionibus, quae connexae sunt, fit primus et secundus hypotheticorum syllogismorum modus. Addita uero negatione propositioni connexae et ex duabus affirmationibus copulatae, atque insuper denegata, tertius accedit modus. Ex disiunctis autem propositionibus diuerso modo assumptionibus tactis, quartus et quintus. Utrisque uero per negationem compositis, sextus et septimus. Atque hae septem sunt hypotheticae conclusiones, quarum M. Tullius in Topicis meminit, quarum omnium deinceps ordo atque exempla subdenda sunt.  Primus igitur modus est, cum in connexa propositione assumpto eo quod praecedit, uolumus monstrare quod sequitur, itaque esse oportere, ut est in connexione prolatum. In quo si id quod connexum est ac sequitur, assumpserimus, nullus omnino fit syllogismus. Huius exemplum tale est: Si dies est, lucet;  si igitur lucere monstremus, assumamus, nec esse est diem esse, hoc modo, atqui dies est; consequitur ergo ex necessitate, lucere. Quod si lucere assumamus, itaque dicamus, atqui lucet, non nec esse est diem esse, atque ideo nulla necessitas euenit conclusionis; ubi uero nulla necessitas est, ne syllogismus quidem intelligi potest. Est igitur primus modus in hanc formam: Si dies est lucet; Dies autem est, Lucet igitur.  Inueniuntur tamen in quibus aequo modo ualet assumptio, siue praecedens, siue subsequens assumatur, ut in homine atque risibili. Si enim homo est, risibile est; Atqui homo est, Risibile igitur est. Atqui risibile est, Homo igitur est.  Sed in his haec causa est, quia homo atque risibile aequi sunt termini, atque idcirco uno posito alterum comitari nec esse est. Sed quia hoc in omnibus non est, idcirco dicimus non esse uniuersale, ut assumpto posteriore, quod praecedebat probetur.  Secundus uero modus est quoties assumpto posteriore atque consequenti quod antecesserat aufertur, hoc modo, si dies est, lucet; hic si assumamus non lucere, contrario modo atque in propositione prolatum est; assumamus dicentes, atqui non lucet, in eo igitur sequitur non esse diem; quod si diem negemus, id est quod antecedit in assumptione contrario modo atque positum est in propositione proferamus, non tollitur quod est connexum, ut si dicamus, atqui non est dies, non mox sequitur, non lucere, potest enim non esse dies; et tamen lucere. Est igitur secundi modi forma huiusmodi: Si dies est, lucet; Atqui non lucet, Non est igitur dies.  Primus igitur modus assumit quod praecessit, ut approbet quod connexam est; non potest uero assumere quod connexum est, ut approbet quod praecessit. Secundus autem assumit econtrario quod sequitur, ut quod praecessite uertat; non potest autem econtrario assumere quod praecessit, ut id quod connexum est auferatur.  Tertius modus est, cum inter partes connexae atque ex duabus affirmationibus copulatae propositionis negatio interponitur, eaque ipsa negatio denegatur, quae propositio*hyperapophatike* Graeco sermone appellatur, ut in hac ipsa quam superius proposuimus, si dies est, lux est; si inter huius propositionis partes negatio interueniat, fiet hoc modo, si dies est, lux non est; hanc si ulterius denegemus, erit ita, non si dies est, lux non est: cuius propositionis ista sententia est, quia si dies est, fieri non potest ut lux non sit. Quae propositio superabnegatiua appellatur, talesque sunt omnes in quibus negatio proponitur negationi, ut non est dies, et rursus, Necuon Ausonit Troia gens missa coloni.  In hac igitur si priorem partem, id est diem esse, in assumptione ponamus, consequitur etiam lucem esse hoc modo: Non si dies est, lux non est; Atqui dies est, Lux igitur est.  Qui modus a superioribus plurimum distat, quod in eo modo qui sit ab antecedentibus, ponitur antecedens, ut id quod sequitur astruatur. In modo uero qui sit a consequentibus, perimitur consequens, ut id quod praecesserat, auferatur. In hoc uero neutrum est, nam neque antecedens ponitur, ut quod sequitur, confirmetur, nec interimitur subsequens, ut id quod praecesserat, euertatur; sed ponitur antecedens, ut id quod sequitur, interimatur.  Hic autem propositionis modus partes inter se suas continet repugnantes, aduersum quippe est ac repugnat, si dies est, non esse lucem. Sed idcirco rata positio est, quia consequentium repugnantia facta per mediam negationem alia negatione destruitur, et ad uim affirmationis omnino reuocatur. Nam quia consequens esse intelligitur, ac uerum, si dies est esse lucem, repugnat ac falsum est, si dies est, non esse lucem, quae denegata rursus uera est ita, non si dies est, lux non est, et si consimilis affirmationi, si dies est, lux est, quia facit affirmationem geminata negatio.  Similiter uero fiunt ex repugnantibus propositionis partibus argumenta, uel si duabus negationibus, uel si negatione et affirmatione, uel si affirmatione et negatione iungatur. Quomodo uero fiant ex talibus connexis repugnantes, superius dictum est. Fit uero ex ea propositione quae duabus iungitur negatiuis ex repugnantibus argumentum hoc modo: sit propositio, si non est lux, dies non est; fiat repugnans ita, si non est lux, est dies; huic iungamus negationem ut fiat uera ita:  Non si lux non est, dies est; Atqui lux non est,  Dies igitur non est.  Item fit ex negatione atque affirmatione propositio haec: si dies non est, nox est; huic additur ex posteriore parte negatio, et fit ita: si dies non est, nox non est; fit repugnans, haec nihilominus abnuatur ut sit uera, non si dies non est, nox non est, assumimusque, atqui dies non est concludimus, nox igitur est.  Item ex eadem propositione, quae ex negatiua affirmatiuaque coniungitur et dicit: si dies non est, nox est, si a priori parte negatio subtrahatur, fiet repugnans, hoc modo: si dies est, nox est; huic apponatur negatio, ut uera esse possit, hoc modo: non si dies est, nox est, assumamque, atqui dies est, concluditur, nox igitur non est.  At si sit ex affirmatione et negatione propositio coniuncta, uelut haec: si uigilat non stertit, demitur posteriori parti negatio, ut fiat ita: si uiglat stertit; sed haec repugnat. Tota rursus propositio denegatur, ut fiat uera hoc modo: non si uigilat stertit; assumimus, at qui uigilat; concludamus necesse est, non stertit igitur.  Sed hae quatuor ex repugnantibus conclusiones in tertio modo consistere intelliguntur, quarum quidem Tullius tres commemorauit, unamque praecepto docuit, eam quam propositio talis efficit, quae duabus iungitur affirmatiuis; duas uero exemplo, scilicet eam quae ex tali propositione nascitur, quae duae copulant negationes, et eam quae ex propositione tali connexa procreatur, quae ex affirmatione negationeque consistit. Reliquam uero praeteriit, quod illarum similitudine etiam haec in tertium conclusionis modum uidebatur incidere.  Quartus modus in disiunctione consistit, hoc modo: Aut dies est, aut nox est;  Sed dies est, Nox igitur non est.  Huius haec ratio est, quia disiunctiua enuntiatione proposita, prior pars eius assumitur affirmando, ut subsequens auferatur; ex ea enim propositione quae dicit, aut dies est, aut nox est, assumimus, atqui dies est, scilicet affirmantes esse diem, quam assumptionis affirmationem consequitur non esse noctem.  Quintus modus est, cum in eadem disiunctiua propositione, id quod primum est, negando assumitur, ut id quod est posterius inferatur, hoc modo aut dies est, aut nox est, atqui dies non est, per negationem scilicet facta est assumptio, consequitur esse noctem.  Sextus uero modus ac septimus ex quarti et quinti modi disiunctiua propositione deducuntur, una negatione uidelicet adiuncta, et disiunctiua propositione detracta, additaque coniunctiua his propositionibus quae superius in disiunctione sunt positae, hoc modo: non et dies est et nox est. Dudum igitur in disiunctiua ita fuit, ut aut dies est, aut nox est. Ex hac igitur propositione sublata, aut coniunctione, quae erat disiunctiua adlecimus, et quae copulatiua est, praeposuimusque negationem. Itaque fecimus ex partibus disiunctiuae propositionis copulatis, addita negatione, propositionem sexti atque septimi modi, quae est, non et dies est et nox est, in qua is assumatur esse diem, noctem non esse consequitur ita, atqui dies est, non est igitur nox. Septimus uero modus est, cum prima pars prorositionis negando assumitur, ut posterior subsequatur, hoc modo: Non et dies est et nox est; Atqui dies non est,  Nox igitur est.  Atque hic modus propositionum in solis his inueniri potest, quorum alterum esse nec esse est, ut diem uel noctem, aegritudinem uel salutem, et quidquid medium non habet.  Quo autem modo omnium syllogismorum conditionalium ueritas sese habeat, his diligentissime expliculmus libris quos de hypotheticis conscripsimus syllogismis. Nunc uero, non quod de his perfectior consideratio inueniri potest apposuimus sed id quod ad explanandum M. Tullii sententiam poterat accommodari. Ut igitur cuncta quae diximus breuiter colligantur, primus modus est quoties in connexa propositione primum ut in propositione locatur, assumitur, ut consequatur secundum, hoc modo: Si dies est, lux est, Atqui dies est, Lux igitur est.  Secundus modus est quoties in connexa propositione secundum econtrario assumitur quam in propositione collocatum est, ut id quod primum est auferatur, hoc modo: Si dies est, lux est;  Atqui non est lux,  Non est igitur dies.  Tertius modus estcum connexa propositionis partes ex affirmationibus iunctae, negatione diuiduntur, totique propositioni negatio rursus adiungitur, assumiturque, quod prius est, sicut in propositione est enuntiatum, ut econtrario concludatur secundum quod in propositione prolatum est, hoc modo: Non si dies est, lux non est; Atqui dies est,  Lux igitur est.  Hic ergo posito quod praecedebat, id est esse diem, euersum est quod sequebatur, id est, non esse lucem; negatione quippe affirmatio omnis euertit, uel cum connexae propositionis ex negationibus iunctae, secundae parti negatio detrahitur, totaque propositio denegatur, positaque priore propositionis parte, interimitur quod subsequebatur, hoc modo: non si lux non est, dies est, atqui lux non est, dies igitur non est; uel si connexae propositionis ex negatione atque affirmatione compositae, secundae parti negatio iungatur, eaque insuper denegetur, ponaturque quod prius est, ut id quod sequitur auferatur, hoc modo: non si dies non est, nox non est atqui dies non est, nox igitur est; uel si in eadem propositione, quae ex negatione atque affirmatione copulata est, priori parti negatio subtrabatur, eaque insuper denegetur, ponaturque quod primum est, ut id quod sequitur auferatur, hoc modo: non si dies est, nox est, atqui dies est, nox igitur non est; uel si connexae propositionis ex affirmatione et negatione copulatae, posteriori parti denegatio dematur, totaque insuper denegetur, positoque priore, id quod sequitur interimatur, hoc modo: non si uigilat sterlit, atqui uigilat, non stertit igitur.  Atque haec omnia in tertio modo esse intelliguntur, atque ex repugnantibus fiunt, et semper id quod antecedit, ponitur, ut id quod sequitur, auferatur. Nam non sicut non propositione conditionali quia negata repugnantia partium fit uera, prior pars ponitur, siue affirmatiue, siue negatiue, ita eam reddit assumptio. Sed ut prior pars fuerit assumpta, reliqua contraria enuntiatione concluditur. Nam si assumptio fuerit affi rinatiua, erit negatiua conclusio. Si assumptio negatiua, erit conclusio affirmatiua.  Quartus modus est cum in disiunctiua propositione primum ponitur, ut auferatur secundum hoc modo:  Aut dies est, aut nox est; Atqui dies est, Nox igitur non est.  Quintus modus est quoties in disiunctiua propositione auferatur quod prius est, ut ponatur secundum, hoc modo:  Aut dies est, aut nox est; Non est autem dies, Nox igitur est.  Sextus modus cum his rebus quae in disiunctionem uenire possunt, id est contrariis uel repugnantibus medictate carentibus, negatio praeponitur, et copulatiuae coniunctiones adiunguntur, poniturque quod primum est, ut id quod est subsequens auferatur, hoc modo: Non et dies est et nox est;   Dies autem est,  Nox igitur non est.  Septimus modus est cum in eadem propositione aufertur id quod praecedit, ut ponatur id quod consequitur, hoc modo:  Non et dies est et nox est;  Atqui dies non est, Nox igitur est.  His igitur ita praedictis ad Ciceronis uerba ueniamus.  CUM TRIPERTITO IGITUR DISTRIBUATUR LOCUS HIC, IN CONSECUTIONEM ANTECESSIONEM REPUGNANTIAM, REPERIENDI ARGUMENTI LOCUS SIMPLEX EST, TRACTANDI TRIPLEX. NAM QUID INTEREST, CUM HOC SUMPSERIS, PECUNIAM NUMERATAM MULIERI DEBERI CUI SIT ARGENTUM OMNE LEGATUM, UTRUM HOC MODO CONCLUDAS ARGUMENTUM: SI PECUNIA SIGNATA ARGENTUM EST, LEGATA EST MULIERI. EST AUTEM PECUNIA SIGNATA ARGENTUM. LEGATA IGITUR EST; AN ILLO MODO: SI NUMERATA PECUNIA NON EST LEGATA, NON EST NUMERATA PECUNIA ARGENTUM. EST AUTEM NUMERATA PECUNIA ARGENTUM; LEGATA IGITUR EST. AN ILLO MODO: NON ET LEGATUM ARGENTUM EST ET NON EST LEGATA NUMERATA PECUNIA. LEGATUM AUTEM ARGENTUM EST; LEGATA IGITUR NUMERATA PECUNIA EST?  Eum locum qui ex antecedentibus, consequentibus et repugnantibus esset, unum recte uideri, eumque in conditione esse positum, sed trina partiione distribui, superius explicatum est; idque M. Tullius euidentius notat dicens, intellectum quidem eius considerationemque in conditione positam unam esse sed per argumentationis tractationem tripartito diuidi. Cuius rei per primum ac secundum et tertium hypotheticorum syllogismorum modum, sicut paulo superius diximus, exempla subiecit. Quae quoniam implicatiora uidentur quam ut primo statim auditu comprehendantur, uisum paulisper est apertioribus exemplis animum lectoris imbuere, ut in facilioribus primum exercitata intelligentia, sine magno negotio, qua sunt difficiliora perpendat.  Ab antecedentibus igitur argumentatio fit, quoties enuntiata propositionis conditione sumitur id quod antecedit, ut id quod sequitur inferatur, hoc modo: sit enim dubium an Tullius animal sit, concedaturque eumdem Ciceronem esse hominem, et sit rata propositio haec: Tullius si homo est, animal est; homo antecedit, animal sequitur; si igitur ex antecedenti uelim facere argumentationem, assumam id quod praecedit, hoc modo: sed homo est Cicero, consequitur animal esse Ciceronem; et est hic primus quem supra diximus modus.  Rursus a consequenti argumentatio fit quoties in conditione proposita id quod consequitur tollit assumptio, ut id quod praecesserat interimatur, hoc modo: si homo est Cicero, animal est. Antecedit homo, sequitur animal. Si igitur ex consequenli facere argumentum uelim, dicam, atqui non est animal, sequitur ne esse hominem quidem, sed id perspicue falsum est, esse enim hominem constat falsum est igitur animal non esse. Tullius igitur animal est; et hic dictorum superius secundus est modus.  Quod si a repugnantibus fiat, in tertio scilicet modo digestarum superius conclusionum, faciemus ita: non si homo est Tullius, animal non est, repugnat enim esse hominem et animal non esse; hic si assumamus esse hominem, animal quoque esse, recta ratione concludimus, hoc modo: atqui homo est, animal igitur est, atque hic quidem modus ex ea propositione connexa conuersus est, quae ex duabus coniuncta est affirmatiuis.  His igitur tribus modis Tullius qui homo esset, animal quoque monstratus est esse: nunc quidem dum id quod antecedit assumimus, id est esse hominem; nunc uero dum id quod consequitur, in assumptione denegamus, id est non esse animal; nunc autem repugnantiam denegantes eorum quae sibi sunt consequentia, posito quod praecedebat, id quod sequebatur intulimus.  Quibus ita precognitis, nunc M. Tullii tractemus exempla. Cum enim dixisset loci in consecutione, antecessione et repuguantia positi, reperiendi quidem argumenti simplicem esse intellectum, tractandi autem triplicem, adiecit: Nam quid interest, cum tibi sumpseris ad demortstrandum, pecuniam numeratam mulieri deberi, cui sit argentum omne legatum, utrum id ab antecedentibus, an a consequentibus, an a repugnantibus probes? Namque eadem sententia in conclusione colligitur, et argumentationum diuersitas non in re sed in antecedenium et consequentium et repugnantium tractatu est constituta.  Primum igitur ponatur quod testamento aliquis omne suum argentum mulieri legauerit, quaeraturque an numerata quoque pecunia mulieri legata sit, concedaturque numeratam etiam pecuniam argentum appellari, argumentum igitur in primo modo ex antecedentibus tali ratione contexitur: proponimus enim sic, si pecunia signata numerataque argentum est, eadem pecunia signata numerataque legata mulieri est; hic igitur praecedit numeratam atque signatam pecuniam argentum esse, sequitur legatam esse mulieri; id igitur quod praecessit assumimus dicentes: at est signata ac numerata pecunia argentum; concludimus numeratam signatamque pecuniam mulieri esse legatam, eritque totius argumentationis hic textus: Si pecunia signata numerataque argentum est, legata mulieri est; At est pecunia signata numerataque argentum, Igitur legata est mulieri.  In quo si ad saepius praemissa plurimisque exemplis superius enodata lectoris animus reuertatur, hanc argumentationem in primo modo ab antecedentibus esse compositam non ignorabit.  A consequentibus uero hoc modo: Si numerata pecunia non est egata mulieri cui sit argentum omne legatum, numerata peculia non est argentum. Hic igitur praecedit numeratam pecuniam non esse legatam, cum sit argentum omne legatum; sequitur numeratam pecuniam argentum non esse. Si igitur id quod est posterius auferamus, id est numeratam pecuniam non esse argentum, dicemus: Atqui est numerata pecunia argentum, affirmatio namque tollit negationem. Sequitur igitur ut pars praecedens auferatur, ea quae erat non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, cum argentum ei fuisset omne legatum. Sed cum sit, omnis negatio affirmatione consumitur, dicimusque in conclusione: Est igitur numerata pecunia mulieri legata, cum ei sit argentum omne legatum; eritque huiusmodi argumentatio: Si non est mulieri legata pecunia numerata, cum ei sit argentum omne legatum, non est argentum numerata pecunia; Atqui est argentum numerata pecunia, Legata est igitur mulieri numerata pecunia, cum ei fuerit argentum  omne legatum.  Sed quod Tullius breuitatis causa praeteriit, id est, illam partem propositionis quae ait: Cum sit mulieri argentum omne legatum, nos apertioris intelligentiae causa subiunximus.  Nec perturbare lectorem debet, quod cum in superioribus exemplis in secundo modo per negationem facta fuerit semper assumptio, et per negationem rursus illata conclusio, nunc per affirmationem et assumptio et conclusio facta est. Cuius rei euidentissima ratio est. Nam cum in superioribus exemplis prima propositio ex affirmationibus fuerit constituta, atque in secundo modo assumptio id quod sequebatur auferret, atque interimeret id quod praecedebat, necessarium erat duplicem affrmationem geminata negatione consumi, hoc modo: Si dies est, lux est, utraeque ex affirmatione sunt constitutae. Ut igitur posterior pars, id est lux est, quae affirmatio est, interimatur, deneganda est. Dicam igitur: Atqui non est lux, quo fit ut praecedentem quoque partem, id est, dies est, quam affirmationem esse manifestum est, negatione tollamus, concludentes, dies igitur non est. At in hoc Ciceronis exemplo utraque pars primae atque hypotheticae propositionis negationibus enuntiata est, quae in assumptione uel confusione non ab allis nisi ab affirmationibus auferuntur, hoc modo. Est enim tale Ciceronis exemplum: si legata non est mulieri numerata pecunia, non est numerata pecunia argentum, uides ut sit utraque negatio? Nam et non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, et non esse numeratam pecuniam argentum, utraeque in negatione sunt positae; quod si auferenda est per assumptionem propositionis consequens pars, quoniam negatio est, non esse numeratam pecuniam argentum, dicendum est argentum esse pecuniam numeratam; quod si in conclusione auferenda est pars praecedens, ea quae negatio est, id est, non esse legatam mulieri pecuniam numeratam, dicendum est: Legata igitur mulieri numerata pecunia est. Et secundus quidem modus rite a consequentibus factus huiusmodi est.  Illud tamen est diligentius adnotandum. quod superius M. Tullius, cum locorum omnium breuiter exempla disponeret, loci huius, qui a consequentibus ducitur, inconueniens secundo conditionalium syllogismorum modo subiecit exemplum, potiusque primo conuenit modo quia non a consequentibus conclusionem sed ab antecedentibus facit. Ita quippe posuit a consequentibus, si mulier cum fuisset nupta cum eo quicum connubii ius concessum non esset, nuntium remisit, quoniam qui nati sunt patrem non sequuntur, pro liberis manere nihil oportet. Hic igitur cum quaeratur an dotis pars apud uirum debeat permanere, id quod praecedit assumitur, ut fiat rata conclusio hoc modo: Sed mulier cum eo nupta est qui cum connubii ius non fuit, concluditur: Quoniam igitur qui nati sunt patrem non sequuntur, pro liberis manere nihil oportet, et ita non est a consequentibus argumentum, quia non id quod consequebatur assumptum est sed id quod praecedebat. Erat quippe antecedens, nupta mulier praeter connubii ius; sequebatur, cum filii patrem non sequebantur, pro eis nihil ex dote retineri. Sic igitur Tullius pro eo quod est a consequentibus argumentum, ab antecedentibus potius dedit exemplum.  Potest uero ita fieri a consequentibus argumentum, si id de quo quaeritur prius ponatur, et id quod assumendum; est posterius, hoc modo: Si quid ex dote pro liberis manere oportebit, quia patrem liberi sequuntur, cum eo nupta est mulier qui cum connubii ius esset. Sumo igitur id quod consequitur per negationem, ita: Sed non est nupta mulier cum eo quicum connubii ius erat, atque ideo qui nati sunt, patrem non sequuntur. Perimitur ergo in conclusione id quod in propositione praecesserat. Ita pro liberis igitur manere nihil oportet.  Sed de secundo modo ista sufficiant, nihil namque, ut arbitror, praetermissum est.  Tertius modus a repugnantibus longe perspicuus hoc modo est: Non et legatum omne argentum est, et non est legata mulieri pecunia enumerata. Hic namque consequens erat: Si argentum esset omne legatum, pecuniam quoque numeratam fuisse legatam; ut igitur fieret repugnans, huic consequentiae interposita negatio est, dictumque est, si argentum omne legatum esset, numeratam pecuniam non esse legatam; quod quia pugnat et falsum est, ad ueritatem alia negatione sic reducitur: Non si legatum argentum est, non est legata numerata pecunia, ut scilicet ei affirmationi conueniat, quae dicit, si legatum argentum est, legatam esse pecuniam numeratam. Assumimus igitur huic propositioni argentum omne esse legatum, et consequitur omne in numeratam pecuniam mulieri esse legatam, ut sit forma argumentationis huiusmodi:  Non si legatum argentum est, non est legata numerata pecunia;  Atqui legatum argentum est, Legata est igitur numerata pecunia.  M. uero Tullius propositionem ita formauit: Non et legatum argentum est, et non est legata numerata pecunia. Sed nos idcirco casualem coniunctionem apposuimus eam quae est "si", ut ex quo esset genere talis propositio monstraremus. Namque id ex consequenti connexo negatione addita fit repugnans. Connexum uero nulla aeque ut sit coniunctio posset ostendere, quanquam idem efficiat et copulatiua coniunctio. Nam quae connexa sunt, etiam coniuncta esse intelliguntur, ex hoc quod paulo ante diximus, quod argumentum ex ea propositione profectum est, quae duabus affirmationibus copulabatur, et iuncta negatione insuper denegata est.  In omnibus igitur illud est approbatum, pecuniam numeratam mulieri deberi, cum sit argentum omne legatum. Sed nunc quidem ex supradictis propositionibus, id quod antecedebat, assumpsimus; nunc uero, id quod consequebatur; nunc autem, id quod repugnabat. Ac de explanandis Ciceronis exemplis, ut arbitror, satis est. Illud autem dubitationem mouere potest: nam si quis minus callidus ad Ciceronis exempla respiciat, eumdem locum arbitrabitur esse a genere, quem ab antecedentibus, et consequentibus, et repugnantibus esse diximus; illo falsus errore, quod in utrisque locis eodem Cicero utitur exemplo, argenti uidelicet et numeratae pecuniae. Sed diligentius intuenti, in eisdem rebus diuersus argumentationum uidebitar esse tractatus. Aliud quippe est dicere, cum argenti species sit numerata; pecunia, si genus legatum sit, et speciem esse legatam, quoniam nunquam species a genere separatur, aliud est in conditione enumerationem proponere, et eisdem partibus assumptis argumentationem uaria ratiocinatione formare, ut superius demonstratum est, cum praesertim huiusmodi ex consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, argumentationes etiam praeter genera ac species fieri possint, uelut nos superuns indicauimus in die atque luce. Nam neque dies lucis, neque lux dici species, aut genus est. Sed id tantum in his considerari debet, quia posito altero, alterum necessaria ratione subsequitur. Differunt igitur loci a genere uel a specie ab eo loco qui in conditione est constitutus, quoniam illi ex uniuersalitatis speciei ac partis ratione ducuntur, hic autem in consequentiae ac repugnantiae ordine tractatur.  Post haec igitur Tullius hypotheticorum syllogismorum modos conclusionesque dinumerat hoc modo:  [APPELLANT AUTEM DIALECTICI EAM CONCLUSIONEM ARGUMENTI, [1141C] IN QUA, CUM PRIMUM ASSUMPSERIS, CONSEQUITUR ID QUOD ANNEXUM EST PRIMUM CONCLUSIONIS MODUM; CUM ID QUOD ANNEXUM EST NEGARIS, UT ID QUOQUE CUI FUERIT ANNEXUM NEGANDUM SIT, SECUNDUS IS APPELLATUR CONCLUDENDI MODUS; CUM AUTEM ALIQUA CONIUNCTA NEGARIS ET EX EIS UNUM AUT PLURA SUMPSERIS, UT QUOD RELINQUITUR TOLLENDUM SIT, IS TERTIUS APPELLATUR CONCLUSIONIS MODUS.  EX HOC ILLA RHETORUM EX CONTRARIIS CONCLUSA, QUAE IPSI *ENTHYMEMATA* APPELLANT; NON QUOD OMNIS SENTENTIA PROPRIO NOMINE *ENTHYMEMA* NON DICATUR, SED, UT HOMERUS PROPTER EXCELLENTIAM COMMUNE POETARUM NOMEN EFFICIT APUD GRAECOS SUUM, SIC, CUM OMNIS SENTENTIA *ENTHYMEMA* DICATUR, QUIA VIDETUR EA QUAE EX CONTRARIIS CONFICITUR ACUTISSIMA, SOLA PROPRIE NOMEN COMMUNE POSSEDIT. EIUS GENERIS [1141D] HAEC SUNT:HOC METUERE, ALTERUM IN METU NON PONERE! EAM QUAM NIHIL ACCUSAS DAMNAS, BENE QUAM MERITAM ESSE AUTUMAS MALE MERERE? ID QUOD SCIS PRODEST NIHIL; ID QUOD NESCIS OBEST?  HOC DISSERENDI GENUS ATTINGIT OMNINO VESTRAS QUOQUE IN RESPONDENDO DISPUTATIONES, SED PHILOSOPHORUM MAGIS, QUIBUS EST CUM ORATORIBUS ILLA EX REPUGNANTIBUS SENTENTIIS; COMMUNIS CONCLUSIO QUAE A DIALECTICIS TERTIUS MODUS, A RHETORIBUS *ENTHYMEMA* DICITUR. RELIQUI DIALECTICORUM MODI PLURES SUNT, QUI EX DISIUNCTIONIBUS CONSTANT: AUT HOC AUT ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD. ITEMQUE: AUT HOC AUT ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. QUAE CONCLUSIONES IDCIRCO RATAE SUNT QUOD IN DISIUNCTIONE PLUS UNO VERUM ESSE NON POTEST.  ATQUE EX EIS CONCLUSIONIBUS [1142A] QUAS SUPRA SCRIPSI PRIOR QUARTUS POSTERIOR QUINTUS A DIALECTICIS MODUS APPELLATUR. DEINDE ADDUNT CONIUNCTIONUM NEGANTIAM SIC: NON ET HOC ET ILLUD; HOC AUTEM; NON IGITUR ILLUD. HIC MODUS EST SEXTUS. SEPTIMUS AUTEM: NON ET HOC ET ILLUD; NON AUTEM HOC; ILLUD IGITUR. EX EIS MODIS CONCLUSIONES INNUMERABILES NASCUNTUR, IN QUO EST TOTA FERE *DIALEKTIKE*. SED NE HAE QUIDEM QUAS EXPOSUI AD HANC INSTITUTIONEM NECESSARIAE.  Etsi multipliciter superius cuncta digessimus, nec expositionis indiget repetita toties disputatio, erit tamen operae pretium, si quam breuissime potero M. Tullii uerbis mediocris lucem commentationis interseram. Septem igitur modos hypotheticos enumerans ait, cum in connexis propositionibus id quod est primum assumitur, ut ostendatur secundum, primum a dialecticis modum uocari, hoc modo: Si hoc est, illud est; quod dicit hoc, primum est, quod uero ait illud, secundum. Assumatur ergo quod primum est, atqui hoc est; concluditur igitur id quod secundum est, illud igitur est, uelut in his rursus exemplis: si homo est, animal est, assumitur, atqui homo est, concluditur, animal igitur est.  Secundum uero modum ait esse Tullius connexis propositionibus textum, in quo si secundum negatur, sequitur ut id etiam quod primum est abnuatur hoc modo;  Si hoc est, illud est; Illud autem non est, Igitur ne hoc quidem est.  In exemplis ita: si homo est, animal est; animal autem non est, homo igitur non est. Sed Tullius ita dixit, cum id quod annexum est negaris, ut id quoque cui fuerit annexum negandum sit, secundum esse modum, quasi connexa propositione affirmatiuis partibus iuncta; uniuersaliter autem rectius diceretur, cum id quod annexum est, id est secundum, perimitur, perimi iliud quoque cui annexum est, id est primum, ut si affirmatiuum est id quod annexum est, negatione perimatur; sin uero negatiuum affirmatione; et de eo quoque cui annexum est, id est primum, idem est ut si in connexa propositione affirmetur, in conclusione denegetur, secundum nunc propositum Ciceronis exemplum; si uero negatiua sit propositionis prior pars, in conclusione contraria affirmatione tollatur.  Tertium uero modum ait esse Cicero cum ea quae coniuncta sunt,  denegantur, et his alia negatio rursus ad iungitur, ut quia animal homini coniunctum est, ita dicamus: Non et homo et non animal est, atque ex his unum ponitur, ut quod relinquitur auferatur, hoc modo: Ponimus hominem esse, dicentes: Atqui homo est; quod ergo relinquitur, non est animal, aufertur, atque concluditur, animal igitur est. Fit argumentatio hoc modo: Non et homo est et non animal; Atqui homo est, Animal igitur est.  Ex his nasci dicit enthymemata ex contrariis conclusa, quibus plurimum rhetores uti solent; atque haec enthymemata nuncupantur, non quod eodem nomine omnis inuentio nuncupari non possit (enthymema namque est mentis conceptio, quod potest omnibus inuentionibus conuenire) sed quia haec inuenta, quae breuiter ex contrariis colliguntur, maxime acuta sunt, propter excellentiam speciemque inuentionis commune enthymematis nomen proprium factum est, ut haec a rhetoribus quasi proprio nomine enthymemata uocentur. Sicut apud Graecos quoque poeta Homerus tantum dicitur, et quisquis ex Homero aliquid profert, ita dicere consueuit: Hunc uersum poeta locutus est, et tunc non alius intelligitur praeter Homerum, non quod caeteri non sint poetae sed quod excellentia huius commune nomen uertit in proprium. Fiunt uero haec enthymemata hoc modo, ex contrariis uidelicet texta: Hunc metuere, alterum in metu non ponere  (uelut si de Lentulo et Cethego, caeterisque diceretur)  Paucos ciues interficere metuis, ne respublica intereat nihil laboras.  Connexum quippe est ut quicumque noluit interire paucos ciues, rempublicam multo magis nolit exstingui.  Quibus cum interponitur negatio, fit ex repugnantibus argumentum. Sed hoc breuiter Tullius enuntiauit, nos uero argumentum in syllogismum redigamus, a repugnantibus scilicet, ex quo enthymemata nasci solent, hoc modo: Sit connexum, si quis metuit ciues paucos interfici, is metuit interire rempublicam, hic interponitur negatio sic: Si quis metuit ciues paucos interfici, is non metuit interire rempublicam, iungitur alia negatio: Non si quis metuit paucos ciues interfici, non metuit interire rempublicam. Quae duae negationes uni affirmationi partes sunt, quae dicit: Si quis metuit hoc, metuit et illud, cuius quidem assumptio est, at metuit hoc, conclusio sequitur, metuit igitur et illud, quae tantumdem ualet, si negando interrogetur ita, hoc metuis, illud non metuis. Sed quia non totus (ut supra posuimus) in his argumentationibus ponitur syllogismus sed propositio, cuius assumptio et conclusio notae sunt, idcirco enthymema dicitur, quasi breuis animi conceptio. Et in caeteris exemplis idem modus est.  Sed haec quidem Ciceronis similitudo non tam ex repuguantibus quam ex contrariis argumentum intelligitur continere. Metuere quippe et non metuere contraria sunt, nisi hoc ipsa uerborum prolatio a contrariis argumentum ad repugnantiam retrahat. Nam quod dicit hunc metuere, alterum in metu non ponere, tale est ut repugnantia uideantur. Etenim metuere et non metuere contraria sunt. In metu autem non ponere, et metuere, prolatione ipsa tam contraria quam repugnantia intelliguntur, licet eadem probetur esse sententia.  His adiecit alia rursus in exempla.  "Eam quam nihil accusas, damnas." Huius enthymematis talis est integer syllogismus: Non si nihil accusas damnas; Sed nihil accusas, Non damnas igitur.  Venit ergo hoc argumentum ex ea propositione connexa, quae ex duabus componitur negatiuis, ita: si nihil accusas, non damnas; posteriori uero parti detracta negatio est, et insuper tota est propositio denegata hoc modo, non si nihil accusas, damnas, et ex ea factum est argumentum, quod positum in interrogatione efficit enthymema, hoc modo: quam nihil accusas, damnas, bene quam meritam esse autumas, male mereri.  Huius quoque enthymematis talis est ratio </collectio>:  Non et bene meritam esse autumas, et male mereri; Atqui bene meritam esse autumas, Non male igitur mereri.  Quod enthymema ex ea propositione connexa perticitur, quae constat ex affirmatione et negatione, ita: si bene meritam esse autumas, non male mereri. Cuius ex posteriore parte dempta negatione, totaque propositione denegata, fiet propositio: non si bene meritam esse autumas, male mereri; quod in interrogationem deductum tacit enthymema: bene quam meritam esse autumas, male mereri.  Item: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis, obest?" Hoc quoque enthymema tali nectitur syllogismo:  Non id quod scis prodest, et id quod nescis non obest; At id quod scis prodest, Obest igitur id quod nescis.  Hoc argumentum ex ea propositione compositum est, quae duabus affirmationibus iuncta acceperit mediam negationem et insuper denegata est. Quod interrogatum fit enthymema hoc modo: "Id quod scis prodest, nihil id quod nescis obest?"  Omnium uero superius exemplorum ista sententia est. Nam quam quisquam nihil accusat, eam damnare recte non potest; et eam quam bene meritam esse autumat, male mereri de ea turpe est; et si id quod scit quisque in causa proderit, oberit, si est contrarium id quod nescit. Hunc uero locum communem esse oratoribus ac philosophis dicit sed apud illos tertium modum, apud rhetores uero enthymema nuncupari.  Reliqui, inquit, modi plures sunt, nam cum tres superius enumerasset modo adiungens quatuor, plures dixit. Hi sunt in disiunctionibus constituti hoc modo:  Aut hoc aut illud; Hoc autem, Non igitur illud  qui est quartus modus a nobis quoque suprapositus ita: Aut dies est aut nox est; Dies autem est, Non igitur nox est  et semper quod ait Cicero 'hoc' ad praecedens spectat; quod uero ait 'illud' ad consequens, siue inconnexis propositionibus siue disiunctis.  Item: Aut hoc aut illud  Non autem hoc, Illud igitur.  Hic quoque quintus modus est, uelut in his exemplis:  Aut dies est aut nox est;  Non autem dies, Nox igitur est.  Quarum conclusionum, necessitatem ex eo dicit euenire, quia quae in disiunctione posita, medium non uidentur admittere, ut esse aliud praeter eorum alterum possit, atque ideo uno sublato alterum esse, unoque posito alterum non esse concluditur. Quod si sit medium, quod preter alterutrum esse possit, nec uera propositio, nec rata est conclusio, uelut in his, aut album est, aut nigrum, id falsum est. Esse enim praeter ea rubrum potest. Sed si ponamus esse album uel auferamus, non nec esse erit non esse uel esse nigrum, quia quod rubrum est, medium esse potest.  Deinde, inquit Tullius, addunt coniunctionum negantiam, in disiunctiuis scilicet propositionibus, hoc modo: Non et hoc et illud; Hoc autem, Non igitur illud.  Idem est: Non et nox et dies est;  Nox autem est,  Non igitur dies est.  Hic igitur sextus modus esse praedictus est.  Septimus autem est ex eadem ueniens propositione, hoc modo: Non et hoc et illud; Non autem hoc, Illud igitur  uelut si ita dicamus: Non et nox et dies est; Nox non autem est, Dies igitur est.  Quae propositiones nisi in disiunctis medioque carentibus rebus ratam conclusionem habere non poterunt. Age enim ita dicamas, non et album, et nigrum, ponamusque non esse album, non consequitur ut sit nigrum, potest enim esse quod medium est. Huiusmodi igitur per negationem coniunctionum (ut Tullius ait) propositio si ratas factura est conclusiones in disiunctis rebus, medioque carentibus accommodetur, alias non erit rata conclusio.  Distat uero propositio tertii modi a propositione sexti et septimi, quod tertii modi propositio ex coniunctis nascitur. Haec uero sexti et septimi ex disiunctis terminis existit, ut in superioribus patet exemplis.  Ex his igitur, inquit, modis conclusiones innumerabiles nascuntur, unus enim quilibet eorum modus infinitis conclusionibus aptari potest, ueluti primus ac secundus in omnibus quae sibi connexa sunt, quorum nullus est numerus, si quis per. sequi uelit; itemque repugnantium infinitaest multitudo, in quibus tertius modus est utilis; item plura disiuncta sunt in quibus quartus, et quintus, et sextus, et septimus pluriumum ualent. Atque in his, inquit, omnis fere est dialectica sed ad topicos locos tres primi modi sunt necessarii, qui antecessionem, consecutionem et repugnantiam tenent. Reliqui uero complendae disputationis magis gratia quam quod ad hanc institutionem necessarii fuerint uidentur adiecti. PROXIMUS EST LOCUS RERUM EFFICIENTIUM; QUAE CAUSAE APPELLANTUR; DEINDE RERUM EFFECTARUM AB EFFICIENTIBUS CAUSIS. HARUM EXEMPLA, UT RELIQUORUM LOCORUM, PAULO ANTE POSUI EQUIDEM EX IURE CIVILI; SED HAEC PATENT LATIUS.  CAUSARUM [ENIM] GENERA DUO SUNT; UNUM, QUOD VI SUA ID QUOD SUB EAM VIM SUBIECTUM EST CERTE EFFICIT, UT IGNIS ACCENDIT; ALTERUM, QUOD NATURAM EFFICIENDI NON HABET SED SINE QUO EFFICI NON POSSIT, UT SI QUIS AES STATUAE CAUSAM VELIT DICERE, QUOD SINE EO NON POSSIT EFFICI.  [15.59] HUIUS GENERIS CAUSARUM, SINE QUO NON EFFICITUR, ALIA SUNT QUIETA, NIHIL AGENTIA, STOLIDA QUODAM MODO, UT LOCUS TEMPUS MATERIA FERRAMENTA ET CAETERA GENERIS EIUSDEM; ALIA AUTEM PRAECURSIONEM QUANDAM ADHIBENT AD EFFICIENDUM ET QUAEDAM AFFERUNT PER SE ADIUVANTIA, ETSI NON NECESSARIA, UT: AMORI CONGRESSIO CAUSAM ATTULERAT, AMOR FLAGITIO. EX HOC GENERE CAUSARUM EX AETERNITATE PENDENTIUM FATUM A STOICIS NECTITUR. ATQUE UT EARUM CAUSARUM SINE QUIBUS EFFICI NON POTEST GENERA DIVISI, SIC ETIAM EFFICIENTIUM DIVIDI POSSUNT. SUNT ENIM ALIAE CAUSAE QUAE PLANE EFFICIANT NULLA RE ADIUVANTE, ALIAE QUAE ADIUUARI VELINT, UT: SAPIENTIA EFFICIT SAPIENTIS SOLA PER SE; BEATOS EFFICIAT NECNE SOLA PER SESE QUAESTIO EST.  Post eum locum qui in conditione est constitutus, consequens erat is qui considerabatur ex causis; post hunc is enumeratus locus est qui, in effectis causarum positus, argumenta praestabat. Quorum quidem superius M. Tullius exempla proposuit, nunc rationem latius tractat.  Cum igitur Aristoteles quatuor posuerit causas, quibus unumquodque conficitur: primam, quae mouendi principium est; secundam, ex qua fit aliquid, quam materiam uocat; tertiam rationem ac speciem, qua unumquodque formatur; quartam, finem propter quem quodlibet efficitur, at uero M. Tullius principalem causarum diuisionem facit in ea quae efficiant aliquid et in ea sine quibus effici nequeant, ut id quod efficit, ad eam causam referatur in qua motus principium constitutum est, id uero sine quo non fit aliquid, tum ad intellectum materiae transferatur, uel eorum quae coniuncta materiae efficientis adiuuant facultatem, tum ad reliquas causas ducatur, ut paulo posterius apparebit.  Eius igitur causae, quae ui sua id quod subiectum est efficit, tale proponit exemplum, ut ignis accendit: nam accensionis ipsius causa ignis est, et id efficere potest, atque illud quod accenditur, mouet atque permutat. Eam uero causam, sine qua id quod faciendum est fieri nequit, ab una eius parte designat, ueluti cum dicit aes causam esse statuae, quod sine eo status noc possit existere: hoc enim, ut per faciendam diuisionem clarescet, non ea ipsa est causa sine qua non efficitur sed pars eius esse monstrabitur.  Eam uero causam sine qua id quod faciendum est, effici non potest, diuidit hoc modo: alia enim sunt quieta, nihil agentia sed stolida quodammodo, ac per se, nisi agendi extra motus accesserit, immobilia: horum exempla, ut locus, tempus, materia, instrumentum. Omne enim quod fit, locum nec esse est habere subiectum, in quo nisi aliquid fiat, locus ipse immobilis est, ad aliquid explicandum. Itemque materia et instrumenta, nisi manu moueantur artificis, ipsa naturaliter nihil egerint. Tempus quoquo operationi subiectum est, quae si desit, nihil ipsum propriae naturae ratione perfecerit. Atque haec quidem sunt quae nihil agentia, tamen causae sunt, si his efficiens operatio superueniet.  Alia uero quae in motu posita praecursionem quamdam ad efficientiam ac praeparationem uidentur afferre, uelut amoris causa est congressio, quae praecessit, et amor flagitii. Ex his, inquit, causis Stoica disputatio fatum connectit. Fatum enim dicunt esse praecedentium causarum subsequentiumque perplexionem quamdam et catenae more continentiam, hoc modo: Ideo profectus est peregre, quoniam parentum iracundiam ferre non puterat; idcirco parentum iracundiam successione non ferebat, quia amicae amore detinebatur, idcirco amabat, quod saepe fuerat ante congressus; ideo congressus est, quia aliquid ut congrederetur praecessit. Itaque ordine praecedentium consequentiumque rerum fatum (ut dicit) a Stoicis nectitur.  Item diuidit eam causam quae ui sua efficit aliquid in eam quae ad etficiendum sibi sufficit, eamque qua extrinsecus adminiculationis indigeat. Sufficit igitur sibi ad efficiendum causa, ut sapientia efficere sapientes per se nullo penitus adiuta solet. Sed haec an sola beatos efficere possit, quaeritur an ei sint extrinsecus addenda quae iuuent, uel fortunae bona, uel corporis, itaque ea causa quae ui sua efficit aliquid, aut talis est, ut ei nulla sint extrinsecus adiuncta quaerenda, ueluti artifici instrumenta quaedam, quibus id quod efficiendum est explicet atque conformet.  Earum uero omnium quae Tullius statuit in alterutra diuisione causarum, illa quidem quae ui sua explicant ea quorum causae sunt, omnia tam per se ad efficiendum ualentia, quam quaesiti extrinsecus iuuaminis indigentia, in ea Aristotelicae diuisionis causa locabuntur, quae est principium motus. Quanquam de sapientia tali causae non conuenit exemplum sed potius ad rationem formamque contendit Namque sapientia ratione quadam atque forma efficit sapientes. Eius uero causae quam Tullius refert, sine qua non fit aliquid, materia quidem, tempus et locus, id est, ex quo fit, uel in quo fit, quae sunt efficienti substantia naturae: ut uno intellectu comprehendantur, uel materia sunt, uel materiae uice supposita; instrumenta uero ei causae sunt quae ad finem spectant sed non ipsa finis, quia non finis instrumenta respicit sed haec tinem.  Instrumenta namque propter aliquem finem parantur.  Sed mirum uideri potest cur congressionem amoris causam non interea enumerauit, quae habent efficiendi uim sed inter eas posuerit causas, sine quibus effici non potest, cum tamen agat aliquid atque moueat. Nam ipsa congressio aliquid uidetur efficere, similisque est ei caasae quae ipsa quidem habet efficiendi uim sed sine adminiculo non potest, ueluti cum quaeritur de sapientia an sola beatum possit efficere. Sed Merobaudes rhetor ita disseruit, earum causarum, quae efficiendi uim haberent, eam esse facultatem, ut etiamsi adiumentis extrinsecus indigeant, effectus tamen earum ad id spectet quod efficiendum est. At in his causis quae sunt praecursoriae, etiamsi eis antecedentibus aliquid existit, non tamen id quod existere intelligitur praecursio principaliter operatur. Sed ista quidem ueluti sub quadam occasione praecurrit, illa uero res quae existeret dicitur, aliis operantibus nascitur, uelut in congressione solum est fieri. Fortasse enim non propter amorem quisque congreditur sed praecedente congressione amor existit, quem non congressio principaliter appetebat. Itaque quoniam praeter congressionem amor existere non potuit, recte intereas causas congressio locata uidetur sine quibus non efficitur; quoniam uero non efficit ui sua, quandoquidem nec principaliter ut efficiat, spectat sed tantum ea ante aliquid existit, recte inter praecursorias, ac non inter efficientes causas est collocata.  QUA RE CUM IN DISPUTATIONEM INCIDERIT CAUSA EFFICIENS ALIQUID NECESSARIO, SINE DUBITATIONE LICEBIT QUOD EFFICITUR AB EA CAUSA CONCLUDERE.  CUM AUTEM ERIT TALIS CAUSA, UT IN EA NON SIT EFFICIENDI NECESSITAS, NECESSARIA CONCLUSIO NON SEQUITUR. ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM SINE QUO NON EFFICITUR SAEPE CONTURBAT. NON ENIM, SI SINE PARENTIBUS FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA IN PARENTIBUS CAUSA FUIT GIGNENDI NECESSARIA.  HOC IGITUR SINE QUO NON FIT, AB EO IN QUO CERTE FIT DILIGENTER EST SEPARANDUM. ILLUD ENIM EST TAMQUAM:    UTINAM NE IN NEMORE PELIO --  NISI ENIM 'ACCIDISSENT ABIEGNAE AD TERRAM TRABES,' ARGO ILLA FACTA NON ESSET, NEC TAMEN FUIT IN HIS TRABIBUS EFFICIENDI VIS NECESSARIA. AT CUM IN AIACIS NAVEM CRISPISULCANS IGNEUM FULMEN INIECTUM EST, INFLAMMATUR NAVIS NECESSARIO.  Prima quidem causarum diuisio, secundum Tullium, fuit in ea quae efficerent aliquid, et ea sine quibus effici non posset, atque illud quidem quod efficeret, in gemina item partitus est, scilicet in id quod ad efficiendum aliquid necessariam uim possideret, neque ullius indigeret extrinsecus adiumenti, etinid quod nisi illis adiuuantibus operari atque efficere non posset. Ac primum de ea loquitur causa quae efficiendi uim tenet, eius enim ea pars cui efficiendi necessitas adest, statim secum conclusionem comitem trahit; dicta enim causa, quae necessario ac quid efficit, effectus etiam nec esse est consequatur, ueluti si solem adfuisse quis dixerit, lucem quoque adfuisse monstrabit, aut cum alicui ad esse sapientiam dixerimus, sapientem nec esse est fateamur.  At in his causis efficientibus quae extrapositis indigent adiumentis, non eadem ratio est; neque enim ut quaeque huiusmodi causa dicitur, ita nec esse est affectum sequi. Non enim huiusmodi causa necessario efficit quod uult, nisi extrapositis auxiliis adiuuetur; idem est etiam in ea causa quae ipsa quidem efficiendi uim non habet sed sine ea non prouenit effectus. Nam, ut Tullius quoque commemorat, nullam in efficiendis rebus adhibet necessitatem, atque ideo dicta causa non statim sequitur effectus. Neque enim si congressus est, mox amauit, nec si fuit aes, statuam quoque fuisse nec esse est.  Ex quo aliarum causarum partitio nascitur. Aliae namque causae sunt necessariae, aliae minime. Non necessariarum aliae sunt efficientes, aliae sine quibus non efficitur. Necessariarum uero causarum conclusio non solet conturbare: ut enim haec causa fuerit dicta, statim in conclusione sequustur effectus. Non necessariarum uero, quae sunt partim efficientes, quod nunc tacuit sed paulo ante praedixit, non habent subsequentem effectae rei conclusionem. Neque enim si liberi sine parentibus non sunt, idcirco in parentibus efficiendi causa necessaria fuit, cum uideamus in hominum esse potest ate ne gignant. Ea uero causa quae ipsa quidem non efficit sed sine ipsa effici non potest, huiusmodi est quemadmodum Enniano uersu declaratur: NISI ENIM CECIDISSENT ABIEGNAE TRABES AD TERRAM, ARGO ILLA FACTA NON ESSET. Ex trabibus namque Argo facta est sed nulla inerat trabibus necessitas, ut ex eis fieret nauis; at uero ea causa quae est efficiens, et quae in se suam continet necessitatem, talis est. Quale CUM IN AIACIS NAVEM IGNEUM CRISPISULCANS FULMEN INIECTUM EST, statim enim accendi nec esse est nauim, quia ignis accendend necessaria causa est.  Et sensus quidem est huiusmodi, ordo autem paulo confusior est, ait enim hoc modo: ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM, QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM SINE QUO NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Quod cum dixisset, cumque uel utriusque uel alterius exemplum ponere debuisset, neutro conueniens exemplum similitudine dedit. Namque cum uel necessariam causam efficientem, uel eam sine qua non efficitur, proposuisset, eius causae posuit exemplum, quae efficiat quidem aliquid sed non sine extrapositis adiumentis, hoc modo: NON ENIM SI SINE PARENTIBUS FILII ESSE NON POSSUNT, PROPTEREA CAUSA FUIT IN PARENTIBUS GIGNENDI NECESSARIA. Parentes enim et maxime masculini sexus efficiens causa est sed non sine femina, id est non sine materia quadam, et ea causa sine qua fieri non possit, cum ipsa uim efficiendi non habeat.  Itaque nec causa necessariae et efficientis posuit exemplum, nec eius sine qua fieri nihil possit sed efficientis quidem, non tamen necessariae sed uidetur tacuisse in propositione id cuius posuit exemplum; ita enim apertius dici potuisset: ATQUE ILLUD QUIDEM GENUS CAUSARUM, QUOD HABET VIM EFFICIENDI NECESSARIAM, ERROREM AFFERRE NON FERE SOLET; HOC AUTEM quod non habet efficiendi uim necessariam; uel HOC SINE QUO NON EFFICITUR, SAEPE CONTURBAT. Itaque sic intelligendum est quasi ita sit dictum; nam de necessaria causa nullum posuit exemplum. Quod uero subiecit, utrisque causis conuenit posterius enumeratis, tam efficienti non necessariae, quam eius sine qua nihil efficitur. Parentes namque tam masculini sexus quam feminini esse dicuntur, quorum quidem masculini sexus ea causa est quae efficiat sed non necessaria. Feminini uero ea quae non efficiat sed sine qua effici [non possit.  Quae cum ita sint, discernendae sunt causae et peruidenda necessitas, nec omnis causa praemittenda ut subsequatur effectus sed ea tantum in qua est efficiendi necessitas, etiamsi extrinsecus adiumenta defuerint. ATQUE ETIAM EST CAUSARUM DISSIMILITUDO, QUOD ALIAE SUNT, UT SINE ULLA APPETITIONE ANIMI, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE SUUM QUASI OPUS EFFICIANT, VEL UT OMNE INTEREAT QUOD ORTUM SIT; ALIAE AUTEM AUT VOLUNTATE EFFICIUNT AUT PERTURBATIONE ANIMI AUT HABITU AUT NATURA AUT ARTE AUT CASU: VOLUNTATE, UT TU, CUM HUNC LIBELLUM LEGIS; PERTURBATIONE, UT SI QUIS EVENTUM HORUM TEMPORUM TIMEAT; HABITU, UT QUI FACILE ET CITO IRASCITUR; NATURA, UT VITIUM IN DIES CRESCAT; ARTE, UT BENE PINGAT; CASU, UT PROSPERE NAVIGET. NIHIL HORUM SINE CAUSA NEC QUIDQUAM OMNINO; SED HUIUSMODI CAUSAE NON NECESSARIAE. Facit aliam rursus causarum diuisionem ita: CAUSARUM enim ALIAE SUNT quae sua quadam ui, SINE APPETITIONE, SINE VOLUNTATE, SINE OPINIONE unum atque eumdem in efficiendis rebus ordinem tenent, ut est interire omnia quae orta sunt. Nam quia ortum est, idcirco etiam nec esse interire, nec tamen ipse ortus, ut caetera intereant, uel appetitu aliquo, uel uolutate uel opinione efficit; sed ita est ab aeterno rerum statu, ut quidquid ortum est, quia accepit esse, aliquando etiam esse desistat. Item ALIAE sunt causae quae AUT in VOLUNTATE AUT in PERTURBATIONE ANIMI AUT in HABITU AUT in NATURA AUT in ARTE CASU ue consistunt. VOLUNTATE, ut si quaerat aliquis cur Trebatius librum legat, respondebitur, quia legendi uoluntas est. PERTURBATIONE animi, ut si quis timore pallescat, aut urbem fugiat, bellis ciuilibus conturbatas. HABITU, UT si idcirco Trebatius FACILE. de iuris ratione responderit, quoniam multo usu constantem ciuilis scientiae habitum tenet, uel si quis idcirco irascatur facile, quia eius animus per iracundiae habitum efferatus est. NATURA, ut si quis idcirco dicatur irasci, quia naturaliter iracundus est, id quod in dies uitium crescat. ARTE, ut si idcirco bene quisque pingat, quia eius artis peritus esse proponatur. CASU, ut quae in nostra potestate nullo modo sunt, fiunt tamen, uelut in certo praesertim tempore, prosperitas nauigandi. Atque horum omnium nihil a causa uacuum est, nec quidquam est in rebus quod non aliqua causa perficiat. Omnia enim quae fiunt habent aliquam rationem cur facta sint, quam si quis reddere possit, causam quoque reddiderit. Id est enim causa propter quam unumquodque fit.  Omnes uero causae quae uel ex uoluntate, uel perturbatione animi intelliguntur, ad eam causam pertinent quae est mouendi principium, ut in Aristotelica diximus diuisione. Haec enim ut aliquid efficiatur, mouendi principium sunt, at in arte, uel habitu, uel natura, illa causa est, quae in ratione consistit. Species enim ac ratio uniuscuiusque efficiendae rei in arte et habituet natura posita est. Casus uero exterior causa, nec inter principales annumeratur secundum Aristotelem. Secundum uero M. Tullium casus est latens effectae rei causa; quod quale sit paulo posterius designabitur. OMNIUM AUTEM CAUSARUM IN ALIIS INEST CONSTANTIA, IN ALIIS NON INEST. IN NATURA ET [IN] ARTE CONSTANTIA EST, IN CAETERIS NULLA. SED TAMEN EARUM CAUSARUM QUAE NON SUNT CONSTANTES ALIAE SUNT PERSPICUAE, ALIAE LATENT. PERSPICUAE SUNT QUAE APPETITIONEM ANIMI IUDICIUMQUE TANGUNT; LATENT QUAE SUBIECTAE SUNT FORTUNAE. CUM ENIM NIHIL SINE CAUSA FIAT, HOC IPSUM EST FORTUNAE EVENTUS; OBSCURA CAUSA ET LATENTER EFFICITUR. ETIAM EA QUAE FIUNT PARTIM SUNT IGNORATA PARTIM VOLUNTARIA; IGNORATA, QUAE NECESSITATE EFFECTA SUNT; VOLUNTARIA, QUAE CONSILIO.  QUAE AUTEM FORTUNA, VEL IGNORATA VEL VOLUNTARIA.] NAM IACERE TELUM VOLUNTATIS EST, FERIRE QUEM NOLUERIS FORTUNAE. EX QUO ARIES SUBICITUR ILLE IN VESTRIS ACTIONIBUS: SI TELUM MANU FUGIT MAGIS QUAM IECIT. CADUNT ETIAM IN IGNORATIONEM ATQUE IMPRUDENTIAM PERTURBATIONES ANIMI; QUAE QUAMQUAM SUNT VOLUNTARIAE -- OBIURGATIONE ENIM ET ADMONITIONE DEICIUNTUR -- TAMEN HABENT TANTUS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT AUT NECESSARIA INTERDUM AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR.  Rursus causarum diuisionem aliam claram ac perspicuam prodit. Causarum namque aliae sunt constantes, alia uero inconstantes. Constantes sunt, quarum non fereuariatur effectus; inconstantes uero, quae huc atque illuc facilioribus mutationibus transferuntur.  Omnia igitur quae ex natura atque arte descendunt, constantia sunt. Natura quippe atque ars suum semper opus efficiunt, nisi subiectae materiae obstet incertum. Nam quod unus idemque artifex ex eadem saepe materia non admodum similes statuas format, non est haec in arte uarietas sed tum in artificis manu, quae integritatem artis assequi non potest, tum in ipsa materia, quae efficientiae atque formae non aequaliter cedit. Idem est in natura, seruat namque constantiam suam, cum hominem format ex homine. Itaque similia in caeteris ex similibus gignit: at cum monstrosum aliquid effertur, non naturae uitio sed materiae potius applicatur, ex qua id quod efficere contendebat, non ita potuit natura explicare.  Sed inter constantes causas habitus quoque debuit adiungi; nam quod habitu cuiusque lit, id constans, nec mutabile esse solet; quandoquidem idcirco habitus dicitur, quia diuturnitate habendi in naturae similitudinem uertitur. Sed forsan Tullius uidit quod natura atque ars, non tam in effectibus constantes quam in propria ratione esse intelliguntur, in tantum ut quod ars ac natura delinquit, materiae saepius impPombaur, habitus uero ipse consuetudine quadam collectus est, qui non ratione aliquid et propria constantia sed usu facit, atque idcirco forsitan habitum, qui inter caetera praeter artem et naturam uidebatur esse constantior, a causis constantibus segregauit.  Ea uero quae non sunt constantia, in ea diuidit quae sunt perspicua, et in ea quae latent. Perspicua sunt quae ab animi quolibet motu uel appetitione, uel iudicii ratione profecta sunt; latent uero quae fortunae subiacent. Nam quia non ignorat animus in quam partem declinet, qui tametsi boni aliquanio habet iudicium, nunquam tamen eius rei quam efficit notionem relinquit, praetereos qui funditus mente capiuntur, et in quibus iam nulla uoluntas est, nec esse est nota esse, quae ex uoluntate uel animi iudicio fiunt. Fortuna uero atque casus semper ignotus est. Cuius quidem natura aeque incerta est, atque ea quae casibus ipsis fiunt.  Sed M. Tullius definit esse casum, euentum causis latentibus effectum; quae non uidetur integra definitio: quid enim, si adhuc lateret quibus causis solis defectus lunaeue contingeret, num idcirco casu atque fortuna fierent, quae constantibus caeli motibus administratur?  An casus quidem putaretur ab his qui defectus rationem reperire non possent, per se autem consideratus, nullo quidsm modo esset casus. Sed M. Tullius non quod uideretur esse casus, his qui eius naturam minime perspexissent sed qui omnino fortunae euentus esset definitionis rationem monstrabat. Euentum uero latentibus causis Cicero casum esse ita concludit: Cum omnia certis de causis fiant, quorum ratio cognoscitur, eorum euentus casu fieri non posse monstrantur sed putantur aliqua fieri casu eorum quorum causa nulla ratione cognoscitur. Ex quo euenit ut fortunae sit euentus, qui latentibus causis efficitur. Hic igitur in rebus quidem ipsis constantiam ponit, casum uero non re sed opinione metitur. Quo fit ut si aliter effectae remouerit causam, id quod accidit fortunae non sit euentus, idem tamen sit alteri fortunae euentus, si rationem alter ignoret. Quod uero omnium rerum causas esse dicit, non determinat quales, atque ideo nec de fortuna ipsa, quorum euentum causa sit, monstrat.  Nec me saeuae hominum mentes arrogantiae notent, quod uelut affectata auctoritate Tullianis sententiis pugnem, cum aduersus eas si quid uidebitur non nostra sed ab antiquissimis tractata compensem. Quod si nostra quoquo diceremus, oporteret tamen eos non personarum uetustatem sed eorum quae opponuntur considerare rationem, nec odisse potius quae aduersus magni nominis uiros dicuntur, quam contraria, si possent, argumentatione reuincere. Nam si eis M. Tullius in definitione rerum nimium placet, quaenam est inuidia nos quoque Aristotelicam rationem probare?  Quod si intemperanter molestissimi esse pergunt, audiant M. Tullium secundo Tusculanarum disputationum libro adhortantem potius, atque ad certamen uocantem, hoc modo: Sed tamen tantum abest ut scribi contra nos nolimus, ut id etiam maxime optemus. Ipsa enim Graeciae philosophia nunquam in honore tantum fuisset, nisi doctissimorum contentionibus,  dissensionibusque creuisset; quamobrem hortor omnes, qui facere id possunt, ut eius quoque generis laudem iam languenti Graeciae eripiant, et transferant in hanc urbem, sicut reliquas omnes, quae quidem erant expetendae studio atque industria sua maiores nostri transtulere.  Et rursus, nos qui sequimur probabilia nec, ullraquam quod uerisimile occurrit, progredi possumus, et refelli sine pertinacia et refellere sine iracundia parati sumus. Quocirca quae malum ratio est ipsius M. Tullii uoluntatem iudiciumque conuellere, cum eiusdem contra nos sententiis atque auctoritate nitantur?  Sed si cui commentarios nostros inspicere uacuum fuerit, sciat haec nos ex Aristotelis secundo Physicorum uolumine aduertisse, quae tametsi altioris philosophiae disputationes tangunt, non est tamen studiis inuidendum, si rhetoricis quoque ac dialecticis disputationibus admisceamus, qua sunt profundiora naturae, neque pigrescere ac dilassari animos dignum est, quos intentiores ac uegetos ipsa rerum ambiguitas et uariarum cognitio speculationum deberet efficere, eum praesertim ea librorum natura sit, ut ad legendum studiosos teneat, nullum cogat ignauum. Dicamus igitur quid euentus sit fortunae, uel quarum sors causa esse dicatur.  Omnia igitur sunt uel immutabiliter ac semper, ut quod sol oritur; uel saepius, ut quod equus quadrupes nascitur; uel raro, ut si equus cum quinque uel tribus pedibus procreetur; uel aeque, ut in quibus faciendarum rerum nihil interest, quo potius uoluntatem uergamus. Atque illud quidem quod semper fit, nihil habet oppositum, quod ullo modo aliter fiat; id uero quod saepe contingit habet; aduersum, id quod rarius euenit, neque enim saepius fieret, ac non semper, nisi diuersum raro quidem sed aliquando contingeret. Quod igitur ex fortuna tit, in sempiternis non est; quis enim casu solem dicat oriri? Ne in his quidem quae frequentius fiunt; nullus enim casu equum dixerit esse quadrupedem. Nee uero in his quae fieri aequaliter solent; nam quae uoluntaria sunt non uidentur esse fortuita.  Restat igitur ut in his fortunae euentus sit, quae rarius fiunt. Eorum uero quae fiunt, partim finem aliquem spectant, partim minime.  Quis enim finis esse potest, si manum extendam, si genua complicem, atque aliquid iacens humi tollam, quod nullis usibus applicem? At uero ea quae aliquem finem spectant partim uoluntatis sunt, partim naturae. Voluntatis, ut siquis idcirco domo egrediatur, ut uideat amicum. Naturae, ut quod est in animalibus. Omnia quae ab ea fiunt certam animalis respiciunt utilitatem, atque ad eius salutem conseruationemque omnium membrorum momenta sunt constituta. Casum igitur ac fortuitos euentus in his esse ponimus, quae cum rarius fiant, in his tamen per accidens eueniunt, quae propter aliquid fiunt.  Veluti si quis egressus domo ut amicum uideret, praeteriens cadente.  desuper lapide ictus est: id igitur quod euenit, in rariore causa ponendum est, accessit uero ei uoluntati, quae certum respiciebat finem. Ea uero fuit domo egrediendi causa, ut amicum uideret. Rursus, quoniam lapsis naturaliter grauis est, grauitas uero terram petit, casus quidem lapidis propter aliquid naturaliter factus est; ad id enim lapidis natura tendebat, ut in suum locum pondus ueniens conquiesceret. Sed huic naturali intentioni accidit id quod rarius euenit scilicet ut percuteret caput; quo fit ut sit secundum Aristotelem fortuna uel casus, causa per accidens rarius eueuientum in his rebus quae propter aliquid fiunt. Quae cum ita sint, cumque definitio Aristotelica a Tulliana plurimum discrepet, illud tamen in utrisque constat, id quod fortunae subiectum est, incertis casibus semper esse suppositum. Nam licet in his rebus saepe fortuna suos experiatur actus, quae uoluntate sunt, et ad aliquem finem referuntur, extra tamen accidit quod fortunae est, nec ab eo tine uenit, quem sibi animus ante perspexerat.  Sed cum Cicero diuisisset causas in eas quae perspicuae sunt, et in eas quae laterent, cumque eas quae perspicuae sint diceret esse quae appetitionem animi iudiciumque tangerent, manifestum est eum uel artem, uel uoluntatem, uel perturbationem, uel habitum in his causis ponere quae perspicu ac sunt; uoluntas quippe atque animi perturbatioin appetitione ponitur, saepe enim ex perturbatione aliquid appetimus, artem uero uel habitum in iudicio; arte namque iudicamus, habitus uero ad utrumque pertinet: nam et uoluntates consuetudo ministrat, et multo usu peritiaque fit quaedan constantia iudicandi. Casum in non perspicuis posuit.  De natura incertum est utrum inter perspicuas an inter latentes ipsam coliocet: nam si inter latentes causas, ipsam naturam casum uideretur putare: cuius opinionis nulla ratio est Quod si inter perspicuas, quaenam appetitio animi uel iudicium in natura est? Neque enim appetendo aliquid uel iudicando facit natura, nisi forte quoniam ex ipsa saepe habilitas quaedam mentis et corpori existit, quae habi lit as ad unamquamque rem adiuuat uoluntatem; id enim maxime uolumus ad quod habiles sumus. Sed natura inter perspicuas causas ponitur, quae iudicio quoque coniuncta est, ut si naturaliter sano quisque iudicio compositus est: appetitioni etiam, ut si naturaliter aliquid animus petat.  His adiungit aliam causarum diuisionem; ait enim alias causas esse uoluntarias, alias ignoratas: uoluntarias, eas quaecumque ex iudicio ueniunt animi; ignoratas in quibus necessitas domina est, id est in quibus aut omnino non uolumus, aut ne si uelimus quidem aliter facere possumus, ut in natura atque casu. Necessitate enim quadam naturae grauia deorsum feruntur, necessitate item factum dicimus, ut aliquis ignorans iacto trans parietem lapide praetereuntem hominem peremerit. Eaque necessitas talis est, non quod aliter fieri non potuisset, nisi ut lapide iacto percuteret sed quia uoluntas defuit, et non idcirco, quia uoluit, fecit. Prior uero necessitas iam talis est, in qua nulla uoluntas est, uel ea quae est, ne id quod cupit efficiat, ualidiore necessitate constringitur. Nam cum lapsis deorsum propria grauitate deponitur, nulla uoluntas est sed tantum naturae necessitas; at si homo deorsum cadat, est quidem non cadendi uoluntas sed ferri quo non uult, ualidior naturae causa compellit.  Voluntatem uero a fortuitis euentihus uno eodemque aptissimo secreuit exemplo, ueluti si telum manu iaciat, nolensque feriat praetereuntem. Nam iecisse ex uoluntatis principio nascitur. Idcirco enim iecit, quia uoluit. Ignorauit uero quod perculeret; neque enim iecisset, si se percussurum praeuidere potuisset. Neque iecit, quia uoluit percutere. Si autem non ignorasset, non percutere potuisset. Unde etiam machinamentum quoddam atque defensio in iuris peritoram responsionibus inuenitur, hoc modo: Si telum manu fugit magis quam iecit; nam si quis caedis accusetur, optima solet esse defensio, si alia non suppetit, fugisse manu telum, magis quam uoluerit iecisse, ut non uoluntati, quae condemnatur in culpis sed ignorantiae factum tribuatur.  De perturbationibus autem animorum paulo confusius iudicium est. Dubitari enim potest utrum ex uoluntate, an necessitate, an ex ignoratione uenerit, quod perturbatione peccatur: uidentur enim uoluntaria esse peccata, quoniam qui perturbatus est appetit aliquid, aut fugit. Sed in hoc perturbatio eius apparet, quod non fugienda uitat, et non appetenda nimis exoptat. Porro autem quoniam in perturbationibus sunt confusa iudicia (neque enim aliter id quod fugiendum est saepe appetunt perturbati, nisi obcaecato obscuratoque iudicio), quod uero fit animi confusione, saepe tale est ut nollet admisisse qui fecit, et euenit ut non inter uoluntarias sed inter ignoratas uel necessarias causas animorum perturbatio sit; in tantum uero qui perturbatus est, a uera discretione discedit, ut in eam possit recta bene consulentium admonitione reduci. Quo fit ut animorum perturbatio iure a causis uoluntariis segregetur, et aut in ignoratione, aut in necessitate ponatur.  Nam quod ait: TAMEN HABENT TANTOS MOTUS, UT EA QUAE VOLUNTARIA SUNT, AUT NECESSARIA INTERDUM, AUT CERTE IGNORATA VIDEANTUR, ita intelligendum est: quoniam omnis animi passio iudicium conturbat, confundit uero rectam discretionem, si acrior fuerit quam ut rationis retinaculis temperetur, et fit quaedam ex perturbationibus ueluti uiolenta necessitas, ut dubium sit utrum is qui aliquid perturbatus animo facit, ignorans faciat; ueluti cum casu ignorans delinquit, cum futurum non prouidet casum, an sciens faciat, uel necessitate ducatur. Quod igitur dixit: Aut necessaria esse, aut ignorata, et diuisit a neeessariis ignorata, non pugnat contra id quod superius dixit, ea quae ignorata sunt esse necessaria. Nam id quod est ignoratum ita quodammodo diuidit: ignoratorum alia quadam necessitate fiunt, dum aut nulla uoluntas est, aut ea quae est, necessitati nequit obsistere; alia casu, cum in his faciendis, quae ignorantur, nulla uoluntas est.  Quod igitur dixit, perturbationes animi, aut in necessariis causis poni, aut in ignoratis, id sine dubio sensisse intelligitur, perturbationes animi, aut in his esse ignoratis in quibus ea necessitas est, ut uoluntas obsistere non possit, aut in his in quibus nalla uoluntas est sed sit delictum caecitate iudicii, uelut in his qui immoderatius amoris cupiditati deseruiunt: aut enim confuso iudicio ab honestate discedunt, et dum quasi bonum appetunt, in malum decidunt ignorantes, atque ita in casu quodam atque errore ponitur amor immodicus; aut nouit quidem quod appetit esse uitandum sed maioris actu cupiditatis impellitur, atque ita inter ea necessaria ponitur, quae aut non habent uolunt. Item, aut eam ita infirmam ac debilem, ut nullo modo ualidioribus passionibus obnitatur.   Fore quosdam, Patrici rhetorum peritissime, non dubitauerim, qui hunc in Topicis altiorem ex philosophia tractatum uaria obtrectatione reprehendant, quia inter logicam disputationem physicam interposuit. Hi uero sunt, uel quibus hoc totum philosophari displiceat, uel qui in argumentorum locis naturales admisceri causas oportuisse non existiment. Sed contra priores quidem, et a M. Tullio, et ab ipsa quodammodo humana ratione, quae in motu posita aliquid semper inquirit, atque amore scientiae neque decipi patitur, neque ullo modo a ueritatis ratione traduci, saepe multumque responsum est.  His uero qui sequestrandas ab oratorio facultate philosophiae disciplinas putant, respondendum breuiter existimo. Ratione quidem reperiri quiddam potest sed melius atque facilius artifex faciet, si in opere construendo artis facultatem atque elegantiam comparet.  In argumentis quoque idem esse manifestum esti ui namque naturalis ingenii argumenta promuntur. Sed ars facultatem imitata naturae uiam quamdam rationemque reperit, qua id effici facilius ac melius possit.  In qua re illorum nec esse est reprehendatur error, qui rhetoricam facultatem naturalem esse dixerunt, quoniam quilibet totius artis alienus et intendere in alterum crimen, et sese purgare solet, et argumento aliquid prohare contendit. Reprehendendi etiam sunt qui eamdem facultatem in sola arte positam esse dixerunt: oportuit enim eos animaduertere, omnem quidem artem sui materiam effectus ex natura suscipere sed in ea tamen ratione propriam facultatem elegantiamque experiri. Haec itaque quae artium ratio perficit, ab imperitis etiam fieri, utcumque contigerit, possunt. Bene autem ac facile nemo efficit nisi artis ratione fuerit instructus. Cum igitur totius operis haec sit intentio, ut argumenta quae confusa et ueluti clausa natura suppeditat, artificialiter uestigentur, quid sit per quod efficere id quod promittit ars ualeat, sub exempli notatione demonstrat: ut enim facilius argumenta reperiantur, illa res efficiet, si demonstrentur loci in quibus argumenta sunt collocata. Et enim ut si quis aliquid quaerat, facilius id inuestigare possit atque inuenire, si locus ei monstretur ubi sit positum id quod inquirit; ita etiam cum quis argumentum inuenire conatur, si ei locus ubi argumentum sit positum, declaretur, facilius argumentum quod quaerit ualebit inuenire. Ita enim Aristoteles, et ita Tullius appellat eas sedes in quibus argumenta sunt collocata, id est locos, qui ab Aristotele topica uocati sunt.  Sed quoniam de sedibus argumentorum loquimur, hi cuiusmodi sint paulo altius expediamus; locos enim non uno modo intelligitur. Ac relinquamus quidem eos locos quos Victorinus frustra atque inconuenienter interserit, uelut cos qui corpora concludunt, ac simpliciter intelligamus eos locos argumentorum esse qui intra se continent argumenta in quibus exponendis posterius quid sit quod dicimus clarius apparebit. Nunc communiter de tota locorum ratione, deque argumentatione, ac de quaestionibus et propositionibus earumque terminis uidetur esse tractandum.  Ac primum quoniam locus qui tractatur in Topicis, non cuiuslibet rei sed tantum locus est argumenti, exposito prius argumenti intellectu, deinceps de loci ratione tractabimus. Definit igitur Tullius argumentum hoc modo: Argumentum est ratio quae rei dubiae faciat fidem. Sumpsit igitur rationem ut genus. Omnes enim iniuriosi sunt qui orationis uirtutem a sapientiae ratione seiungunt, aliamque esse dicendi artem uelint, aliam intelligendi. Nam si nihil orationes aliud agimus, nisi interius cogitata uulgamus, quae malum ratio est, orationis elegantiam a sententiarum grauitate se ponere? Quae porro sententiarum grauitas esse potest, sine earum rerum de quibus dicendum est comprehensione? Quae uero alia disciplina naturam proprietatemque rerum omnium docet, uel quae omnino eorum quae intelligi possunt, scientiam profitetur, nisi haec tantum ex qua nos pauca praesumpsimus philosophia? quae longe aliter de his ipsis in proprio sapientium tractatu disputare solet. Neque ita cursim ut nos, quae sint in illorum libris solet, prolixius disserenda sumpsissem, quis ferret insolentium hominum temeritatem prouectus suos culpare uolentium quibus prouectibus proficerent, si studiosi potius quam queruli esse mallent? Sed his contentionibus neque antiqua caruit aetas, nec nos ita delicati sumus, ut quibus patientia doctissimorum hominum saepius obstitit, fere nolimus, dum et pluribus prod esse possumus, et sapientium iudicia consequamur. Ad quem finem hic noster labor et totius operis summa contendit. Sed haec hactenus.  Nunc susceptae expositionis ordinem persequamur.  TOTO IGITUR LOCO CAUSARUM EXPLICATO, EX EARUM DIFFERENTIA IN MAGNIS QUIDEM CAUSIS VEL ORATORUM VEL PHILOSOPHORUM MAGNA ARGUMENTORUM SUPPETIT COPIA; IN VESTRIS AUTEM SI NON UBERIOR, AT FORTASSE SUBTILIOR. PRIVATA ENIM IUDICIA MAXIMARUM QUIDEM RERUM IN IURIS CONSULTORUM MIHI VIDENTUR ESSE PRUDENTIA. NAM ET ADSUNT MULTUM ET ADHIBENTUR IN CONSILIA ET PATRONIS DILIGENTIBUS AD EORUM PRUDENTIAM CONFUGIENTIBUS HASTAS MINISTRANT.  IN OMNIBUS IGITUR EIS IUDICIIS, IN QUIBUS EX FIDE BONA EST ADDITUM, UBI VERO ETIAM UT INTER BONOS BENE AGIER OPORTET IN PRIMISQUE IN ARBITRIO REI UXORIAE, IN QUO EST QUOD EIUS AEQUIUS MELIUS, PARATI EIS ESSE DEBENT. ILLI DOLUM MALUM, ILLI FIDEM BONAM, ILLI AEQUUM BONUM, ILLI QUID SOCIUM SOCIO, QUID EUM QUI NEGOTIA ALIENA CURASSET EI CUIUS EA NEGOTIA FUISSENT, QUID EUM QUI MANDASSET, EUMVE CUI MANDATUM ESSET, ALTERUM ALTERI PRAESTARE OPORTERET, QUID VIRUM UXORI, QUID UXOREM VIRO TRADIDERUNT. LICEBIT IGITUR DILIGENTER ARGUMENTORUM COGNITIS LOCIS NON MODO ORATORIBUS ET PHILOSOPHIS, SED IURIS ETIAM PERITIS COPIOSE DE CONSULTATIONIBUS SUIS DISPUTARE.  Diuiso causarum loco atque ordine suis partibus distributo, de locis eiusdem facultate, quibusque uberius, quibusque angustius accomodetur, uti saepe Ciceroni mos est, disserit. Primum enim inquit, oratoribus ac philosophis, quorum in disputationibus larga materia est, multa ex causarum loco argumentorum suppetit copia. Communis quippe oratoribus ac philosophis hic locus esse prospicitur qui est a causis, his naturas rerum quod est philosophiae proprium, illis quod oratoriae facultatis est, facta probantibus. Nam et cum res quaelibet quaeritur, [eius causae a philosophis uestigari solent. Quibus praemissis, ut superius dictum est, comitatur statim quod concludendum est, et oratores ad suspicionem mouendam detergendamue factorum causas requirunt. Hoc quippe stabile in hominum mentibus manet, quod neque factum, neque res ulla praeter illam omnium principem naturam, sine propriis causis possit existere. Quo fit ut uberrimus causarum usus sit in rhetorum orationibus, philosophorumque tractatu.  Sed ut hunc libellum M. Tullius scribens, pleraque omnia Trebatio dedisse uideatur, hunc locum iuris quoque consultis attributum esse demonstrat, dicens: Etsi non tam uberes opportunitates habeat hic locus in iurisperitorum responsionibus subtilius certe atque acutius pro ipsius artis natura tractari potest, scilicet ubertatem quae deerat, subtilitate quae poterat inesse compensans. Habent enim etiam ipsi proprium campum in quo eorum uirtus possit enitere. Est enim iurisconsultorum prudentiae priuatarum quaestio causarum, maximeque in illis negotiis; hic causarum locus examinabitur, in quibus bonae fidei iudicia nectuntur. In his enim qui fuerit animus contrahentium quaeri solet, qui deprehendi uix poterit, nisi praecedentibus causis intelligatur. In his igitur iudiciis in quibus additur ut ex bona fide iudicent, id est ubi ita iudices dantur, ut non strictas inter litigantes stipulationes sed bonam fidem quaerant, pluribus causarum usus est: additur ut inter bonos bene agi oportet, considerantur mores, inquiruntur consilia; statuitur quibus, quidque de causis, administratum sit. In primisque in iudicio uxoriae rei uberrimus causarum tractatus est.  Est autem iudicium uxoriae rei, quoties post diuortium de dote contentio est. Dos enim licet matrimonio constante in bonis uiri sit, est tamen in uxoris iure, ut post diuortium uelut res uxoria poti potest. Quae quidem dos interdum his conditionibus dari solebat, ut si inter uirum uxoremque diuortium contigisset, quod melius a quius esset, apud uirum remaneret, reliquum dotis restitueretur uxori, id est ut quod ex dote iudicatum fuisset melius aequius esse ut apud uirum maneret, id uir sibi retineret; quod uero non esset melius aequius apud uirum manere, id uxor post diuortium reciperet. In quo iudicio non tantum boni natura spectari solet, uerum etiam comparatio bonorum fit, ut non tam quod aequum sed melius aequiusque est id sequendum sit. Quae omnia ex precedentibus causis inuestigari solent. Nam si uiri culpa diuortium factum est, aequiusmelius est nihil apud uirum manere. Si mulieris est culpa, aequius melius est sextans retineri.  In hisque omnibus peritissimi iurisconsulti esse debent; quo fit ut Trebatium quoque hortetur ad studium. Multa enim esse dicit, quae eorum operam exspectant. Illi enim, inquit, dolum malum, illi bonam fidem, illi aequum et bonum, illi etiam quid socius socio praestare debeat, quid is qui alienum in se gerendum sponte negotium suscepisset, ei cuius id negotium fuerat, quid is qui mandauerit ei cui mandauerit suorum negotiorum actiones, quid uir uxori, quid uxor uiro tradiderit; quae omnia ad posteriora causae sunt, aique exinde iudicia sumuntur idcirco enim, uerbi gratia, quodlibet illud iudex pronuntiare debet in uxoris ac uiri causa, quia uirum hoc praestare oportet uxori; idcirco etiam mandato rei cui mandauerit, obligatus esse iudicandus est, quia inter mandatorem susceptoremque negotii illud est obseruandum, omnia quoque quae quisque alteri prmslare debet, ea in tractandis iudicandisque negotiis causae sunt. Quocirca recte conclusit, diligenter cognitis argumentorum locis, et oratoribus, et philosophis, et iurisconsultis argumentorum copiam non defuturam.  CONIUNCTUS HUIC CAUSARUM LOCO ILLE LOCUS EST QUI EFFICITUR EX CAUSIS. UT ENIM CAUSA QUID SIT EFFECTUM INDICAT, SIC QUOD EFFECTUM EST QUAE FUERIT CAUSA DEMONSTRAT. HIC LOCUS SUPPEDITARE SOLET ORATORIBUS ET POETIS, SAEPE ETIAM PHILOSOPHIS, SED EIS QUI ORNATE ET COPIOSE LOQUI POSSUNT, MIRABILEM COPIAM DICENDI, CUM DENUNTIANT QUID EX QUAQUE RE SIT FUTURUM. CAUSARUM ENIM COGNITIO COGNITIONEM EVENTORUM FACIT.  Omnia quae ad se referuntur recte dicuntur esse cnniuncta; ipsa enim relatio rerum efficit coniunctionem; quod si causa alicuius causa est, non alterius, nisi sui effectus est causa, itemque si est aliquis effectus, ex causarum principiis uenit; iure igitur ab effectis locus, causarum loco debet esse coniunctus. Quoniam uero semper quae ad se referuntur aequantur, nec esse est, quae ubertas sit causarum, eadem quoque sit effectorum. Quoniam enim causa praeter effectum esse non potest, cum sit causa super effectum, nec esse est ut ex euentibus quoque atque effectibus, plurima suppetant argumenta, siquidem ex causis etiam plurima contrahuntur. Nam sicut cuiuslibet effectus potest causa tractari, si ex qualibet causa potest, qui sit euentus ostendi, recteque, ait, causarum cognitio euentuum cognitionem facit; ut enim in praedicamentis ostenditur, sciri relatiuum aliquod non potest, praeter reliqui scientiam relatiui.  RELIQUUS EST COMPARATIONIS LOCUS, CUIUS GENUS ET EXEMPLUM SUPRA POSITUM EST UT CAETERORUM; NUNC EXPLICANDA TRACTATIO EST. COMPARANTUR IGITUR EA QUAE AUT MAIORA AUT MINORA AUT PARIA DICUNTUR; IN QUIBUS SPECTANTUR HAEC: NUMERUS SPECIES VIS, QUAEDAM ETIAM AD RES ALIQUAS AFFECTIO.  NUMERO SIC COMPARABUNTUR, PLURA BONA UT PAUCIORIBUS BONIS ANTEPONANTUR, PAUCIORA MALA MALIS PLURIBUS, DIUTURNIORA BONA BREVIORIBUS, LONGE ET LATE PERVAGATA ANGUSTIS, EX QUIBUS PLURA BONA PROPAGENTUR QUAEQUE PLURES IMITENTUR ET FACIANT. SPECIE AUTEM COMPARANTUR, UT ANTEPONANTUR QUAE PROPTER SE EXPETENDA SUNT EIS QUAE PROPTER ALIUD ET UT INNATA ATQUE INSITA ASSUMPTIS ATQUE ADVENTICIIS, INTEGRA CONTAMINATIS, IUCUNDA MINUS IUCUNDIS, HONESTA IPSIS ETIAM UTILIBUS, PROCLIVIA LABORIOSIS, NECESSARIA NON NECESSARIIS, SUA ALIENIS, RARA VULGARIBUS, DESIDERABILIA EIS QUIBUS FACILE CARERE POSSIS, PERFECTA INCOHATIS, TOTA PARTIBUS, RATIONE UTENTIA RATIONIS EXPERTIBUS, VOLUNTARIA NECESSARIIS, ANIMATA INANIMIS, NATURALIA NON NATURALIBUS, ARTIFICIOSA NON ARTIFICIOSIS.  [18.70] VIS AUTEM IN COMPARATIONE SIC CERNITUR: EFFICIENS CAUSA GRAVIOR QUAM NON EFFICIENS; QUAE SE IPSIS CONTENTA SUNT MELIORA QUAM QUAE EGENT ALIIS; QUAE IN NOSTRA QUAM QUAE IN ALIORUM POTESTATE SUNT; STABILIA INCERTIS; QUAE ERIPI NON POSSUNT EIS QUAE POSSUNT. AFFECTIO AUTEM AD RES ALIQUAS EST HUIUS MODI: PRINCIPUM COMMODA MAIORA QUAM RELIQUORUM; ITEMQUE QUAE IUCUNDIORA, QUAE PLURIBUS PROBATA, QUAE AB OPTIMO QUOQUE LAUDATA. ATQUE UT HAEC IN COMPARATIONE MELIORA, SIC DETERIORA QUAE EIS SUNT CONTRARIA.  PARIUM AUTEM COMPARATIO NEC ELATIONEM HABET NEC SUMMISSIONEM; EST ENIM AEQUALIS. MULTA AUTEM SUNT QUAE AEQUALITATE IPSA COMPARANTUR; QUAE ITA FERE CONCLUDUNTUR: SI CONSILIO IUVARE CIVES ET AUXILIO AEQUA IN LAUDE PONENDUM EST, PARI GLORIA DEBENT ESSE EI QUI CONSULUNT ET EI QUI DEFENDUNT; AT QUOD PRIMUM, EST; QUOD SEQUITUR IGITUR...  Omnis comparatio duplex est: aut enim aequalia sibimet comparantur, aut inaequalia; sed in his quae sunt aequalia, semper eadem esse notatur aequalitas. Inaequalia autem ingemina ueluti membra diuiduntur, minoris scilicet atque maioris. Nam quod minus est, non per se minus est sed com paratione maioris. Itemque quod maius est, minoris comparatione dicitur maius. Quae cum ita sint, diuidit atque ante oculos ponit omnium comparationem modos, et quod raro in superioribus locis fecit, ipsas maximas propositiones ponit in comparationibus constitutas, ut si quando loco sit nobis comparationis utendum, habeamus quoddam, uelut inuentionis exemplar, ad quod quaerentem animum possimus aduertere.  Omnis igitur comparatio, aut in numero constat, aut in specie aut in ui aut aliqua locata extrinsecus affectione. Nam quodcumque conferre contendimus, aut numero comparamus, et secundum id aliud maius, aliud minus esse decernimus; aut speciem ipsam intuentes, eamque alii comparantes de excellentia iudicium damus; aut aliud consideramus, quid res quaeque possit efficere, et in quantum eius progredi possit natura, aut ex aliorum quodammodo continentia, et ex circumstantium affectione rem quam alii conferimus intuemur.  Numero igitur quae comparantur, si ex eodem sint genere, plura paucioribus ante ponuntur, uelut ei bona omnia sit aequalia, iure quis quamplura bona paucioribus anteponit. Et est haec maxima propositio: Plura bona paucioribus anteponuntur  et in caeteris quoque eadem ratio perspicitur maximarum propositionum. At si omnia in contrario sint genere, pluralitati paucitas praeferenda est, ut pauca mala pluribus malis, mala uero ipsa bonis nullo modo conferuntur. Quae enim ullo modo compensantur, in eodem esse genere debent, non in contrario. Nam cum aduersum se contraria e regione locata sunt, conferri compararique non possunt, quod sibi intelligitur esse inimica. Est etiam secundum numerum comparatio in temporis quoque ratione. Nam cum tempuscertis quibusdam spatiis, diuidatur, uelut horae, diei, mensis atque anni, ex aequalibus bonis ea magis eligenda sunt, quae diuturnius perseuerant, quod in numero positum esse nullus ignorat. Ipsa enim diuturnitas plurimos esse uel dies, uel menses, uel annos fatetur, quibus duret id quod eligitur. Longe etiam peruagala bona, angustis et in unum minimum locum coarctatis numeri comparatione praecedunt. Nam quae longe lateque peruagata sunt, ea in plurimas gentes regionesque diffusa sunt; pluralitas uero cuiuslibet rei numerum spectat. Iam uero ex quo plura propagantur bona, qui non iudicet esse meliora his quorum est inops bonorum contractiorque fecunditas? Quis etiam bonum quod plures imitentur ut faciant, caeteris quae ita non sint, excellere non arbitretur, quae in numero constare quis nesciat, quando in numero pluralibus constat?  Specie uero comparantur, quae per seipsa considerata suae quodammodo pulchritudinis merito caeteris anteferuntur. Meliora enim sunt quae propter se, quam quae propter aliud expetuntur, ueluti salus quae propter se excetitur, medicina propter salutem; quocirca melior est salus quam medicina: atque haec non ad aliquem numerum, nec postremo ad aliquam quantitatem sed ad ipsam speciem salutis ac medicinae considerationem referentes, iudicium promimus. Illa quoque quae innata atque insita sunt, assumptis et aduentitiis meliora iudicantur, unde innata moribus grauitas longe amplius excellit eam quae per imitationem affectatur. Integra etiam potius quam contaminata melioris rei iudicium ferunt. Nam quae integra sunt, suam speciem seruant, quae contanimata sunt atque ex aliqua parte uitiata, si qua etiam inerat, speciei pulchritudinem perdiderunt. iocunda minus iocundis meliora, communis omnium animalium natura diiudicat. Honesta utilibus sapientes anteponunt; procliuia laboriosis anteferri illa res monstrat, quod nemo ad eumdem finem per laboriosam atque asperam uiam tendere cupiat, ad quem possit procliui facilique itinere peruenire. Labor quippe omnis iniocundus est, iocunda est facilitas. Necessaria etiam non necessariis partim praeferri, partim etiam postponi debent, quod M. Tullius tacuit: necessaria quippe praeferuntur his non necessariis, quae non boni ratione sed uoluptatis appetitione sunt constituta, ueluti luxu regio parata conuiuia nullus sapiens iudicet esse meliora his quae naturae expleant indigentiam. Quaedam uero sunt quae ipsa specie boni, cum non necessaria sint, meliora sunt necessariis. Nam uiuere necessarium est, et sine eo subsistere animal nequit. Philosophari uero non est necessarium, melius tamen longeque excellentius est philosophum uiuere quam tantum uiuere: illud enim raro paucisque etiam utentibus ratione concessum; illud pecudibus commune nobiscum. Sua quoque alienis iure meliora esse dicuntur, ueluti hominibus ratio potius quam uoluptatis appetitio: illud enim proprium est hominis, illud alienum; rara quoque uulgaribus meliora sunt. (Atque hic locus approbat id quod superius dictum est, philosophantem uitam ipsa uita esse meliorem: nam quae rara sunt, facile id quod uulgare est antecedunt.)  Desiderabilia etiam his quibus facile carere possis, illa res approbat esse meliora, quod maxime desiderantur, et sine his anxia uita est, ueluti ei quis capillis uisum conierat. Aegrius enim toleramus carere uisu quam capillis; ita ex hoc meliorem esse uisum capillis iudicamus, quod his facile, illo aequo animo carere non possumus. Perfecta etiam imperfectis naturaliter excellunt, illa enim suam formam adepta sunt, illa minime. Tota etiam partibus eodem modo excellentiora esse arbitramur: nam quod totum est, habet naturae propriam formam. Quod uero pars est et ad totius nititur perfectionem, nondum suae pulchritudinis speciem cepit, nisi ad totius integritatem referatur. Iam uero ratione utentia rationis expertibus nullus dubitat esse meliora. Voluntaria quoque necessariis iure anteponuntur, namque uoluntaria libera sunt, quae necessaria quodam nos ueluti dominio necessitatis astringunt, atque ideo meliora esse uoluntaria necessariis existimamus; quanquam in hoc etiam illud intelligi possit, quod a nobis superius dictum est, non necessaria saepe necessariis anteponi, quandoquidem ea quae uoluntaria sunt non fuerint necessaria; uoluntaria uero meliora sunt necessariis. Non necessaria igitur saepe necessariis excellunt; animata quoque inanimatis. ipsius animae negatione considerata, anteponenda esse ratio persuadet. Naturalia etiam non naturalibus, et artificiosa inartificiosis. Optimusque hic gradus est, ut naturam arti, artem praeferas inertiae, ars quippe imitatur naturam. Quo fit ut id quod in se retinet pulchri, ex natura ueniat, cuius inmitari speciem cupit. Longe uero postrema sunt quae cum artificio carent, non a specie solum naturae, uerum etiam ab imitatione discedunt, atque haec quidem de specie in comparationibus considerantur. Vis autem in eo consistit in quo consideratur quid unaquaeque res possit efficere, nam quod quaeque res potest, ea uis eius rectissime dicitur. Efficiens igitur causa grauiorem uim habet quam ea quae nihil efficit: uelut artifex melior quam materia, illa quippe stolida est atque immota. Nec aliquid efficiens, nisi formam ab artifice, id est ab efficiente causa, susceperit. Item quae se ipsis contenta sunt, meliora esse his uidentur quae egent aliis: ueluti omnium Deus optimus est, quia nullo indiget, et ipso cuncta sunt indiga. Item quae in nostra sunt potestate magis eligenda sunt quam qua in aliena manu posita facile labuntur. Quo fit ut sit uirtus meliorquam diuitiae; nam uirtus est in nostra potestate, diuitiarum fortuna domina est. Iam uero stabilia incertis, quae eripi non possunt, his quae possunt, si tamen bona sunt, quis non intelligat esse meliora?  Quorum tamen locorum pars contraria contrarium teneet: inspectis quippe his quae meliora sunt, si horum aduersa uideamus, deteriora sunt.  Restat in affectione posita comparatio quae ita tractatur, ut non per semetipsam res quae alii confertur sed ex alterius cuiuslibet consideratione pensetur, uelut in tribus quibusdam rebus si duae ad seinuicem comparentur, eo quod ad tertiam plus minueue iungantur. Sint enim duo quaedam humanis rebus accommodata, quarum una principibus atque etiam ipsi reipublicae accommodatior: hic igitur iudicabimus eam rem esse meliorem quae melioribus prodest, id est ut reipublicae uel principibus non considerantes ut sese res habeat sed quantum reipublicae uel principibus adiuncta sit. Haec igitur res ex affectione est comparata, meliusque iudicatur id quod principibus commodum est, quam id quod aliquibus priuatis, quoniam principes reliquorum etiam continent statum. Eodem modo sunt quae sequuntur, ut quae iucundiora sunt pluribus, quae clariora inter multos, quae pluribus comprobata sunt, meliora ducantur. Nam etiamsi minus ipsa huius naturae sint, affectione tamen, ut dictum est, eorum quibus uel iucundiora, uel inter quos clariora sunt, aut a quibus probantur, meliora existimanda sunt. Sed quanquam id quod a pluribus bonum ducitur, superius in ea comparationis parte posuerit in qua fiebat secundum numerum comparatio, nihil tamen impedit eumdem locum secundum aliam atque aliam considerationem diuersis generibus subdi: uelut ala auis cum substantia sit, eadem tamen ad aliquid esse intelligitur, si ad alatum consideretur. Illa quoque ex affectione uidentur esse meliora quae ab eo laudata sunt, contra quem dialectica oratione uel rhetorica facultate disseritur. Nam ut reuincere ad uersarium possis, sat est si eum tibi consensisse monstraueris, atque id aliquando uelut optimum praedicasse, quod tu melius re proposita monstrare contendas.  Dictis igitur omnibus meliorum locis, his oppositi quae deteriora sunt continebunt.  Parium uero nulla discretio est. Neque enim quod par est, aut intentionem sumere, aut remissionem potest. Quibus autem modis inter se maiora minoraque penduntur, iisdem inter se paria conferuntur. Nam quae uel numero, uel specie, uel ui, uel affectione fuerint, aeque paria esse dicuntur. Commune autem cunctorum exemplum est, quod Cicero in qualitate constituit, quae qualitas in cunctis paribus aequa est sed uel numero, uel specie, uel ui, uel affectione paria sunt. Nam in eorum comparatione quae maiora uel minora sunt, una quaedam qualitas est sed horum accessione uariantur. Nam quibus in eadem qualitate maior numerus, pulchrior species, efficacior uis, ad pretiosiora coniunctior affectio, ea meliora esse existimabuntur. Quae si aequa fuerint, in eadem qualitate paria sunt.  Exemplum uero quod proposuit, ad blandiendum Trebatii animum ualet, cum propriam, id est oratoriam, facultatem cum iurisperitorum laude coniungit hoc modo: Si consilio iuuare ciues, quod iurisperitorum, est, et auxilio, quod oratorum est, aequa in laude ponendum est, pari gloria debent esse que consulunt, id est periti iuris, et hi qui defendunt, id est oratores. Atqui primum est, id est consilio iuuare ciues, et auxilio, aequa in laude ponendum est. Quod sequitur igitur, id est -- supple: pari gloria debent, esse qui consulunt, id est periti iuris, et hi qui defendunt, id est oratores -- infertur. Ea uero conclusio est per quam dicimus: hi igitur qui consulunt, et hi qui defendunt, pari gloria esse debent. Hoc autem breuiter dialecticorum more protulit, qui sit enuntiaut: si dies est, lucet. At quod primum est, id autem tantumdem est ac si dicatur, atqui dies est. In propositione enim quae est, si dies est, lux est, prior est propositio, dies est. Concludunt quod sequitur, igitur, id est, esse lucem. Id enim in prima parte propositionis, quae erat, si dies est, sequebatur. Igitur hic quoque Cicero sic protulit: Atqui primum est, id est, consilio et auxilio iuuare ciues aequa in laude esse ponendum, id enim erat primum in ea propositione quae dicebat si consilio et auxilio ciues iuuare aequa in laude poneretur, pari gloria esse oratores iurisque consultos. Quod sequitur igitur, id est, pari gloria debent esse qui consulunt ac defendunt; id enim erat consequens in ea propositione quae statuebat: Si consilio et auxilio ciues iuuare par esset, pares esse qui consulunt ac deltendunt.  PERFECTA EST OMNIS ARGUMENTORUM INUENIENDORUM PRAECEPTIO, UT, CUM PROFECTUS SIS A DEFINITIONE, A PARTITIONE, A NOTATIONE, A CONIUGATIS, A GENERE, A FORMIS, A SIMILITUDINE, A DIFFERENTIA, A CONTRARIIS, AB ADIUNCTIS, A CONSEQUENTIBUS, AB ANTECEDENTIBUS, A REPUGNANTIBUS, A CAUSIS, AB EFFECTIS, A COMPARATIONE MAIORUM MINORUM PARIUM, NULLA PRAETEREA SEDES ARGUMENTI QUAERENDA SIT. Tametsi ex his quae dicta sunt intelligatur nullum argumenti locum esse praeteritum, breuiter tamen Ciceronis conclusionem, qua se nihil omisisse commemorat, ad ampliorem doctrinae fidem approbandam reor, in his enim nihil omnino praetermittitur quae certa ratione tractantur. Nulla uero certior ratio diuisione; quod enim quisque partitur a communibus in particularia deducens, cum rectum iter insistat, labi atque in errorem duci noo potest. Locorum igitur omnium prima diuisio fuit in ea quae in ipsis haererent, et ea quae assumerentur extrinsecus. Cuius diuisionis nihil medium reperiri potest: aut enim in ipso est aliquid de quo quaeritur, aut extrinsecus nec esse est assumatur. Videamus igitur nunc quemadmodum disputatio per nihil omittentem diuisionem feratur.  Eorum igitur locorum, qui in ipsis sunt de quibus agitur, nunc ex toto, nunc ex partibus, nunc ex uocabulo, nunc ex adectis sumitur argumentum. In his igitur quoniam nihil relictum sit perspicue apparet; in eo enim quod coniunctum est, duplex discretio est: una ex eo ipso quod formatum est atque compositum, quod totum est, in quo etiam definitiones adhibentur: alia in eius partibus inspiciendis, ex quibus compositi forma coniuncta est. Sed quoniam natura hominum id quod intelligit, uoce saepius prodit, nec esse est ut nomen quoque quod ad intellectus declarationem adhibetur, ostendat aliquam rei quam significat proprietatem, intellectus quippe, qualitatem rei quam intelligit, significat. Quocirca nomen quoque intellectus qualitatem designat. Iure igitur dictum est proprietatem quamdam rei uocabulo significari, atque ita ex eo trahi argumentum potest, quod uocatur a nota. (Horum uero locorum alias partitiones dedit, quas paulo post breuius colligemus.)  Affecta uero, quae, ut superius dictum est, in relatione consistunt, ipsa etiam rite diuisa sunt. Nam quae referuntur ad aliquid, aut substantialia sunt, aut accidentia. Substantialia, ut coniugata, nam iusto, in eo quod iustus est, iustitia substantiam facit. Nec id dico, quod homini esse ex iustitia conslituatur sed iusto, qui iustitia discedente corrumpitur. Similis et de eo quod est iuste aduerbio, ratio est. Est etiam substantiale, genus, species, differentia, causa, effectus. Accidentia, ut contrarium, simile, adiunctum, paria, maiora, minora. Consequentia uero atque repugnantia, quoniam, ut superius dictum est, in conditione posita sunt, nunc substantialia reperiuntur, nunc uero in accidentibus considerantur. Substantialia, ut cum genus antecedit speciem; accidentia, ut cum nigredo praecedentem sequitur coruum, quanquam etiam in causis aliquae accidentes esse possint. De quarum omnium proprietatibus Tullius supra disseruit.  Atque ut breuissima descriptione tota locorum diuisio colligatur, erit hoc modo: Omne argumentum aut ex his locis ducitur qui in ipso de quo quaeritur inhaerent, aut ex his quae extrinsecus assumuntur. Is uero locus qui in ipsis de quibus ambigitus positus est, diuiditur in eum locum qui est ex toto, et in eum qui est ex partibus, et in eum qui est ex nota, et in eum qui est ab affectis. Is autem qui a toto est, a definitione locus uocatur. Definitionum uero aliae sunt propriae, aliae non propriae. Non propriarum uero aliae sunt quae singulis nominibus denotantur, aliae quae oratione panduntur. Earum uero quae singulis nominibus fiunt, aliae sunt in quibus pro nomine redditur nomen, quae dicununtur *kat' antilexin*, aliae quae exempli gratia nomen subiiciunt, quae dicuntur *hos typos*. Earum uero quae oratione declarantur, aliae fiunt a partitione, aliae a diuisione, aliae a differentiis praeter genus, quae *ennoematike* dicitur; aliae quae ex pluribus qualitatibus fiunt, etiam singulis totum id significantibus, quod omnis qualitatum collectio declarat, quae uocantur *poiotes*; aliae quae ex accidentibus, non singulis sed cunctis unum aliquid efficientibus constant; aliae quae ad differentiani dantur; aliae per translationem, aliae quae ex priuatione contrarii, aliae quae propriis nominibus aptantur quae etiam *hypotyposeis* dicuntur; aliae per indigentiam pleni, aliae per proportionem, aliae per relationem, aliae per causam. Item alia definitionis diuisio secundum Tullium principalis, quod aliae corporalium rerum sint, aliae incorporalium, et definitionis quidem locus ita diuisus est.  A partibus autem locus diuiditur in partitionem et diuisionem. A nota uero locus simplex est. Ab affectis autem, alii sunt a coniugatis, aliia genere, alii a forma, alii a simili, alii a differentia, alii a contrariis, alii ab adiunctis, alii a consequentibus, antecedentibus et repugnantibus, alii a causa, alii ab effectis, alii a comparatione parium, maiorum uel minorum.  Genus uero diuiditur in suprema genera, et in ea quae etiam species esse possunt. Species quoque diuiditur in ultimas species et in ea quae etiam genera esse possunt. Similium quoque alia in singulis considerantur, et uocantur exempla, alia in pluribus, et appellatur inductio; alia in coniunctis, et uocatur proportio. Item differentiarum aliae sunt substantiales, aliae, etsi non substantiales, inseparabiles tamen, aliae neque substantiales neque inseparabiles. Contrariorum alia dicuntur aduersa, alia priuantia, alia negantia, alia relatiua. Adiunctorum uero alia sunt quae ante rem existunt, alia quae cum re, alia  uero post rem. Locus uero conditionalis diuiditur in antecedens, consequens et repugnans.  Causarum quoque multiplex locus est: aliae namque sunt quae ui sua efficiunt, aliae sine quibus effici non potest. Earum uero quae ui sua efficiunt, aliae sunt necessariae nihilo indigentes ut efficiant, aliae uero indigentes ut efficiant, alis? uero indigentes et non necessariae.  Earum uero sine quibus non efficitur, aliae sunt mobiles, aliae immobiles. Item causarum aliae sunt non spontaneae, aliae ex uoluntate, alia, ex perturbatione, aliae ex habitu, alia ex natura, aliae ex arte, aliae ex casu. Rursus causarum aliae sunt constantes, aliae inconstantes. Amplius, causarum aliae sunt uoluntariae, aliae ignoratae. Ignoratarum pars in casu, pars in necessitate est constituta. Necessariarum pars in ui, pars in scientia posita est.  Effecta uero in tantum diuidi possunt, in quantum ad superius dictas causas referuntur.  Locus uero a comparatione minorum, parium atque maiorum, diuiditur innumerum, speciem, uim, ad res alias affectionem.  Quae cum ita sint, cumque nihil sit in diuisione praetermissum, recte M.  Tullius partitione in conclusit, dicens nullam argumenti sedem esse praeteritam. Restat igitur locus qui extrinsecus sumitur, quem, quoniam nihil iurisconsultis est utilis, non Trebatii causa sed ne quid perfecto operi deesse uideatur, adiungit.  SED QUONIAM ITA A PRINCIPIO DIVISIMUS, UT ALIOS LOCOS DICEREMUS IN EO IPSO DE QUO AMBIGITUR HAERERE, DE QUIBUS SATIS EST DICTUM, ALIOS ASSUMI EXTRINSECUS, DE EIS PAUCA DICAMUS, ETSI EA NIHIL OMNINO AD VESTRAS DISPUTATIONES PERTINENT; SED TAMEN TOTAM REM EFFICIAMUS, QUANDOQUIDEM COEPIMUS. NEQUE ENIM TU IS ES QUEM NIHIL NISI IUS CIVILE DELECTET, ET QUONIAM HAEC ITA AD TE SCRIBUNTUR, UT ETIAM IN ALIORUM MANUS SINT VENTURA, DETUR OPERA, UT QUAM PLURIMUM EIS QUOS RECTA STUDIA DELECTANT PRODESSE POSSIMUS.  Ne locus nihil iuris perito profuturus negligentiam sui faceret, Trebatium ut in prooemio magnus orator reddit attentum; ait enim ita sese diuisisse in principio, ut; alios locos in ipsis haerere diceret, de quibus ageretur, alios extrinsecus assumi, et eum de superioribus locis idonee disputatum sit, intractatam reliquam partem non oportere praeteriri. Neque enim hunc esse Trebatium, qui sua arte contentus, caeterorum studia negligat, uerum diligentia atque ingenio plurimum ualens, cuncta ad se pertinere ducat, quae liberalibus studiis annumerentur: simul dandam esse operam dicit, queniam beneuolo animo Ciceronis opus Trebatius esset editurus, ut cum in multorum manus uenisset, prodesse iis integrum posset, qui rectis studiis tenerentur, hoc quoque Trebatio beneficii nomine concedens, quod ad eum scripta, et per eum edita plurimis profutura conscriberet. HAEC ERGO ARGUMENTATIO, QUAE DICITUR ARTIS EXPERS, IN TESTIMONIO POSITA EST. TESTIMONIUM AUTEM NUNC DICIMUS OMNE QUOD AB ALIQUA RE EXTERNA SUMITUR AD FACIENDAM FIDEM...  Extrinsecus positum argumenti locum, quem M. Tullius uocat artis expertem, in testimonio positum esse pronuntiat.  Dubitari autem potest quid hic locus a superioribus differat, quos in affectis locauit. Nam uti affecta semper in relatione sunt constituta, ita etiam testimonia ad ea quorum sunt testimonia referuntur. Omne enim testimonium testatae rei testimonium est. Quocirca, cur aut ea quae affecta dudum uocata sunt, non extrinsecus collocentur, aut ea quae nunc uocantur extrinsecus non inter affecta ponantur, quaeri potest, cum praesertim ea quae adiuncta esse negotio superius diximus, ueluti quoddam testimonium saepe rebus afferant, cum ex eorum quae praecesserunt, uel consecuta sunt signis, quod gestum si considerari solet.  Quorum omnium communis illa solutio est, quod ex affectis argumenta quae fiunt, ab oratore inueniuntur, eiusque opera atque industria nascuntur. Ea uero quae extrinsecus posita sunt, rei tantum testimonium prrebent, non enim inueniantur ab oratore sed his orator utitur positis atque ante constitutis. Namque a genere, uel a specie, uel a caeteris affectis argumenta sunt, ab ipso quodammodo oratore reperiuntur. Testimonia uero sibi ipse non efficit sed ad causam utitur ante praeparatis. Quo fit ut argumenta ex affectis in eausa statim atque ex tempore nascantur; ea uero quae in testimoniis posita sunt, ante rem praecurrentia confirmando usum negotio posterius praestent, et in adiunctis ab oratore coniectura colligitur, et auditorum mentibus intimatur. Testimonia uero non in coniecturio, aut in suspicionibus sed in rei gestae narratione consistunt.  Ostendit autem uehementius quid esset testimonium, cum dicit, id a se testimonium uocari quod ab aliqua externa re sumitur. Omnia quippe affecta, ab eis ad quae affecta sunt, non uidentur externa. Testis uero cum re testificata nulla cognatione coniungitur, nisi sola notitia, quae nihil ad rem quae gesta est attinet, cum si gestum negotium nullus agnosceret, nihilominus tamen gesta res esset; sed id poterit etiam ad similitudinem duci, quid enim minus esset aliquid, si ei simile nihil reperiretur? Sed quod simile est, ei cui simile est eadem qualitate coniungitur, quae qualitas utrumque conformat. Scientia uero quamuis efficiat testem, nulla tamen qualitate coniungitur cum re cuius illa notitia est. Neque enim scientis notitia, rei gestae qualitas dici potest, cum si notitia, qualitas rei posset intelligi, pereuntibus his qui rem norunt, res uel interiret, uel mutaretur, quod neutrum euenire rec esse est, quandoquidem, absumptis scientibus, res ignorata poterit permanere.  PERSONA AUTEM NON QUALISCUMQUE EST TESTIMONI PONDUS HABET; AD FIDEM ENIM FACIENDAM AUCTORITAS QUAERITUR; SED AUCTORITATEM AUT NATURA AUT TEMPUS AFFERT. NATURAE AUCTORITAS IN VIRTUTE INEST MAXIMA; IN TEMPORE AUTEM MULTA SUNT QUAE AFFERANT AUCTORITATEM: INGENIUM OPES AETAS [FORTUNA] ARS USUS NECESSITAS, CONCURSIO ETIAM NON NUMQUAM RERUM FORTUITARUM. NAM ET INGENIOSOS ET OPULENTOS ET AETATIS SPATIO PROBATOS DIGNOS QUIBUS CREDATUR PUTANT; NON RECTE FORTASSE, SED VULGI [1168A] OPINIO MUTARI VIX POTEST AD EAMQUE OMNIA DIRIGUNT ET QUI IUDICANT ET QUI EXISTIMANT. QUI ENIM REBUS HIS QUAS DIXI EXCELLUNT, IPSA VIRTUTE VIDENTUR EXCELLERE.  SED RELIQUIS QUOQUE REBUS QUAS MODO ENUMERAVI QUAMQUAM IN HIS NULLA SPECIES VIRTUTIS EST, TAMEN INTERDUM CONFIRMATUR FIDES, SI AUT ARS QUAEDAM ADHIBETUR -- MAGNA EST ENIM VIS AD PERSUADENDUM SCIENTIAE -- AUT USUS; PLERUMQUE ENIM CREDITUR EIS QUI EXPERTI SUNT.  FACIT ETIAM NECESSITAS FIDEM, QUAE TUM A CORPORIBUS TUM AB ANIMIS NASCITUR. NAM ET VERBERIBUS TORMENTIS IGNI FATIGATI QUAE DICUNT EA VIDETUR VERITAS IPSA DICERE, ET QUAE PERTURBATIONIBUS ANIMI, DOLORE CUPIDITATE IRACUNDIA METU, QUIA NECESSITATIS VIM HABENT, AFFERUNT AUCTORITATEM ET FIDEM.  CUIUS GENERIS ETIAM ILLA SUNT EX QUIBUS VERUM NON NUMQUAM INVENITUR, PUERITIA SOMNUS IMPRUDENTIA VINOLENTIA INSANIA. NAM ET PARVI SAEPE INDICAVERUNT ALIQUID, QUO ID PERTINERET IGNARI, ET PER SOMNUM VINUM INSANIAM MULTA SAEPE PATEFACTA SUNT. MULTI ETIAM IN RES ODIOSAS IMPRUDENTER INCIDERUNT, UT STAIENO NUPER ACCIDIT, QUI EA LOCUTUS EST BONIS UIRIS SUBAUSCULTANTIBUS PARIETE INTERPOSITO, QUIBUS PATEFACTIS IN IUDICIUMQUE PROLATIS ILLE REI CAPITALIS IURE DAMNATUS EST. [HUIC SIMILE QUIDDAM DE LACEDAEMONIO PAUSANIA ACCEPIMUS.]  [20.76] CONCURSIO AUTEM FORTUITORUM TALIS EST, UT SI INTERVENTUM EST CASU, CUM AUT AGERETUR ALIQUID QUOD PROFERENDUM NON ESSET, AUT DICERETUR. IN HOC GENERE ETIAM ILLA EST IN PALAMEDEM CONIECTA SUSPICIPNUM PRODITIONIS MULTITUDO; QUOD GENUS REFUTARE INTERDUM VERITAS VIX POTEST. Quoniam locum artis expertem in testimonio positum esse dixit, in testimoniis uero personarum fidem suam interponentium auctoritas quaeritur, necessarium fuit, quibus rebus fieri soleat auctoritas, expedire. Ac caetera quidem clarissime atque apertissime dicta sunt. Sed quonium auctoritatem in naturam tempusque diuisit, cumque in tempore, ingenium, opes, aetatem, fortunam, artem, usum, necessitatem, concursionem etiam nonnunquam rerum fortuitarum locauit, quaeri potest: Quid enim attinet ad tempus ingenium? quid ars? quid usus? Nam aetus atque opes, fortuna et fortuitarum rerum concursio subiecta sunt tempori, quoniam unumquodque eorum uariis temporum uicibus permutatur. Ingenium uero naturae potius oportuit attribui artem atque usum tertium quiddam, quoniam neque tempori neque naturae subiiciuntur. Quanquam uirtus quoque ipsa, quam M. Tullius in naturae ratione constituit quibusdam non naturalis sed tum doctrina, tum recta exercitatione uiuendi uideatur ascita.  Sed haec ita intelligenda diuisio est, quod omnis auctoritas aut ex magnis atque excellentibus rebus et per naturam optimis uenit, aut ab his quae inferiore loco sunt constituta, fidem non ex naturae qualitate sed ex uulgo insitis opinionibus capit. Et maximas quidem excellentesque res in natura constituit, quae semper, ut ipse Tullius multis in locis defendit, boni est appetens. At uero quae posteriora sunt, in tempore posuit, idcirco quod omnia tempori subiecta, principalis boni non retinent statim. Virtus quidem in deterius flecti non potest. Ingenium uero atque opes, fortuna et ars atque usus saepe non recta exercitatione deprauantur. Nam quidquid horum fuerit a uirtute seiunctum, dignitatem uerae laudis anmittit.  Et de uirtute quidem distulit dicere. Posteriorem uero partem, id est in tempore positae auctoritatis diuisit et euidentissimis patefecit exemplis. Nam et ingeniis fides adest, atque ex ea praesto est auctoritas plurima. Eos quippe sapientius loqui homines credunt, quorum ingenium ad expedienda quts proposuerint, sufficit. Opibus quoque praepollentes, dignos fide iudicant, fortuna quoque et dignitate praeclaris, maiestatem auctoritatis impertiunt, non recte fortasse; sed et iudicium in negotiis, et existimatio uitae, opinione hominum maxime continetur, quae quia mutari uix potest, ad eam cuncta diriget, eaque sibi tractanda regendaque proponet orator. Ars etiam atque usus plurimum ualent. In utrisque enim fidem notitia facit.  Necessitas quoque, quasi id quod latebat, extorquens, auctoritate subnixa est, quae tum ab animo, tum a corporibus uenit: a corporibus, cum igni, ferro ac uerberibus uerum quod latet aperitur; ab animo, cum mens quadam perturbationis uel ignoranti; e necessitate confunditur. Tunc enim quid dici, quid taceri debeat, minime distinguens, uerum quod occultum erat, prodit atque effundit in lucem. Nam iracundia saepe, et quaelibet animi perturbatio, quod occultandum foret, haud continet, quae idcirco habet auctoritatem ad fidem, quia simpliciter prodita sunt, nec ulla calliditatis arte prolata. Quin etiam ignorantia puerorum, uinolentia, somnus quaedam saepe produxit in medium, in quibus si iudicium fuisset ullum, prolata non essent. Saepe etiam homines praeter ullam animi perturbationem imprudentes propria confessione obligati sunt, dum cuncta simpliciter effundunt, quae sibi nocitura non existimant, ut Staterio euenisse proposuit, qui interposito pariete testibus audientibus ea confessus est, ignorane se ab insidiantibus audiri, quibus uulgatis in iudiciumque prolatis, capitali sententia condemnatus est. Atque haec quidem ignorantia in necessitate constituta est; nam qui nescit id quod ignorat, ne si uelit quidem poterit euitare; quae autem necessitas extorquet, ipso quodammodo uidetur ueritas dicere, atque ideo eis ueluti auctoritate subuixis fides adhibetur.  Concursio etiam rerum fortuitarum facit fidem, quae cum aliquoties falsa designet, tamen ita est uehemens, ut se ab ea ueritas explicare uix possit. Quale est quod de Palamede narratur. Phryx exstinctus, qui quasi a Priamo missus uideretur, repertae Priami litterae Phrygia manus imitata, quae concurrentia fidem lucerent proditionis. Hinc dicit Cicero: TALIS ETIAM FORTUITARUM RERUM CONCURSIO EST. CAETERA DESUNT. Primum dicendum circa quid et de quo est intentio, quoniam circa demonstrationem et de disciplina demonstrativa est. Deinde determinandum quid propositio, et quid terminus, quid syllogismus, quis perfectus, et quis imperfectus. Postea vero quid est in toto esse, vel non esse hoc in illo, et quid dicimus de omni, aut de nullo praedicari. Propositio ergo est oratio affirmativa, vel negativa alicuius de aliquo. Haec autem aut universalis, aut particularis, aut indefinita. Dico autem universalem quidem, cum aliquid omni, aut nulli inesse; particularem vero, cum alicui, aut non alicui, aut non omni inesse. Indefinitam autem, cum quid inesse, vel non inesse significat, sive universali, vel particulari, ut contrariorum eamdem esse disciplinam, aut voluptatem non esse bonum. Differt autem demonstrativa propositio A dialectica, quoniam demonstrativa quidem sumptio alterius partis contradictionis est. Non enim interrogat, sed sumit, qui demonstrat. Dialectica vero interrogatio contradictionis est. Nihil autem refert ut fiat ex utraque syllogismus; nam et qui demonstrat, et qui interrogat, syllogizat, sumens aliquid de aliquo esse, vel non esse. Quare erit syllogistica quidem propositio, simpliciter affirmatio vel negatio alicuius de aliquo secundum dictum modum. Demonstrativa vero si vera sit, et per primas propositiones sumpta. Dialectica autem percontanti quidem interrogatio contradictionis est, syllogizanti vero sumptio apparentis et probabilis, quemadmodum in Topicis dictum est. Quid est ergo propositio, et quid differt syllogistica A demonstrativa et dialectica, diligentius quidem in sequentibus dicetur. Ad praesentem vero utilitatem, sufficienter nobis determinata sint, quae nunc dicta sunt. Terminum autem voco, in quem resolvitur propositio, ut praedicatum, et de quo praedicatur, vel apposito, vel separato esse, vel non esse. Syllogismus est oratio in qua, quibusdam positis, aliud quiddam ab his quae posita sunt ex necessitate accidit, eo quod haec sunt. Dico autem eo quod haec sunt, propter haec accidere. Propter haec vero accidere, est nullius extrinsecus termini indigere, ut fiat necessarium. Perfectum vero voco syllogismum, qui nullius alius indiget, praeter ea quae sumpta sunt, ut appareat necessarium. Imperfectum vero, qui indiget aut unius aut plurium, quae sunt quidem necessaria per subiectos terminos, non autem sumpta sunt per propositiones. In toto autem esse alterum in altero, et de omni praedicari alterum de altero idem est. Dicimus autem de omni praedicari, quando nihil est sumere subiecti, de quo non dicatur alterum, et de nullo similiter. Quoniam autem omnis propositio est, aut de inesse, aut ex necessitate inesse, aut contingere inesse; harum autem, hae quidem affirmativae, illae autem negativae secundum unamquamque appellationem; rursus autem affirmativarum et negativarum, aliae sunt universales, aliae particulares, aliae indefinitae: universalem quidem privativam de eo quod est inesse, necesse est in terminis converti. Ut si nulla voluptas est bonum, neque bonum nullum, erit voluptas. Praedicativam autem converti quidem necessarium est, non tamen universaliter, sed in parte, ut, si omnis voluptas est bonum, et bonum aliquod voluptas. Particularem autem affirmativam quidem converti necesse est particulariter. Nam si voluptas aliqua, bonum, et bonum aliquod erit voluptas. Privativam vero non est necessarium. Non enim si homo non inest alicui animali, et animal non inest alicui homini. Primum ergo sit privativa universalis A B propositio, si ergo nulli B inest A, neque A nulli inerit B. Nam si alicui inest ut C, non verum erit nullum B esse A. Nam C eorum quae sunt B aliquod est. Si vero omni B inest A, et B alicui A inest, nam si nulli, neque A nulli B inerit, sed positum erat omni inesse. Similiter autem et si particularis est propositio, nam si inest A alicui B, et B alicui eorum quae sunt A necesse est inesse; si enim nulli, nec A nulli inerit B. Si autem A alicui eorum quae sunt B non inest, non necesse est et B alicui A non inesse, ut si B quidem sit animal, A vero homo, homo enim non omni animali, animal vero omni homini inest. Eodem autem modo se habebit in necessariis propositionibus, nam universalis quidem privativa universaliter convertitur. Affirmativarum autem utraque particulariter. Nam si necesse est A nulli B inesse, necesse est et B nulli A inesse; si enim alicui contingit, et A alicui B continget. Si autem ex necessitate A omni vel alicui B inest, et B alicui A necesse est inesse, nam si non ex necessitate inest, neque A alicui B ex necessitate inerit. Particularis vero privativa non convertitur, propter eamdem causam, propter quam et supra diximus. In contingentibus vero, quoniam multipliciter dicitur contingere, nam et necessarium, et non necessarium, et possibile contingere dicimus; in affirmativis quidem, similiter se habebit secundum conversionem in omnibus. Nam si A omni aut alicui B contingit, et B alicui A contingit, si enim nulli, nec A nulli B, ostensum est enim hoc prius. In negativis vero non similiter, sed quaecunque quidem contingere dicuntur, ex eo quod ex necessitate non insunt, vel in eo quod non ex necessitate insunt similiter. Ut si quis dicat hominem contingere non esse equum, aut album nulli tunicae inesse. Horum enim hoc quidem ex necessitate inest, illud vero non ex necessitate inest, et similiter convertitur propositio. Nam si contingit nulli homini equum inesse, et hominem contingit nulli equo inesse, et si album contingit nulli tunicae, et tunica contingit nulli albo, si enim alicui necessario, et album tunicae alicui inerit ex necessitate, hoc enim ostensum est prius. Similiter autem et in particulari negativa. Quaecunque vero ut in pluribus, et in eo quod nata sunt dicuntur contingere secundum quem modum determinamus contingens, non similiter se habebit in privativis conversionibus. Sed et universalis quidem privativa propositio non convertitur, particularis vero convertitur. Hoc autem erit manifestum quando de contingenti dicemus. Nunc autem nobis tantum sit cum iis quae dicta sunt, manifestum, quoniam contingere nulli aut alicui non inesse affirmativam habet figuram, nam et contingit ipsi est similiter ordinatur. Est autem, quibuscunque adiacens praedicatur, affirmationem semper facit, et omnino, ut: est non bonum, vel est non album, vel simpliciter, est non hoc. Ostendetur autem et hoc per sequentia, secundum conversiones autem similiter se habebunt in aliis. His vero determinatis dicemus iam per quae et quando et quomodo fit omnis syllogismus, postea vero dicendum de demonstratione. Prius enim de syllogismo dicendum quam de demonstratione, eo quod universalior est syllogismus, nam demonstratio quidem syllogismus quidam est; syllogismus vero non omnis demonstratio. Quando igitur tres termini sic se habent ad invicem, ut et postremus sit in toto medio, et medius in toto primo vel sit, vel non sit, necesse est extremitatum perfectum esse syllogismum. Voco autem medium quod et ipsum in alio, et aliud in ipso est, quod et positione medium est; extrema vero quod et ipsum in alio, et in quo aliud est. Si enim A de omni B, et B de omni C, necesse est A de omni C praedicari. Prius enim dictum est quomodo de omni dicimus. Similiter autem et si A de nullo B, B autem de omni C, quoniam A nulli C inerit. Si autem primum quidem omni medio consequens est, medium vero nulli postremo, non erit syllogismus extremitatum. Nihil enim necessarium accidit, eo quod haec sunt, nam et omni et nulli contingit primum postremo inesse, quare neque particulare, neque universale fit necessarium. Cum autem nihil est necessarium, per haec non erit syllogismus. Termini vero eius quod est omni inesse, animal, homo, equus; eius vero quod est nulli, animal, homo, lapis. Quando vero nec primum medio, nec medium postremo ulli inest, nec sic erit syllogismus. Termini vero ut inesse, scientia, linea, medicina; ut non inesse, scientia, linea, unitas. Universalibus igitur existentibus terminis, manifestum est in hac figura quando erit, et quando non erit syllogismus, et quoniam cum est syllogismus, necessarium est terminos sic se habere, ut diximus, et sic se habens manifestum quoniam erit syllogismus. Si autem hic quidem terminorum universaliter, alius vero particulariter ad alium, quando universale quidem ponitur ad maiorem extremitatem vel praedicativum, vel privativum, particulare vero ad minorem praedicativum, necesse est syllogismum esse perfectum. Quando vero ad minorem vel quolibet modo aliter se habeant termini, impossibile est. Dico autem maiorem extremitatem quidem in qua medium est, minorem vero, quae sub medio est.  Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo si est de omni praedicari, quod in principio dictum est, necesse est A alicui C inesse. Et si A quidem nulli B inest, B vero alicui C, necesse est A alicui C non inesse, determinatum est enim et de nullo, quomodo dicimus, quare erit syllogismus perfectus. Similiter autem et si indefinitum sit B C praedicativum, nam idem erit syllogismus indefinito et particulari sumpto. Si autem ad minorem extremitatem universale ponatur vel praedicativum, vel privativum, non erit syllogismus neque cum affirmativa, neque negativa, neque indefinita, neque particularis sit, ut si A quidem alicui B inest, vel non inest, B autem omni C inest. Termini ut inesse, bonum, habitus, prudentia; ubi non inesse, bonum, habitus, indisciplina. Rursum si B quidem nulli C, A vero alicui B inest, vel non inest, vel non omni inest, nec sic erit syllogismus. Termini omni inesse, album, equus, cygnus; nulli inesse, album, equus, corvus. Idem autem et si A B indefinitum sit. Nec quando ad maiorem extremitatem quidem universale ponatur vel praedicativum, vel privativum, ad minorem vero particulare privativum, non erit syllogismus vel indefinito, vel particulari sumpto. Velut si A quidem omni B inest, B autem alicui C non inest, vel non omni inest. Cui enim alicui non inest medium, hoc omne et nullum sequatur primum.Ponantur enim termini, animal, homo, album, deinde et de quibus albis non praedicatur homo, sumantur cygnus et nix; ergo animal de uno quidem omni praedicatur, de altero vero nullo, quare non erit syllogismus. Rursum A quidem nulli B insit, B autem alicui C non insit, et sint termini, inanimatum, homo, album, deinde sumantur alba, de quibus non praedicatur homo, cygnus et nix; nam inanimatum de hoc quidem omni praedicatur, de illo vero nullo. Amplius: quoniam indefinitum est alicui eorum quae sunt C non inesse B, verum est autem et nulli inest, et si non omni, quoniam alicui non inest, sumptis autem his terminis velut nulli inesse, non fit syllogismus (hoc enim dictum est prius) manifestum; ergo est quoniam in eo quod sic se habent termini non erit syllogismus, esset enim et in his. Similiter autem ostendetur, et si universale ponatur privativum. Neque enim si ambo intervalla particularia praedicative, vel privative dicantur, aut hoc quidem praedicativum, illud vero privativum, vel hoc quidem indefinitum, illud vero definitum, vel ambo indefinita, non erit syllogismus nullo modo. Termini vero communes omnium, animal, album, equus, animal, album, lapis. Manifestum est igitur ex iis quae dicta sunt quoniam si sit syllogismus in hac figura particularis, quoniam necesse est terminos sic se habere, ut diximus. Aliter enim se habentibus, nullo [modo] fit. Palam autem quoniam omnes qui in hac sunt syllogismi perfecti sunt, omnes enim perficiuntur per ea quae ex principio sumuntur, et quoniam omnia problemata ostenduntur per hanc figuram: etenim omni et nulli, alicui et non alicui inesse. Voco autem huiusmodi figuram, primam. Quando vero idem huic omni quidem, illi vero nulli inest, vel utique omni, vel nulli, figuram quidem huiusmodi voco secundam. Medium autem in hac dico quod de utraque praedicatur; extremitates vero de quibus dicitur hoc, maiorem quidem extremitatem, quae iuxta medium posita est, minorem vero, quae longius sita est A medio. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum, primum vero positione. Perfectus igitur non erit syllogismus nullo modo in hac figura, possibile vero erit et universalibus, et non universalibus existentibus terminis. Universalibus igitur terminis erit syllogismus, quando medium huic quidem omni, illi vero nulli inerit, etsi ad utrumvis sit privativum, aliter vero nullo modo. Praedicetur enim M de N quidem nullo, de O vero omni, quoniam igitur convertitur privativa, nulli M inerit N, at M omni O supponebatur, quare N nulli O inerit: hoc enim ostensum est prius. Rursum si M N quidem omni inest, O vero nulli, neque N O nulli inerit. Nam si M nulli O, neque O nulli N inerit, at vero M omni N inerat, quare O nulli inerit. Facta est enim rursum prima figura. Quoniam autem convertitur privativum, neque N nulli O inerit, quare erit idem syllogismus, est autem ostendere haec et ad impossibile ducentes. Quoniam ergo fit syllogismus sic se habentibus terminis manifestum, sed non perfectus, non enim solum ex iis quae ab initio sumpta sunt, sed ex aliis perficitur necessarium. Si autem M de omni N et O praedicetur, non erit syllogismus. Termini inesse, substantia, animal, ratio; non inesse, substantia, animal, lapis, medium, substantia.Nec quando de N nec de O nullo praedicatur M. Termini inesse, linea, animal, homo; non inesse, linea, animal, lapis. Manifestum ergo quoniam si fit syllogismus ex universalibus terminis, necesse est terminos sic se habere, ut in principio diximus. Aliter enim se habentibus terminis non fit conclusio necessaria.Si autem ad alterum sit universaliter medium, quando ad maius quidem fuerit universaliter vel praedicative, vel privative, ad minus autem et particulariter, et oppositae universali (dico autem oppositae, si universale quidem privativum particulare praedicativum, vel si universale praedicativum, particulare privativum), necesse est syllogismum fieri privativum particulariter. Nam si M nulli quidem N, O autem alicui inest, necesse est N alicui O non inesse. Quoniam enim convertitur privativum, nulli M inerit, N M vero supponebatur alicui O inesse, quare N alicui eorum quae sunt O non inerit. Fit enim syllogismus per primam figuram. Rursus si N quidem omni M, O vero alicui non inest, necesse est N alicui O non inesse. Nam si O omni inest N, praedicatur autem et M de omni N, necesse est M omni O inesse, supponebatur autem alicui non inesse. Et si M N omni quidem inest, O autem non omni, erit syllogismus, quoniam non omni O inest N. Demonstratio autem eadem. Si autem de O quidem omni, de N vero non omni praedicatur M, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, substantia, corvus. Non inesse, animal, album, corvus. Nec quando de O quidem nullo, de N vero aliquo. Termini inesse, animal, substantia, lapis. Non inesse, animal, substantia, scientia. Quando igitur oppositum est universale particulari, dictum est quando erit, et quando non erit syllogismus. Quando autem similis figurae fuerint propositiones, ut ambae privativae vel affirmativae, nullo modo erit syllogismus. Sint enim primum privativae, et universale ponatur ad maiorem extremitatem, ut M N quidem nulli, O autem alicui non insit: contingit ergo et omni, et nulli O inesse N. Termini quidem nulli inesse, nigrum, nix, animal. Omni vero inesse, non est sumere, si M alicui quidem O inest, alicui autem non. Nam si omni O inest N, et M nulli, N etiam M nulli O inerit; sed positum erat alicui inesse, non igitur sic sumere contingit terminos. Ex indefinito autem ostendendum est. Quoniam enim verum est M non inesse alicui O, et si nulli inest, nulli vero cum insit non erit syllogismus, manifestum quoniam neque nunc erit. Rursum si praedicativae, et universale ponatur similiter, ut M omni quidem N, O autem alicui insit, contingit ergo et omni, et nulli O inesse. Termini nulli inesse, album, cygnus, lapis. Omni vero non erit sumere terminos, propter eamdem causam quam et prius, sed ex indefinito monstrandum est. Si autem universale ad minorem extremitatem est, et M O quidem nulli, N vero alicui non inest, contingit N, et omni et nulli O inesse. Termini inesse, album, animal, corvus; non inesse, album, lapis, corvus. Similiter autem et si praedicativae fuerint propositiones. Termini non inesse, album, animal, nix; inesse, album, animal, cygnus. Manifestum est igitur quoniam si similis figurae sint propositiones, et haec quidem universalis, illa vero particularis, quoniam nullo modo fit syllogismus. Sed nec si alicui, utrique inest, vel non inest, vel huic quidem inest, illi vero non, vel neutri omni, vel indefinitae. Termini autem communes omnium, album, animal, homo, album, animal, inanimatum. Manifestum est igitur ex praedictis quoniam si sic se habent termini ad invicem, ut dictum est, fit syllogismus ex necessitate, et si fit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Palam autem et quoniam omnes imperfecti sunt, qui in hac figura sunt syllogismi; omnes enim perficiuntur assumptis quibusdam, quae vel insunt terminis ex necessitate, vel ponuntur velut hypotheses, ut quando per impossibile ostendimus. Et quoniam non fit affirmativus syllogismus per hanc figuram, sed omnes privativi, et universales, et particulares. Si autem eidem hoc quidem omni, illud vero nulli inest, vel ambo omni vel nulli, figuram quidem huiusmodi voco tertiam. Medium autem in hac dico, quo ambo praedicamus; extremitates vero, quae praedicantur; maiorem autem extremitatem, quae longius est medio; minorem vero, quae propius. Ponitur autem medium foras quidem extremitatum, ultimum vero positione est. Perfectus igitur non fit syllogismus, nec in hac figura, possibilis vero erit et universaliter, et non universaliter terminis existentibus ad medium. Universaliter quidem quando et p et r inerunt omni s, quoniam alicui r inerit p ex necessitate, nam quoniam convertitur praedicativa, inerit s alicui r. Quare quoniam p inest omni s, et s alicui r, necesse est p alicui r inesse. Fit enim syllogismus per primam figuram. Est autem et per impossibile, et expositione facere demonstrationem: si enim ambo omni s insunt, si sumatur aliquod eorum quae sunt s, ut N huic et p et r inerunt ex necessitate, quare alicui r inerit p. Et si r omni quidem s, p autem nulli s inest, erit syllogismus, quoniam p alicui r non inerit ex necessitate. Nam idem modus erit demonstrationis, conversa r s propositione. Ostendetur autem et per impossibile, quemadmodum in prioribus. Si autem insit r, s quidem nulli, p vero omni s, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, equus, homo; non inesse, animal, inanimatum, homo, neque quando ambo de nullo s dicuntur, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, equus, inanimatum; non inesse, homo, equus inanimatum, medium, inanimatum. Manifestum est igitur et in hac figura et quando erit, et quando non erit syllogismus ex universalibus terminis. Quando enim ambo termini sunt praedicativi, erit syllogismus, quoniam inest alicui extremitas extremitati; quando vero privativi, non erit syllogismus; quando autem hic quidem privativus, ille vero affirmativus; si maior quidem fuerit privativus, alter vero affirmativus, erit syllogismus, quoniam alicui non inest extremitas extremitati. Si autem e converso, non erit. Si autem hic quidem sit universaliter ad medium, alter vero particulariter, si uterque sit praedicativus, necesse est fieri syllogismum, et si alteruter sit universalis terminorum; nam si r omni s insit, p vero alicui s, necesse est et p alicui r inesse, nam quoniam convertitur affirmativa, inerit s alicui p, quare quoniam r omni s inest, s autem alicui p, et r alicui p inerit, quare et p alicui r. Rursum si r alicui s, p vero omni s insit, necesse est et p alicui r inesse, nam idem modus demonstrationis. Est autem demonstrare et per impossibile, et expositione, quemadmodum in prioribus. Si autem unus quidem sit praedicativus, alius vero privativus, universaliter autem praedicativus, quando minor quidem fuerit praedicativus, erit syllogismus; nam si r omni s, p vero alicui s non inest, necesse est p alicui r non inesse, si enim p omni r, et r omni s, et p omni s inerit, sed non inerat. Monstratur autem et sine deductione, si sumatur aliquid eorum quae sunt s, cui p non inest. Quando vero maior fuerit praedicativus, non erit syllogismus, ut si p insit omni s, r autem alicui s non insit. Termini vero omni inesse, animatum, homo, animal. Nulli vero, non est sumere terminos si r inest alicui quidem s, alicui autem non. Si enim omni s inest p, r autem alicui s, et p inerit alicui r, sed positum erat nulli r inesse. Sed quemadmodum in prioribus dicendum est; nam cum indefinitum est alicui non inesse, et quod nulli inest, verum est dicere alicui non inesse, nulli vero cum inesset, non erat syllogismus; manifestum ergo est, quoniam non erit syllogismus. Si autem privativus sit universalis terminus, quando maior quidem privativus fuerit, minor autem praedicativus, erit syllogismus. Si enim p nulli s, r autem alicui inest s, et p alicui r non inerit. Rursum enim prima erit figura, r s propositione conversa. Quando autem minor fuerit privativus, non erit syllogismus. Termini inesse, animal, homo, ferum. Non inesse, animal, scientia, ferum, medium in utrisque ferum. Nec quando ambo privativi ponuntur, est autem unus quidem universalis, alter vero particularis. Termini inesse, quando minor est universalis ad medium, animal, homo, ferum, non inesse, animal, scientia, ferum. Quando autem maior, non inesse quidem, corvus, nix, album; inesse vero non est sumere si r alicui quidem inest s, alicui autem non inest. Si enim p omni r insit, r autem alicui s, et p inerit alicui s. Positum est autem nulli, sed ex indefinito monstrandum est. Neque si uterque alicui medio inest, vel non inest, vel unus quidem inest, alter vero non inest, vel hic quidem alicui, ille vero non omni, vel indefinite, nullo modo erit syllogismus. Termini autem communes omnium, animal, homo, album, animal, inani matum, album. Manifestum est igitur, et in hac figura, quando erit, et quando non erit syllogismus, et quoniam habentibus se terminis, ut dictum est, fit syllogismus ex necessitate, et si sit syllogismus, necesse est terminos sic se habere. Manifestum est etiam, quia omnes imperfecti sunt in hac figura syllogismi, omnes enim perficiuntur quibusdam assumptis. Et quoniam syllogizare universale per hanc figuram non erit, neque privativum, neque affirmativum. Palam autem et quoniam in omnibus figuris, aliquando non fit syllogismus. Cum praedicativi quidem, vel privativi sunt utrique termini, et particulares, nihil omnino fit necessarium. Cum autem praedicativus, et privativus, et universaliter sumptus privativus, semper fit syllogismus minoris extremitatis ad maiorem, ut si A quidem omni B vel alicui, B autem nulli C; conversis enim propositionibus, necesse est C alicui A non inesse. Similiter autem et in aliis figuris, semper enim fit per conversionem syllogismus. Palam etiam quoniam indefinitum pro praedicativo particulari positum, eumdem faciet syllogismum in omnibus figuris. Manifestum autem et quoniam omnes imperfecti syllogismi perficiuntur per primam figuram. Aut enim ostensive, aut per impossibile clauduntur omnes. Utrinque autem fit prima figura. Et ostensive quidem perfectis, quoniam per conversionem claudebantur omnes, conversio autem primam faciebat figuram, per impossibile vero demonstratis, quoniam posito falso syllogismus fit per primam figuram. Ut in postrema figura, si A et B omni C insunt, quoniam A alicui B inest, nam si nulli et B omni C, nulli C inerit A, sed inerat omni. Similiter autem in aliis. Est etiam reducere omnes syllogismos ad universales syllogismos primae figurae. Nam qui sunt in secunda figura, manifestum quoniam per illos perficiuntur, verum non similiter omnes, sed universales quidem privativa conversa; particularium autem utraque per ad impossibile reductionem. Qui vero in prima sunt particulares, perficiuntur quidem per se. Est autem et per secundam figuram ostendere ad impossibile ducentes, ut si A omni B, et B alicui C, quoniam A alicui C inerit. Si enim nulli, B autem omni, nulli C inerit B. Hoc enim scimus per secundam figuram. Similiter autem et in privativo erit demonstratio; si enim A nulli B, et B alicui C inest, A alicui C non erit, nam si A omni C, B autem nulli inest, nulli C inerit B. Haec autem fuit media figura; quare quoniam qui in media sunt syllogismi, omnes reducuntur in primae figurae universales syllogismos, qui vero particulares sunt in prima, ad eos qui sunt in media, manifestum est quoniam et particulares reducentur ad eos qui in prima figura sunt universales syllogismos; qui vero sunt in tertia, cum universales sint quidem termini, statim perficiuntur per illos syllogismos. Si autem particulares, sumuntur per particulares syllogismos primae figurae, sed hi reducti sunt ad illos, quare et tertiae figurae particulares. Manifestum ergo quoniam omnes reducentur in primae figurae universales syllogismos. Igitur syllogismi inesse vel non inesse ostendentes, dictum est quomodo se habent, et ad eos qui ex eadem sunt figura, et ad invicem, et ad eos qui ex aliis sunt figuris. Quoniam autem diversum est inesse, et ex necessitate inesse, et contingere inesse (nam multa insunt quidem, non tamen ex necessitate, alia vero neque ex necessitate, neque insunt omnino, contingit autem inesse), manifestum quoniam et syllogismus in unoquoque horum diversus est, et non similiter habentibus se terminis, sed hic quidem ex necessariis, ille vero ex iis quae simpliciter insunt, ille autem ex contingentibus. Ergo in necessariis quidem fere similiter se habet, et in iis qui insunt. Similiter enim positis terminis, et in iis quae insunt, et in iis quae ex necessitate insunt vel non insunt, et erit, et non erit syllogismus. Verum distabit in eo quod adiacet terminis ex necessitate inesse, vel non inesse, nam et privativum similiter convertitur, et in toto esse, et de omni similiter assignabimus. Ergo in aliis quidem eodem modo ostendetur per conversionem, quoniam conclusio necessaria, quomodo in eo quod est inesse. In media autem figura quando fuerit universalis affirmativa, particularis vero privativa, et rursum in tertia quando universalis quidem praedicativa, particularis vero privativa, non similiter erit demonstratio, sed necesse est exponentes, cui alicui utrumque non inest, de hoc facere syllogismum. Erit enim necessarius in hoc. Si autem de exposito est necessarius, erit et de illo aliquo. (0648C) Nam hoc quod est expositum, ipsum quidem illud aliquid est. Fit autem uterque syllogismus in propria figura. Accidit autem quandoque et altera propositione necessaria, necessarium fieri syllogismum, verum non utralibet, sed quae ad maiorem extremitatem est, ut si A quidem, B ex necessitate sumptum est inesse, vel non inesse, B autem C inesse tantum; sic enim sumptis propositionibus ex necessitate A inerit C, vel non erit. Nam quoniam omni B ex necessitate inest, vel non inest A, C autem aliquid eorum quae sunt B, est manifestum quoniam et C ex necessitate erit alterum horum. Si autem A B quidem non necessaria, B C autem necessaria, non erit conclusio necessaria. Nam si est, accidit A alicui B inesse ex necessitate, per primam et tertiam figuram, hoc autem falsum, contingit enim tale esse B cui possibile est A nulli inesse. Amplius autem et ex terminis manifestum quoniam non erit conclusio necessaria; ut si A quidem sit motus, B autem sit animal, in que autem C homo, namque homo animal est ex necessitate, movetur autem animal non ex necessitate, quare nec homo. Similiter autem et si privativa sit A B; nam eadem demonstratio. In particularibus autem syllogismis, si universalis quidem est necessaria, et conclusio erit necessaria; si autem particularis, non necessaria, sive privativa, sive praedicativa fuerit universalis propositio. Sit autem primo universalis necessaria, et A quidem omni B insit ex necessitate, B autem alicui C insit solum, necesse est ergo A alicui C inesse ex necessitate, nam C sub B est, B autem omni A inerat ex necessitate. Similiter autem et si privativus syllogismus sit, nam eadem erit demonstratio. Si autem particularis est necessaria, non erit conclusio necessaria, nihil enim impossibile evenit, quemadmodum nec in universalibus syllogismis, similiter autem et in privativis. Termini, motus, animal, album. In secunda autem figura si privativa quidem propositio universalis sit et necessaria, conclusio erit necessaria. Si autem praedicativa, non necessaria. Sit enim primum privativa necessaria, et A B quidem nulli contingat, C autem insit tantum; quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A contingit, A autem omni C inest, quare nulli C contingit B, nam C sub A est. Similiter autem et si ad C ponatur privativum, nam si A C nulli contingit, et C nulli A poterit inesse, A autem omni B inest. Quare nulli eorum quae sunt B contingit C, fit enim prima figura. Rursum non ergo neque B ipsi C, convertitur enim similiter. Si autem praedicativa propositio est necessaria, non erit conclusio necessaria, insit enim A omni B ex necessitate, C autem nulli insit tantum, conversa ergo privativa, fit prima figura. Ostensum est autem in prima quoniam cum non est necessaria quae ad maiorem est privativa, nec conclusio erit necessaria, quare nec in his erit ex necessitate. Amplius autem si conclusio est necessaria, accidit C alicui A non inesse ex necessitate, si enim B nulli C inest ex necessitate, neque C nulli B inerit ex necessitate, B autem alicui A necesse est inesse, siquidem et A omni B ex necessitate inerat, quare C necesse est alicui A non inesse, sed nihil prohibet A huiusmodi accipere, cui omni C contingat inesse. Amplius et si terminos ponentes sit ostendere, quoniam conclusio non est necessaria simpliciter. Et his existentibus, necessarium ut sit A animal, B vero homo, C autem album, et similiter propositiones sumptae sint, contingit enim animal nulli albo inesse, non inerit ergo nec homo nulli albo, sed non ex necessitate. Contingit enim hominem fieri album, non tamen donec animal nulli albo insit, quare cum haec sint, necessaria erit conclusio, simpliciter autem non necessaria. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis, quando privativa quidem propositio, et universalis fuerit, et necessaria, et conclusio erit necessaria. Quando autem praedicativa universalis fuerit necessaria, privativa vero particularis non necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim primum privativa, et universalis necessaria, et A B quidem nulli contingat inesse, C autem alicui insit, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A continget inesse, A autem alicui C inest, quare ex necessitate alicui eorum quae sunt, C non inerit B. Rursum sit praedicativa, et universalis, et necessaria, et ponatur ad B quidem praedicativum, si ergo A omni B ex necessitate inest, C autem alicui non inest, quoniam non inerit B alicui C manifestum, sed non ex necessitate. Nam iidem termini erunt ad demonstrationem, qui in universalibus syllogismis: sed nec si privativa necessaria est particulariter sumpta, erit conclusio necessaria. Nam per eosdem terminos demonstratio. In postrema autem figura terminis quidem universalibus ad medium, et praedicativis utrisque propositionibus, si utralibet sit necessaria, et conclusio erit necessaria. Si autem haec quidem sit privativa, illa vero praedicativa, quando privativa quidem fuerit necessaria, et conclusio erit necessaria, quando autem praedicativa, non erit necessaria. Sint enim primum utraeque praedicativae propositiones, et A et B omni C insint, necessaria autem sit A C, quoniam ergo B omni C inest, et C alicui B inerit, eo quod convertitur universalis particulariter. Quare si A inest omni C ex necessitate, et C alicui B, et A alicui B necessarium inesse, nam B sub C est. Fit igitur prima figura. Similiter autem ostendetur, et si B C est necessaria, convertitur enim C alicui A, quare si omni C inest B ex necessitate, et A alicui B inerit ex necessitate. Rursum sit A C quidem privativa, B C vero affirmativa, necessaria autem privativa, quoniam ergo convertitur affirmativa, erit C alicui B, A autem nulli C ex necessitate, neque A alicui B inerit ex necessitate, nam B sub C est. Si autem praedicativa sit necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C praedicativa et necessaria, A C autem privativa et non necessaria, quoniam ergo convertitur affirmativa, inerit et C alicui B ex necessitate. Quare si A quidem nulli eorum quae sunt C inest, C autem alicui eorum quae sunt B et A alicui eorum quae sunt B non inerit, sed non ex necessitate. Ostensum est enim in prima figura quoniam privativa propositione necessaria, nec conclusio erit necessaria. Amplius autem et per terminos sit manifestum, sit enim A quidem bonum in quo B animal, C autem equus, ergo bonum quidem contingit nulli equo inesse, animal vero necesse est omni equo inesse, sed non necesse est aliquod animal non esse bonum, siquidem contingit omne esse bonum. Aut si non hoc possibile, sed vigilare, vel dormire terminum ponendum. Omne enim animal susceptibile est horum. Si igitur termini universaliter ad medium sint, dictum est quando erit conclusio necessaria. Si autem hic quidem universalis, ille vero particularis, praedicativus uterque, quando universalis fuerit necessarius, et conclusio erit necessaria. Demonstratio autem eadem quae prius, convertitur enim et particularis affirmativa. Si ergo necesse est B omni C inesse, A autem sub C est, necesse est B alicui A inesse. Si autem B alicui A, et A alicui B inesse necessarium, convertitur enim. Similiter autem et si A C sit necessaria universalis, nam B sub C est. Si autem particularis est necessaria, non erit conclusio necessaria. Sit enim B C particularis et necessaria, A autem insit omni C, non tamen ex necessitate, conversa ergo B C prima fit figura, et universalis quidem propositio non necessaria, particularis autem necessaria, quando autem sic se habebant propositiones, non erat conclusio necessaria, quare nec in his. Amplius autem et ex terminis manifestum. Sit enim A quidem vigilatio, B autem bipes, in quo autem C animal, ergo B alicui C necesse est inesse, A autem omni C contingit, et A non necessario B, non enim necesse est aliquem bipedem dormire vel vigilare. Similiter autem per eosdem terminos ostendetur etiam si A C sit particularis et necessaria. Si autem hic quidem terminorum sit praedicativus, ille privativus et necessarius, quando universalis fuerit privativus et necessarius, et conclusio erit necessaria. Si enim A nulli C ex necessitate contingit, B autem alicui C inest, necesse est A alicui B non inesse, quando autem affirmativa necessaria ponetur vel universalis, vel particularis, vel privativa particularis, non erit conclusio necessaria. Nam alia quidem eadem quae et in prioribus dicemus. Termini autem cum universalis quidem affirmativa est necessaria, vigilatio, animal, homo, medium homo: cum autem particularis praedicativa necessaria, vigilatio, animal, album. Animal enim necesse est alicui albo inesse, vigilatio autem contingit nulli, et non necesse est alicui animali non inesse vigilationem. Quando autem privativa particularis est necessaria, bipes, motus, animal, medium animal. Manifestum igitur quoniam inesse quidem non est syllogismus, si utraeque propositiones non sunt in eo quod est inesse, necessaria vero est, et altera solum existente necessaria. In utrisque autem affirmativis et privativis existentibus syllogismis necesse est alteram propositionem similem esse conclusioni. Dico autem similem, si inesse quidem, inexistentem, si autem necessaria, necessariam. Quare et hoc palam, quoniam non erit conclusio neque necessaria, neque inesse, non sumpta vel necessaria, vel quae inesse significet propositione. Igitur de necessario quomodo fit, et quam differentiam habeat ad inesse, sufficienter pene dictum est. De contingente autem post haec dicemus, quando, et quomodo, et per quae erit syllogismus. Dico autem contingere, et contingens, quo non existente necessario, posito autem inesse, nihil erit propter hoc impossibile. Nam necessarium aequivoce contingere dicitur. Quoniam autem hoc est contingens, manifestum ex affirmationibus et negationibus oppositis. Nam non contingit esse, non possibile esse, et impossibile esse, et necesse est non esse, vel eadem sunt, vel sequuntur se invicem, quare et opposito his contingit esse, et non impossibile esse, et non necesse non esse, eadem erunt, vel sequentia se invicem. De omni enim affirmatio, vel negatio vera. Erit ergo contingens necessarium, et non necessarium contingens. Accidit autem omnes quae secundum contingere sunt propositiones converti sibi invicem, dico autem non affirmativas negativis sed quaecunque affirmativam habent figuram secundum oppositionem, ut ea quae est contingit esse ei quae est contingit non esse, et ea quae est contingit omni ei quae est contingit nulli, vel non omni, et quae alicui, et quae non alicui, eodem autem modo et in aliis. Quoniam enim quod est contingens non est necessarium, et quod non est necessarium possibile est non esse, manifestum quoniam si contingit A inesse B, contingit et non inesse, et si omni contingit inesse, et omni contingit non inesse. Similiter autem et in particularibus affirmationibus, nam eadem demonstratio. Sunt autem huiusmodi propositiones praedicativae, nam contingere ei quod est esse similiter ponitur, quemadmodum dictum est prius. Determinatis autem his, rursum dicimus quoniam contingere duobus modis dicitur: uno quidem, quod plerumque fit et deficit, necessarium, ut canescere hominem, vel augeri, vel minui, vel omnino quod natum est esse. Hoc enim non continuum habet necessarium, eo quod non semper est homo, cum tamen homo est, aut ex necessitate, aut ut in pluribus est. Alio autem modo infinitum, quod et sic, et non sic possibile, ut animal ambulare, vel ambulante fieri motum terrae, vel omnino quod casu fit, nihil enim magis sic natum est, vel econtrario. Convertitur ergo et secundum oppositas propositiones utrumque contingens, non tamen eodem modo, sed quod natum quidem est esse ei quod non ex necessitate esse. Sic enim contingit non canescere hominem. Infinitum autem ei quod nihil magis sic, vel illo modo. Disciplina autem, et syllogismus demonstrativus, ex infinitis quidem non est, eo quod inordinatum est medium, ex iis vero quae nata sunt esse, pene orationes et considerationes fiunt de sic contingentibus, ex illis autem possibile quidem est fieri syllogismum, non tamen solet quaeri. Haec ergo definientur magis in sequentibus, nunc autem dicemus quando et quomodo, et quis erit syllogismus ex contingentibus propositionibus. Quoniam autem contingere hoc huic inesse dupliciter est accipere, aut enim cui inest hoc, aut cui contingit ipsum inesse, nam de quo B, A contingere, horum alterum significat, aut de quo dicitur B, aut de quo contingit dici, de quo autem B, A contingere, aut omni B possibile inesse A, nihil differt. Manifestum igitur quoniam dupliciter dicetur A omni B inesse contingere. Primum ergo dicemus si de quo C contingit B, et de quo B contingit A, quis erit, et qualis syllogismus, sic enim utraeque propositiones sumuntur secundum contingere, quando autem de quo B est contingit A, haec quidem inesse, illa vero contingens, quare A similibus figuris incipiendum, quemadmodum et in aliis.Quando ergo A contingit omni B, et B omni C, syllogismus erit perfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Hoc autem manifestum est ex definitione, nam contingere omni inesse sic dicebamus. Similiter autem et si A quidem contingit nulli B, B autem omni C, quoniam A contingit nulli C. Nam de quo B contingit, A non contingere, hoc erat nullum dimittere sub B contingentium. Quando autem A contingit omni B, B autem nulli C, per sumptas quidem propositiones nullus fit syllogismus, conversa autem B C secundum contingere, fit idem quemadmodum et prius, quoniam enim contingit B nulli C inesse, contingit et omni inesse. Hoc autem dictum prius. Quare si B quidem omni C, A autem omni B, rursum idem fit syllogismus. Similiter autem etsi ad utrasque propositiones negatio ponatur cum contingere (dico autem ut si A contingit nulli B, et B nulli C ), igitur per sumptas quidem propositiones nullus fit syllogismus, conversis autem rursus idem erit qui et prius. Manifestum est igitur quoniam negatione posita ad minorem extremitatem, vel ad utrasque propositiones, aut non fit syllogismus, aut fit quidem, sed non perfectus, ex conversione enim fit necessarium. Si autem haec quidem propositionum universalis, illa vero particularis sumatur, ad maiorem quidem extremitatem posita universali, syllogismus erit perfectus. Nam si A omni B contingit, B autem alicui C, A alicui C contingit, hoc autem manifestum ex definitione contingentis. Rursum si A contingit nulli B, B autem contingit alicui C inesse, necesse est A contingere alicui C non inesse. Demonstratio autem eadem quae in his. Si autem privativa sumatur particularis propositio, universalis autem affirmativa, positione autem similiter se habeant (ut A quidem omni B contingat, B autem alicui C contingat non inesse), per sumptas quidem propositiones non fit manifestus syllogismus, conversa autem particulari, et posito B alicui C contingere inesse, eadem erit conclusio quae et prius, quemadmodum in iis quae ex principio. Si autem quae ad maiorem extremitatem particularis sumatur, quae ad minorem universalis, sive utraeque sumantur affirmativae, sive privativae, sive non similis figurae, sive utraeque indefinitae, vel particulares, nullo modo erit syllogismus. Nihil enim prohibet B transcendere A, et non praedicari de aequis, in quo enim B transcendit A sumat C, huic neque omni, neque nulli, neque alicui, neque non alicui contingit A inesse, siquidem convertuntur secundum contingere propositiones, et B pluribus contingit quam A inesse. Amplius autem ex terminis manifestum est, nam sic se habentibus propositionibus primum postremo et nulli contingit, et omni ex necessitate inesse. Termini autem communes omnium, inesse quidem ex necessitate, animal, album, homo, non contingere vero, animal, album, vestis. Manifestum igitur quoniam hoc modo habentibus se terminis, nullus fit syllogismus, nam omnis syllogismus vel eius quod est inesse est, vel ex necessitate vel contingere, non est autem eius quod est inesse, neque necessarii, manifestum quoniam non est, nam affirmativus interimitur privativo, et privativus affirmativo, relinquitur ergo eius quod contingere esse, hoc autem impossibile. Ostensum est enim quoniam sic se habentibus terminis, et omni postremo primum necesse inesse, et nulli contingere inesse, quare non erit eius quod est contingere syllogismus, nam necessarium uno [sic] erat contingens. Manifestum autem et quoniam cum universales sunt termini in contingentibus propositionibus, semper fit syllogismus in prima figura, sive sunt praedicativi, sive privativi. Verum ex praedicativis quidem perfectus, ex privativis autem imperfectus. Oportet autem contingere sumere non in necessariis, sed secundum dictam definitionem, aliquoties autem latet huiusmodi. Si autem haec quidem inesse, illa vero contingere sumatur propositionum, quando quae ad maiorem quidem extremitatem contingere significaverit perfecti erunt omnes syllogismi, et contingentis secundum dictam determinationem, quando autem quae ad minorem, et imperfecti omnes, et privativi syllogismi, non contingentis secundum dictam determinationem, sed eius quod est nulli, aut non omni ex necessitate inesse. Si enim nulli, aut non omni ex necessitate contingere dicimus, et nulli, et non omni inesse. Contingat enim A omni B, B autem omni C ponatur inesse, quoniam igitur sub B est C, A autem contingit omni B, manifestum quoniam et C omni contingit A, fit ergo perfectus syllogismus. Similiter autem et cum privativa est A B propositio, B C autem affirmativa, et haec quidem contingere, illa vero inesse sumetur, perfectus erit syllogismus, quoniam A contingit nulli C inesse. Quoniam ergo inesse posito ad minorem extremitatem, perfecti syllogismi fiunt, manifestum. Quod autem contrariae se habentes erunt syllogismi, per impossibile monstrandum est, simul autem erit manifestum et quoniam imperfecti, nam ostensio non ex sumptis propositionibus.Primum autem dicendum quoniam si cum est A, necesse est esse B, et cum possibile est esse A, possibile erit B ex necessitate. Sit enim sic se habentibus rebus ut in quo quidem A possibile, in quo autem B impossibile, si ergo aliud possibile quidem est, cum possibile esse, ipsum fiet, hoc vero impossibile, quoniam impossibile, non utique fiet, simul autem si A possibile, et B impossibile, continget fieri praeter B, si autem fieri et esse. Nam quod fit, quando factum est, est. Oportet autem accipere non solum in generatione possibile et impossibile, sed et in verum esse, et in quod actu est, et quocunque modo simpliciter aliter dicitur possibile, in omnibus enim similiter se habebit. Amplius cum est A, B esse, non tanquam uno aliquo existente A, erit B, oportet opinari, nihil enim est ex necessitate uno aliquo existente, sed duobus ad minus, ut quando propositiones sic se habent (ut dictum est) secundum syllogismum, nam sic dicitur de D, D autem de E, et C de E ex necessitate, et si utrumque possibile, et conclusio erit possibilis. Quemadmodum ergo si quis ponat A quidem propositiones, B autem conclusionem, accidet non solum A existente necessario, et B simul esse necessarium, sed etiam possibili possibile. Hoc autem ostenso manifestum est quoniam falso posito, et non impossibili, et quod accidit propter positionem falsum erit, et non impossibile, ut si A falsum quidem est, non tamen impossibile, cum autem sit A et B, et B erit falsum quidem, non tamen impossibile. Nam ostensum est quoniam cum est A, est B, et cum possibile est A, possibile est B. Positum autem est A possibile esse, et B erit possibile, si enim impossibile est B, simul idem erit possibile et impossibile. Determinatis autem iis, insit A omni B, B autem contingit omni C, necesse est A igitur contingere omni C inesse. Non enim contingat, B autem omni C ponatur inesse, hoc autem falsum quidem, non tamen impossibile, si ergo A quidem non contingit omni C, B autem omni C insit, A non omni B contingit. Fit enim syllogismus per tertiam figuram. Sed positum erat omni C contingere inesse, necesse est ergo A omni C contingere. Falso enim posito, et non impossibili, quod accidit est impossibile. Possibile est autem et primam figuram facere impossibile ponentes B inesse C, nam si B omni C inest, A autem omni B contingit, et omni C continget A, sed positum erat non omni possibile inesse.Oportet autem accipere omni inesse non secundum tempus determinantes, ut nunc, aut in hoc tempore, sed simpliciter (per huiusmodi enim propositiones et syllogismos facimus), quoniam secundum nunc sumpta propositione, non erit syllogismus. Nihil enim fortasse prohibet quandoque et omni moventi hominem inesse, ut si nihil aliud moveatur, movens autem contingit omni equo, sed homo nulli equo contingit. Amplius: sit primum quidem animal, medium vero movens, postremum vero homo, ergo propositiones quidem similiter se habebunt, conclusio vero erit necessaria, non contingens. Ex necessitate enim homo est animal, manifestum igitur quoniam universale sumendum simpliciter, et non tempore determinantes. Rursum: sit privativa propositio universalis A B, et sumatur A quidem nulli B inesse, B autem contingat omni C inesse. His igitur positis necesse est A contingere nulli C inesse, non enim contingat, B autem ponatur inesse C sicut prius, necesse est igitur A alicui B inesse, fit enim syllogismus per tertiam figuram. Hoc autem impossibile, quare contingit A, nulli C. Posito enim falso, et non impossibili, impossibile est quod accidit. Hic ergo syllogismus non est contingentis secundum definitionem, sed nulli inesse ex necessitate. Haec est contradictio factae hypothesis. Positum est enim ex necessitate A alicui C inesse, syllogismus autem per impossibile, oppositae est contradictionis. Amplius autem et ex terminis manifestum quoniam non erit conclusio contingens, sit enim A quidem corvus, in quo autem B intelligens, in quo autem C homo, nulli ergo B inest A, nam nullum intelligens, corvus, B autem contingit omni C, omni enim homini inest intelligere, sed A ex necessitate nulli C, non igitur conclusio contingens. Sed nec necessaria semper: sit enim A quidem movens, B autem scientia, in quo autem C homo, ergo A quidem nulli B inerit, B autem omni C contingit, et non erit conclusio necessaria, non enim necesse est nullum hominem moveri, sed necesse est aliquem. Manifestum igitur quoniam est conclusio eius quod est nulli ex necessitate inesse. Sumendum autem melius terminos. Si autem privativum ponatur ad maiorem extremitatem contingere significans, ex ipsis quidem sumptis propositionibus, nullus erit syllogismus, conversa autem secundum contingens propositione, erit quemadmodum in prioribus. Insit enim A omni B, B autem contingat nulli C, sic ergo habentibus se terminis, nihil erit necessarium. Si autem convertatur B C, et sumatur B contingere omni C, fiet syllogismus quemadmodum prius, similiter enim habent se termini positione. Eodem autem modo et cum privativa sunt utraque intervalla, si A B quidem non inesse, B C autem nulli, contingere significat, nam per ea quidem quae sumpta sunt nullo modo fit necessarium, conversa autem secundum contingens propositione erit syllogismus, sumatur enim A quidem, nulli B inesse, B autem contingere nulli C, per haec quidem nihil necessarium. Si autem sumatur B omni C contingere, quod verum est, A B autem propositio similiter se habeat, rursus erit idem syllogismus. Si autem non inesse ponatur B omni C, et non contingere non inesse, non erit syllogismus nullo modo, sive privativa sit, sive affirmativa A B propositio. Termini autem communes ex necessitate quidem inesse, album, animal, nix. Non contingere autem, album, animal, pix. Manifestum est igitur quoniam cum universales sunt termini, et haec quidem propositionum inesse, illa vero sumitur contingens, quando quae ad minorem est extremitatem contingere sumitur propositio, semper fit syllogismus, verumtamen quandoquidem ex ipsis, quando autem propositione conversa, quando vero utrumque horum, et ob quam causam, diximus. Si autem hoc quidem universale, illud vero particulare sumitur intervallorum, quando ad maiorem quidem extremitatem universale ponitur, et contingens sive negativum, sive affirmativum, particulare autem affirmativum et inesse, erit syllogismus perfectus, quemadmodum et cum universales sunt termini, demonstratio autem eadem quae et prius. Quando autem universale quidem fuerit, ad maiorem extremitatem inesse, et non contingens, alterum vero particulare, et contingens, sive affirmative, sive negative ponantur utraeque, sive haec quidem negativa, illa vero affirmativa, omnino erit syllogismus imperfectus. Verum hi quidem per impossibile ostenduntur, illi vero per conversionem contingentis, quemadmodum in prioribus. Erit autem syllogismus per conversionem, et quando universalis quidem ad maiorem extremitatem posita significaverit inesse, vel non inesse, particularis vero cum sit privativa, sumatur contingens, ut si A quidem omni B inest, vel non inest, B autem alicui contingit non inesse, conversa enim B C, secundum contingere fit syllogismus. Quando autem non inesse sumetur particulariter posita propositio, non erit syllogismus Termini inesse, album, animal, nix; non inesse autem, album, animal, pix, per indefinitum enim est sumenda demonstratio. Si autem universale quidem ponatur ad minorem extremitatem, particulare autem ad maiorem sive privativum, sive affirmativum, sive contingens, sive inesse utrumvis, nullo modo erit syllogismus. Nec cum particulares, vel indefinitae ponentur propositiones, sive contingere sumptae, sive inesse, seu permutatim, nec sic erit syllogismus, demonstratio autem eadem quae in prioribus. Termini autem communes inesse quidem, ex necessitate, animal, album, homo; non contingere vero, animal, album, tunica. Manifestum est igitur quoniam universali posito ad maiorem extremitatem semper erit syllogismus, ad minorem autem nunquam. Quando autem haec quidem propositionum ex necessitate inesse, vel non inesse, illa vero contingere significat, syllogismus quidem erit hoc modo habentibus se terminis. Et perfectus, quando ad minorem extremitatem ponetur necessaria. Conclusio autem, si praedicativi sunt quidem termini, contingentis, et non inesse erit, sive universaliter, sive non universaliter ponantur, si autem sint hoc quidem affirmativum, illud vero privativum, quando affirmativum quidem fuerit necessarium, et contingentis erit conclusio, et non eius quod est non inesse. Quando autem privativum necessarium, et contingentis non esse, et non inesse, sive universales, sive non universales sint termini. Contingere autem in conclusione eodem modo accipiendum est quo in prioribus. Eius autem quod est ex necessitate non inesse, non erit syllogismus, aliud enim est non ex necessitate inesse, et ex necessitate non inesse. Quoniam igitur universalibus affirmativis existentibus terminis non fit conclusio necessaria, manifestum: insit enim A omni B ex necessitate, B autem contingat omni C, erit igitur syllogismus imperfectus, quoniam A contingit omni C inesse. Quoniam autem imperfectus, ex demonstratione palam, eodem enim modo ostendetur quo et in prioribus. Rursum A quidem contingat omni B inesse, B autem omni C insit ex necessitate, erit itaque syllogismus, quoniam A contingat omni C inesse, sed non quoniam inest, et perfectus quidem, sed non imperfectus, statim enim perficitur ex principio propositionis. Si autem non similis figurae sint propositiones, sit primum privativa necessaria, et A quidem nulli contingat B ex necessitate, B autem contingat omni C, necesse est igitur A nulli C inesse. Ponatur enim A inesse aut omni, aut alicui, positum autem est A nulli contingere B, quoniam ergo convertitur privativa, et B nulli A contingit, A autem positum est inesse C aut omni, aut alicui, quare nulli, aut non omni C continget B inesse, sed supponebatur omni ex principio. Manifestum autem quoniam et eius quod est contingere non inesse fit syllogismus, siquidem non inesse. Rursum sit affirmativa quidem propositio necessaria, et A quidem contingat nulli B inesse, B autem insit omni C ex necessitate. Ergo fit syllogismus quidem perfectus, sed non eius quod est non inesse, sed eius quod est contingere non inesse. Nam et propositio sic sumpta est, quae ad maiorem est extremitatem, et ad impossibile non est ducere: nam si ponatur A inesse ulli C, positum est autem et A B contingere nulli inesse, nihil accidit per haec impossibile. Si autem ad minorem extremitatem ponatur privativum quando contingere quidem significaverit, syllogismus erit per conversionem, quemadmodum in prioribus. Quando autem non contingere, non erit ex necessitate, nec quando utraque quidem propositio privativa, non est autem contingens quod ad minorem est. Termini autem inesse quidem, album, animal, nix; non inesse quidem, album, animal, pix. Eodem autem modo se habebit, et in particularibus syllogismis. Quando enim fuerit privativa necessaria, et conclusio erit eius quod est non inesse, ut si A quidem nulli B contingit inesse ex necessitate, B autem alicui C contingat inesse, necesse est A alicui eorum quae sunt C non inesse. Si enim A omni C inest, nulli autem contingit B, et B nulli A contingit inesse: quare si omni C inest A, nulli C contingit B, sed positum erat alicui contingere. Quando autem particularis affirmativa necessaria fuerit, quae in privativo est syllogismo, ut B C, aut universalis in affirmativo, ut A B, non erit inesse syllogismus. Demonstratio autem eadem quae in prioribus. Si autem universale quidem ponatur ad minorem extremitatem vel affirmativum vel privativum contingens, particulare autem necessarium, non erit syllogismus.Termini autem inesse quidem ex necessitate, animal, album, homo; non contingere autem, animal, album, tunica. Quando similiter universale quidem est necessarium, particulare autem contingens, cum privativum quidem est universale, inesse quidem termini, animal, album, corvus; non inesse, animal, album, pix. Cum autem affirmativum, inesse quidem, animal, album, cygnus; non contingere autem, animal, album, nix. Nec quando indefinitae sumuntur propositiones, aut utraeque particulares, non sic erit syllogismus. Termini autem communes, inesse quidem, animal, album, homo; non inesse autem, animal, album, inanimatum. Nam et animal alicui albo, et album inanimato alicui est necessarium inesse, et non contingit inesse, et in contingenti similiter, quare ad omnia utiles sunt termini. Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt, quoniam similiter habentibus se terminis, et in eo quod est inesse, et in necessariis, et fit, et non fit syllogismus, verumtamen secundum inesse quidem posita privativa propositione, eius quod est contingere erat syllogismus, secundum necessarium autem privativa, et contingere, et non inesse. Palam autem et quoniam omnes imperfecti syllogismi, et quomodo perficiuntur per praedictas figuras.In secunda autem figura quando contingentes quidem sumuntur utraeque propositiones, nullus erit syllogismus, sive sint affirmativae, sive privativae, sive universales, sive particulares. Quando autem haec quidem inesse, illa vero contingere significat, affirmativa quidem inesse significante, nunquam erit syllogismus, privativa universali existente, semper. Eodem modo et quando haec quidem ex necessitate, illa vero contingere assumatur, oportet autem et in his accipere quod in conclusionibus est contingens quemadmodum in prioribus. Primum igitur ostendendum quoniam non convertitur in contingenti, privativa, ut si A contingit nulli B, non necesse est et B contingere nulli A. Ponatur enim hoc et contingat B nulli A inesse, ergo quoniam convertuntur quae sunt in eo quod est contingere affirmationes negationibus, et contrariae, et contraiacentes, B autem contingit nulli A inesse, manifestum est quoniam et omni A contingit B inesse. Hoc autem falsum est. Non enim si hoc huic omni contingit, et hoc huic contingat necessarium, quare non convertitur privativa. Amplius autem nihil prohibet A quidem contingere nulli B, B autem alicui A ex necessitate non inesse, ut album quidem contingit omni homini non inesse, nam et inesse hominem autem non verum est dicere, quoniam contingit nulli albo, pluribus enim ex necessitate non inest, necessarium autem non inerat contingens. Sed nec ex impossibili ostendet convertens, ut si quis pPomba quoniam falsum est B contingere nulli A inesse, verum non contingere nulli A, affirmatio enim et negatio, si autem hoc verum, ex necessitate alicui A inesse B, quare et A alicui B inesse, hoc autem impossibile. Non enim si A non contingit nulli B, necesse est A alicui B inesse. Nam non contingere nulli dicitur dupliciter, hoc quidem si ex necessitate alicui inest, illud vero si ex necessitate alicui non inest. Nam quod ex necessitate alicui eorum quae sunt A non inest, non est verum dicere quoniam omni contingit non inesse, quemadmodum nec alicui inest ex necessitate, quoniam omni contingit inesse. Si ergo aliquis pPomba quoniam contingit C omni D inesse, ex necessitate alicui non inesse ipsum, falsum sumet, omni enim inest, si contingat, sed quoniam quibusdam ex necessitate inest, propter hoc dicimus non omni contingere. Quare ei quod est contingere omni inesse, et ea quae est ex necessitate alicui inesse, opponitur, et ea quae est ex necessitate alicui non inesse, similiter autem et ei quae est contingere nulli. Palam ergo quoniam ad sic contingens, et non contingens, ut in principio definivimus, non solum ex necessitate alicui inesse, sed et ex necessitate alicui non inesse sumendum. Hoc autem sumpto, nihil accidit impossibile, quare non fit syllogismus. Manifestum ergo ex iis quae dicta sunt quoniam non convertitur privativa. Hoc autem ostenso ponatur A, B quidem contingere nulli, C vero omni, per conversionem ergo non erit syllogismus. Dictum est enim quoniam non convertitur huiusmodi propositio. Sed nec per impossibile, nam posito B omni C contingere inesse, nihil accidit falsum, continget enim A et omni et nulli C inesse. Omnino autem si est syllogismus, palam quoniam contingens erit, eo quod neutra propositionum sumpta est in eo quod est inesse, et hic vel affirmativus, vel privativus: neutro autem modo possibile est, affirmativo enim posito, ostendetur per terminos quoniam non contingit inesse; privativo autem, quoniam conclusio non est contingens, sed necessaria. Sit enim A quidem album, B autem homo, in quo autem C equus, ergo album A contingit huic quidem omni, illi vero nulli inesse, sed B neque inesse contingit C, neque non inesse. Quoniam igitur inesse non possibile, est manifestum, nullus enim equus homo, sed neque contingere non inesse, necesse est enim nullum equum hominem esse, necessarium autem non erat contingens, non igitur fit syllogismus Similiter autem ostendetur, et si e converso ponatur privativa, et si utraeque affirmative ponantur, vel privative, nam per eosdem terminos erit demonstratio. Et quando haec quidem universalis, illa vero particularis, vel utraeque particulares, vel indefinitae, aut quolibet modo aliter contingit permutari propositiones, semper enim erit per eosdem terminos demonstratio. Manifestum ergo quoniam utrisque propositionibus secundum contingere positis, nullus fit syllogismus. Si autem altera quidem inesse, altera vero contingere significat, praedicativa quidem inesse posita, privativa vero contingere, nunquam erit syllogismus, sive universaliter, sive particulariter sumantur termini, demonstratio autem eadem, et per eosdem terminos. Quando autem affirmativa quidem contingere, privativa inesse, erit syllogismus. Sumatur enim A B quidem nulli inesse, C vero omnia contingere, conversa ergo privativa, B inest nulli A, A autem omni C contingebat, fit ergo syllogismus, quoniam B contingit nulli C, per primam figuram. Similiter autem et si ad C ponatur privativa. Si autem utraeque sint privativae, significet autem haec quidem non inesse, illa vero contingere non inesse, per ea quidem quae sumpta sunt nihil accidit necessarium, conversa autem secundum contingere propositione fit syllogismus, quoniam B contingit nulli C inesse, quemadmodum in prioribus, erit enim rursum prima figura. Si autem utraeque ponantur praedicativae, non erit syllogismus. Termini quidem inesse sanitas, equus, homo. Eodem autem modo se habebit et in particularibus syllogismis. Quando autem erit affirmativa inesse, sive universaliter, sive particulariter sumpta, nullus erit syllogismus; hoc autem similiter, et per eosdem terminos demonstratur, quibus et prius. Quando autem et privativa, erit per conversionem, quemadmodum in prioribus. Rursum si ambo quidem intervalla privativa sumantur, universaliter autem quod non inesse, ex ipsis quidem propositionibus non erit necessarium, conversa autem contingenti sicut in prioribus, erit syllogismus. Si autem inesse quidem sit privativa, particulariter quidem sumpta, non erit syllogismus, neque praedicativa, neque privativa existente altera propositione. Nec quando utraeque ponuntur indefinitae, vel affirmativae, vel negativae, aut particulares; demonstratio autem eadem et per eosdem terminos. Si autem haec quidem propositionum ex necessitate, illa vero contingere significat, privativa quidem necessaria, erit syllogismus, non solum quoniam contingit non inesse, sed et quoniam non inest, affirmativa autem non erit. Ponatur autem A B quidem nulli inesse ex necessitate, C autem omni contingere, conversa ergo privativa, et B nulli A inerit, A autem omni E contingebat. Fit igitur rursum per primam figuram syllogismus, quoniam B contingit nulli C inesse. Simul autem manifestum quoniam neque inest B nulli C, ponatur enim inesse, ergo si A nulli B contingit, B autem inest alicui C, A alicui C non contingit, sed omni ponebatur contingere. Eodem autem modo ostendetur, et si ad C ponatur privativum. Rursum. Sit praedicativa quidem necessaria, altera autem privativa, et contingens, et A B contingat nulli, C autem omni insit ex necessitate, sic ergo habentibus se terminis, nullus erit syllogismus, accidit enim B ex necessitate non inesse. Sit enim A quidem album, in quo autem B, homo, in quo vero C, cygnus, ergo album cygno quidem ex necessitate inest, homini autem contingit nulli, et homo nulli cygno ex necessitate. Quoniam igitur eius quod est contingere non est syllogismus, manifestum est, nam ex necessitate non erat contingens. Sed tamen non necessarii, nam necessarium aut ex utrisque necessariis, aut ex privativa necessaria contingebat. Amplius et possibile est iis positis B inesse C. Nihil enim prohibet C quidem sub B esse, A autem B quidem omni contingere, C vero ex necessitate inesse, ut sit quidem C vigilia, B autem animal, in quo autem A motus. Nam vigilanti quidem ex necessitate inest motus, animali autem nulli contingit, et omne vigilans animal. Manifestum ergo quoniam non eius quod est non inesse, siquidem sic se habentibus terminis, necesse est inesse, neque autem oppositarum affirmationum, quare nullus erit syllogismus. Similiter autem ostendetur, et e converso posita affirmativa. Si autem similis figurae sint propositiones, cum privativae sint, semper fit syllogismus, conversa secundum contingere propositione, quemadmodum in prioribus. Si sumatur enim A B quidem ex necessitate non inesse, C autem contingere non inesse, conversis autem propositionibus, B quidem nulli inesse A, A autem omni C contingit, fit igitur prima figura, et si ad C ponatur privativum similiter. Si autem praedicativae ponantur, non erit syllogismus, nam eius quod est non inesse, aut eius quod est ex necessitate non inesse, manifestum quoniam non erit, eo quod non sumpta sit privativa propositio, neque in eo quod est inesse, neque in eo quod est ex necessitate inesse, sed neque eius quod est contingere non inesse, ex necessitate enim sic se habentibus, B non inerit C, ut si A quidem ponatur album, in quo autem B cygnus, in quo autem C homo, neque oppositarum affirmationum, quoniam ostensum est B ex necessitate non inesse C, non ergo fit syllogismus omnino. Similiter autem se habebit et in particularibus syllogismis. Quando autem fuerit privativa, et universalis, et necessaria, semper erit syllogismus, et eius quod est contingere non inesse, et eius quod est non inesse, demonstratio autem per conversionem. Quando autem affirmativa, nunquam, eodem autem modo ostendetur quo et in universalibus, et per eosdem terminos. Nec quando utraeque sumuntur affirmative, nam et huius eadem demonstratio, quae et prius. Quando utraeque quidem privativae, universalis autem et necessaria, quae non inesse significat, per ea quidem quae sumpta sunt, non erit necessarium, conversa autem secundum contingere propositione, erit syllogismus, quemadmodum in prioribus. Si autem utraeque indefinitae, vel particulares sumantur, non erit syllogismus, demonstratio autem eadem, et per eosdem terminos. Manifestum igitur ex praedictis quoniam privativa quidem universalis posita necessaria, semper fit syllogismus, non solum eius, quod est contingere non inesse, sed et non inesse, affirmativa autem nunquam. Et quoniam eodem modo se habentibus, et in necessariis, et in iis quae insunt, fit et non fit syllogismus Palam et quoniam imperfecti omnes sunt syllogismi, et quoniam omnes perficiuntur per praedictas figuras. In postrema autem figura, et utrisque contingentibus, et altera, erit syllogismus. Quando ergo contingere significant propositiones, et conclusio erit contingens. Et quando haec quidem contingere, illa vero inesse, similiter erit syllogismus. Quando autem altera ponitur necessaria, si affirmativa quidem non erit conclusio, neque necessaria, neque inesse. Si autem privativa, eius quod est non inesse erit syllogismus, quemadmodum in prioribus. Sumendum autem et in his similiter, quod est in conclusionibus contingens. Sint ergo primum contingentes, et A et B contingant omni C inesse, quoniam ergo convertitur affirmativa particulariter, B autem omni C contingit, et C alicui B contingit, quare si A quidem omni C contingit, C autem alicui B, et A alicui B contingit, fit enim prima figura. Et si A quidem contingit nulli C inesse, B autem omni C contingat, necesse est A alicui cui B contingere non inesse, erit enim rursum prima figura per conversionem. Si autem utraeque privativae ponantur, ex his quidem quae sumpta sunt non erit necessarium, conversis autem propositionibus erit syllogismus, quemadmodum in prioribus. Si enim A et B contingunt C non inesse, si transmutatur contingere non inesse, rursum erit prima figura per conversionem. Si autem hic quidem terminorum est universalis, ille vero particularis, eodem modo se habentibus terminis quo inesse, et erit, et non erit syllogismus. Contingat enim A quidem omni C, B autem alicui C inesse, erit ergo rursum prima figura particulari propositione conversa, nam si A omni C, C autem alicui B, et A alicui B contingit. Et si ad B C ponatur universale, similiter. Similiter autem et si A C quidem privativa sit, B C autem affirmativa, erit unum rursum prima figura per conversionem, si autem utraeque privativae ponantur, haec quidem universaliter, illa vero particulariter, per ea quidem quae sumpta sunt non erit syllogismus, conversis autem propositionibus erit quemadmodum in prioribus. Quando autem utraeque indefinitae vel particulares sumuntur, non erit syllogismus, etenim necesse est A omni B, et nulli inesse. Termini inesse, animal, homo, album: non inesse, equus, homo, medium album. Si autem haec quidem propositionum inesse, illa autem contingere significet, conclusio quidem erit quoniam contingit, et non quoniam inest, syllogismus autem erit eodem modo se habentibus terminis, quo et in prioribus. Sint enim primum praedicativae, et A quidem omni C insit, B autem omni C contingat, conversa ergo B C erit prima figura, et conclusio quoniam contingit A alicui B inesse, cum enim altera propositionum in prima figura significabit contingere, et conclusio erit contingens. Similiter autem et si B C quidem inesse, A C autem contingit inesse. Et si A C quidem privativa, B C autem praedicativa, insit autem alterutra utrinque, contingens erit conclusio, fit enim rursum prima figura. Ostensum est autem quoniam si altera propositio significet contingere in prima figura, et conclusio erit contingens. Si autem contingens privativa ponatur ad minorem extremitatem, vel si utraque ponatur privativa, per ea quidem quae posita sunt non erit syllogismus, conversis autem erit, quemadmodum et in prioribus. Si autem haec quidem propositionum sit universalis, illa vero particularis, utrisque quidem praedicativis, aut universali quidem privativa, particulari autem affirmativa, idem modus erit syllogismorum, omnes enim clauduntur per primam figuram. Quare manifestum quoniam eius quod est contingere, et non eius quod est inesse, erit syllogismus. Si autem affirmativa quidem universalis, privativa autem particularis, per impossibile erit demonstratio. Insit enim B quidem omni C, A autem contingat alicui C non inesse, necesse est ergo A alicui B contingere non inesse, nam si omni B inest A ex necessitate, B autem omni C positum est inesse, A omni C ex necessitate inerit. Hoc autem ostensum est prius, sed positum est alicui contingere non inesse. Quando autem indefinitae, vel particulares sumuntur utraeque, non erit syllogismus, demonstratio autem eadem quae et in universis et per eosdem terminus. Si autem est haec quidem propositionum necessaria, illa vero contingens, si praedicativi quidem sunt termini, semper eius quod est contingere erit syllogismus. Quando autem fuerit hic quidem praedicativus, ille autem privativus, si sit affirmativus quidem necessarius, eius erit quod est contingere non inesse, si autem privativus, et eius quod est contingere non inesse, et eius quod est non inesse; eius autem quod est ex necessitate non inesse non erit syllogismus, quemadmodum et in aliis figuris. Sint ergo praedicativi termini primum, et A C quidem omni insit ex necessitate, B autem omni C contingat inesse, quoniam ergo A omni C necessario inest, C autem alicui B contingit, et A alicui B contingens erit, et non inerit, sic enim accidit in prima figura. Similiter autem ostendetur, et si B C quidem ponatur necessaria, A C autem contingens. Rursum sit hoc quidem praedicativum, illud vero privativum, necessarium autem praedicativum, et A quidem contingat nulli C inesse, B autem omni insit ex necessitate C, erit ergo rursum prima figura, et conclusio contingens, sed non inesse. Nam privativa propositio contingere significat. Manifestum est igitur quoniam conclusio erit contingens; cum enim sic se habebant propositiones in prima figura, et conclusio erat contingens. Si autem privativa sit propositio necessaria, et conclusio erit, quoniam contingit alicui non inesse, et quoniam non inesse Ponatur enim A non inesse C, ex necessitate, B autem omni C contingere, conversa ergo B C affirmativa, prima erit figura, et necessaria privativa propositio. Cum autem sic se habebant propositiones, accidebat A et contingere alicui C non inesse, et non inesse, quare et A necesse est alicui B non inesse. Quando autem privativum ponitur ad minorem extremitatem, si contingens quidem, erit syllogismus transsumpta propositione, quemadmodum! et in prioribus. Si autem necessarium, non erit. Etenim necesse est omni et nulli contingat inesse. Termini omni inesse, somnus, equus, dormiens homo. Nulli inesse, somnus, equus, vigilans homo. Similiter autem se habebit, et si hic quidem terminorum sit universalis, ille autem particularis ad medium, nam si utrique sint praedicativi, eius quod est contingere, et non eius quod est inesse erit syllogismus. Et quando hoc quidem privativum sumetur, illud vero affirmativum, necessarium autem affirmativum, huius quod est contingere. Quando autem privativum necessarium, et conclusio erit quod est non inesse, nam idem modus erit demonstrationis, et cum universales et non universales sunt termini. Necesse est enim per primam figuram perfici syllogismos, quare ut in illis, et in his necessarium accidere. Quando autem privativum universaliter sumptum ponitur ad minorem extremitatem, si contingens quidem, erit syllogismus per conversionem, si autem necessarium sit, non erit, ostendetur autem eodem modo quo et in universalibus, et per eosdem terminos. Manifestum ergo et in hac figura quando et quomodo erit syllogismus, et quando eius quod est contingere, et quando eius quod est inesse. Palam autem et quoniam omnes imperfecti, et quoniam perficiuntur per primam figuram. Quoniam igitur qui in his figuris sunt syllogismi perficiuntur per eos qui in prima figura sunt universales syllogismos, et in hos reducuntur, palam ex dictis. Quoniam autem simpliciter omnis syllogismus sic se habebit, nunc erit manifestum, cum ostensus fuerit omnis qui fit, per aliquam harum figurarum fieri. Necesse est ergo omnem demonstrationem et omnem syllogismum aut inesse quid, aut non inesse monstrare. Et hoc aut universaliter, aut particulariter, amplius aut ostensive, aut ex hypothesi. Eius autem quod est ex hypothesi, pars est per impossibile. Primum ergo dicemus de ostensivis, his enim ostensis, manifestum erit et de iis qui ad impossibile, et omnino de iis qui ex hypothesi. Si ergo oporteat A de B syllogizare, vel inesse, vel non inesse, necesse est sumere aliquid de aliquo. Si ergo A sumatur de B, quod ex principio erit sumptum, si autem A de C, C autem de nullo alio, nec aliud de illo C, neque de A alterum, neque de altero A, nullus erit syllogismus, nam in eo quod unum de uno sumitur, nihil accidit ex necessitate, quare assumenda est altera propositio. Si igitur sumatur A de alio, aut aliud de A, aut de C alterum, esse quidem syllogismum nihil prohibet, ad B autem non erit per ea quae sumpta sunt, nec quando C inest alteri, et illud alii, et hoc alteri, non copuletur autem ad B, nec sic erit ad B syllogismus ipsius A. Omnino enim dicimus quoniam nullus nunquam erit syllogismus alius de alio, non sumpto aliquo medio, quod ad utrumque se habet quoquo modo praedicationibus. Nam syllogismus quidem simpliciter ex propositionibus est, ad hoc autem syllogismus ex propositionibus, quae ad hoc, qui autem est huius ad hoc, per propositiones huius ad hoc, impossibile est autem ad B sumere propositionem, nihil neque praedicantes de eo, neque negantes, aut rursum eius quod est A ad B, nihil commune sumentes, sed utriusque propria quaedam praedicantes, aut negantes, quare sumendum, utriusque quod copulet praedicationes, si erit huius ad hoc syllogismus. Ergo si necesse est aliquod sumere ad utrumque commune, hoc autem contingit tripliciter, aut enim A de C et de B praedicantes, aut C de utrisque, aut utraque de C, hae autem sunt tres dictae figurae. Manifestum quoniam omnem syllogismum necesse est fieri per aliquam harum figurarum. Nam eadem ratio est, etsi per plura copuletur ad B, eadem enim erit figura et in pluribus. Quoniam igitur ostensivi terminantur per praedictas figuras, manifestum est. Quoniam autem et qui ad impossibile, palam erit per haec, omnes enim qui per impossibile concludunt, falsum quidem syllogizant. Quod autem ex principio erat, ex hypothesi demonstrant, quando aliquid accidit impossibile posita contradictione, ut quoniam diameter est asymeter, eo quod fiunt abundantia aequalia perfectis, posito symetro. Ergo aequalia quidem fieri abundantia perfectis syllogizant, asymetrum autem esse diametrum, ex hypothesi monstrant, quoniam falsum accidit propter contradictionem.Hoc enim fuit per impossibile syllogizare, ostendere aliquid impossibile propter priorem hypothesin. Quare quoniam falsus fit syllogismus ostensivus in his quae ad impossibile deducuntur, quod autem est ex principio, ex hypothesi monstratur, ostensivos autem diximus prius, quoniam per has terminantur figuras, manifestum quoniam et per impossibile syllogismi per has erunt figuras Similiter autem et alii omnes qui sunt ex hypothesi, in omnibus his enim syllogismus quidem fit ad transsumptum, quod autem est ex principio, terminatur per confessionem aut per aliquam aliam hypothesin. Si autem hoc verum, necesse est omnem demonstrationem et omnem syllogismum fieri per tres praedictas figuras. (0666C) Hoc autem ostenso, palam quoniam omnis syllogismus perficitur per primam figuram, et reducitur in huius universales syllogismos. Amplius autem in omnibus oportet aliquem terminorum praedicativum esse et universalem, sine universali enim non erit syllogismus, aut non ad hoc quod positum est, aut quod ex principio est petet. Ponatur enim musicam voluptatem esse studiosam, si ergo poposcerit voluptatem esse studiosam, non addens omnem, non erit syllogismus, si autem aliquam voluptatem esse studiosam, si aliam quidem, nihil ad hoc quod positum est, si autem eamdem, quod ex principio erat, sumit. Magis autem fit manifestum in figuris, ut quoniam aequicruris aequales sunt anguli, qui sunt ad basim: sint enim in centrum ductae A B, si ergo aequalem sumpserit A C angulum ei qui est B D, non omnino petens aequales eos qui sunt semicirculorum, et rursum C ei qui est D, non omnem assumens eum qui est incisionis. Amplius, ab aequalibus existentibus totis angulis, aequalibus demptis, aequales esse reliquos, scilicet E F, quod ex principio est petet, nisi sumat ab omnibus aequalibus, aequis demptis, aequalia relinqui. Manifestum igitur quoniam in omni syllogismo oportet universale esse. Et quoniam universale quidem ex omnibus terminis universalibus monstratur, particulare autem et sic, et aliter. Quare si conclusio sit universalis, et terminos necesse est universales esse, si autem universales sint termini, contingit conclusionem non universalem esse. Palam etiam quoniam in omni syllogismo aut utramque, aut alteram propositionem similem necesse est fieri conclusioni, dico autem non solum in eo quod affirmativa sit, vel negativa, sed in eo quod necessaria aut inesse, aut contingens: considerare autem oportet et alia praedicamenta. Manifestum autem et simpliciter quando erit, et quando non erit syllogismus, et quando perfectus, et quoniam si est syllogismus, necessarium est habere terminos secundum aliquem dictorum modorum. Palam autem et quoniam omnis demonstratio erit per tres terminos, et non per plures, nisi per alia et alia eadem conclusio fiat, ut E per A B, et per C D, aut per A B, et A C, et B C, plura enim media eorumdem nihil esse prohibet, haec autem cum sint, non unus, sed plures sunt syllogismi. Aut rursum, quando utrumque A B sumitur per syllogismum, ut A per D E, et rursum B per F G, aut hoc quidem inductione, illud autem syllogismo, sed et si plures erunt syllogismi, plures enim conclusiones sunt, ut A B et C. Si igitur non plures, sed unus (sic autem contingit fieri per plura media eamdem conclusionem, ut E quidem per A B C D ), impossibile. Sit enim E conclusio ex A B C D, ergo necesse est aliquid eorum, aliud ad aliud sumptum esse, hoc quidem ut totum, illud vero ut pars, hoc enim ostensum est prius, quoniam si est syllogismus, necesse est sic aliquos se habere terminorum. Habeat se ergo A sic ad B, est itaque aliqua ex eis conclusio, aut ergo E, aut alterum eorum quae sunt C D, aut alterum aliud quidem praeter haec. Et si E quidem, ex A B tantum, erit syllogismus, C D autem quidem se habeant sic ut sit hoc quidem ut notum, illud vero ut pars, erit aliquid ex illis aut E, aut aliquid eorum quae sunt A B, aut alterum aliud quidem praeter haec. Et si E quidem, aut eorum quae sunt A B alterum, aut plures erunt syllogismi, aut (ut contingebat) idem per plures terminos concludi accidit, si autem aliud quidem praeter haec, plures erunt et inconiuncti syllogismi ad invicem, si autem non sic se habeat C ad D ut faciat syllogismum, vane erunt sumpta, nisi inductionis, aut celationis, aut alicuius alius talium gratia. Si autem ex A B non E, sed alia quaedam fiat conclusio, ex C D autem aut horum alterum, aut aliud praeter haec, et plures fiunt syllogismi, et non eius quod positum est. Ponebatur enim eius quod est E esse syllogismum. Si autem non fiat ex C D nulla conclusio, et vane sumpta esse ea accidit, et non eius quod est ex principio esse syllogismum. Quare manifestum quoniam omnis demonstratio et omnis syllogismus erit per tres terminos solos.Hoc autem manifesto, palam quoniam et ex duabus propositionibus, et non pluribus, nam tres termini, duae sunt propositiones, nisi assumatur aliquid (quemadmodum in prioribus dictum est) ad perfectionem syllogismorum. Manifestum igitur quando, ut in oratione syllogistica, non pares sunt propositiones per quas fit conclusio principalis (quasdam enim superiorum conclusionum necessarium est esse propositiones), haec oratio aut non syllogistica est, aut plura necessariis interrogavit ad positionem. Secundum igitur principales propositiones sumptis syllogismis, omnis syllogismus erit ex propositionibus quidem perfectis, ex terminis autem abundantibus, uno enim plures termini propositionibus, erunt autem et conclusiones dimidietas propositionum. Quando autem per prosyllogismos concluditur, aut per plura media non continua, ut A B per C D, multitudo quidem terminorum similiter uno superabit propositiones, aut enim extrinsecus, aut medium ponetur intercidens terminus, utrinque autem accidit uno minus esse intervalla quam terminos, propositiones autem aequales sunt intervallis. Non tamen hae quidem semper perfectae erunt, illi vero abundantes, sed permutatim, quia cum propositiones quidem sunt perfectae, abundantes erunt termini, cum vero termini perfecti, abundantes erunt propositiones, simul enim termino addito, una additur propositio, undecunque addatur terminus. Quare quoniam hae propositiones quidem perfectae, illi vero abundantes erant, necesse est transmutare eadem, additione facta.Conclusiones autem non etiam eum habebunt ordinem neque ad terminos, neque ad propositiones, uno enim termino addito, conclusiones adiungentur uno, pauciores praeexistentibus terminis, ad solum enim ultimum non facit conclusionem, ad alios autem omnes. Ut si eis quae sunt A B C, adiacet D, statim et conclusiones duae adiacent, quae ad A, et ad B, similiter autem et in aliis. Si autem ad medium intercidat, eodem modo, ad unum enim solum non faciet syllogismum, quare multo plures conclusiones erunt et terminis et propositionibus. Quoniam autem habemus ex quibus syllogismi, et quale in unaquaque figura, et quot modis monstratur, manifestum nobis est, et quae propositio facile, et quae difficile argumentabilis est. Nam quae in pluribus figuris et per plures casus concluditur, facilis; quae autem in paucis et per pauciores, difficilius argumentabilis. Ergo affirmativa quidem universalis per primam tantum figuram monstratur, et per hanc simpliciter. Privativa vero et per primam, et per mediam. Per primam quidem simpliciter, per mediam autem dupliciter. Particularis autem affirmativa per primam et per postremam, simpliciter quidem per primam, tripliciter autem per postremam. Privativa vero particularis in omnibus figuris monstratur, verum in prima quidem semel, in media autem et postrema, in illa quidem dupliciter, in hac vero tripliciter. Manifestum ergo quoniam universalem affirmativam construere quidem difficillimum, destruere autem facillimum, omnino autem est interimenti quidem, universalia quam particularia facilius. Etenim si nulli, et si alicui non insit interemptum est, horum autem alicui quidem non in omnibus figuris monstratur, nulli autem in duabus. Eodem autem modo et in privativis, etenim si omni, et si alicui, interemptum est quod ex principio. Hoc autem fuit in duabus figuris. In particularibus autem simpliciter, aut omni, aut nulli ostendentem inesse. Construenti autem, facilius est particularia, nam in pluribus figuris, et per plures modos. Omnino autem non oportet latere quoniam destruere quidem per se invicem est, et universalia per particularia, et haec per universalia; construere autem non est per particularia universalia, per illa vero haec est. Nam si omni, et alicui. Simul autem manifestum quoniam destruere quam construere facilius. Quomodo ergo fit omnis syllogismus, et per quot terminos et propositiones, et quomodo habentes se ad invicem, amplius autem quae propositio in unaquaque figura, et quae in pluribus, et quae in paucioribus monstratur, palam ex his quae dicta sunt. Quomodo autem idonei erimus semper syllogizare ad propositum, et per quam viam sumemus circa unumquodque principia, nunc dicendum. Non enim solum fortasse oportet generationem considerare syllogismorum, sed et potestatem habere faciendi. Omnium igitur quae sunt, haec quidem sunt talia, ut de nullo alio praedicentur vere universaliter, ut Cleon, et Callias, et quod singulare, et sensibile, de his autem alia, nam et homo, et animal uterque horum est. Illa vero et ipsa quidem de aliis praedicantur, de illis autem alia prius non praedicantur, alia autem et ipsa de aliis, et de his alia, ut homo de Callia, et de homine animal. Quoniam ergo quaedam eorum quae sunt de nullo nata sunt dici, palam: nam sensibilium pene unumquodque est huiusmodi, ut de nullo praedicetur, nisi, ut secundum accidens, dicimus enim quandoque album illud Socratem esse, et hoc veniens Calliam. Quoniam autem in sursum pergentibus statur quandoque, rursum dicemus. Nunc autem sit hoc positum, de iis ergo praedicatum aliquod non est demonstrare nisi secundum opinionem, sed haec de aliis, neque singularia de aliis, sed alia de ipsis. Quae autem in medio sunt, manifestum quoniam utrumque contingit, nam et haec de aliis, et alia de his dicuntur, et pene rationes et considerationes sunt maxime de his. Oportet ergo propositiones circa unumquodque horum sic sumere supponentem, ipsum primum et definitiones, et quaecunque propria sunt rei, deinde post hoc quaecunque sequuntur rem. Et rursum quae res sequitur, et quaecunque non contingit ipsi inesse, quibus autem ipsa non contingit, non sumendum, eo quod convertitur privativa. Dividendum autem est, et eorum quae sequuntur, quaecunque in eo quod quid est, et quaecunque ut propria, et quaecunque ut accidentia praedicantur, et horum quae secundum opinionem, et quae secundum veritatem. Quanto enim plurium talium abundaverit quis, citius inveniet conclusionem, quanto autem veriorum, magis demonstrabit. Oportet autem eligere non quae sequuntur aliquam, sed quaecunque totam rem sequuntur, ut non quod aliquem hominem, sed quod omnem hominem sequitur, per universales enim propositiones fit syllogismus. Cum autem est indefinitum, incertum si universalis est propositio, cum vero definitum, manifestum. Similiter autem eligendum et quae ipsum sequitur tota, propter dictam causam. Ipsum autem quod sequitur, non est sumendum totum sequi, dico ut hominem omne animal, aut musicam, omnem disciplinam, sed simpliciter solum sequi quemadmodum et praetendimus, etenim inutile alterum et impossibile, ut omnem hominem esse omne animal, vel iustitiam omne bonum, sed cui consequens est, in illo omni esse dicitur. Quando autem ab aliquo continetur subiectum, cuius consequentia oportet sumere, quae universale quidem sequuntur, vel non sequuntur, non eligendum in his, sumpta enim sunt in illis quaecunque animal et hominem sequuntur, et quaecunque non animali insunt, similiter. Quae autem in unoquoque sunt propria, sumendum: sunt enim quaedam speciei propria praeter genus, necesse est enim diversis speciebus propria quaedam inesse. Neque autem universale eligendum iis quae sequitur quod continetur, ut animal iis quae sequitur homo, necesse est enim si hominem sequitur animal, et haec omnia sequi, convenientiora autem haec hominis electioni. Sumendum autem et quae plerumque sequuntur ea quae consequuntur, nam et problematibus quae plerumque, et syllogismus ex propositionibus, quae plerumque aut in omnibus, aut aliquibus, similis enim est uniuscuiusque conclusio principiis. Amplius quae omnibus sequentia sunt, non eligendum, non enim erit syllogismus ex ipsis, ob quam autem causam, in sequentibus erit manifestum. Construere ergo volentibus aliquid de aliquo toto, eius quidem quod construitur, inspiciendum ad subiecta de quibus ipsum dicitur, de quo autem oportet praedicari quaecunque hoc sequuntur. Si enim aliquod horum sit idem, alterum alteri necesse est inesse. Si autem non quoniam omni, sed quoniam alicui, quae sequitur utrumque, si enim aliquod horum idem fuerit, necesse est alicui inesse Quando autem nulli oporteat inesse, cui quidem oportet non inesse, ad sequentia subiecti, quod autem oportet non inesse, inspiciendum ad ea quae non contingunt illi adesse. Aut conversim cui quidem oportet non inesse, ad ea quae non contingunt eidem adesse, quod vero non inesse, inspiciendum ad sequentia. Nam si haec sint eadem utrorumque, nulli contingi alteri alterum inesse, fit enim quandoque quidem in prima figura syllogismus, quandoque autem in media. Si autem alicui non inesse, cui quidem oportet non inesse, quae consequitur: quod vero non inesse, quae non possibile est illi inesse. Si enim aliquid horum sit idem, necesse est alicui non inesse. Magis autem fortasse erit sic, unumquodque eorum quae dicta sunt manifestum. Sint enim sequentia quidem A, in quibus B, quae autem ipsum sequitur, in quibus C, quae autem non contingunt ei inesse, in quibus D, rursum autem ipsi E quae quidem insunt, in quibus F, quae autem ipsum sequitur, in quibus G, quae autem non contingunt eidem inesse, in quibus H. Si ergo eidem aliquid eorum quae sunt C, alicui eorum quae sunt F, necesse est A omni E inesse, nam F quidem omni E, C autem omni A, quare omni E inest. Si autem C et G idem, necesse est alicui E inesse A, nam id quod est E A, id vero quod est G E, omne ei sequitur. Si autem F et D sint idem, nulli E inerit ex proprio syllogismo, quoniam enim convertitur privativa, et F ei quod est D idem, nulli F inerit A, F autem omni E. Rursus si B et H idem, nulli E inerit A, nam B A quidem omni, ei autem in quo E nulli inerit. Idem enim erat ei quod est H, B; H autem nulli E inerat. Si autem G et D idem, A alicui E non inerit, nam ei quod est G non inerit A, quoniam neque D, G autem sub E est, quare alicui E non inerit. Si autem G et B idem, conversus erit syllogismus, nam G inerit omni A, nam B ei quod est A, E autem ei quod est B, idem enim erat ei quod est G, A autem ei quod est E, omni quidem non necessarium est inesse, alicui autem necessarium, eo quod convertatur universale praedicativum in particulare. Manifestum ergo quoniam ad praedicta perspiciendum utrinque in unaquaque quaestione, per haec enim omnes syllogismi. Oportet autem et sequentium, et quibus sequitur singulum, ad prima et universalia maxime inspicere, ut E quidem magis ad k F quam ad F solum, A autem ad k C magis quam ad C solum. Si enim ei quod est k F inest A, et ei quod est F inest et ipsi E, si vero hoc non sequitur A, possibile est id quod est F sequi. Similiter autem et in quibus idem sequitur, considerandum, nam si primis, et iis quae sub ipsis sunt, sequitur; si autem non his, et iis quae sub ipsis sunt, possibile. Palam autem quoniam per tres terminos et duas propositiones consideratio, et per praedictas figuras syllogismi omnes, monstratur enim omni quidem E inesse A, quando eorum quae sunt C F idem, quiddam sumitur, hoc autem erit medium, extremitates autem A et E, fit enim prima figura. Alicui autem quando C et G sumitur idem, hoc autem postrema figura, medium enim fit G. Nulli vero quando D et F idem; sic autem et prima figura, et media: prima quidem, quoniam nulli F inest A, siquidem convertitur privativa, F autem omni E. Media autem quoniam D A quidem nulli, E autem omni inest. Alicui autem non inesse, quando D et G idem fuerit, haec autem postrema figura, nam A quidem nulli G inerit, E vero omni G; manifestum igitur est quoniam per praedictas figuras omnes syllogismi. Et quoniam non eligendum quaecunque omnibus sequuntur, eo quod nullus fiat syllogismus ex ipsis, nam construere quidem non omnino erat ex sequentibus, privare autem non contingit per ea quae omnibus sequuntur, oportet huic quidem inesse, illi vero non inesse. Manifestum autem quoniam et aliae considerationes quae secundum electiones, inutiles ad faciendum syllogismum. Ut si sequentia utrumque eadem sint, aut quae sequitur A, et quae non contingit E inesse, aut rursum quaecunque non possibile est utrique inesse, non enim fit syllogismus per haec. Nam si sequentia sunt eadem, ut B et F, media fit figura praedicativas habens utrasque propositiones. Si autem ea quae sequitur A, et quae non contingit E, ut C, et H, prima erit figura privativam habens propositionem ad minorem extremitatem. Si autem quaecunque non contingunt utrique, ut D et H, privativae utraeque propositiones erunt vel in prima figura, vel in media, sic autem nullo modo erit syllogismus. Palam autem et quae eadem, sumendum secundum considerationem, et non quae diversa vel contraria, primum quidem quoniam medii gratia, inspectio, medium autem non diversum, sed idem oportet sumere. Deinde et in quibus accidit fieri syllogismum quod sumantur contraria, aut non contigentia eidem inesse, in praedictos omnia reducuntur modos. Ut si B et F sint contraria, aut non contingant eidem inesse, erit enim his sumptis syllogismus, quoniam nulli E inest A, sed non ex ipsis, sed ex praedicto modo, nam B A quidem omni, E autem nulli inerit, quare necesse est B idem esse alicui eorum quae sunt H. Rursum si B et G non possint eidem adesse, erit quoniam alicui E non inerit A, nam et sic media erit figura, nam B A quidem omni, G vero nulli inerit, quare necesse est G idem esse alicui eorum quae sunt D, nam non contingere G et B eidem inesse nihil differt, aut G alicui D idem esse, omnia enim sumpta sunt in D, quae non contingunt A inesse. Manifestum ergo quoniam ex istis quidem inspectionibus nullus fit syllogismus, et si B et F sint contraria, idem esse B alicui H, et syllogismum semper fieri per haec. Accidit ergo sic inspicientibus considerare viam aliam necessariam, eo quod quandoque latet identitas horum quae sunt B et H. Eodem autem modo se habent et qui ad impossibile deducunt syllogismi, ostensivis, nam et ipsi fiunt per ea quae sequuntur, et quibus sequitur utrumque. Et eadem consideratio in utrisque, nam quod monstratur ostensive, et per impossibile est syllogizare, et per eosdem terminos, et quod per impossibile et ostensive. Ut quoniam A nulli E inest, ponatur enim alicui inesse, ergo quoniam B omni A, A autem alicui E, et B alicui E inerit, sed nulli inerat. Rursum quoniam alicui E inest A, si enim nulli E inest A, E autem omni G, nulli G inerit A, sed omni inerat. Similiter autem est in aliis propositis, semper enim erit in omnibus per impossibile ostensio, ex sequentibus, et quibus sequitur utrumque. Et in uno quoque proposito, eadem consideratio et ostensive volenti syllogizare, et ad impossibile ducere, nam ex eisdem terminis utraeque demonstrationes. Ut si ostensum est nulli E inesse A, quoniam accidit et B alicui E inesse, quod est impossibile. Si sumptum sit E quidem nulli B, A autem omni B inesse, manifestum est enim quoniam nulli E inerit A. Rursum si ostensive syllogizatum sit A inesse nulli E, suppositis inesse per impossibile monstrabitur nulli inesse, similiter autem et in aliis. In omnibus enim necesse est iis qui per impossibile communem aliquem sumere terminum alium A subiectis, ad quem erit mendacii syllogismus, quare conversa ea propositione, altera autem similiter se habente, ostensivus erit syllogismus per eosdem terminos. Differt autem ostensivus ab eo qui ad impossibile, quoniam in ostensivo secundum veritatem ambae propositiones ponuntur, in eo autem qui ad impossibile, falsa una. Haec vero erunt magis manifesta per sequentia quando de impossibili dicemus; nunc autem tantum nobis sit manifestus, quoniam ad haec perspiciendum, et ostensive volentibus syllogizare, et ad impossibile deducere. (0673C)In aliis autem syllogismis quicunque sunt ex hypothesi, ut quicunque secundum transsumptionem, aut secundum qualitatem in subiectis, non in prioribus, sed in transsumptis erit consideratio, modus autem inspectionis idem: considerare autem oportet, et dividere quot modis sunt ex hypothesi, monstratur ergo unumquodque propositorum sic. Est autem et alio modo quaedam syllogizare horum, ut universalia per particularem inspectionem ex hypothesi. Si enim C et G eadem sint, solum G autem sumatur E inesse, omni E inerit A, et rursum si G et D eadem, solum autem de G praedicetur E, quoniam nulli E inerit A, manifestum ergo quoniam sic inspiciendum. Eodem autem modo et in necessariis, et in contingentibus, nam eadem consideratio, et per eosdem terminos erit, eodemque ordine et contingentis, et inesse syllogismus. Sumendum autem et in contingentibus et quae non insunt, possibilia autem inesse. Ostensum est enim quoniam et per haec fit contingentis syllogismus, similiter autem se habebit et in aliis praedicationibus. Manifestum ergo ex praedictis quoniam non solum possibile est per hanc viam fieri omnes syllogismos, sed etiam quoniam per aliam impossibile. Omnis enim syllogismus ostensus est quoniam per aliquam praedictarum figurarum fit, has autem non contingit per alia constitui quam per sequentia et quae sequitur unumquodque, ex his enim propositiones, et medii sumptio, quare nec syllogismum possibile est fieri per alia. Ergo methodus quidem de omnibus eadem est, et circa philosophiam, et circa autem quamlibet disciplinam. Oportet enim quae insunt, et quibus insunt circa unumquodque colligere, et his quamplurimis abundare, et hoc per tres terminos considerare, destruentem quidem sic, construentem vero sic, et secundum veritatem quidem, ex iis quae secundum veritatem scripta sunt inesse, ad dialecticos autem syllogismos, ex propositionibus quae sunt secundum opinionem. Principia autem syllogismorum universaliter quidem dicta sunt, et quomodo se habeant, et quomodo oportet inquirere ea, quatenus non aspiciamus ad omnia quae dicuntur, neque eadem construentes et destruentes, neque construentes de omni aut de aliquo, destruentes ab omnibus aut ab aliquibus, sed ad pauciora et determinata. Secundum singulum autem eorum quae sunt eligere, ut de bono aut disciplina. Propria autem in unaquaque sunt plurima, quare principia quidem quae sunt circa unumquodque, experimento est crescere, dico autem ut astrologicam quidem experientiam astrologicae disciplinae, sumptis enim sufficienter apparentibus, sic inventae sunt astrologicae demonstrationes. Similiter autem et circa quamlibet aliam se habet et artem et disciplinam. Quare si sumantur quae insunt circa unumquodque, nostrum erit iam demonstrationes prompte declarare: si enim nihil secundum historiam omittatur eorum quae subtiliter et vere insunt rebus, habebimus de omni (cuius quidem non est demonstratio) hanc invenire et demonstrare, cuius autem non nata est demonstratio, hoc facere manifestum. Universaliter ergo quo oportet modo propositiones eligere pene dictum est, per diligentiam autem pertransivimus in eo negotio quod circa dialecticam est.Quoniam autem divisio per genera parva quaedam particula est dictae methodi facile videre: est enim divisio velut infirmus syllogismus, nam quod oporteat quidem ostendere petitur, syllogizatur vero semper aliquid superiorum. Primum autem idem hoc latuit omnes utentes ea, et suadere conati sunt quoniam esset possibile de substantia demonstrationem fieri, et de eo quod est quid; quare neque quoniam contingebat syllogizare eos qui dividunt, intellexerunt, neque quoniam contingebat sic quemadmodum diximus. Ergo in demonstrationibus quidem cum oporteat quid syllogizare, oportet medium per quod fit syllogismus minus semper esse, et non universaliter de prima extremitate. Divisio autem contrarium vult, nam universalius sumit medium. Sit enim animal quidem in quo A, mortale autem in quo B, et immortale in quo C, homo vero cuius terminum oportet sumere in quo D, omne ergo animal accipit aut mortale, aut immortale: hoc autem est quidquid erat, omne esse aut B, aut C. Rursus hominem semper qui dividit, ponit animal esse, quare de D sumit A esse, ergo syllogismus quidem est, quoniam D, aut B, aut C omne erit, quare hominem aut mortalem, aut immortalem oportet sumere, nam mortale quidem, aut immortale esse necessarium est animal, mortale autem non necessarium est, sed petitur. Hoc autem erat quod oportebat syllogizare. Et rursus qui ponit A quidem animal mortale in quo autem B pedes habens, in quo autem C, non habens pedes, hominem vero D, similiter sumit A quidem, aut in B, aut in C esse. Omne enim animal mortale aut pedes habens, aut pedes non habens est, de D autem A, nam hominem animal mortale sumpsit esse, quare habens pedes, vel non habens pedes esse animal, necesse est hominem, pedes autem habens non necesse est, sed sumit, hoc autem erat quod oportebat rursum ostendere. Et ad hunc modum semper dividentibus, universale quidem accidit eis medium sumere, de quo oporteat ostendere et differentias et extremitates. In fine autem quoniam hoc est homo, aut quidquid erat quod quaeritur, nihil dicunt manifestum, quare necessarium est esse, etenim aliam viam faciunt omnem, non quidem contingentes idoneitates, opinantes esse. Manifestum est autem quoniam neque destruere hac via est, neque de accidente aliquid, aut de proprio syllogizare, neque de genere, neque de quibus ignoretur utrum hoc modo aut illo se habet, ut putasne diameter est symeter, vel asymeter? si enim sumat quoniam omnis longitudo est symetros vel asymetros, diameter autem longitudo, syllogizatum est quoniam symeter vel asymeter est diameter. Si autem sumetur incommensurabile, quod oportebat syllogizare sumetur, non ergo est ostendere, nam via quidem haec, per hanc autem non est ostendere symetrum vel asymetrum, in quo A longitudo, B autem symeter aut asymeter, diameter C. Manifestum est igitur quoniam neque ad omnem considerationem congruit inquisitionis modus, neque in quibus maxime videtur convenire, in his est utilis. Ex quibus ergo demonstrationes fiunt, et quomodo, et ad quae perspiciendum secundum unumquodque propositum manifestum ex dictis. Quomodo autem reducemus syllogismos in praedictas figuras, dicendum erit post haec, restat enim consideratio haec, si enim et generationem syllogismorum inspiciamus, et inveniendi habeamus potestatem, amplius autem factos reducamus praedictas figuras, finem habebit quod ex principio propositum est, accidet etiam simul quae praedicta sunt confirmari et manifestiora esse, quoniam sic se habent per ea quae nunc dicenda sunt. Oportet enim omne quod verum est, ipsum sibi ipsi manifestum esse omnino. Primum ergo oportet tentare duas propositiones accipere syllogismi, facilius enim in maiora dividere quam in minora: maiora autem compositiora sunt quam ea ex quibus componuntur. Deinde considerare utra in toto, et utra in parte. Et si non ambae sumptae sint, eum qui ponit alteram. Aliquoties enim universalem protendentes, eam quae in hac est non sumunt, neque scribentes, neque interrogantes, aut has quidem protendunt, per quas autem hae concluduntur, omittunt, alia vero vane interrogant. Considerandum autem si quid superfluum sumptum sit, et si quid necessariorum omissum, et hoc quidem ponendum, illud vero auferendum, donec veniat quis ad duas propositiones, sine his enim non est reducere sic interrogatas orationes. In aliquibus ergo facile est videre quod minus est, aliqui vero latent, et videntur quidem syllogizare, eo quod necessarium quid accidit ex iis quae posita sunt. Ut si sumatur, non substantia interempta substantiam non interimi, ex quibus autem est, interemptis, et quod ex eis est corrumpi. His enim positis, necessarium est substantiae partem esse substantiam, non tamen syllogizatum est quod ea quae sumpta sunt, sed desunt, propositiones. Rursum si cum est homo, necesse est esse animal, et cum est animal, substantiam, et cum est homo, necesse est esse substantiam, sed nondum syllogizatum est, non enim se habent propositiones ut diximus. Fallimur autem in talibus eo quod necessarium quiddam accidat ex his quae posita sunt, quam et syllogismus, necessarium est, in plus autem est necessarium quam syllogismus, nam omnis syllogismus, necessarium, necessarium autem non omne syllogismus. Quare non (si quid accidat positis quibusdam) statim tentandum est reducere, sed primum secundum est duas propositiones. Deinde sic dividendum in terminos. Medium autem ponendum terminorum, qui utrisque propositionibus dicitur, necesse est enim medium in utrisque esse in omnibus figuris. Si ergo subiiciatur et praedicetur medium, aut ipsum quidem praedicetur, aliud vero illo abnegetur, prima erit figura. Si autem et praedicetur, et negetur ab aliquo, media erit figura: si vero alia de illo praedicentur, aut hoc quidem praedicetur, illud vero ab illo negetur, postrema, sic enim se habuit in postrema figura medium, similiter autem etsi non universales sint propositiones, nam est eadem determinatio medii. Manifestum igitur quoniam in qua oratione non dicitur idem frequenter, non fit syllogismus, non enim sumptum est medium. Quoniam autem habemus quod propositorum in unaquaque figura clauditur, et in qua universale, et in qua particulare, manifestum est quoniam non ad omnes figuras perspiciendum, sed in unoquoque proposito ad propriam. Quaecunque vero in pluribus concluduntur, medii positione cognoscimus figuram. Frequenter ergo falli accidit circa syllogismos propter necessarium, quemadmodum dictum est prius: aliquoties autem propter similitudinem positionis terminorum, quod non oportet latere nos. Ut si A de B dicitur, et B de C, videbitur enim sic se habentibus terminis esse syllogismus, non fit autem neque necessarium quidquam, neque syllogismus. Sit enim in quo A semper esse, in quo autem B intelligibilis Aristomenes, in quo autem C Aristomenes, verum est autem A inesse B, semper enim est intelligibilis Aristomenes, sed et B de C, nam Aristomenes est intelligibilis Aristomenes, A autem non inest C, corruptibilis est enim Aristomenes; non igitur fiebat syllogismus sic se habentibus terminis, sed oportebat universaliter A B sumi propositionem: hoc vero falsum quod putabat omnem intelligibilem Aristomenem semper esse, cum Aristomenes sit corruptibilis. Rursum sit in quo quidem C Micalus, in quo autem B musicus Micalus, in quo autem A corrumpi cras. Verum est ergo B de C praedicari, nam Micalus est musicus Micalus, sed et A de B, corrumpetur enim cras musicus Micalus, A autem de C falsum: hoc autem idem est priori, non enim verum est universaliter, Micalus musicus quoniam corrumpetur cras. Hoc autem non sumpto non erat syllogismus. Haec ergo fallacia fit in eo quod pene, ut enim nihil differens dicere hoc huic inesse, aut hoc huic omni inesse, concedimus. Frequenter autem mentiri evenit, eo quod non bene exponuntur secundum propositionem termini, ut si A quidem sit sanitas, B autem aegritudo, C vero homo, verum est enim dicere quoniam A nulli B contingit inesse, nulli enim aegritudini sapitas inest; et rursum quoniam B inest omni C, omnis enim homo susceptibilis est aegritudinis, videbitur ergo accidere nulli homini contingere sanitatem inesse. Huius autem causa est quod non bene exponuntur termini secundum locutionem, quoniam transsumptis quae iis sunt secundum habitudines, non erit syllogismus. Ut si pro sanitate quidem ponatur sanum, pro aegritudine autem aegrum, non enim verum est dicere quoniam non contingit aegrotanti inesse sanum esse, hoc autem non sumpto, non fit syllogismus, nisi contingentis. Hoc autem non impossibile, contingit enim nulli homini inesse sanitatem. Rursum in media figura similiter erit falsum. Nam sanitatem aegritudini quidem nulli, homini vero omni contingit inesse, quare nulli homini aegritudo. In tertia autem figura secundum contingere accidit falsum, etenim sanitatem, et aegritudinem, et disciplinam, et ignorantiam, et omnino contraria omni eidem contingit inesse, sibi vero invicem impossibile, hoc autem confessum in praedictis. Cum enim eidem plura contingere inesse, contingebant et sibi invicem. Manifestum igitur quoniam in omnibus his fallacia fit propter terminorum expositionem, transsumptis enim his quae sunt secundum habitudines, nihil fit falsum. Palam ergo quoniam secundum huiusmodi propositiones semper quod est secundum habitum, pro habitu sumendum et ponendum terminum. Non oportet autem terminos semper quaerere nomine exponi, saepe enim erunt orationes quibus non ponuntur nomina, quare et difficile erit reducere huiusmodi syllogismos, aliquot es autem et falli accidet propter huiusmodi inquisitionem, ut quoniam immediatorum erit syllogismus; sit enim A duo recti, B autem triangulus, C vero aequicrurus; ergo ei quod est C inest A propter B; ei vero quod est B, non iterum propter aliud, per se enim triangulus habet duos rectos, quare non erit medium eius quod est A B, cum sit demonstrativum. Manifestum enim quoniam medium non sic semper est sumendum ut hoc aliquid, sed aliquando orationem, quod accidit et in praedicto. Inesse autem primum medio, et hoc postremo non oportet sumere, ut praedicentur semper ad se invicem similiter, et primum de medio, et hoc de postremo, et in non inesse similiter, sed quoties dicitur esse et verum dicere, hoc toties arbitrari oportet significare et inesse. Ut quoniam contrariorum una est disciplina: sit enim A unam esse disciplinam, B autem contraria sibi invicem, A ergo inest B, non quoniam contraria unam esse eorum disciplinam, sed quoniam verum est dicere de ipsis unam esse eorum disciplinam. Accidit autem quandoque primum de medio dici, medium autem de tertio non dici, ut si sophia est disciplina, boni autem est sophia: conclusio, quoniam boni est disciplina, et non bonum quidem est disciplina, sophia autem est disciplina. Quandoque autem medium quidem de tertio dicitur, primum autem de medio non dicitur, ut si qualis omnis est disciplina, aut contrarii. Bonum autem est, et contrarium, et quale: conclusio quidem, quoniam boni est disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque quale, neque contrarium, sed omnium disciplina. Non est autem bonum disciplina, neque conclusio secundum rectum, neque quale, neque contrarium, sed bonum haec. Est autem quandoque neque primum de medio, neque hoc de tertio, primo de tertio quandoque quidem dicto, quandoque autem non dicto. Ut si cuius est disciplina, huius est genus, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam boni est genus. Praedicatur autem nullum de nullo, si autem cuius est disciplina, genus est hoc, boni autem est disciplina: conclusio, quoniam bonum est genus: ergo de extremo quidem praedicatur primum, de se autem invicem non dicuntur. Eodem autem modo et non inesse sumendum, non enim semper significat non inesse hoc huic, non esse hoc, hoc; sed aliquando non esse hoc huius, aut hoc huic: ut quoniam non est motionis motus, aut generationis generatio, voluptatis autem est, non ergo voluptas generatio. Aut rursus quoniam risus est signum, signi autem non est signum, quare non est signum risus; similiter autem et in aliis, in quibus interimitur propositum, eo quod dicitur aliquo modo ad id genus. Rursus quoniam occasio non est tempus opportunum, Deo enim occasio quidem est, tempus autem opportunum non est, eo quod nihil sit Deo conferens. Terminos enim ponendum est occasionem, et tempus opportunum, et Deum. Propositio autem sumenda secundum nominis casum, simpliciter enim hoc dicimus de omnibus, quoniam terminos quidem semper ponendum secundum declinationes nominum, ut homo, aut bonum, aut contraria, aut hominis, aut boni, aut contrariorum. Propositiones autem sumendum secundum cuiusque casus, aut enim quoniam huic ut aequale, aut quoniam huius ut duplum, aut quoniam hoc ut feriens, vel videns, aut quoniam hic ut homo, animal, aut si quolibet modo aliter cadit nomen secundum propositionem, inesse autem hoc huic, et verum esse hoc de hoc, toties sumendum, quoties praedicamenta divisa sunt, et haec aut aliquo modo, aut simpliciter, amplius aut simplicia, aut complexa. Similiter autem et non inesse. Considerandum haec autem, et determinandum optimum. Reduplicatum autem in propositionibus ad primam extremitatem ponendum, non ad medium, dico autem ut si fiat syllogismus, quoniam iustitiae est disciplina quoniam bonum, ad primam extremitatem ponendum. Sit enim A disciplina quoniam bonum, in quo autem B bonum, in quo autem C iustitia, ergo verum est A de B praedicari. Nam boni est disciplina quoniam bonum. Sed et B de C, nam iustitia quiddam bonum est; sic ergo fit resolutio. Si autem ad B ponatur, quoniam bonum, non erit, nam A quidem de B verum erit, B autem de C non erit verum, nam bonum quoniam bonum praedicari de iustitia falsum est, et non intelligibile. Similiter autem et si salubre ostendatur, quoniam disciplinatum est in eo quod bonum, aut hircocervus, opinabilis in eo quod existens, aut homo corruptibilis in eo quod sensibile, in omnibus enim praedicatis ad extremum reduplicationem ponendum. Non est autem eadem positio terminorum, quando simpliciter quidem syllogizatum fuerit, et quando hoc aliquid, aut quo, aut quomodo. Dico autem ut quando bonum disciplinatum ostensum erit, et quando disciplinatum quoniam bonum. Sed simpliciter quidem disciplinatum ostensum est medium ponendum ens, si autem quoniam bonum, quid ens. Sit enim A disciplina quoniam quid ens, in quo autem B ens quid, in quo autem C bonum, verum est ergo A de B praedicari, erat enim disciplina alicuius entis, quoniam quid ens, sed et B de C, nam in quo C ens quid, quare et A de C, erit ergo disciplina boni quoniam bonum, erat enim quid ens, proprie substantiae signum. Si autem ens medium positum sit, et ad extremum ens simpliciter, et non quid ens dictum sit, non erit syllogismus, quoniam est disciplina boni quoniam bonum, sed quoniam ens, ut si sit in quo A disciplina quoniam ens, in quo B ens, in quo C bonum. Manifestum igitur quoniam in particularibus syllogismis sic sumendum terminos. Oportet autem accipere quae idem possunt nomina pro nominibus, et orationes pro orationibus, et nomen et orationem et semper pro oratione nomen suscipere, facilior est enim terminorum expositio, ut si nil differt dicere suspicabile opinabilis non esse genus, aut non esse idem quiddam suspicabile, quod opinabile, nam si idem est quod significatur, pro oratione dicta, suspicabile et opinabile terminos ponendum. Quoniam vero non est idem voluptatem esse bonum, et esse voluptatem quod bonum, non similiter ponendum terminos; sed si est syllogismus quoniam voluptas quod bonum, terminum ponendum quod bonum; si autem quoniam bonum, bonum, similiter autem et in aliis. Non est autem idem neque esse, neque dicere quoniam cui B inest, huic quoque omni A inest, et dicere, cui omni B inest, et A inest omni, nihil enim prohibet B inesse C, non autem omni. Ut sit B pulchrum quid, C autem album, si igitur alicui albo inest pulchrum quid, verum est dicere quoniam albo inest pulchrum, sed non omni fortasse. Si ergo A inest B, non omni autem de quo B (neque si omni C, inest B, neque si solum alicui), non necesse est ei quod est C inesse A, non quia non omni, sed nec inesse ei quod est C. Si autem de quocunque B dicatur vere, huic omni inest A, accidet A de quo omni B dicitur, de eo omni dici. Si autem A dicitur de omni de quo B dicatur, nihil prohibet ei quod est C inesse B, non omni autem A, aut non inesse omnino. In tribus igitur terminis manifestum est quoniam de quo B quidem omni, et A dicitur, hoc est de quibuscunque B dicitur, de omnibus dicitur et A, et si B quidem de omni, et A similiter, si autem non de omni, non necesse est A inesse omni. Non oportet autem arbitrari propter expositionem accidere aliquod inconveniens, non enim laboramus in eo quod aliquid sit hoc, sed quemadmodum geometer pedalem, et rectam hanc esse et sine latitudine dicit quae non est, sed non sic utitur, ut eis syllogizans. Omnino enim quod non est ut totum ad partem, et aliud ad hoc ut pars ad totum, ex nullo talium ostendit demonstrator, neque enim fit syllogismus, expositione autem sic utimur, ut et sentiat qui discit dicentes, non enim sic ut sine his non possibile sit demonstrare, quemadmodum ex quibus est syllogismus. Non lateat autem nos, quoniam in eodem syllogismo, non omnes conclusiones per unam eamdem figuram sunt, sed haec quidem per hanc, illa vero per aliam. Palam ergo quoniam et resolutiones sic faciendum. Quoniam autem non omne propositum in omni figura, sed in unaquaque disposita sunt, manifestum est ex conclusione in qua figura sit quaerendum. Et ad definitiones orationum quaecunque ad unum quiddam sunt argumentatae in eorum quae insunt termino, ad quod argumentatum est ponendum terminum, et non totam orationem, minus enim contingit perturbari propter longitudinem, ut si quis aquam ostendit quoniam est humidus potus, potum et aquam terminos ponendum. Amplius autem ex hypothesi syllogismos non est tentandum reducere, nam non est ex iis quae posita sunt reducere; non enim per syllogismum ostensi sunt, sed ad placitum concessi sunt omnes. Ut si quis ponat, si una quaedam potestas non sit contrariorum, neque disciplinam esse unam; deinde dispPomba quoniam non est una potestas contrariorum, ut sanativi et aegrotativi, simul enim idem erit sanativum et aegrotativum. Quoniam autem non est omnium contrariorum una potestas, ostensum est, sed quoniam disciplina non una, non est ostensum; quamvis confiteri sit necesse, at non ex syllogismo, verum ex hypothesi; hoc igitur non est reducere, quoniam non una potestas est: hic enim fortassee erat syllogismus, illud autem hypothesis. Similiter autem in his qui per impossibile concluduntur, nam neque hoc est resolvere, sed ad impossibile quidem reductio est; syllogismo enim monstratur; alterum autem non est, nam ex hypothesi concluditur. Differunt autem A praedictis quoniam in illis quidem oportet prius confiteri, si debet concedere, ut si ostendatur una potestas contrariorum, et disciplinam es E eamdem; hic autem et non prius confessi concedunt, eo quod manifestum sit falsum, ut posita dian etro symetro, eo quod imparia esse aequalia paribus. Plures autem et diversi terminantur ex conditione, quos prospicere oportet, et notare apte. Quae ergo horum differentiae, et quoties fiunt, qui sunt ex hypothesi, postea dicemus. Nunc autem tantum sit nobis manifestum quoniam non est resolvere in figuras huiusmodi syllogismos, et ob quam causam diximus. Quaecunque autem in pluribus figuris monstrantur proposita, si in altera syllogizetur, est reducere syllogismum in alteram, ut eum qui in prima est privativum in secundam figuram, et eum qui in media est in primam. Non omnes autem, sed quosdam, erit autem in sequentibus manifestum. Si enim A nulli B, B autem omni C, A nulli C, sic ergo prima figura; si autem convertatur privativa, media erit. Nam B A quidem nulli, C autem omni inerit. Similiter autem et si non universalis, sed particularis fit syllogismus, ut si A quidem nulli B, B autem alicui C, conversa enim privativa media erit figura. Eorum autem syllogismorum, qui sunt in secunda figura, universales quidem reducentur in primam figuram, particularium autem alter solum. Insit enim A B quidem nulli, C vero omni, conversa privativa prima erit figura, nam B quidem nulli A, A autem omni C inerit. Si autem praedicativum quidem sit ad B, privativum autem ad C, primus terminus ponendus est C, hoc enim nulli A, A autem omni B, quare nulli B inerit C, ergo et B nulli C, convertitur enim privativa.Si autem particularis sit syllogismus, quando privativum quidem erit ad maiorem extremitatem, resolvetur in primam figuram, ut si A nulli B, B autem alicui C, conversa enim privativa prima erit figura, nam B quidem nulli A, A autem alicui C. Quando vero praedicativum, non resolvetur, ut si A quidem omni B, C vero non omni, non enim suscipit conversionem A B, neque cum fit, erit syllogismus. Rursus qui in tertia quidem sunt figura, non resolvuntur omnes in primam, qui autem sunt in prima, omnes in tertiam. Insit enim A quidem omni B, B autem alicui C, ergo quia convertitur particularis praedicativa, inerit et C alicui B, A vero omni B inerat, quare fit tertia figura. Et si privativus sit syllogismus, similiter: convertitur enim particularis affirmativa, quare A quidem nulli B, C autem alicui inerit. Eorum autem sylogismorum qui sunt in postrema figura unus tantum non resolvitur in primam, quando non universalis ponitur privativa, alii autem omnes resolvuntur. Praedicentur enim de omni C, et A et B, ergo convertetur C ad utrumque particulariter; inerit ergo A alicui B, quare erit prima figura, siquidem A omni C, C vero alicui B; et si A quidem omni C, B autem alicui C, cadem ratio, convertitur enim ad B C. Si autem B quidem omni C, A autem alicui C, primus ponendus B, nam B omni C, C autem alicui A, quare B alicui A, quoniam autem convertitur particularis, et A alicui B inerit. Et si privativus sit syllogismus universalibus terminis, similiter sumendum. Insit enim B omni C, A autem nulli C, ergo alicui B inerit C, A autem nulli C, quare erit medium C. Similiter autem et si privativa quidem si universalis, praedicativa autem particularis, nam A quidem nulli C, C autem alicui B inerit. Si autem particularis sumatur privativa, non erit resolutio, ut si B quidem omni C, A autem alicui C non inest, conversa enim B C, utraeque propositiones erunt particulares.Manifestum autem quoniam ad resolvendum ad se invicem figuras, quae ad minorem extremitatem est propositio, convertenda in utrisque figuris, hac conversa, transitio fit; eorum autem qui in media sunt figura, alter quidem resolvitur, alter vero non resolvitur in tertiam, nam cum sit universalis privativa, resolvitur. Si enim A nulli quidem B, alicui autem C, utraque similiter convertitur ad A, quare B quidem nulli A, C vero alicui, medium ergo A. Quando autem A omni B, C autem alicui non insit, non fit resolutio, neutra enim propositionum ex conversione universalis. Qui autem ex tertia sunt figura, resolventur in mediam, quando fuerit universalis privativa, ut si A nulli C, B autem alicui, aut omni C, nam C, A quidem nulli, B autem alicui inerit. Si autem particularis sit privativa, non resolvetur, non enim suscipit conversionem particularis negativa. Manifestum ergo quoniam iidem syllogismi non resolvuntur in his figuris, qui nec in primam resolvebantur, et quoniam in primam figuram reductis syllogismis, isti soli syllogismi per impossibile clauduntur. Quomodo ergo oportet syllogismos reducere, et quoniam resolvuntur figurae in se invicem, manifestum ex dictis. Differt autem in construendo vel destruendo opinari, aut idem, aut diversum significare, non esse hoc, et esse non hoc, ut non esse album, ei quod est esse non album; non enim idem significant, nec est negatio eius quae est esse album ea quae est esse non album, sed non esse album.  Ratio autem huius haec est; similiter enim se habet possibile est ambulare ad possibile non ambulare, id quae est esse album ad esse non album, et scit bonum ad scit non bonum: nam scit bonum vel sciens bonum nihil differt, neque potest ambulare vel est potens ambulare; quare et opposita, non potest ambulare et non est potens ambulare. Si igitur non est potens ambulare idem significat et est potens non ambulare, ipsa simul inerunt eidem, nam idem potest ambulare et non ambulare, et idem sciens bonum et non bonum est. Affirmatio autem et negatio non sunt oppositae simul in eodem. Quemadmodum ergo non idem est, non scire bonum et scire non bonum, nec esse non bonum et non esse bonum idem, nam proportionalium, si alterum sit, et alterum, nec esse non aequale et non esse aequale idem, huic enim quod est non aequale subiacet aliquid, et hoc est inaequale, illi vero nihil, eo quod aequale quidem vel inaequale non omne est, aequale autem vel non aequale omne; amplius, est non album lignum et non est album lignum non simul sunt, si enim est lignum non album, erit lignum, quod autem non est album lignum, non necesse est esse lignum: quare manifestum est quoniam non est eius quod est bonum, est non bonum, negatio; si ergo de omni uno vel affirmatio, vel negatio vera, si non est negatio, palam quoniam affirmatio aliquo modo erit; affirmationis autem omnis, negatio est, et huius ergo, ea quae est non est, non bonum. Habent autem ordinem hunc ad invicem, sit esse quidem bonum in quo A, non esse autem bonum in quo B, esse autem non bonum in quo C sub B, non esse autem non bonum in quo D sub A, omni ergo inerit aut A, aut B, et nulli eidem, et omni aut C, aut D, et nulli eidem, et cui C inest, necesse est B omni inesse. Si enim verum est dicere quoniam est non album, et quoniam non est album, verum; impossibile est enim simul esse album et esse non album, aut esse lignum album et esse lignum non album: quare si non affirmatio, et negatio inerit. Ei autem quod est B, non semper C, quod enim omnino non est lignum, neque lignum erit album, nec non album. E converso autem cui inest A, et D omni inest, aut enim C, aut D: quoniam autem non possunt simul esse non album et esse album, D inerit, nam de eo quod est album verum est dicere quoniam non est non album. De D autem non omnino A erit, nam de eo quod omnino non est lignum, non verum est dicere A quoniam est lignum album; quare D verum est, et A non verum, quoniam est lignum album. Palam autem quoniam et A et C nulli eidem insunt sed B et D contingit eidem alicui inesse. Similiter autem tem se habent et privationes ad praedicationes eadem positione: sit enim aequale in quo A, non aequale in quo B, inaequale in quo C, non inaequale in quo D. In pluribus autem quorum his quidem inest, illis vero non inest idem, negatio quidem similiter vera fit, ut quoniam non sunt alba omnia, aut quoniam non est album unumquodque, aut quoniam est non album unumquodque, aut quoniam omnia sunt non alba, falsum est. Similiter autem et eius quae est omne animal album, non haec (est non album omne animal) negatio, ambae enim falsae, sed es, non omne animal album. Quoniam autem palam quod aliud significat est non album, et non est album, et illa quidem affirmatio, haec vero negatio, manifestum quoniam non est idem modus monstrandi utrumque, ut quoniam quidquid est animal, non est album, aut contingit non esse album, et quoniam verum dicere non album, hoc enim est esse non album. Sed verum quidem dicere, est album, sive non album, idem modus. Constructive enim ambae per primam ostenduntur figuram, nam verum ei quod est similiter ordinatur, eius enim quae est, verum dicere album, non haec, verum dicere non album, negatio, sed haec, non est verum dicere album. Si enim verum est dicere quidquid est homo musicum esse, aut non musicum esse, quidquid est animal sumendum musicum esse, aut non musicum esse, et ostensum est. Non esse autem musicum quidquid est homo, destructive monstratur secundum dictos tres modos. Simpliciter autem quando sic se habent A et B, ut simul quidem eidem non contingant, omni autem de necessitate alterum, et rursum C et D similiter. Sequitur autem id quod est C, A, et non convertitur, et id quod est B sequetur D, et non convertitur, et A quidem et D contingunt eidem, B autem et C non contingunt. Primum ergo quoniam id quod est B sequitur D, hinc manifestum quoniam eorum quae sunt C D alterum ex necessitate omni inest, cui autem B non contingit C, eo quod simul infert A, A autem et B non contingunt eidem, manifestum quoniam D sequetur B. Rursum quoniam ei quod est A non convertitur C, omni autem vel C, vel D, contingit A, et D eidem inesse; B autem et C non contingit, eo quod consequitur A id quod est C, accidit enim quiddam impossibile. Manifestum est ergo quoniam nec B ei quod est D convertitur, eo quod contingit simul A, D inesse. Accidit autem aliquoties in huiusmodi terminorum ordine falli, eo quod opposita non sumantur recte, quorum necesse est omni alterum inesse: ut si A et B non contingunt simul eidem, necesse est autem inesse cui non alterum, alterum, et rursus C et D similiter, cui autem C omni sequitur A, accidet enim cui D, B inesse ex necessitate, quod falsum est; si sumatur enim negatio eorum quae sunt A B, ea quae est in quibus F, et rursus eorum quae sunt C D, ea quae est in quibus G. Necesse est igitur omni inesse vel A, vel F, aut enim affirmationem aut negationem, et rursum, aut C, aut G; affirmatio enim et negatio, et cui C omni A subiacet, quare cui F omni hoc quod est G. Rursum quoniam eorum quae sunt F B omni alterum, et eorum quae sunt G D similiter. Sequitur autem G id quod est F, et id quod est D sequitur B, hoc enim scimus. Si ergo A id quod est C, et id quod est D sequetur B, hoc autem falsum; E contrario enim erat in his (quae sic se habent) consequentia. Non enim fortasse necessarium omni inesse, aut A aut F, nec F aut B: non enim est negatio eius quod est A hoc quod est F, nam boni non bonum negatio; non autem est idem hoc quod est non bonum ei quod est neque bonum neque non bonum; similiter autem et in C D, nam negationes quae sumptae sunt, duae sunt. In quot ergo figuris, et per quales, et quot propositiones, et quando, et quomodo fit syllogismus, amplius autem ad quae perspiciendum construenti et destruenti, et quomodo oporteat quaerere de proposito secundum unamquamque artem, amplius autem per quam viam sumemus, quae in singulis sunt principia iam pertransivimus.  Quoniam autem alii quidem syllogismorum sunt universales, alii vero particulares: universales quidem omnes semper plura syllogizant, particularium autem praedicativi quidem plura, negativi vero conclusionem solam. Nam aliae quidem propositiones convertuntur, privativa vero non convertitur. Conclusio vero aliquid de aliquo est, quare alii quidem syllogismi plura syllogizant: ut si A ostensum sit omni aut alicui B inesse, et B alicui A necessarium est inesse, et si nulli B inesse A, et B nulli A, hoc autem aliud est A priore. Si autem A alicui B non insit, non necesse est et B alicui A non inesse; contingit enim omni A inesse. Haec ergo communis omnium causa universalium et particularium. Est autem de universalibus, et aliter dicere, quaecunque enim aut sub medio aut sub conclusione sunt, omnium erit idem syllogismus, si illa quidem in medio, haec vero in conclusione ponantur, ut si A B conclusio per C, quaecunque sub B aut sub C sunt, necesse est de omnibus dici A, nam D si in toto B, et B in A, et D erit in A. Rursum si E in toto C, et C in toto A, et E in toto A erit. Similiter autem et si privativus sit syllogismus. In secunda autem figura quod sub conclusione erit, solum erit syllogizare, ut si A insit nulli B, et omni C, conclusio quoniam nulli C inest B; si autem D sub C est, manifestum quoniam non inest ei B, iis autem quae sunt sub A, quoniam B non inest, non palam est per syllogismum, et si non inest B ei quod est E, si est E sub A, sed inesse quidem B nulli C per syllogismum ostensum est, non inesse vero A hoc quod est B, indemonstratum sumptum est, quare nec per syllogismum accidit B non inesse E. In particularibus autem, eorum quidem quae sub conclusione sunt, non erit necessarium. Non enim fit syllogismus, quando ea sumpta fuerit particularis, eorum autem quae sunt sub medio, erit omnium, verumtamen non per syllogismum, ut si A omni B, et B alicui C: nam eius quod sub C est positum, non erit syllogismus, eius vero quod sub B erit, sed non propter eum qui prius factus est syllogismum. Similiter autem et in aliis figuris, nam eius quidem quod sub conclusione est non erit, alterius vero erit, verum non per syllogismum, eo quod et in universalibus ex indemonstrata propositione quae sunt sub medio ostendebantur; quare neque hic erit, vel et in illis. Est ergo sic se habere, ut verae sint propositiones per quas fit syllogismus; est autem ut falsae, est vero ut haec quidem vera, illa autem falsa, conclusio autem aut vera, aut falsa ex necessitate. Ex veris ergo non est falsum syllogizare, ex falsis autem verum, tamen non propter quid, sed quia, nam eius qui est propter quid non est ex falsis syllogismus, ob quam autem causam in sequentibus dicetur. Primum ergo quoniam ex veris non possibile falsum syllogizare, hinc manifestum. Si enim cum est A, necesse est esse B, si non est B, necesse est A non esse; si ergo verum est A, necesse est et B verum esse, aut accidet idem simul et esse et non esse, hoc autem impossibile. Non autem quoniam ponitur A unus terminus, accipiatur, contingere uno aliquo existente, ex necessitate aliquid accidere, non enim potest. Nam quod accidit ex necessitate conclusio est, per quae autem fit ad minimum tres sunt termini, duo autem intervalla et propositiones. Si ergo verum est cui omni inest B et A, cui autem C et B, cui C, necesse est A inesse, et non potest hoc falsum esse, simul enim erit idem et non inerit; ergo A ut unum, positum est duas propositiones colligere. Similiter autem se habet et in privativis, non enim est ex veris ostendere falsum. Ex falsis autem est verum syllogizare, utrisque propositionibus falsis, et una; hac autem non utralibet contingit, sed secunda, si quidem totam sumamus falsam, non tota autem sumpta est utralibet. Insit enim A omni C, ei autem quod est B nulli, nec B insit C; contingit autem hoc, ut nulli lapidi animal, et lapis nulli homini; si igitur sumatur A omni B, et B omni C, A omni C inerit, quare ex utrisque falsis vera est conclusio, omnis enim homo animal. Similiter autem et privativum: insit enim C nulli, nec A, nec B, A autem B omni, ut si eisdem terminis sumptis medium ponatur homo, lapidi enim nec animal, nec homo nulli inest, homini autem omni animal; quare si cui quidem omni inest, sumamus nulli inesse, cui vero non inest, omni inesse, ex falsis utrisque vera erit conclusio. Similiter autem ostendetur et si in aliquo utraque falsa sumatur. Si autem altera ponatur falsa, prima quidem tota falsa existente, ut A B, non erit conclusio vera, B C autem erit. Dico autem totam falsam quod contrariam verae, ut si quod nulli inest, omni sumptum est; aut si quod omni, nulli inesse. Insit enim A B nulli, B autem omni C; si ergo B C quidem propositionem sumamus veram, A B autem falsam totam, et omni B inesse A, impossibile est A C conclusionem veram esse, nulli enim inerat A earum quae sunt C, siquidem cui B nulli, B autem omni C. Similiter autem nec si A omni B inest, et B omni C, sumpta sit autem B C quidem vera propositio, A B autem falsa tota, et nulli, cui B inest A, conclusio falsa erit, omni enim C inest A, siquidem cui B omni C et A, B autem omni C. Manifestum ergo quoniam prima tota sumpta falsa, sive affirmativa, sive privativa, altera autem vera, non fit vera conclusio. Non tota autem sumpta falsa, erit: nam si A C quidem omni inest, B autem alicui, B autem omni C, ut animal, cygno quidem omni, albo autem alicui, album autem omni cygno, si sumatur A omni B, et B omni C, A omni C inerit vere, omnis enim cygnus animal. Similiter autem et si privativa sit A B; possibile est enim A B quidem alicui inesse, C vero nulli, B autem omni C, ut animal alicui albo, nivi vero nulli, album vero omni nivi; si ergo sumatur A quidem nulli B, B autem omni C, A nulli C inerit. Si autem A B quidem propositio tota sumatur vera, B C autem tota falsa, erit syllogismus verus, nihil enim prohibet A, et B et C omni inesse, B autem nulli C, ut quaecunque eiusdem generis sunt species non subalternae, nam animal et homini et equo inest, equus autem nulli homini inest; si ergo sumatur A omni B, et B omni C, conclusio vera erit, tota falsa B C propositione. Similiter autem cum universalis privativa est A B propositio, contingit enim A neque B, neque C nulli inesse, et B nulli C, ut ex alio genere speciebus diversum genus, nam animal nec musicae, nec medicinae inest, neque musica medicinae. Sumpta ergo A quidem nulli B, B autem omni C, vera erit conclusio. Et si non tota falsa sit B C, sed in aliquo, etiam sic erit conclusio vera. Nihil enim prohibet A, et B et C toti inesse, B autem alicui C, ut genus speciei et differentiae, nam animal homini omni et omni gressibili, homo autem alicui gressibili, et non omni; si ergo A omni B, et B omni C sumatur, A omni C inerit, quod quidem erat verum. Similiter autem cum privativa est A, B propositio, contingit enim A nec B, nec C nulli inesse, B vero alicui C, at genus ex alio genere speciei et differentiae, nam animal nec sapientiae nulli inest, nec contemplationi, sapientia vero alicui contemplationi; si ergo sumatur A nulli B, B autem omni C, nulli C inerit A, hoc autem erat verum. In particularibus autem syllogismis contingit, prima propositione tota falsa existente, altera autem vera, veram esse conclusionem, et A B in aliquo falsa existente, B C autem vera, et A B quidem vera, particulari autem falsa, et utrisque existentibus falsis. Nihil enim prohibet A B quidem nulli inesse, C autem alicui, et B alicui C inesse, ut animal nulli nivi, albo autem alicui inest, et nix albo alicui. Si ergo ponatur medium nix, primum autem animal, et sumatur A quidem toti B inesse, B autem alicui C, A B tota falsa, B C autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et cum privativa est A B propositio, possibile est enim A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, B vero alicui C inesse, ut animal homini quidem omni inest, album autem aliquod non sequitur, homo vero alicui albo inest; quare si medio posito homine sumatur A nulli B inesse, et B alicui C, vera fit conclusio, cum sit tota falsa A B propositio. Et si in aliquo sit falsa A B propositio, B C vera existente, erit conclusio vera. Nihil enim prohibet A, et B, et C, alicui inesse, B autem alicui C, ut animal alicui pulchro, et alicui magno, et pulchrum alicui magno inest; si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, et A B, quidem propositio in aliquo falsa erit, B C autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et cum privativa est A B propositio, nam iidem erunt termini, et similiter positi ad demonstrationem. Rursum si A B quidem vera, B C autem falsa, vera erit conclusio. Nihil enim prohibet A quidem toti inesse B, C autem alicui, et B nulli C inesse: ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui, cygnus vero nulli nigro; quare si sumatur A omni B, et B alicui C, vera erit conclusio, cum sit falsa B C. Similiter autem et privativa sumpta A B propositione, possibile enim A B quidem nulli, C autem alicui non inesse, et B nulli C, ut genus ex alio genere speciei et accidenti eius speciebus, nam animal quidem numero nulli inest, albo vero non alicui, numerus autem nulli albo; si ergo medium ponatur numerus, et sumatur A quidem nulli B, B autem alicui C, A alicui C non inerit, quod fuit verum, cum A B quidem sit propositio vera, B C autem falsa. Et si in aliquo sit falsa A B, falsa autem et B C, erit conclusio vera. Nihil enim prohibet A alicui B et alicui C inesse utrique, B autem nulli C, ut si B sit contrarium ipsi C, et ambo accidentia eidem generi, nam animal alicui albo et alicui nigro inest, album autem nulli nigro inest; si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, vera erit conclusio. Et privativa quidem sumpta A B, similiter. Nam iidem termini, et similiter ponentur ad demonstrationem. Et ex utrisque falsis erit conclusio vera. Possibile est enim A B quidem nulli, C autem alicui inesse, B vero nulli C. Ut genus ex alio genere speciei, et accidenti speciebus eius, animal enim numero quidem nulli, albo vero alicui inest, et numerus nulli albo. Si ergo sumatur A omni B, et B alicui C, conclusio quidem vera, propositiones vero ambae falsae. Similiter autem et cum privativa est A B. Nihil enim prohibet A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, et neque B nulli C, ut animal cygno quidem omni, nigro autem alicui non inest, cygnus vero nulli nigro: quare si sumatur A nulli B, B autem alicui C A non inerit; ergo conclusio quidem vera, propositiones autem falsae. In media autem figura omnino contingit per falsa verum syllogizare, et utrisque propositionibus totis falsis sumptis, et hac quidem vera, illa tota falsa, utralibet falsa posita, et si utraeque in aliquo falsae, et si haec quidem simpliciter vera, illa autem in aliquo falsa, et in universalibus, et in particularibus syllogismis. Si enim A B quidem nulli inest, C autem omni, ut lapidi animal quidem nulli, homini autem omni, si contrariae ponantur propositiones, et si sumatur A B quidem omni, C vero nulli, ex falsis totis propositionibus erit vera conclusio. Similiter autem et si A inest B quidem omni, C vero nulli, nam idem erit syllogismus. Rursum si altera quidem tota falsa, altera autem tota vera. Nihil enim prohibet A et B et C omni inesse, B autem nulli C, ut genus non subalternis speciebus. Nam animal equo omni, et homini inest, et nullus homo equus; si ergo sumatur animal huic quidem omni, illi vero nulli inesse, haec quidem erit falsa, illa vero tota vera, et conclusio vera, ad quodlibet posito privativo. Et si altera in aliquo falsa, altera autem tota vera, possibile est enim A B quidem alicui inesse, C autem omni, et B nulli C, ut animal albo quidem alicui, corvo autem omni, album vero nulli corvo. Si ergo sumatur A B quidem nulli, C autem toti inesse, A B quidem propositio in aliquo falsa est, A C autem tota vera, et conclusio vera, et transposita quidem privativa, similiter. Nam per eosdem terminos demonstratio. Et si affirmativa quidem propositio in aliquo falsa, privativa autem tota vera, nihil enim prohibet A B quidem alicui inesse, C autem toti non inesse, et B nulli C, ut animal albo quidem alicui, pici autem nulli, album vero nulli pici: quare si sumatur A to i B inesse, C autem nulli, A B quidem in aliquo falsa, A C autem tota vera, et conclusio vera. Et si utraeque propositiones in aliquo falsae, erit conclusio vera, possibile est enim A, et B, et C alicui inesse, B autem nulli C, ut animal, et albo alicui, et nigro alicui, album vero nulli nigro. Si ergo sumator A B quidem omni, C autem nulli, ambae quidem propositiones in aliquo falsae, conclusio autem vera; similiter autem transposita privativa per terminos. Manifestum autem et in particularibus syllogismis, nihil enim prohibet A B quidem omni, C autem alicui inesse, et B alicui C non inesse, ut animal omni homini, albo autem alicui, homo vero alicui albo non inerit. Si ergo ponatur A B quidem nulli inesse, C autem alicui inesse, universalis quidem propositio tota falsa, particularis autem vera, et conclusio vera. Similiter autem et affirmativa sumpta A B, possibile est enim A B quidem nulli, C autem alicui non inesse, et B alicui C non inesse, ut animal nulli inanimato, albo autem alicui, et inanimatum non inerit alicui albo Si ergo ponatur A B quidem omni, C vero alicui non inesse, A B quidem propositio universalis tota falsa, A C autem vera, et conclusio vera. Et universali quidem vera posita, minori autem particulari falsa, nihil enim prohibet A nec B nec C nullum sequi, et B alicui C non inesse, ut animal nulli numero nec inanimato, et numerus aliquod inanimatum non sequitur. Si ergo ponatur A B quidem nulli, C autem alicui, et conclusio vera, et universalis propositio vera, particularis autem falsa. Affirmativa autem universali similiter posita, possibile est enim A et B et C toti inesse, B autem aliquod C non sequi, ut genus speciem et differentiam. Nam animal omnem hominem et totum gressibile sequitur, homo vero non omne gressibile: quare si sumatur A B quidem toti inesse, C autem alicui non inesse, universalis quidem propositio vera, particularis falsa, conclusio autem vera. Manifestum autem quoniam et utrisque falsis erit conclusio vera, siquidem contingit A et B et C huic quidem omni, illi vero nulli inesse, B vero aliquod C non sequi, nam sumpto A B quidem nulli, C autem alicui inesse, propositiones quidem ambae falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et cum praedicativa fuerit universalis propositio, particularis autem privativa, possibile est enim A B quidem nullum, C autem omne sequi, et B alicui C non inesse, ut animal disciplinam quidem nullam, hominem autem omnem sequitur, disciplina vero non omnem hominem. Si ergo sumatur A B quidem toti inesse, C autem aliquod non sequi, propositiones quidem falsae, conclusio autem vera. Erit autem et in postrema figura per falsas totas, et in aliquo utraque, et altera quidem vera, altera autem falsa, et haec quidem in aliquo falsa, illa autem tota vera, et e converso, et quotquot modis aliter possibile est transumere propositiones. Nihil enim prohibet nec A nec B nulli C inesse, A autem alicui B inesse, ut nec homo, nec gressibile, nullum inanimatum sequitur, homo autem alicui gressibili inest; si ergo sumatur A et B omni C inesse, propositiones quidem totae falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et cum haec quidem est privativa, illa vero affirmativa. Possibile est enim B quidem nulli C inesse, A autem omni, et A alicui B non inesse, ut nigrum nulli cygno, animal autem omni, et animal non omni nigro: quare si sumatur B quidem omni C, A vero nulli, A alicui B non inerit, et conclusio quidem vera, propositiones autem falsae. Et si in aliquo fuerit utraque falsa, erit conclusio vera, nihil enim prohibet et A et B alicui C inesse, et A alicui B, ut album et pulchrum alicui animali inest, et album alicui pulchro; si ergo ponatur A et B omni C inesse, propositiones quidem in aliquo falsae, conclusio autem vera. Et privativa A C posita, similiter: nihil enim prohibet A quidem alicui C non inesse, B vero alicui inesse, et A non omni B inesse, ut album alicui animali non inesse. Pulchrum autem alicui inest, et album non omni pulchro: quare si sumatur A quidem nulli, C B autem omni, utraeque propositiones quidem in aliquo falsae, conclusio autem vera. Similiter autem et haec quidem tota falsa, illa vero tota vera sumpta. Possibile est enim A et B omne C sequi, et A alicui B non inesse, ut animal et album omne cygnum sequitur, et animal non omni inest albo; positis igitur his terminis, si sumatur B quidem toti C inesse, A vero toti non inesse, B C quidem tota erit vera, A C autem tota falsa, et conclusio vera. Similiter autem et si B C quidem falsa, A C autem vera, nam hi quidem termini ad demonstrationem, nigrum, inanimatum, cygnus. Sed et si utraeque assumantur affirmative, nihil enim prohibet B quidem omne C sequi, A autem toti C non inesse, et A alicui B inesse, ut omni cygno animal, nigrum vero nulli cygno, et nigrum inest alicui animali: quare si sumatur A et B omni C inesse, B C quidem tota vera, A C autem tota falsa, et conclusio vera. Similiter autem et A C sumpta vera, nam per eosdem terminos demonstratio.  Rursum hac quidem tota vera existente, illa vero in aliquo falsa, possibile est enim B quidem omni C inesse, A autem alicui C et alicui B, ut bipes quidem omni homini, pulchrum non omni, et pulchrum alicui bipedi inest. Si ergo sumatur A et B toti C inesse, B C quidem tota vera, A C autem in aliquo falsa, conclusio autem vera. Similiter autem et A C quidem vera, B C autem falsa in aliquo sumpta, transpositis enim eisdem terminis erit demonstratio. Et cum haec quidem est privativa, illa vero affirmativa, quoniam possibile est B quidem toti C inesse, A autem alicui C, et quando sic se habeant, non omni B inesse A. Si ergo assumatur B quidem toti C inesse, A autem nulli, privativa quidem in aliquo falsa, altera autem tota vera, et conclusio erit vera. Rursum quoniam ostensum est quod cum A quidem nulli C inest, et B alicui, evenit A alicui B non inesse, manifestum igitur quoniam et cum A C tota est vera, B C autem in aliquo falsa, contingit conclusionem esse veram; si enim sumatur A quidem nulli C, B autem omni, A C quidem tota vera, B C autem in aliquo falsa. Manifestum autem et in particularibus syllogismis quoniam omnino per falsa erit verum, nam iidem termini sumendi, et quando universales fuerint propositiones, in praedicativis quidem praedicativi, in privativis autem privativi; nihil enim differt, cum nulli inerat, universaliter sumere inesse, et si alicui inerat, universaliter sumere ad terminorum positionem; similiter autem et in privativis. Manifestum igitur quod quando sit conclusio falsa, necesse est ea ex quibus est oratio falsa esse, aut omnia, aut aliqua; quando autem vera, non necesse est verum esse nec aliquod quidem, nec omne. Sed est cum nullum sit verum eorum quae sunt in syllogismis, et conclusionem similiter esse veram, non tamen ex necessitate. Causa autem quoniam cum duo sic se habent ad invicem, ut cum alterum sit, ex necessitate esse alterum, hoc cum non sit quidem, nec alterum erit; cum autem sit, non necesse est esse alterum; idem autem cum sit, et non sit, impossibile ex necessitate esse idem. Dico autem, cum sit A album, B esse magnum ex necessitate, et cum non sit A album, B esse magnum ex necessitate; quando enim cum hoc sit (ut A ) album, illud necesse est (ut B ) esse magnum, cum autem sit B magnum, C non esse album, necesse est, si A sit album, C non esse album. Et quando duobus existentibus, cum alterum sit, necesse est alterum esse, hoc autem cum non sit, necesse est A non esse, cum ergo B non sit magnum, A non potest album esse, cum vero A non sit album, necesse est B magnum esse, accidit ex necessitate cum B magnum non sit, idem B esse magnum: hoc autem impossibile, nam si B non est magnum, A non erit album ex necessitate; si ergo cum non sit A album, B erit magnum, accidit, si B non est magnum, B esse magnum, ut per tria. Circulo autem, et ex se invicem ostendere est per conclusionem, et e converso praedicationem alteram sumentem propositionem concludere reliquam, quam sumpserat in altero syllogismo, ut si oportuit ostendere quoniam A inest omni C, ostendat autem per C, rursus si monstret quoniam A inest B, sumens A quidem inesse C, C autem B, et A inerit B, prius autem e converso sumpsit B inesse C, aut si quoniam B inest C, oporteat ostendere si sumat A de C, quae fuit conclusio, B autem de A esse, prius autem sumptum est e converso A de B. Aliter vero non est ex se invicem ostendere, sive enim aliud medium sumetur, non circulo, nil enim sumitur eorumdem, sive horum quiddam, necesse est alterum solum, nam si ambo, eadem erit conclusio, at oportet diversam esse. In iis igitur quae non convertuntur ex indemonstrata altera propositione fit syllogismus, non enim est demonstrare per hos terminos, quoniam medio inest tertium, aut primo medium. In iis autem quae convertuntur, erit omnia monstrare per se invicem, ut si A, et B, et C convertuntur sibi invicem: ostendatur enim A C per medium B, et rursum A B per conclusionem, et per B C propositionem conversam; similiter autem et B C, et per conclusionem, et per A B propositionem conversam; oportet autem et C B, et B A propositionem demonstrare, nam his demonstratis usi sumus solis. Si ergo sumatur B omni C inesse, et C omni A, syllogismus erit eius quod est B ad A. Rursus si sumatur C omni A inesse, et A omni B, necesse est C inesse omni B. In utrisque ergo syllogismis C A propositio sumpta est indemonstrata, nam aliae probatae erant: quare si hanc ostenderimus, omnes erunt approbatae per se invicem; si ergo sumatur C omni B, et B omni A inesse, utraeque propositiones demonstratae sumuntur, et C necesse est inesse A. Manifestum est ergo quoniam in solis iis quae convertuntur, circulo et per se invicem contingit fieri demonstrationes, in aliis vero quemadmodum prius diximus. Accidit autem et in iis eodem quod monstratur uti ad demonstrationem, nam C de B, et B de A monstratur sumpto C de A dici, C autem de A per has ostenditur propositiones: quare conclusione utimur ad demonstrationem. In privativis autem syllogismis hoc modo monstratur ex se invicem: sit B quidem omni C inesse, A autem nulli B, conclusio autem quoniam A nulli C. Si ergo rursum oporteat concludere quoniam A nulli B, quod prius sumptum erat, erit A quidem nulli C, C autem omni B, sic enim e converso propositio. Si autem quoniam B inest C, oporteat concludere, non iam similiter convertendum A B, nam eadem propositio est B nulli A, et A nulli B inesse, sed sumendum, cui A nulli inest, huic B omni inesse. Sit enim A nulli C inesse, quod quidem fuit conclusio, cui autem A nulli B, si sumatur omni inesse, necesse est ergo B omni C inesse: quare cum sint tria, unumquodque conclusio est facta, et circulo demonstrare, hoc est conclusionem sumentem et e converso alteram propositionem, reliquam syllogizare. In particularibus autem syllogismis universalem quidem propositionem non est demonstrare per alias, particularem autem est; quoniam autem non est demonstrare universalem, manifestum, nam universale monstratur per universalia, conclusio autem non est universalis, oportet autem ostendere ex conclusione et altera propositione. Amplius, omnino non fit syllogismus conversa propositione, nam particulares fiunt utraeque propositiones. Particulare autem est, ostendatur enim A de aliquo C per B, si ergo sumatur B omni A, et conclusio maneat, B alicui C inerit, fit enim prima figura, et est A medium. (0693C) Si autem fit privativus syllogismus, universalem quidem propositionem non est ostendere, propter hoc quod prius dictum est, particularem (si simpliciter convertatur A B quemadmodum et in universalibus) non est, per assumptionem autem est, ut cui A alicui non insit, B alicui inesse; nam aliter se habentibus non fit syllogismus, eo quod negativa est particularis propositio. In secunda autem figura affirmativam quidem non est ostendere per hunc modum, privativam autem est; ergo praedicativa quidem non ostenditur, eo quod non sunt utraeque propositiones affirmativae, nam conclusio privativa, praedicativa autem ex utrisque ostendebatur affirmativis. Privativa autem sic ostenditur: insit enim A omni B, C autem nulli, conclusio quoniam B nulli C; si ergo sumatur B omni A inesse, et nulli C, necesse est A nulli C inesse, fit enim secunda figura, medium B. Si autem A B privativa sumpta sit, altera vero praedicativa, prima erit figura, nam C quidem omni A, B autem nulli C, quare B nulli A, ergo nec A B, medium C; ergo per conclusionem quidem et unam propositionem non fit syllogismus, assumpta autem altera erit. Si autem non universalis sit syllogismus, quae in toto quidem est propositio non ostenditur, propter eamdem causam quam quidem diximus et prius, quae autem in parte, ostenditur quando universalis sit praedicativa. Insit enim A omni B, C autem non omni, conclusio B C; si ergo sumatur B omni A, C autem non omni, conclusio A alicui C non inerit medium B. Si autem est universalis privativa, non ostenditur A propositio, conversa A B, accidit enim utrasque aut alteram propositionem fieri negativam: quare non erit syllogismus; sed similiter ostendetur quemadmodum et in universalibus, si sumatur, cui B alicui non inest, A alicui inesse. In tertia autem figura, quando utraeque propositiones universaliter sumentur, non contingit ostendere per se invicem propositionem. Nam universalis quidem ostenditur per universalia, in hac autem conclusio semper est particularis: quare manifestum quoniam omnino non contingit ostendere per hanc figuram universalem propositionem. Si autem haec quidem universalis sit, illa vero particularis, quandoque quidem erit, quandoque vero non inerit; quando ergo utraeque praedicativae sumantur, et universalis sit ad minorem extremitatem, erit; quando vero ad alteram, non erit. Insit enim A omni C, B autem alicui C, conclusio A B. Si ergo sumatur C omni A inesse conversa universali, et A inesse B, quod erat conclusio, C quidem ostensum est alicui B inesse, B autem alicui C, non est ostensum, quamvis necesse est si C alicui B, et B alicui C inesse; sed non idem est hoc illi, et illud huic inesse, sed assumendum est, si hoc alicui illi, et alterum alicui huic, hoc autem sumpto iam non sit ex conclusione et altera propositione syllogismus. Si autem B quidem omni C, A autem alicui C, erit ostendere A C, quando sumatur C quidem omni B inesse, A autem alicui; nam si C omni B inest, A autem alicui B, necesse est A alicui C inesse, medium B. Et cum fuerit haec praedicativa quidem, illa vero privativa, universalis autem praedicativa, ostendetur altera. Insit enim B omni C, A autem alicui non insit, conclusio quoniam A alicui B non inest. Si ergo assumatur C B omni inesse, inerat autem et A non omni B, necesse est A alicui C non inesse medium B. Cum autem privativa universalis sit, non ostenditur altera nisi sicut in prioribus, si sumatur cui hoc alicui non inest, alterum alicui inesse, ut si A nulli C, B autem alicui, conclusio quoniam A alicui B non inest. Si ergo sumatur cui A alicui non inest, eidem C alicui inesse, necesse est C alicui B inesse, aliter autem non est convertentem universalem propositionem ostendere alteram, nullo enim modo erit syllogismus. Manifestum igitur quoniam in prima quidem figura per se invicem est ostensio, et per primam, et per tertiam figuram fit: nam cum praedicativa quidem est conclusio, per primam, cum autem privativa, per postremam; sumitur enim cui hoc nulli, alterum omni inesse. In media autem, cum universalis est quidem syllogismus et per ipsam, et per primam figuram, et per postremam; cum autem particularis, et per ipsam, et per postremam. In tertia vero per ipsam, omnes. Manifestum etiam quoniam in media et in tertia qui non per ipsas fiunt syllogismi, aut non sunt secundum eam quae circulo est ostensionem, aut imperfecti sunt. Convertere autem est transponentem conclusionem facere syllogismum, quoniam vel extremum medio non inerit, vel hoc postremo; necesse est enim conclusione conversa, et altera remanente propositione, interimi reliquam; nam si erit, et conclusio erit: differt autem opposite aut contrarie convertere conclusionem, non enim fit idem syllogismus utrolibet conversa; palam autem hoc erit per sequentia. Dico autem opponi quidem omni inesse non omni, et alicui nulli, contrarie autem omni nulli, et alicui non alicui inesse. Sit enim ostensum A de C per medium B; si igitur sumatur A nulli C inesse, omni autem B, nulli C inerit B, et si A quidem nulli C, B autem omni C, A non omni B, et non omnino nulli, non enim ostendebatur universale per tertiam figuram. Omnino autem eam quae est ad maiorem extremitatem propositionem non est destruere universaliter per conversionem, semper enim interimitur per tertiam figuram, necesse enim ad postremam extremitatem utrasque sumere propositiones. Et si privativus sit syllogismus, similiter: ostendatur, enim A nulli C inesse per B, ergo si sumatur A omni C inesse, nulli autem B, nulli C inerit B. Et si A et B omni C, A alicui B, sed nulli inerat. Si autem opposite convertatur conclusio, et alii syllogismi oppositi, et non universales erunt, fit enim altera propositio particularis, quare conclusio erit particularis. Sit enim praedicativus syllogismus, et convertatur sic, ergo si A non omni C, B autem omni B, non omni C. Et si A quidem non omni C, B autem omni A, non omni B. Similiter autem et si privativus sit syllogismus, nam si A alicui C inest, B autem nulli, B alicui C non inerit, et non simpliciter nulli, et si A quidem alicui C, B autem omni, quemadmodum in principio sumptum est, A alicui B inerit. In particularibus autem syllogismis quando opposite convertitur conclusio, interimuntur utraeque propositiones, quando vero contrariae, neutra; non enim iam accidit quemadmodum in universalibus interimere deficiente conclusione secundum conversionem, sed nec omnino interimere. Ostendatur enim A de aliquo C per B; ergo si sumatur A nulli C inesse, B autem alicui C, A alicui B non inerit, et si A nulli C, B autem omni, nulli C inerit B; quare interimentur utraeque. Si autem contrarie convertantur, neutra; nam si A alicui C non inest, B autem omni, B alicui C non inerit, sed nondum interimitur quod ex principio, contingit, enim alicui inesse, et alicui non inesse: universali autem sublato A B, omnino non fit syllogismus. Si enim A quidem alicui C non inest, B autem alicui inest, neutra propositionum universalis est. Similiter autem et si privativus sit syllogismus, si enim sumatur A omni C inesse, interimuntur utraeque; si autem alicui, neutra; demonstratio autem eadem. In secunda autem figura, eam quidem quae est ad maiorem extremitatem propositionem, non est interimere contrarie, quolibet modo conversione facta, semper erit conclusio in tertia figura, universalis autem non fuit in hac syllogismus, alteram autem in hac interimemus, similiter conversione. Dico autem similiter: si contrarie quidem convertitur, contrarie; si opposite, opposite. Insit enim A omni B, C autem nulli, conclusio B C. Si ergo sumatur B omni C inesse, et A B maneat, A omni C inerit, fit enim prima figura. Si autem B omni C, A autem nulli C, A non omni B, figura postrema.Si autem opposite convertatur B C, A B quidem similiter ostendetur, A C autem opposite: nam si B alicui C, A autem nulli C, A alicui B non inerit; rursum si B alicui C, A autem omni B, A alicui C, quare oppositus fit syllogismus. Similiter autem ostendetur et si e converso se habeant propositiones. Si autem particularis est syllogismus, contrarie quidem conversa conclusione neutra propositionum interimitur, quemadmodum nec in prima figura, opposite autem, utraeque. Ponatur enim A B quidem nulli inesse, C autem alicui, conclusio B C. Si igitur ponatur B alicui C inesse, et A B maneat, conclusio erit quoniam A alicui C non inest, sed non interimitur quod ex principio, contingit enim alicui inesse et non inesse. Rursum si B alicui C, et A alicui C, non erit syllogismus, neutrum enim universale eorum quae sumpta sunt, quare non interimitur A B. Si autem opposite convertatur, interimuntur utraeque, non si B omni C, A autem nulli B, nulli C, A erit autem alicui. Rursum si B omni C, A autem alicui C, alicui B, A. Eadem autem demonstratio et si universalis sit praedicativa. In tertia vero figura quando contrarie quidem convertitur conclusio, neutra propositionum interimitur secundum nullum syllogismorum; quando autem opposite, utraeque in omnibus. Si enim ostensum A alicui B inesse, medium autem sumptum C, et sint universales propositiones, si ergo sumatur A alicui B non inesse, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A de C. Neque si A B alicui non inest, C autem omni, non erit eius quod est B C syllogismus. Similiter autem ostendetur et si non universales sint propositiones, aut enim utrasque necesse est particulares esse per conversionem, aut universalem ad minorem extremitatem fieri, sic autem non fiet syllogismus, nec in prima figura, nec in media. Si autem opposite convertantur propositiones, interimuntur utraeque, nam si A nulli B, B autem omni C, A nulli C. Rursum si A B quidem nulli, C autem omni, B nulli C. Et si altera non sit universalis, similiter; si enim A nulli B, B autem alicui C, A alicui C non inerit. Si autem A quidem nulli, C autem omni, nulli C, B. Similiter et si privativus sit syllogismus; ostendatur enim A alicui B non inesse; si autem praedicativa quidem B C, A C autem negativa, sic enim fiebat syllogismus. Quando igitur contrarium sumitur conclusioni, non erit syllogismus, nam si A alicui B, B autem omni C, non fit syllogismus eius quod est A et C. Neque si A alicui B, nulli autem C, non fuit eius quod est A B et C syllogismus, quare non interimuntur propositiones. Quando vero oppositum, interimuntur; nam si A omni B, et B omni C, A omni C, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C, B nulli C, sed omni inerat. Similiter autem monstratur, et si non universales sint propositiones: sit enim A C universalis et privativa, altera autem particularis et praedicativa, ergo si A quidem omni B, B autem alicui C, A alicui C accidit, sed nulli inerat. Rursum si A omni B, nulli autem C, et B nulli C. Si autem A alicui B, et B alicui C, non fit syllogismus. Neque si A alicui B, et nulli C, nec sic. Quare illo quidem modo interimuntur, sic autem non interimuntur propositiones. Manifestum est ergo ex iis quae dicta sunt quomodo conversa conclusione in unaquaque figura fit syllogismus, et quando contrarie propositioni, et quando opposite; et quoniam in prima quidem figura per mediam et postremam fiunt syllogismi, et quae quidem ad minorem extremitatem semper per mediam interimitur, quae vero ad maiorem per postremam; in secunda autem, per primam et postremam, quae quidem ad minorem extremitatem semper per primam figuram, quae vero ad maiorem, per postremam; in tertia vero, per primam et per mediam, et quae quidem ad maiorem per primam semper, quae vero ad minorem per mediam semper. Quid ergo est convertere, et quomodo in unaquaque figura, et quis fit syllogismus, manifestum. Per impossibile autem syllogismus ostenditur quidem, quando contradictio ponitur conclusionis, et assumitur altera propositio. Fit autem in omnibus figuris, simile enim est conversioni. Verumtamen differt in tantum quoniam convertitur quidem facto syllogismo, et sumptis utrisque propositionibus. Deducitur autem ad impossibile non confesso opposito prius, sed manifesto quoniam est verum. Termini vero similiter se habent in utrisque, et eadem sumptio utrorumque, ut si A inest omni B, medium autem C, si supponitur A non omni vel nulli B inesse, C vero omni, quod fuit verum, necesse est C B aut nulli aut non omni inesse, hoc autem impossibile, quare falsum est quod suppositum est. Verum ergo oppositum; similiter autem in aliis figuris, quaecunque enim conversionem suscipiunt, et per impossibile syllogismum. Ergo alia quidem proposita omnia ostenduntur per impossibile in omnibus figuris, universale autem praedicativum in media et in tertia monstratur, in prima autem non monstratur: supponatur enim A non omni B aut nulli inesse, et assumatur alia propositio, utrolibet modo, sive A omni inest C, sive B omni D (sic enim erat prima figura); si ergo supponatur A non omni B inesse, non fiet syllogismus quomodolibet sumpta propositione. Si autem nulli B, D quidem assumatur, syllogismus quidem erit falsi, non ostenditur autem propositum; nam si A nulli B, B autem omni D, A nulli D, hoc autem sit impossibile, falsum igitur est nulli B inesse A, sed non si nulli falsum, omni verum. Si autem C A assumatur, non fit syllogismus, nec quando supponitur non omni B inesse A; quare manifestum quoniam omni inesse non ostenditur in prima figura per impossibile. Alicui autem, et nulli, et non omni ostenditur. Supponatur enim A nulli B inesse, B autem sumptum sit omni aut alicui C, ergo necesse est A nulli aut non omni C inesse, hoc autem impossibile. Sit enim verum et manifestum quoniam omni C inest A, quare si hoc falsum, necesse est A alicui B inesse. Si autem ad A sumatur altera propositio, non erit syllogismus, neque quando subcontrarium conclusioni supponitur ut alicui non inesse; manifestum ergo quoniam oppositum sumendum est. Rursum supponatur A alicui B inesse, sumptum autem sit C omni A, necesse est igitur C alicui B inesse, hoc autem sit impossibile, quare falsum quidem suppositum est; si autem sic, verum est nulli inesse. Similiter autem et si privativa sumpta sit C A. Si autem ad B sumpta sit propositio, non erit syllogismus. Si autem contrarium supponatur, syllogismus erit et impossibile, non tamen ostenditur quod est propositum: supponatur enim A omni B, et C sumptum sit omni A, ergo necesse est C omni B inesse: hoc autem impossibile, quare falsum est omni B inesse A, sed nondum erit necessarium, si non omni, nulli inesse. Similiter autem et si A D B sumatur altera propositio: nam syllogismus quidem erit et impossibile, non interimitur autem hypothesis, quare oppositum supponendum. Ad ostendendum autem non omni B inesse A, supponendum omni inesse, nam si A omni B, et C omni A, omni B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum quod suppositum est; similiter autem et si ad B sumpta sit altera propositio. Et si privativa sit C A, similiter, nam et sic fit syllogismus. Si autem ad B sumpta sit privativa, nihil ostenditur. Si autem non omni, sed alicui inesse supponatur, non ostenditur quoniam non omni, sed quoniam nulli: si enim A alicui B, C autem omni A, alicui B inerit C; si ergo hoc impossibile, falsum est alicui B inesse A, quare verum nulli; hoc autem ostenso, interimitur verum, nam A alicui quidem B inerat, alicui vero non inerat. Amplius autem non tam propter hypothesin accidit impossibile, falsa enim erit, siquidem ex veris non est falsum syllogizare: nunc autem est vera, inest enim A alicui B, quare non supponendum alicui inesse, sed omni. Similiter autem et si alicui B non inest A, ostenderemus; si enim idem est alicui non inesse, et non omni inesse, eadem in utrisque demonstratio. Manifestum ergo quoniam non contrarium, sed oppositum supponendum in omnibus syllogismis, sic enim necessarium erit et axioma probabile; nam si de omni vel affirmatio vel negatio, ostenso quoniam non negatio, necesse est affirmationem veram esse; rursum si non ponant veram esse affirmationem, constat veram esse negationem; contrariam vero neutro modo contingit ratum facere. enim necessarium, si nulli falsum, omni verum, neque probabile ut sit alterum falsum, quoniam alterum verum. Manifestum ergo quoniam in prima figura alia quidem proposita omnia ostenduntur per impossibile, universale autem affirmativum non ostenditur. In media autem figura et postrema et hoc ostenditur. Ponatur enim A non omni B inesse, sumptum sit autem omni C inesse A; ergo si B quidem non omni inest A, C autem omni, non omni B inest C, hoc autem impossibile. Sit enim manifestum quoniam omni B inest C, quare falsum quod suppositum est, verum est ergo omni inesse. Si autem contrarium supponatur, syllogismus quidem erit ad impossibile, non tamen ostenditur quod propositum est. Si enim A nulli B, omni autem C, nulli B, C, hoc autem impossibile, quare falsum est, nulli inesse, sed non si hoc falsum, verum omni. Quando autem alicui B inest A, supponatur A nulli B inesse, C autem omni insit, necesse est ergo C nulli B inesse, quare si hoc impossibile, necesse est A alicui B inesse. Si autem supponatur alicui non esse, eadem erunt quae in prima figura. Rursum supponatur A alicui B inesse, C autem nulli insit, necesse est igitur C alicui B non inesse; sed omni inerat, quare falsum quod suppositum est, nulli ergo B inerat A. Quando autem non omni B inest A, supponatur omni inesse: C autem nulli, necesse est ergo C nulli B inesse, hoc autem impossibile, quare verum est non omni inesse. Manifestum ergo quoniam omnes syllogismi fiunt per mediam figuram. Similiter autem et per ultimam. Ponatur enim A alicui B non inesse, C autem omni B, ergo A alicui C non inerit; si ergo hoc impossibile, falsum alicui non inesse, quare verum est omni. Si vero supponatur nulli inesse, syllogismus quidem erit, et impossibile, non ostendit autem quod propositum est; si enim contrarium supponatur, eadem erunt quae in prioribus. Sed ad ostendendum alicui inesse, eadem sumenda est hypothesis, nam si A nulli B, C autem alicui B, A non omni C; si ergo hoc falsum, verum est A alicui B inesse. Quando autem nulli B inest A, supponatur alicui inesse, sumptum sit autem et C omni B inesse, ergo necesse est A alicui C inesse; sed nulli inerat, quare falsum est alicui B inesse A. Si autem supponatur omni B inesse A, non ostenditur propositum: sed ad ostendendum non omni inesse, eadem sumenda hypothesis, nam si A omni B, et C alicui B, A inest alicui C; hoc autem non fuit, quare falsum est omni inesse, si autem sic, verum non omni. Si autem supponatur alicui inesse, eadem erunt quae et in iis quae prius dicta sunt. Manifestum ergo quoniam in omnibus per impossibile syllogismis oppositum supponendum. Palam autem et quoniam in media figura ostenditur quodammodo affirmativum, et in postrema universale. Differt autem quae ad impossibile demonstratio ab ea quae est ostensiva, eo quod ponat quod vult interimere, deducens ad confessum falsum, ostensiva autem incipit A confessis positionibus veris. Sumunt ergo utraeque duas propositiones confessas, sed haec quidem ex quibus est syllogismus, illa vero unam quidem harum, alteram vero contradictionem conclusionis. Et hinc quidem non necesse est notam esse conclusionem, neque prius opinari quoniam est, aut non est; illinc vero necesse est, quoniam non est. Differt autem nihil affirmativam, vel negativam esse conclusionem, sed similiter se habet in utrisque. Omnis enim quae ostensive concluditur, et per impossibile monstrabitur, et quae per impossibile ostensive, et per eosdem terminos, non autem in eisdem figuris. Nam quando per impossibile syllogismus fit in prima figura, quod verum est in media erit, aut in postrema, privativum quidem in media, praedicativum autem in postrema. Quando autem syllogismus in media fit, quod verum est erit in prima figura in omnibus propositionibus, quando autem in postrema syllogismus, quod verum est erit in prima et in media, affirmativa quidem in prima, privativa autem in media. Sit enim ostensum A nulli aut non omni B per primam figuram, ergo hypothesis quidem erat alicui B inesse A, C autem sumebatur A quidem omni inesse, B autem nulli, sic enim fiebat syllogismus ad impossibile. Hoc autem media figura, si C A quidem omni, B autem nulli inest, et manifestum ex his quoniam B nulli inest A. Similiter autem et si non omni ostensum sit inesse, nam hypothesis quidem est omni B A inesse, C autem sumebatur A quidem omni, B autem non omni, et si privativa sit sumpta C A, similiter etenim sic fit in media figura. Rursum sit ostensum alicui B inesse A, ergo hypothesis quidem est nulli inesse, B autem sumebatur omni C inesse, et A vel omni vel alicui C, sic enim erit impossibile. Hoc autem postrema figura, si A et B omni C, et manifestum ex his quia necesse est A alicui B inesse, similiter autem et si alicui C sumatur inesse B vel A. Rursum in media figura ostensum sit A omni B inesse, ergo hypothesis quidem fuit, non omni B inesse A, sumptum est autem A omni C, et C omni B, sic enim erit impossibile; hoc autem prima figura, si A omni C, et C omni B. Similiter autem et si ostensum sit alicui inesse, nam hypothesis quidem fuit, nulli B inesse A, sumptum est autem A omni C, et C alicui B. Si autem privativus fit syllogismus, hypothesis quidem A alicui B inesse, sumptum est autem A nulli C, et C omni B, quare fit prima figura. Et si non universalis sit syllogismus, sed A alicui B ostensum sit non inesse, similiter: nam hypothesis quidem omni B inesse A, sumptum est autem A nulli C, et C alicui B, sic enim prima figura. Rursum in tertia figura ostensum sit A inesse omni B, ergo hypothesis quidem fuit non omni B inesse A, sumptum est autem C omni B, et A omni C, sic enim erit impossibile, hoc autem prima figura. Similiter autem et si in aliquo sit demonstratio, non hypothesis quidem erit nulli B inesse A, sumptum est autem C alicui B, et A omni C. Si autem privativus sit syllogismus, hypothesis quidem A alicui B inesse, sumptum est autem C A quidem nulli, B autem omni, hoc autem media figura. Similiter autem et si non universalis sit demonstratio, nam hypothesis quidem erit omni B inesse A, sumptum est autem C A quidem nulli, B autem alicui, hoc autem media figura. Manifestum ergo quoniam per eosdem terminos et ostensive est demonstrare unumquodque propositum, et per impossibile. Similiter autem erit, et cum sint ostensivi syllogismi, ad impossibile deducere in terminis sumptis, quando opposita propositio conclusioni sumpta fuerit, nam fiunt iidem syllogismi iis qui sunt per conversionem, quare statim habemus et figuras per quas unumquodque erit. Palam ergo quoniam omne propositum ostenditur per utrosque modos et per impossibile et ostensive, et non contingit separari alterum ab altero. In qua autem figura est ex oppositis propositionibus syllogizare, et in qua non est, sic erit manifestum. Dico autem oppositas esse propositiones, secundum locutionem quidem quatuor, ut omni et nulli, et omni et non omni, et alicui et nulli, et alicui et non alicui inesse; secundum veritatem autem tres, nam alicui et non alicui secundum locutionem opponuntur solum; harum autem contrarias quidem universales, omni nulli inesse, ut omnem disciplinam esse studiosam, nullam esse studiosam, alias vero oppositas. In prima igitur figura non est ex oppositis propositionibus syllogismus, neque affirmativus, neque negativus; affirmativus quidem, quoniam oportet utrasque affirmativas esse propositiones, oppositae autem affirmatio et negatio; privativus autem, quoniam oppositae quidem idem de eodem praedicant et negant, in prima autem medium non dicitur de utrisque, sed de illo quidem aliud negatur, idem autem de alio praedicatur, hae vero non opponuntur. In media autem figura, et ex oppositis, et ex contrariis contingit fieri syllogismum. Sit enim bonum quidem in quo A, disciplina autem in quo B et C; si ergo omnem disciplinam studiosam sumpsit, et nullam, A inest omni B, et nulli C, quare B nulli C, nulla ergo disciplina disciplina est. Similiter autem et si omnem sumens studiosam disciplinam, medicinam vero non studiosam sumpsit, nam A B quidem omni, C autem nulli, quare aliqua disciplina non erit disciplina. Et si A C quidem omni, B autem nulli, est autem B quidem disciplina, C autem medicina, A vero opinio, nullam enim disciplinam opinionem sumens, sumpsit aliquam disciplinam esse opinionem. Differt autem A priore in terminis converti, nam prius quidem ad B, nunc autem ad C affirmativum. Et si sit non universalis altera propositio, similiter; semper enim medium est, quod ab altero quidem negative dicitur, de altero vero affirmative. Quare contingit opposita quidem perfici, non autem semper, neque omnino, sed sic se habeant, quae sunt sub medio, ut vel eadem sint, vel totum ad partem; aliter autem impossibile, non enim erunt propositiones ullo modo, neque contrariae, neque oppositae. In tertia vero figura affirmativus quidem syllogismus nunquam erit ex oppositis propositionibus propter causam dictam, et in prima figura. Negativus autem erit syllogismus, et universalibus, et non universalibus terminis. Sit enim disciplina in quo B et C, medicina autem in quo A; si ergo sumat omnem medicinam disciplinam, et nullam medicinam disciplinam, B omni A sumpsit, et C nulli A, quare erit aliqua disciplina non disciplina. Similiter autem et si non universaliter sumpta sit A B propositio, nam si est aliqua medicina disciplina, et rursum nulla medicina disciplina, accidit disciplinam aliquam non esse disciplinam. Sunt autem universaliter quidem sumptis terminis contrariae propositiones, si autem particularis altera sit, oppositae. Oportet autem scire quoniam contingit opposita sic sumere quemadmodum diximus, omnem disciplinam studiosam esse, et rursum nullam aut aliquam non esse studiosam, quod non solet latere; erit autem per alias interrogationes syllogizare alteram, et quemadmodum in Topicis dictum est, sumere. Quoniam autem affirmationum oppositiones sunt tres, sexies accidit opposita sumere, aut omni et nulli, aut omni et non omni, aut alicui et nulli; et hoc converti in terminis, ut A omni B et nulli C, aut omni C et nulli B, aut huic quidem omni, illi vero non omni, et rursum hoc converti secundum terminos; similiter autem et in tertia figura. Quare manifestum est et quoties et in quibus figuris contingit per oppositas propositiones fieri syllogismum. Manifestum est quoniam ex falsis est verum syllogizare, quemadmodum dictum est prius; ex oppositis autem non est, semper enim contrarius syllogismus fit rei (ut si est bonum non esse bonum, aut si animal non animal) eo quod ex contradictione est syllogismus, et subiecti termini aut iidem sunt, aut hic quidem totum, ille autem pars. Palam autem quoniam in paralogismis nihil prohibet fieri hypotheseos contradictionem, ut si est impar non esse impar, nam ex oppositis propositionibus contrarius erit syllogismus; si ergo sumpserit hoc modo, hypotheseos erit contradictio. Oportet autem considerare quoniam sic quidem non est contraria concludere ex uno syllogismo (ut sit conclusio quoniam non est bonum, bonum aut aliud quiddam tale), nisi statim huiusmodi propositio sumatur, ut omne animal esse album et non album, hominem autem animal, sed vel assumere oportet contradictionem, ut quoniam omnis disciplina opinio et non opinio, deinde sumere quoniam medicina disciplina quidem est., nulla autem opinio, quemadmodum redargutiones fiunt, vel ex duobus syllogismis. Quare esse quidem contraria secundum veritatem quae sumpta sunt, non est alio modo quam hoc quemadmodum dictum est prius. In principio autem petere et accipere est quidem, ut in genere, sumere in eo quod non est demonstrare propositum. Hoc autem accidit multipliciter, nam et si omnino non syllogizatur, et si per ignotiora aut similiter ignota, et si per posteriora quod prius est, demonstratio enim ex prioribus et notioribus est. Horum ergo nullum est petere quod ex principio est, sed quia haec quidem nata sunt per se cognosci, illa vero per alia (nam principia quidem per se, quae autem sub principiis, per alia), quando quod non per se notum est, per se aliquis conatur ostendere, tunc petit quod ex principio est. Hoc autem est sic facere quidem ut statim postulet id quod propositum est: contingit autem et transgredientes et ad alia eorum quae nata sunt per illa ostendi per haec monstrare quod ex principio est, ut si A ostendatur per B, et B per C, C autem natum sit ostendi per A, accidit enim idem A per se demonstrare eos qui sic syllogizant, quod faciunt qui parallelas arbitrantur scribere, latent enim ipsi seipsos talia sumentes quae non valent demonstrare, cum non sint parallelae. Quare accidit sic syllogizantibus unumquodque esse dicere si est unumquodque, sic autem omne erit per se notum, quod est impossibile. Si ergo aliquis dubitat assumpto dubio quoniam A inest C, similiter et quoniam B, petat autem i inesse B, nondum manifestum si quod in principio est petat, sed quoniam non demonstravit manifestum, non enim est principium demonstrationis, quod similiter est incertum. Si autem B ad C sic se habet ut idem sit, aut manifestum quod convertuntur, aut inest alterum alteri, quod in principio est petit, nam et quoniam A inest B, per illa monstrabit si convertantur, nunc autem hoc prohibet, sed non modus. Si autem hoc faciat, quod dictum est faciet, et convertet per tria, similiter autem et si B sumat inesse C, quod similiter incertum sit, ut et si A inest C, nondum quod ex principio petit, sed neque demonstrat. Si autem idem sit A et B, aut eo quod convertuntur, aut eo quod A sequitur ei quod est B, quod ex principio est petit propter eamdem causam, nam ex principio quod valet, prius dictum est A nobis, quoniam per se monstrabitur quod non est per se manifestum. Si ergo est in principio petere per se monstrare quod non per se est manifestum, hoc autem est non ostendere quando similiter dubitantur quod monstratur et per quod monstratur, vel eo quod eadem eidem, vel eo quod idem eisdem inesse sumitur, in media quidem figura et tertia utrorumque continget similiter quod est in principio petere, in praedicativo quidem syllogismo et in tertia figura, et in prima, negative autem quando eadem ab eodem, et non similiter utraeque propositiones, similiter autem et in media, eo quod non convertuntur termini secundum negativos syllogismos. Est autem in principio petere in demonstrationibus quidem quae secundum veritatem sic se habent, in dialecticis autem, quae secundum opinionem. Non propter hoc autem accidere falsum (quod saepe in disputationibus solemus dicere) primum quidem est in iis qui ad impossibile syllogismis, quando ad contradictionem est huius quod monstratum est ea quae ad impossibile. Nam neque qui non contradicit dicit non propter hoc, sed quoniam falsum est aliquid positum priorum, neque in ostensiva, non enim ponit quod contradicit. Amplius autem quando interimitur aliquid ostensive per A B C, non est dicere quoniam non propter quod positum est factus est syllogismus, nam non propter hoc fieri tunc dicimus, quando interempto hoc nihilominus perficitur syllogismus, quod non est in ostensivis, interempta enim propositione, nec qui ad hanc est erit syllogismus. Manifestum igitur quoniam in iis qui ad impossibile sunt dicitur non propter hoc, et quando sic se habet ad impossibile quae ex principio est hypothesis, ut cum sit, vel cum non sit haec, nihilominus accidit impossibile. Ergo manifestissimus quidem modus est non propter suppositionem esse falsum, quando ab hypothesi inconiunctus est A mediis syllogismus ad impossibile, quod dictum est in Topicis; quod enim non est causa, ut causam ponere hoc est; ut si volens ostendere quoniam asymeter est diameter, conetur Zenonis ratione quoniam non est moveri, et ad hoc inducat impossibile, nullo enim modo continuum est falsum locutioni quae est ex principio. Alius autem modus, si continuum quidem sit impossibile hypothesi, non tamen propter illam accidat, hoc autem possibile est fieri, et in hoc quod superius, et in hoc quod inferius sumenti continuum, ut si A ponatur inesse B, B autem C, C vero D, hoc autem sit falsum B inesse D, nam (si ablato A, nihilominus B inest C, et C D ) non erit falsum propter eam quae ex principio est hypothesin. Aut rursum si quis in superiori sumat continuum, ut si A quidem B, E autem A, F vero E, falsum autem sit F inesse A, nam et sic nihilominus erit impossibile, interempta quae est ex principio hypothesi. Sed oportet ad eos qui ex principio terminos copulare impossibile, sic enim erit propter hypothesin, ut in inferiori quidem sumenti continuum ad praedicatum terminum; nam si impossibile est A inesse D, interempto A, non amplius erit falsum. In superiori autem de quo praedicatur; nam si F non possibile est inesse B, interempto B non amplius erit impossibile; similiter autem et cum privativi sint syllogismi. Manifestum ergo quoniam cum impossibile non ad priores terminos, non propter positionem accidit falsum; an nec sic semper propter hypothes in erit falsum? nam si non ei quod est B, sed ei quod est k positum est inesse A, k autem C, et hoc D, et sic manet impossibile; similiter autem et in sursum sumenti terminos, quare (quoniam cum est, et cum non est, hoc accidit impossibile) non erit propter positionem, aut cum non est hoc, nihilominus fieri falsum. Nec sic sumendum ut alio posito accidat impossibile, sed quando ablato hoc idem per reliquas propositiones concluditur impossibile, eo quod idem falsum accidere per plures hypotheses nihil fortasse inconveniens est, ut parallelas, contingere, et si maior est qui interius est, eo qui exterius, et si triangulus habet plures rectos duobus.Falsa autem oratio fit propter primum falsum; aut enim ex duabus propositionibus aut ex pluribus omnis est syllogismus; ergo si ex duabus quidem, harum necesse est alteram, aut etiam utrasque esse falsas, nam ex veris non erat falsus syllogismus; si vero ex pluribus (ut sic quidem per A B, hoc autem per D F G ), horum erit aliquid superiorum falsum, et propter hoc oratio, nam A et B per illa concluduntur, quare propter illorum aliquid, accidit conclusio et falsum. Ut autem non catasyllogizetur, observandum, quando sine conclusionibus interrogat orationem, ut non detur bis idem in propositionibus, eo quod scimus quoniam sine medio syllogismus non fit, medium autem est quod plerumque dicitur. Quomodo autem oportet ad unamquamque conclusionem observare medium manifestum est, eo quod scitur quale in unaquaque figura ostenditur, hoc autem nos non latebit, eo quod videmus quomodo submittimus orationem. Oportet autem quod custodire praecipimus respondentes, ipsos argumentantes tentare latere, hoc autem erit primum quidem si conclusiones non prius syllogizent, sed sumptis necessariis non manifestae sint. Amplius autem si non propinqua interrogant, sed quam maxime longe media, ut si sit opportunum concludere A D E F, media B E D E, oportet ergo inquirere si A B, et rursum non si B E, sed si D E, deinde si B C, et sic reliqua, et si per unum medium sit syllogismus, A medio incipere, maxime enim sic latebit respondentem. Quoniam ergo habemus quando et quomodo se habentibus terminis fit syllogismus, manifestum et quando erit, et quando non erit elenchus, nam omnibus affirmativis, vel permutatim positis responsionibus (ut hac quidem affirmativa, illa vero negativa), contingit fieri elenchum: erit enim syllogismus, et sic in illo modo se habentibus terminis; quare si id quod positum est contrarium sit conclusioni, necesse est fieri elenchum, nam elenchus syllogismus contradictionis est. Si vero nihil affirmetur, impossibile est fieri elenchum, non enim erat syllogismus, cum omnes termini erant privativi, quare nec elenchus: nam si elenchus, necesse est syllogismus esse; cum autem est syllogismus, non necesse est elenchum esse. (0706A) Similiter autem si nihil positum sit secundum responsionem universaliter; nam eadem erit definitio syllogismi et elenchi. Accidit autem quandoque (quemadmodum in positione terminorum fallebamur) et secundum opinionem fieri fallaciam, ut si contingat idem pluribus principaliter inesse, et hoc quidem latere aliquem, et putare nulli inesse, illud autem scire, ut insit A B et C per se, et haec omni D similiter. Si igitur B quidem pPomba omni A inesse, et hoc D, C autem nulli A, et hoc omni D, eiusdem secundum idem habebit disciplinam et ignorantiam. Rursum si quis fallatur circa ea quae sunt ex eadem coniugatione, ut si A inest B, hoc autem C, et C D, opinetur autem A inesse omni B, et rursum nulli C. Simul enim sciet, et non opinabitur inesse; ergo nihil aliud existimat ex iis quam scit, hoc non opinari, scit enim aliquo modo quoniam A inest C per B, velut in universali hoc quod est particulare; quare quod aliquo modo scit, hoc omnino existimat non opinari, quod est impossibile. In eo autem quod prius dictum est, si non ex eadem coniugatione sit medium; secundum utrumque quidem mediorum ambas propositiones non possibile est opinari, ut A B quidem omni, C autem nulli, haec autem utraque omni D; accidit autem aut simpliciter aut in aliquo contrariam sumere primam propositionem. Si enim cui B inest omni A opinatur inesse, B autem D novit, et quoniam A D novit, quare si rursum cui C nulli, putat A inesse, cui B alicui inest, huic non putat A inesse, quod autem omni putat cui B, rursum alicui non putare cui B, aut simpliciter, aut in aliquo contrarium et; sic ergo non contingit opinari. Secundum utrumque autem unam, aut secundum alterum utrasque, nihil prohibet A omni B, et B D, et rursum A nulli C. Nam similis huiusmodi fallacia, veluti fallimur circa particularia, ut si A omni B inest, B autem omni C, A omni C inerit; si ergo aliquis novit quoniam A cui B inest omni, novit et quoniam ei quod est C; sed nihil prohibet ignorare C quoniam est, ut si A quidem duo recti, in quo autem B triangulus, in quo vero C sensibilis triangulus; opinabitur enim aliquis non esse C, sciens quoniam omnis triangulus habet duos rectos: quare simul sciet et ignorabit idem, nam scire omnem triangulum quoniam duobus rectis, non simplex est, sed hoc quidem universalem habet disciplinam, illud vero singularem. Sic ergo in universali novit C, quoniam duobus rectis, in singulari autem non novit, quare non habebit contrarias. Similiter autem est quae in Menone est oratio, quoniam disciplina est reminiscentia; nunquam enim accidit praescire quod singulare est, sed simul inductione sumere particularium disciplinam, velut recognoscentes. Nam quaedam scientes, statim scimus, ut quoniam duobus rectis, si scimus quoniam triangulus, similiter autem et in aliis. Ergo universali quidem speculamur particularia, propria autem non scimus; quare contingit et falli circa ea, verum non contrarie, sed habere quidem universale, decipi autem particulari. Similiter autem in praedictis, non enim contraria quae est secundum medium ei quae est secundum syllogismum disciplinae, nec quae est secundum utrumque mediorum opinatio, nihil enim prohibet scientem, et quoniam A toti B inest, et rursum hoc toti C, putare non inesse, ut quoniam omnis mula sterilis, et haec mula, putare hanc habere in utero; non enim scit quoniam A, C qui non conspicit, quod est secundum utrumque. Quare manifestum quoniam et si hoc quidem novit, illud vero non novit, falletur, quod habent universales ad particulares disciplinas; nullum enim sensibilium cum extra sensum fit scimus, nec si sentientes fuerimus scimus, nisi ut in universali, et in eo quod habet propriam disciplinam, sed non in eo quod est in actum. Nam scire tripliciter dicitur, aut ut universali, aut ut propria, aut ut in actu, quare et decipi totidem modis, nihil ergo prohibet et scire, et deceptum esse circa idem, verumtamen non contrarie. Quod accidit et ei qui secundum utramque scit propositionum, et non pertractavit prius, nam opinans in utero habere mulam, non habet secundum ac um disciplinam, neque propter opinionem fallaciam contrariam disciplinae, syllogismus enim est contraria fallacis in universali. Qui autem opinatur quod bonum esse est malum esse, idem opinabitur bonum esse et malum. Sit enim bonum esse in quo A, malum autem esse in quo B, rursum bonum esse in quo C; quoniam igitur idem opinatur et B et C, et esse C B opinabitur, et rursum B esse A similiter, quare et C A, nam quemadmodum si erat verum de quo C B, et de quo B A, et de quo C A verum erat, sic et in opinatione. Similiter autem et in eo quod est esse. Nam cum idem sit C et B, et rursum B et A, C A idem erit, quare et opinatione similiter; ergo hoc quidem necessarium si quis det primum. Sed fortasse illud falsum opinari aliquem quod malum esse est bonum esse, nisi secundum accidens; multipliciter enim possibile est hoc opinari, perspiciendum autem hoc melius. Quando vero convertuntur extremitates, necesse est et medium converti ad utramque; si enim A de C per B est, si convertitur et inest cui A omni, C et B A convertitur, et inest cui A omni, B per medium C, et C B convertitur per medium A. Et in non esse itidem, ut si B inest C, A vero non inest B, neque A inerit C. Si ergo B convertatur ad A, et C ad A convertetur: sit enim B nulli A inexistens, ergo neque C, omni enim C inerat B, et si B convertitur ad C, et A convertetur ad C; nam de quocunque omnino B, et C. Et si C ad A convertitur, et B convertetur ad A: cui enim B inest, et C; cui autem C, A non inest; et solum hoc A conclusione incipit, alia autem non similiter, ut in praedicativo syllogismo. Rursum si A et B convertuntur, et C et D similiter, omni autem necesse est A aut C inesse, et B et D sic se habebunt, ut omni alterum insit; quoniam enim cui A B, E cui C D, omni autem A aut C, et non simul, manifestum quoniam et B aut D omni, et non simul, ut si ingenitum, incorruptibile, et incorruptibile ingenitum, necesse est quod factum est corruptibile et corruptibile factum esse, duo enim syllogismi constituti sunt. Rursum si omni quidem, A vel B, et C vel D, simul autem non insunt, si convertitur A et C, et B et D convertetur. Nam si alicui non inest B, cui D, palam quoniam A inest; si autem A, et C, convertuntur enim; quare simul C et D, hoc autem impossibile. Quando autem A toti B et C inest, et de nullo alio praedicatur, inest autem et B omni C, necesse est A et B converti, quoniam enim de solis B C dicitur A, praedicatur autem B et idem dese et de C, manifestum quoniam de quibus A, et B dicetur omnibus, verum et de A. Rursum quando A et B, toti C insunt convertitur autem C B, necesse est A omni B inesse, quoniam enim omni C A, C autem B, eo quod convertuntur, et A omni B inerit. Quando autem duo fuerint opposita, ut A magis eligendum sit quam B, cum sint opposita, et D quam C similiter, si magis eligenda sunt A C quam B D, A magis eligendum quam D. Similiter enim sequendum A, et fugiendum B, opposita enim, et C ei quod est D, nam et haec opponuntur; si ergo A ei quod est D similiter eligendum, et B ei quod est C fugiendum, utrumque enim utrique similiter fugiendum eligendo; quare et haec ambo A C iis quae sunt B D, quoniam autem magis, non possibile similiter, nam et B D similiter erunt. Si autem D magis eligendum quam A, et B quam C minus fugiendum; nam quod minus est minori opponitur; magis autem eligendum est maius bonum et minus malum quam minus bonum et maius malum. Universum igitur B D magis eligendum quam A C, nunc autem non est, ergo magis A eligendum quam D, et C ergo minus fugiendum quam B. Si ergo eligat omnis amans secundum amorem A sic se habere, ut concedere, et non concedere in quo C, aut concedere in quo D, et non tale esse ut concedere in quo B, manifestum quoniam A huiusmodi esse, magis eligendum est quam concedere; ergo diligi quam conventio magis eligendum secundum amorem; magis ergo amor est in amicitia quam convenire. Si autem maxime huius, et finis haec, ergo convenire aut non est omnino, aut diligendi gratia, nam et aliae concupiscentiae et artes sic fiunt. Quomodo ergo se habent termini secundum conversiones, et in eo quod magis fugiendum vel magis eligendum sit, manifestum est. Quoniam autem non solum dialectici et demonstrativi syllogismi per praedictas fiunt figuras, sed et rhetorici, sed et simpliciter quaecunque fides est, et secundum unamquamque artem, nunc erit dicendum. Omnia enim credimus per syllogismum aut ex inductione; ergo si inductio quidem est, et ex inductione syllogismus per alteram extremitatem medio syllogizare. Ut si eorum quae sunt A C medium sit B, per C ostendere A inesse B, sic enim facimus inductiones. Ut sit A longaevum, in quo autem B choleram non habere, in quo vero C singulare longaevum, ut homo, equus, et mulus. Ergo toti B inest A, omne enim quod sibi cholera est, longaevum, sed et B non habere choleram, omni inest C; si ergo convertatur C ei quod est B, et non transcendat medium, necesse est C inesse B. Ostensum enim est prius quoniam, si duo aliqua eidem insunt, et ad alteram eorum convertatur extremum, converso et alterum inerit praedicatorum. Oportet autem intelligere C ex singularibus omnibus compositum, nam inductio per omnia. Syllogismus autem huiusmodi est primae et immediatae propositionis: quarum enim est medium, per medium est syllogismus; quorum vero non est, per inductionem. Et quodam modo opponitur inductio syllogismo, nam hic quidem per medium extremum de tertio ostendit, illa autem per tertium extremum de medio. Ergo natura quidem prior et notior per medium syllogismus, nobis autem manifestior qui est per inductionem. Exemplum autem est, quando medio extremum inesse ostenditur per id quod est simile tertio. Oportet autem et medium tertio, et primum simili notius esse, inesse. Ut sit A malum, B autem contra confines inferre bellum, in quo autem C Athenienses contra Thebanos, in quo autem D Thebanos contra Phocenses. Si ergo volumus ostendere quoniam Thebanis pugnare malum est, sumendum quoniam contra confines pugnare est malum, huius autem fides ex similibus, ut quoniam Thebanis contra Phocenses. Quoniam ergo contra confines malum, contra Thebanos autem contra confines est, manifestum quoniam contra Thebanos pugnare malum. Quoniam ergo B C et D inest, manifestum, utrumque enim est contra confines inferre bellum, et quoniam A D, Thebanis enim non fuit utile contra Phocenses bellum. Quoniam autem A inest B, per D ostendetur, eodem autem modo et si per plura similia fides fiat medii ad extremum. Manifestum ergo quoniam exemplum est neque ut totum ad partem, neque ut pars ad totum, sed ut pars ad partem, quando ambo quidem insunt sub eodem, notum autem alterum. Et differt ab inductione, quoniam haec quidem ex omnibus individuis ostendebat inesse extremum medio, et ad extremum non copulabat syllogismum, hoc autem et copulat, et non ex omnibus ostendit. Deductio autem quando medio quidem primum palam est inesse, postremo autem medium dubium quidem, similiter autem credibile aut magis conclusione. Amplius, si pauciora sunt media postremo et medio, omnino enim propinquius esse accidit scientiae. Ut sit A docibile, in quo B disciplina, C iustitia, ergo disciplina quoniam docibilis, manifestum; iustitia autem si disciplina, dubium. Si igitur similiter aut magis credibile sit B C quam A C, deductio est, propinquius enim scientiae, per quod assumpserint A C, disciplinam prius non habentes. Aut rursum si pauciora media sint B C, nam et sic propinquius est scientiae. Ut si D sit quadrangulare, in quo autem E rectilineum, in quo F circulus, si ergo eius quod est E F unum solum sit medium, per lunares figuras aequalem fieri rectilineo circulum propinquius erit scientiae. Quando autem neque credibilius est B C quam A C, neque pauca media, non dico deductionem, neque quando immediata est B C, disciplina enim quod eiusmodi est. Instantia autem est propositio propositioni contraria. Differt autem A propositione, quoniam contingit quidem instantiam esse in parte, propositionem vero aut omnino non contingit, aut non in universalibus syllogismus. Fertur autem instantia duobus modis et per duas figuras: duobus modis quidem, quoniam aut universalis aut particularis omnis instantia; per duas autem figuras, quoniam oppositae feruntur propositioni, opposita autem in prima et tertia figura perficiuntur solis. Nam quando postulatur omni inesse, instamus quoniam nulli, aut quoniam alicui non inest. Horum autem nulli quidem ex prima figura, alicui autem non ex postrema. Ut sit A unam esse disciplinam, in quo B contraria; proponit ergo unam esse contrariorum disciplinam, aut quoniam omnino non est eadem oppositorum instant. Contraria autem opposita, quare fit prima figura; aut quoniam noti et ignoti non una, haec autem tertia. Nam secundum tertiam notum et ignotum contraria quidem esse verum, unam autem esse eorum disciplinam, falsum. Rursum in privativa propositione similiter: cum postulat enim non esse contrariorum unam disciplinam, aut quoniam omnium oppositorum, aut quoniam contrariorum aliquorum est eadem disciplina, dicimus, ut sani et aegri, ergo omnium quidem ex prima, aliquorum vero ex tertia figura. Simpliciter autem in omnibus universaliter quidem instantibus, necesse est ad id quod universale est proposito contradictionem dicere (ut si non unam existimet contrariorum omnium, dicere oppositorum unam; sic autem necesse est primam esse figuram, medium enim fit universale ad hoc quod ex principio); quod autem ad hoc in parte est universale, dicitur propositio, ut noti et ignoti non eamdem, nam contraria universale ad haec, et fit tertia figura, medium enim in parte sumptum, ut notum et ignotum. Nam ex quibus est syllogizare contrarium, ex iis et instantias conamur dicere, quare et ex his solis figuris ferimus, nam in his solis oppositi syllogismi, per mediam enim figuram non fuit affirmare. Amplius autem et si sit, oratione indiget plurima, quae est per mediam figuram, ut si non concedant A inesse B, eo quod non sequitur hoc C, hoc enim per alias propositiones manifestum; non oportet autem instantiam converti ad alia, sed statim manifestam habere alteram propositionem. Quapropter et signum ex sola hac figura non est. Perspiciendum autem et de aliis instantiis, ut de iis quae sunt ex contrario, et simili, et secundum opinionem, et si particularem ex prima, vel privativam ex media possibile est sumere. Eicos autem et signum non idem est, sed eicos quidem est propositio probabilis. Quod enim ut in pluribus sciunt sic factum; vel non factum, aut esse vel non esse, hoc est eicos, ut odire invidentes, vel diligere amantes. Signum autem vult esse propositio demonstrativa, vel necessaria, vel probabilis; nam quo existente est, vel quo facto prius vel posterius res, signum est vel fuisse vel esse. Enthymema ergo est syllogismus imperfectus ex eicotibus et signis. Accipitur autem signum tripliciter, quoties et medium in figuris, aut enim ut in prima, aut ut in media, aut ut in tertia: ut ostendere quidem parientem esse, eo quod lac habeat, ex prima figura, medium enim lac habere, in quo A parere B, lac habere mulier in quo C. Quoniam autem sapientes, studiosi, nam Pittacus est studiosus, per postremam, in quo A studiosum, in quo B sapientes, in quo C Pittacus. Verum igitur A et B de C praedicari; sed hoc quidem non dicunt quia notum sit, illud vero sumunt. Peperisse autem quoniam pallida, per mediam figuram vult esse; quoniam enim sequitur parientes pallor, sequitur autem et hanc, ostensum esse arbitrantur quoniam peperit. Pallor in quo A, parere in quo B, mulier in quo C. Ergo si una quidem dicatur propositio, signum fit solum, si autem et altera sumitur, syllogismus. Ut Pittacus liberalis, nam ambitiosi liberales, Pittacus autem ambitiosus. Aut rursus, quoniam sapientes boni, Pittacus autem bonus, sed et sapiens, sic ergo fiunt syllogismi. Verum quidem per primam figuram insolubilis, si verus sit, universalis enim est. Qui autem per postremam, est solubilis, et si vera sit conclusio, eo quod non universalis, est in tertia, nec ad rem syllogismus, non enim si Pittacus est studiosus, propter hoc et alios necesse est esse sapientes. Qui vero per mediam figuram est, semper et omnino solubilis, nunquam enim syllogismus fit, sic se habentibus terminis. Non enim si quae peperit pallida, pallida autem et haec, necesse est parere hanc; ergo verum est quidem in omnibus figuris, differentias autem habent iam dictas. An igitur sic dividendum signum? horum autem medium indicium sumendum, nam indicium dicunt esse quod scire facit, tale autem maxime medium, an vero quae quidem ab extremitatibus signa dicenda, quae autem ex medio indicium? probabilissimum enim et maxime veram est quod est per primam figuram. Naturas autem cognoscere possibile est, si quis concedat simul transmutare corpus et animam, quaecunque sunt naturales passiones; discens enim aliquis fortasse musicam, transmutavit secundum quid animam, sed non earum quae natura nobis insunt, haec est passio, sed ut irae et concupiscentiae, et naturalium motionum. Si igitur et hoc det, et unum unius signum esse, et possumus sumere proprium uniuscuiusque generis passionem et signum, poterimus naturas cognoscere. Si enim est proprie alicui generi individuo existens passio, ut si leonibus fortitudo, necesse est et signum esse aliquod, compati enim sibi invicem positum est, et sit hoc magnas summitates habere, quod et aliis generibus, non totis contingit. Nam signum sic proprium est, quoniam totius generis propria passio est, et non solius proprium, sicut solemus dicere. Erit ergo et in alio genere hoc, et erit fortis homo, et aliquod aliud animal; habebit ergo signum, unum enim unius erat. Si ergo haec sunt, poterimus talia signa colligere in iis animalibus quae solum unam passionem habent aliquam propriam, unaquaeque autem habet signum, et quoniam unum habere necesse est, poterimus naturas cognoscere.Si vero duo habet propria totum genus, ut leo, forte et communicativum, quomodo cognoscemus utrum utrius sit signum, eorum signorum quae proprie sequuntur? An si et alii alicui non toti ambo, et in quibus non totis utrumque, quando hoc quidem habet, illud autem non? nam si fortis quidem, liberalis autem non, habet autem duorum hoc, palam quoniam et in leone hoc signum fortitudinis. Est vero naturas cognoscere in prima quidem figura, eo quod medium priori extremitati convertitur, tertiam autem transcendit, et non convertitur, ut sit fortitudo A, summitates magnas habere in quo B, C autem leo; ergo cui C, B omni, sed et aliis, cui autem B, A omni, et non pluribus, sed; convertitur si autem non, non erit unum unius signum. Boethius. Boezio. Keywords “Boethian International Society”, Boethianism. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Boezio” – The Swimming-Pool Library.

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